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Autore: Kat Logan    12/08/2019    5 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Sulla Venice Beach Bulevard, a pochi passi dal Versailles Cuban Resturant, erano tutti col naso all’insù a fissare la densa fumana nera che rendeva l’aria quasi irrespirabile. Lo scheletro di quello che fino alla mezzanotte era stato un ufficio postale era stato divorato per buona parte dalle fiamme.
 
Rei si asciugò il sudore dalla fronte col dorso ricoperto dagli spessi guanti che indossava per poi chiudere il getto dell’acqua proveniente dalla manichetta.
Si trovavano tutti lì, sul luogo dell’incidente, perseguitati dai demoni che si nutrivano dei loro malumori.
 
L’auto di Dan superò il posto di blocco provvisorio, adibito dagli agenti in poco meno di venti minuti, facendo scendere dall’auto Setsuna che lanciò i propri tacchi sul sedile posteriore della vettura.
«Harris!», tuonò come se dieci minuti prima non si fosse trovata in sua compagnia a degustare ciambelle su ciambelle in una pasticceria notturna per scoprirne le differenti sfumature di sapore. «Hai un maledetto paio di scarpe da tennis?».
Lui, improvvisamente intimidito da quel ritorno di autorità, boccheggiò come un pesce for d’acqua. Non era solito portarsi un paio di scarpe dietro e se anche fosse stato non sarebbero state certo del suo numero.
«Ok, ho capito. Non perdiamo tempo». Tagliò corto lei che a piedi nudi richiuse lo sportello con veemenza per poi scendere dalla vettura.
In macchina, con una punta d’imbarazzo che aveva mascherato guardando al di fuori del finestrino, lo aveva avvisato che non avrebbe fatto favoritismi di nessun genere.
Non si sarebbe guadagnata battutine sul posto di lavoro da quei trogloditi degli artificieri trattandone uno di loro con più confidenza, né tantomeno avrebbe tollerato frecciatine di qualsiasi genere sul loro rapporto se qualcuno ne fosse venuto a conoscenza.
 
Haruka, nera di rabbia e con un cerchiò rossastro a lato dell’occhio stava discutendo con Pinco Panco per avere la propria attrezzatura dal cingolato della SWAT.
«Dovreste essere dalla mia parte, imbecilli!» tuonò prendendo uno dei due ragazzetti per il bavero.
Ray intervenne separandola dal ragazzino per poi cercare di rabbonirla, sebbene fosse nera di rabbia e pertanto intrattabile.
«Haru, ma noi lo siamo solo che ci cacceremo nei guai se-».
«Cosa diavolo succede, ora?!». Setsuna con una smorfia di dolore per l’asfalto bollente sotto alle piante dei piedi raggiunse il gruppetto.
«Non mi fanno prendere la mia roba per colpa di quello stupido foglio» si lamentò la bionda.
«Ti autorizzo io, al diavolo la burocrazia» rispose prontamente Setsuna, conscia di non  poter sostenere anche la tortura delle continue lamentele di Haruka.
«Una notte bollente con Dan e…» la maggiore la fece ammutolire con un gesto a papera della mano.
«Una parola e giuro su Dio che IO non ti faccio più mettere piede in nessun distretto». La minacciò con lo sguardo severo di chi non ammetteva repliche,  rendendola miracolosamente muta all’istante. «E si può sapere cosa diavolo hai fatto alla faccia?! Ancora risse come gli studenti idioti di un campus universitario!?».
Haruka arricciò la fronte in una smorfia perplessa per quella comparazione. Sfilò gli occhiali da sole dalla tasca dei jeans e li sistemò con un ringhio infastidito sul naso prima di salire a prendere i suoi indumenti da lavoro.
«Qualcuno può illuminarmi su cosa succede o devo chiederlo al presidente degli Stati Uniti?». Non demorse sollevando le braccia al cielo per poi lasciarle cadere pesantemente lungo i fianchi con fare sfinito.
«Quell’idiota di Seya». Era Michiru ad aver parlato. E l’appellativo che suonava totalmente sbagliato, quasi una bestemmia, se pronunciato dalla bocca di Michiru, provocò un’espressione al limite del scioccato sul viso della più grande.
«Mi riferivo al palazzo» sentenziò Setsuna.
«Fantastico» bofonchiò l’altra incrociando le braccia.
«Ti dispiacerebbe venire con me?» domandò la donna prendendola da parte.
Le due si spostarono di qualche metro, lontane da orecchie indiscrete, sotto alla tettoia del ristorante cubano di fronte.
«Michiru cosa ci fai qui? Non abbiamo bisogno di un mediatore. Non mi hanno segnalato la presenza di civili o…».
«Ero al locale con Haruka e gli altri quando è squillato il suo cercapersone. In ogni caso sono un’agente e-».
«Si» Setsuna la interruppe prima che potesse continuare. «Lo sei, ma non hai ricevuto il benestare per…».
«Certo». Seccata Michiru non sapeva più che pesci pigliare per quella faccenda. «Non lo avrò mai se deve essere Seya a darmelo» sbottò, alzando un po’ di più la voce.
«Perdonami Michiru ma sono d’accordo con lui in questo caso».
«Che cosa?!» la mediatrice non poteva credere alle sue orecchie e la donna cercò di spiegarle al meglio le sue parole.
«Ti hanno quasi sparato. Sei viva per miracolo. Penso tu debba prenderti una pausa».
«Però dopo che ho lasciato morire quell’uomo hai ritenuto potessi rientrare senza badare ai tempi di recupero che mi aveva dato il terapista!» gli occhi le si arrossarono istantaneamente a quelle parole.
Era incredula.
«Michi, io voglio solo fare la cosa giusta e…».
«Se vuoi essere giusta allora manda via il mio ex marito e fammi tornare al lavoro».
Setsuna non poteva credere alle sue orecchie.
«State divorziando?!».
Una doccia gelata. Rimase pietrificata guardando Michiru annuire con il capo a quella domanda che le era uscita con troppa spinta dalle labbra.
«Il punto è che c’è un conflitto d’interessi e mi tratta come fossi un’inferma mentale. Cosa che non sono affatto. Sono in grado di fare il mio lavoro e lo sai benissimo».
Setsuna si morse le labbra alla ricerca della giusta decisione di prendere.
Se avesse licenziato Seya l’avrebbero additata tutti perché sapevano quanta stima avesse nei confronti di Kaiō. Ma se i due stavano divorziando, non era nemmeno strano che lui potesse farle una ripicca di quel genere. E lei, era una che lottava per le donne. Perché potessero ricoprire la carica che meritavano davvero senza essere schiacciate da un uomo.
Se Seya avesse dato le dimissioni, lei non avrebbe fiatato. D’altra parte però riteneva davvero fosse ancora presto per l’amica tornare sul campo.
«Ascolta, Michiru» addolcì il tono della voce, prendendole una mano.
«Risolverò questa storia, te lo prometto. Però ora vai a casa, sul serio. Ho abbastanza gente qui, anche se so sei capacissima di fare il tuo lavoro. Devi rimettere in ordine la tua vita prima di tutto».
Lei inspirò profondamente. Non era solita insistere e lesse nel suo sguardo la  sincerità di chi era preoccupato sinceramente per lei.
Guardò il mezzo della SWAT. Haruka scese nella sua divisa, fermandosi sotto alla luce di un lampione. Guardò in sua direzione, un cenno della mano alla quale Michiru ricambiò con un movimento silenzioso del capo.
 
 
§§§
 
 
«Perciò ti vedi con Meiō». Lo disse senza mezzi termini, quasi fosse un’accusa, mentre Dan allacciava i propri anfibi.
«Haruka è ancora notte. Quegli occhiali da sole sono ridicoli a quest’ora».
«Sei già petulante come la tua donna».
«Non è…la mia donna».
Lei abbassò le lenti scure. In effetti non vedeva un bel niente con quelli indosso.
«Guarda che vi ho visti al locale tutti ciccìcoccò».
«E io vedo che tu non sai fermarti mai quando devi. Guarda la tua faccia».
Haruka, annoiata, roteò gli occhi al cielo.
«Giuro che mi manca Bruce. E non credevo l’avrei mai detto!».
«Arriverà, tranquilla».
 
Il posto aveva assunto le sembianze di un campo di battaglia.
Alcuni mezzi militari erano fermi a delimitare l’area in cui si trovavano e numerose auto della polizia con i lampeggianti accesi sembravano disposte per creare una barriera tra la Los Angeles da film e quell’inferno ancora fumante che emanava un calore insopportabile nei dintorni.
«Capo…». Dan attirò l’attenzione di Setsuna intenta a coordinare uno stuolo di agenti.
«Avevamo questi sul mezzo. Non sono comodi, ma saranno sempre meglio che girare scalza nei dintorni».
Setsuna accettò di buon grado gli scarponi esalando un asciutto «grazie Harris» che se non fosse stato per quello sguardo avrebbe celato qualsiasi dubbio sul loro rapporto.
Le loro mani si sfiorarono in quello scambio. Un tocco durato un secondo che si trascinava dietro il sapore di eterno.
 
Haruka dovette mordersi la lingua per non canzonare l’amico che aveva assunto un’espressione da cane bastonato non appena la donna si allontanò tornando ai suoi doveri.
Cercò di distrarsi correndo con lo sguardo altrove.
Aveva visto Michiru allontanarsi, scortata da un auto di pattuglia e se prima nei posti pieni di macerie, o in quelli che minacciavano di diventarlo da un momento all’altro, Haruka si sentiva a casa, ora, senza la dea dai lunghi capelli blu, sembrava mancarle qualcosa.
 
«Eccolo il tuo principe della notte» bofonchiò Dan, ancora risentito per la frecciatina che l’amica le aveva lanciato poco prima.
«Geloso di Bruce?» lo pizzicò lei.
«Chi dovrebbe essere geloso di me?» Mamoru aveva fatto in tempo a captare il finale della frase, presentandosi direttamente dal gruppetto in nero degli artificieri.
«Non darti delle arie» rispose Haruka con fare distaccato.
Poggiò la schiena al cingolato, incrociando le braccia come era solita fare nei momenti di attesa. Lanciò un’occhiata torva in direzione di Rei, intenta a fare su e giù dall’auto pompa, fino a che non si arrestò all’arrivo di Seya.
«Ma che hai fatto all’occhio? Ci vuole una bistecca lì sopra!» esclamò Mamoru esaminando la macchia rossastra semi celata dagli occhiali da sole.
«Lo sa» s’intromise Dan. «Non ha mica bisogno della balia. E poi sono meglio i legumi congelati».
Mamoru guardò l’altro moro sorpreso. Ora che Haruka non era più diffidente con lui non si sarebbe mai aspettato che qualcun altro mostrasse astio nei suoi confronti.
La bionda, tutt’altro che attenta ai discorsi dei due, si sporse come se potesse origliare la conversazione dell’amica. Ma niente, era troppo lontana.
«Tiè» Dan le lanciò in faccia del ghiaccio secco.
«Ma che…» lei lo afferrò al volo, sfilandosi le lenti scure per metterlo a ridosso della tempia.
«Abbiamo il kit di pronto soccorso, li sopra» sottolineò Dan facendo una faccia scocciata all’ultimo arrivato.
«Dì un po’, che ha il tuo amico? E cos’hai fatto?».
«Bruce, sei in ritardo dove cavolo sei stato fino ad ora? Te la sei presa con comodo».
Mamoru sbatté le palpebre. Lei non lo stava nemmeno guardando in faccia. Era distratta dall’amica e Seya che parlottavano fitto tra loro in lontananza e aveva il coraggio di fare l’evasiva.
«Non si risponde a una domanda con un’altra domanda».
«Quanto sei noioso. Vorrei poter dire che sembri mio padre». Gli occhi cobalto si scontrarono finalmente con i suoi. Non seppe perché tirò fuori quella frase. Non aveva mai pensato a chi potesse essere suo padre, a che tipo di uomo fosse. Possedeva solo quel documento che Sarah le aveva lasciato. Avrebbe voluto trovare sua madre. In fin dei conti era andata in California per quello in principio, ma mai prima di quel momento si era soffermata a pensare a quale figura paterna le avesse dato la vita.
Mamoru, che della sua vita si rese conto di non sapere nulla, tacque. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto dire una cosa del genere?
«Ho accompagnato Usagi a casa di Michiru con Hotaru. E ho cercato di sistemare mia figlia…» sospirò pesantemente. «Da quando sono qui, sono un padre davvero poco presente» era rammaricato per il poco tempo passato con lei. Rammaricato perché non poteva dedicare tutto se stesso a quella piccola cosa preziosa che gli aveva dato la forza di andare avanti dopo Serenity.
«Non sarai mai peggio di uno che suo figlio l’abbandona» sentenziò Haruka con un sospiro pesante.
Seguì uno strano silenzio tra i due, interrotto dal gracchiare di Setsuna alla ricetrasmittente della bionda che richiamava gli artificieri all’attenzione.
 
«L’incendio è spento. Potete entrare nell’edificio accompagnati da qualche pompiere per verificare perché diavolo siamo tutti qui. Dopo di voi entrerà la scientifica, perciò ragazzi…mani a posto!».
 
«Ricevuto». Haruka schioccò la lingua, lanciando il ghiaccio e i rayban a Ray, quasi fosse un galoppino, che preso alla sprovvista mancò la presa ritrovandosi ad imprecare tra i denti.
«Avete sentito ragazzoni? Si entra in scena».
 
 
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Lui non doveva essere lì. Non era stato chiamato come gli altri sulla scena perché non c’era nulla che gli competesse. Eppure, preso in contropiede da quell’ordine che aveva messo fine a quel caos catastrofico che avevano creato nel locale, si era lasciato trascinare dalla corrente ritrovandosi sul posto.
 
Blackout. Il pugno che gli aveva assestato Haruka aveva rischiato di metterlo k.o. Lo aveva colpito senza preavviso, era arrivato con la scarica di un fulmine che colpisce il terreno durante un forte temporale.
Rei e Michiru si erano messe in mezzo. Un groviglio di mani e braccia tentava di contenere quella follia e rabbia incontrollata che era scaturita all’esterno da entrambi traducendosi in colpi andati poi a vuoto.
Ma non erano bastate loro. E nemmeno Yaten che gli aveva urlato addosso ancora una volta come un randagio appestato dalla rogna. Era cresciuto il suo fratellino. Seya doveva ammetterlo. Sebbene fosse ancora un ragazzo, il mare e la solitudine lo avevano temprato più che una gitarella in caserma. Il loro vecchio, sebbene ammirasse le personalità forti, avrebbe avuto da ridire. Per lui il rigore e il rispetto erano tutto e Yaten non avrebbe più chinato il capo ma piuttosto gli avrebbe ringhiato contro.
E in quanto a lui? Anche Seya lo avrebbe deluso. Perché uno come lui non avrebbe di certo dovuto provocare una rissa per il gusto di far lo sbruffone.
 
Le labbra del poliziotto dinnanzi a lui emisero un altro suono che però Seya non udì. Quel discorso era stato ovattato da inizio a fine perché il giovane era preso da tutt’altro.
«Certo, ho capito» sentenziò. Frase di rito che sapeva far sempre centro, qualunque cosa gli fosse stata detta.
Lo scroscio dell’acqua s’interruppe e Seya guardò la squadra dei pompieri fermarsi.
Avevano estinto l’incendio, ma il puzzo di bruciato sembrava essersi attaccato alle narici dei presenti senza volerli mollare.
Recuperò un paio di caffè da un thermos abbandonato sul cofano di una delle volanti. Era incredibile come gli agenti, nonostante le emergenze, avessero ovunque e sempre a portata di mano quel liquido nero.
Si destreggiò tra la folla in divisa, ignorando i nastri o le transenne apposte, arrivando sino a Rei, che con la divisa slacciata da cui spuntavano gli abiti indossati per la serata, faceva avanti e indietro dall’auto pompa coordinandosi con la propria squadra.
«Penso sarà una lunga nottata» disse porgendole il bicchierino in plastica.
Rei si bloccò, asciugandosi la fronte e riprendendo a respirare.
«Bollente. Oserei dire». Si riferiva all’incendio, al caffè, alla rissa e a ciò che c’era stato prima. A quello strano incontro iniziato con un drink sprecato su una camicia firmata e finito in cerca del piacere con uno sconosciuto.
Sorrise, accettando il caffè e prendendone un sorso. «Grazie».
Seya ricambiò il sorriso, ma non appena tentò di bere il liquido caldo si trasformò in una smorfia dolorante per il labbro tagliato.
Rei arricciò il naso come a soffrire un po’ con lui.
«Molto male?».
«Naa» rispose lui rinunciando al caffè.
«Se vendi la camicia un plastico lo rimette a posto».
«Non occorre vendere la camicia».
«Pagano così bene in polizia?» lo prese in giro lei.
«Non sono un piedi piatti» rispose lui. Tenendosi per sé il fatto che avrebbe potuto anche oziare per l’intera vita e vivere di rendita.
«Nemmeno un artificiere» constatò Rei.
«Nemmeno».
«Quindi sei uno stalker?».
«Cosa te lo fa pensare?».
«Il fatto che sei ancora qui».
Gli venne da ridere. Aveva fegato da vendere e una lingua pungente la morettina.
«Non sapevo fossi amica di Haruka». Seya posò lo sguardo sullo scheletro del piano di sotto del palazzo.
«E io che fossi l’uomo di un’altra».
«È un problema?».
«Se non lo è per te perché dovrebbe esserlo per me?». Rei alzò le spalle, strizzando il bicchierino di plastica.
«Non sei come quelle amanti che fanno le scenate perché l’uomo con cui si divertono non si decide a divorziare?».
«Mh. Siamo già a questo punto? Mi sono persa il resto della storia. Forse sei un maniaco sul serio. Visto che non mi hai risposto in merito a questo».
«Sai, abbiamo saltato un po’ di passaggi».
Rei si levò la giacca. Faceva un caldo da impazzire nonostante fosse ancora notte.
«Tu dici?» lo schernì.
«Cominciamo dall’inizio». Seya allungò la mano verso la sua per stringerla in un gesto di presentazione. «Seya, piacere».
«Mmh» lei dondolò un po’ con la mano ancora stretta a quella del giovane. «Fammi capire è l’inizio del tuo romanzo mentale in cui io finisco per essere l’amante in crisi mistica?».
«È solo una presentazione. Ma se preferisci possiamo trovare un altro bagno senza sapere come ci chiamiamo».
Rei avvampò. Avvertì il rossore salirle sino alle guance. E il suo corpo ricordò come i polpastrelli e le labbra dell’altro l’avessero percorso senza scrupoli sotto agli indumenti.
 
«Kou, possibile che devo cacciarvi tutti questa sera?». Setsuna lo richiamò all’ordine e lui ritrasse la mano, lasciando che Rei tornasse a respirare correttamente.
«Che ci fai tu qui?».
«Ero con tutti gli altri».
«Non ci sono vittime, feriti, né gente traumatizzata. Non puoi stare qui. E io non voglio passare per l’antipatica di turno. Ne ho già abbastanza di nomignoli sulle spalle».
Seya alzò le mani in segna di resa come a dire “okay”.
 
«Servono almeno un paio di voi che portino dentro quelle teste calde lì» Setsuna deviò tutta la sua attenzione su Rei che chiamò prontamente un compagno e fece per dirigersi verso il punto d’entrata.
«Seya» il moro si voltò nuovamente. «È Rei, il mio nome».
Lui accennò una smorfia soddisfatta.
«Alla fine il tuo nome me lo hai detto. Ricordi? Potrei essere uno stalker».
Lei rise piano facendo segno agli artificieri di seguirli e di stare attenti a dove mettere i piedi.
 
 
Haruka passando incrociò lo sguardo di Seya.
Si guardarono come due belve assetate di sangue, mentre Mamoru e Dan all’unisono la spintonarono per passare oltre.
 
 
§§§
 
 
«Piano, fate piano» intimò Rei a capo del gruppo. Lei e il suo compagno furono i primi ad entrare armati di torce nell’edificio.
Una rapida occhiata ai muri e al soffitto prima di procedere ulteriormente e permettere alla scientifica di entrare.
In mezzo ai calcinacci, lo scheletro dell’edificio emetteva un sinistro cigolio. Avevano i minuti contati e dovendo prestare la massima attenzione, il tempo a disposizione risultava preziosissimo.
Gli artificieri, abituati a dover agire sempre con un tempo limitato a disposizione si misero all’opera non appena ebbero il benestare dai vigili del fuoco.
Haruka, si chinò, cercando al di sotto di quel che rimaneva del mobilio qualche indizio che la riconducesse alla causa scatenate di quel falò notturno.
«Cercate di contaminare il meno possibile la scena» tuonò l’uomo a capo della scientifica.
Lei e Dan si lanciarono un’occhiata complice, mentre Mamoru si attenne scrupolosamente al protocollo.
 
Ripensò a come aveva chiesto ad Usagi un appuntamento.
Inginocchiato, come ad una proposta di matrimonio, per essere all’altezza del sofà dove l’aveva ritrovata. A bassa voce, come fosse un segreto, le aveva semplicemente detto “usciamo venerdì sera?” e lei aveva sgranato lo sguardo azzurro, proprio come reagisce una sposa novella alla vista del fatidico anello, per poi cominciare a snocciolare in modo convulso una lista di possibili scenari.
Lui dovette soffocare una risata prima d’intimarla a fare piano se non si fossero voluti ritrovare con entrambe le bambine sveglie e in preda al pianto per la stanchezza.
Devo essere uscito di senno. Per un momento aveva dimenticato la loro differenza di età. Ma poi quel numero diveniva un dettaglio insignificante il quel quadro generale e di fronte alla curiosità sincera che nutriva nei suoi confronti. Sebbene la prima volta avesse pensato che Haruka volesse rifilargli un tiro mancino presentandogliela, Mamoru, nelle rare occasioni in cui il destino lo aveva incrociato con i passi di Usagi, si era reso conto di essere vittima di una spensieratezza perduta da tempo in sua compagnia.
 
«Credo di averlo trovato» sentenziò Dan, indicando ciò che rimaneva di una busta gialla.
Immediatamente tutti si raggrupparono attorno a lui, puntando i propri fasci di luce sul cadavere rinvenuto.
«Guarda, guarda che lavorino…» biascicò Haruka. Pareva un avvoltoio che girava in cerchio ad una carcassa.
«Un tubo bomba…» sentenziò Dan grattandosi il mento.
«Deve esserci da qualche parte anche il timer. Sarà saltato in aria all’attivazione dell’ordigno» la bionda si guardò attorno alla ricerca del pezzo mancante, mentre Dan si assicurava che le rimanenze della bomba fossero stabili per essere raccolte e portate in laboratorio.
«Tre minuti, non di più…» li avvertì Rei controllando nuovamente la struttura ormai fragile.
 
Haruka alla ricerca del pezzo aveva gli occhi fissi sul terreno pieno di detriti. Cercò d’intuire una possibile traiettoria fino a che non venne distratta dalla mora che si affiancò a lei in quella ricerca dell’ago in un pagliaio.
«Pensi di tenermi il broncio?» chiese Rei sulle spine.
L’altra emise un rumore gutturale in risposta. Doveva rimanere concentrata e parlare di Seya non avrebbe giovato alla situazione.
«Si può sapere perché scatti sempre come una molla?» insistette l’amica, puntandole la torcia negli occhi per interrompere l’affannosa ricerca dell’altra.
Haruka si protesse le iridi con una mano, intimandola a toglierle di dosso il fascio di luce. Per un momento nell’oscurità vide solo macchie violacee. Sbatté le palpebre per poi strofinarsi gli occhi e guardarla.
«Non mi importa con chi te la fai Rei, lo sai. Io non posso certo farti la paternale». La bionda infatti, per quante stranezze avesse, attirava donne e ragazze come mosche. Nel tempo non si era mai certo fatta scrupoli per una notte brava con le donzelle più disparate. Aveva sempre vissuto al massimo come se dovesse recuperare il tempo perduto in precedenza.
«Quindi il problema è stato perché è l’uomo della tua nuova fiamma? Delle due la cosa dovrebbe dar noia a me, non a te».
«Oh quindi mi hai fatto un favore. Gentile da parte tua!».
 
«Ehm…ragazze…» Mamoru provò a farle smettere. Si erano girati tutti quanti poiché entrambe avevano alzato il tono di voce, ma venne prontamente ignorato.
«Non faranno a botte, vero?» chiese Dan con un filo di voce.
«Non credo» rispose Mamoru sull’attenti e pronto ad intervenire in caso avessero cominciato a tirarsi i capelli.
 
«Che problema hai?!». Rei alzò gli occhi in preda a un raptus isterico. Era al limite della sopportazione per le manie della migliore amica.
«Il problema è che mi preoccupo ancora per te!» sbottò l’altra, lanciando per la stizza la torcia a terra.
«Non mi piace. Non mi piace per niente» aggiunse Haruka ricalcando tutto il disappunto che scoppiettava fuori dalle labbra come un petardo.
«E si è capito! E io come facevo a sapere fosse lui?!».
«Perché te lo dico io, ADESSO».
 
«R-A-G-A-Z-Z-E».
 
«TU. ZITTO!» urlarono all’unisono le due puntandogli contro un dito.
«Stanno diventando pericolose» osservò Dan, mentre la scientifica avvisava di aver finito il proprio lavoro.
Setsuna lo avvertì via radio. Il tempo era scaduto.
 
«Se suo fratello è scappato e persino la moglie lo ha fatto, un motivo ci sarà. Non ti basta questo come avvertimento?».
«Non farmi la predica. Esci pure tu con una sposata. Ah, aspetta…è pure suonata!».
«Che hai detto?!».
«CHE E’ SUONATA».
Quando Rei perdeva le staffe la lingua andava a briglie sciolte senza curarsi di far terra bruciata attorno a lei. E Haruka, da parte sua, era un toro accecato dal color rosso che cercava ad ogni costo lo scontro come via d’uscita.
«RITIRA QUELLO CHE HAI DETTO!».
 
«Ragazze, andiamo». Era un brusio in sottofondo o forse nemmeno, visto che le due continuavano imperterrite a discutere animatamente senza curarsi del resto.
 
«Oh no. Ho offeso la tua nuova fidanzata…» ribatté con la voce quasi in falsetto Rei e una smorfia.
 
«Dai, HARU!» provò ad insistere Dan ormai all’uscita, visto che Mamoru non era stato minimamente calcolato e per di più zittito.
La sua voce però venne coperta, disperdendo nel nulla quell’incitazione ad uscire di lì, poiché un boato, simile a quello che provoca una scossa sismica vicino al suo epicentro fece tremare l’edificio.
Dan stese le braccia per tenersi saldo a quella che era stata la porta d’entrata dell’ufficio postale.
Un muro cedette sotto al peso dei piani superiori lesionati dall’incendio e una coltre di polvere si levò nell’aria costringendolo a tossire, mentre il soffitto crollava dividendolo dall’amica.
 
Quando il fragore di quella slavina di cemento terminò più nessuna voce risuonò all’interno della stanza.
Il silenzio calò nei toni caldi dell’albeggiare.
 
 
§§§
 
 
 
Le tinte dell’alba avevano fatto capolino. Makoto sedeva in veranda con lo sguardo perso verso l’orizzonte bagnato di un rosa acceso quasi accecante.
Non era riuscita a chiudere occhio una volta chiuso il bar, così, anziché rigirarsi in quel letto vuoto aveva deciso di godersi il fresco che solo quell’orario sapeva regalare prima che la temperatura divenisse torrida.
Con una tazza in mano e una coperta leggera sulle ginocchia prese a fissare il vialetto col roseto ben curato del suo vicino.
«Nevius, mi devi un po’ di risposte» biascicò tra sé e sé, con di sottofondo sotto il mugolio addormentato di Ronald accovacciato nella sua cuccia esterna.
 
Non se lo sarebbe fatta scappare. La moto era ancora parcheggiata lì e sicuramente a minuti sarebbe dovuto andare in pasticceria.
Non aveva programmato un attacco elaborato, perché quando c’erano di mezzo le emozioni nulla andava mai secondo i piani. E lei ne era colma. Aveva sentimenti contrastanti, alcuni dei quali indecifrabili e che forse non sarebbe mai riuscita a comprendere sino in fondo. Non da sola.
Quello che era certo era che aveva bisogno di risposte.
Uno stormo di rondini svolazzò nella via. L’auto di Michiru parcheggiò davanti a casa e un’ Usagi sbadigliante ma su di giri l’accolse stiracchiandosi oltre il cancello.
Makoto immersa in quella scena mattutina e avvolta dalla pace di cui solo l’alba è impregnata, quasi si fece scappare il cigolio di una porta che si apriva per poi richiudersi.
Le mandate all’uscio, il tintinnio di un mazzo di chiavi e i passi di Nevius che si accingevano a raggiungere la propria moto.
Lui si bloccò nel vederla in veranda a quell’ora e lei buttò lo sguardo verde intenso nel suo.
Non mi scappi.
Un brivido la prese in contropiede. Poggiò la tazza e dovette combattere con l’euforia che la stava pervadendo da capo a piedi. L’euforia di qualcuno che si sta gettando a capofitto in una situazione di cui non riesce a prevederne l’esito. Forse lui avrebbe chiamato la polizia, forse sarebbe finita in un istituto psichiatrico. Ma Makoto voleva tornare a dormire sogni sereni. Anelava a scoprire la sua vita precedente sebbene non l’avesse mai cercata ma, anzi, seppellita come un cadavere sotto tonnellate di terra.
Poi uno spiraglio, una porta socchiusa dalla quale non aveva resistito a sbirciare e che l’aveva fatta deragliare come un treno impazzito fuori dai binari di ciò che aveva costruito.
Andiamo, muoviti. Scattò sull’attenti, mentre lui accennò un saluto con la mano prima di allacciarsi il casco sotto al mento.
«FERMO!» urlò lei con la fretta nella voce.
Nevius si bloccò vedendola scavalcare con un balzo il suo impeccabile roseto.
«Dobbiamo parlare» l’anticipò prima che lui potesse dire qualsiasi cosa.
«Cosa ti porta a calpestare l’erbetta appena seminata nella mia proprietà?».
«Il fatto che tu mi debba un mucchio di risposte».
Lui salì a cavallo del suo ferro con tutta l’intenzione di mettere in moto.
«Ti vuoi fermare?».
«Devo andare al lavoro».
Il problema non era aprire in ritardo. Il problema era che doveva combattere ogni volta con l’istinto di non lasciarla andare mai più. Doveva allontanarsi prima di cedere.
«Sei il capo al lavoro nessuno avrà da ridere». Makoto lo minacciò con lo sguardo puntando le mani sulle manopole del manubrio.
A quel punto provò nuovamente quella sensazione di vuoto. Una sensazione di smarrimento e il rombo di un motore quasi assordante le trapanò le orecchie sebbene fosse tutto solo nella sua testa.
«Stai bene?». Nevius l’aveva vista tremare e subito scavallò dal sedile per invitarla a sedersi sul gradino d’entrata.
«Cosa ti prende?» domandò preoccupato, senza più quell’aria da sbruffone che aveva messo su poco prima.
«Perché ho un appartamento a New York?» domandò Makoto con le mani strette sul capo e gli occhi serrati alla ricerca dell’equilibrio che le era venuto improvvisamente a mancare.
«E io come faccio a saperlo?» lui deglutì. Forse lo fece troppo rumorosamente. Non era bravo a mentire, non a lei.
«Devi saperlo per forza. Ho un contratto che porta una firma che ha tutta l’aria di corrispondere al tuo nome».
Lui gelò e da chinino si sedette per terra accanto a lei.
«Quindi forza, sgancia la bomba. Cosa significa?».
«Non cambi proprio mai» sospirò lui scuotendo piano la testa. Un sorriso nostalgico gli si dipinse in volto. «Sei sempre quella che ottiene ciò che vuole».
Lei corrugò la fronte, ma subito le rughe d’espressione scomparvero nel momento in cui lui le sorrise.
«Hai aperto lo scatolone, vero?».
«Tu come fai a sapere che ho uno scatolone?!». La cosa stava diventando stranamente inquietante.
 
«Entriamo a parlare, d’accordo?».
 
 
 
§§§
 
 
Per raccontarle la loro storia dal principio alla fine, sarebbero serviti eoni probabilmente. Nevius non aveva idea di quale dovesse essere l’inizio del suo discorso, seppure si fosse esercitato davanti ad uno specchio per un tempo che oramai pareva infinito. Ogni mattina si era ripromesso di preparare un discorso per lei, per quando finalmente avrebbe ricordato. Ma nessuno, tanto meno lui, poteva sapere cosa effettivamente avrebbe ricordato e come avrebbe reagito.
 
Minako entrò guardandosi attorno. Il mobilio era lineare e inamidato, quasi non ci vivesse nessuno.
Lui le fece strada in cucina, invitandola a sedersi accanto alla finestra da dove si vedeva il suo giardino e Ronald seduto in veranda ad osservare il passaggio mattutino della via residenziale.
«Vuoi qualcosa?» chiese lui, dandogli un momento le spalle per accendere la macchinetta del caffè e tirar giù una serie di utensili da cucina.
«Tu sai cosa mi piace, vero?». Makoto non si preoccupò di risultare stupida o inopportuna. Non c’era nemmeno bisogno di metterlo alla prova perché sentiva che le cose stavano esattamente così. Che lui la conoscesse meglio di quanto lo potesse farlo lei stessa.
«Caffè nero bollente…Non ti piace quando si raffredda. E poi pancakes allo sciroppo d’acero». Nevius lo aveva detto senza alcuna incertezza nella voce, come fosse un’ovvietà. Un’abitudine ben rodata.
Makoto rimase in apnea. Le faceva strano starsene lì con uno sconosciuto che sapeva benissimo cosa le piacesse.
Incrociò le dita delle mani tra di loro poggiandole al grembo in attesa di scoprire il resto.
«Cosa vuoi sapere, Makoto?».
Non sapeva da dove cominciare nemmeno lei. C’era una domanda più importante delle altre forse?
Lui armeggiò con destrezza, tra uova, farina e padella. Si notava era un pasticcere. Più che cucinare sembrava stesse danzando con movimenti misurati delle braccia e lei si ritrovò incantata come non avesse visto niente di più magico che la preparazione di una colazione in tutta la sua vita.
Il gorgoglio del caffè e lo sfrigolare della padella la distolsero da quella sorta di trans nel quale era caduta per un breve momento.
«Et voilà» la servì lui, mettendole sotto al naso piatto e tazza fumante.
«Ne bevi sempre un po’ troppo» commentò lui con un’occhiata al caffè per poi prendere posto di fronte a lei.
«Come sai tutte queste cose di me?».
Lui sospirò pesantemente quasi dovesse liberarsi finalmente di quel segreto taciuto sin troppo.
«Perché ci conosciamo molto bene…».
«Quanto, bene?».
«Tanto da starci per sposare, Mako-chan» quel nomignolo gli sfuggì dalle labbra senza che potesse tenerlo ancora rilegato sotto alla lingua.
Makoto sbiancò, lasciando cadere le posate sul pavimento.
«Il contratto che hai trovato…quello con la mia firma, è il contratto della nostra prima casa».
 
§§§
 
 
 
«Voglio che ci facciamo una promessa».
«Cos’è una promessa?».
Rei corrugò la fronte prima di scoppiare a ridere in faccia a quella che era stata la sua compagna di viaggio in quella fuga dalle proprie origini.
«È una specie di giuramento. Qualcosa che niente potrà scalfire, sciogliere o rompere».
«Parli troppo difficile per una come me, ma okay». Con ancora indosso i vestiti da Amish del fratellastro, Haruka la guardò confusa.
Sul molo, il mare s’infrangeva contro la palizzata di legno e il sole calava splendente all’orizzonte, proiettando le loro ombre sul suolo.
Non avevano ancora una casa. Solo una sacca piena di cianfrusaglie, un documento di adozione e una manciata di propositi.
Rei alzò la mano destra, tirando il più possibile in alto il proprio mignolo.
«Fai così» la incitò ad imitarla fino a che le due piccole dita smilze non s’intrecciarono.
«Cosa promettiamo?» domandò Haruka nascondendo lo sguardo sotto alla frangia spettinata. Non lo aveva mai fatto prima e in cuor suo sapeva essere qualcosa che avrebbe rispettato fino alla fine dei suoi giorni.
«Di essere amiche per sempre. Qualunque cosa accada. Promettiamo di non lasciarci mai».
Haruka tirò le labbra in quello che fu uno dei suoi primi sorrisi.
«Promesso».
«Non andrai mai via senza di me, quindi?» chiese divertita la mora.
«Hai detto che una promessa non s’infrange. Quindi è così…rimarremo sempre assieme. L’una al fianco dell’altra».
 
 
 
 
Note dell'autrice:
Bella gente, ciao! Come al solito chi arriva alla fine dei miei capitoli e non molla è sempre un temerario. Complimenti!!! Mi spiace di aver temporeggiato così a lungo sul capitolo. La maggior parte era già stata scritta prima della mia partenza per le vacanze. L'ho appena concluso anche se forse vi avevo promesso qualcosa in più. Ma sapete...è inutile che programmi qualcosa. Preferisco scrivere secondo il mio istinto e magari aggiungere pian piano altre vicende. 
Per chi mi segue da un pò sa che sono un'autrice catastrofica e che spesso e volentieri fa fuori alcuni dei propri personaggi. Sto combattendo con questo istinto da un pò, ma chi può dirlo...In ogni caso mi auguro vi sia piaciuto il capitolo ;P Alla prossima
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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