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Autore: Tatystories    21/08/2019    1 recensioni
Maya è una ragazza come tante che però deve fare i conti con una sedia a rotelle, con un vicino fastidioso e con una realtà celata nella sua memoria che si ripete fin dai tempi più antichi e che prevede la lotta del bene contro del male, di Madre Natura contro Caos e di cinque Elementi contro forze oscure e diaboliche. Passione, magia e mistero...
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chicco


- Chicco!
- So come mi chiamo, vorrei piuttosto sapere come si chiama quel tizio.
Intanto Lukas si è allontanato, si è avvicinato ai gemelli e sta parlando con Giacchy.
- E’ lo zio dei gemelli, il fratello di Grazia. È in visita.
- il nome grazie.
- Lukas!
- … e mi spieghi perché stava per baciarti?
Non ce la posso fare ad affrontare anche Chicco, non è il momento per raccontargli tutto quello che mi è successo nelle ultime ventiquattro ore anche perché io stessa ci sto capendo ben poco.
- Ma va… che diavolo ti salta in mente! Mi è entrato qualcosa in un occhio e gli ho chiesto di controllare, è pieno di moscerini e avevo paura che uno di quei cosi si fosse appiccicato al mio occhio. Anzi, mi sembra di sentirlo ancora. Prova a guardarci tu.
Mi allungo verso di lui e con l’indice apro l’occhio fino a sfigurarlo, so di essere buffa e spero che sia sufficiente per distrarlo. Funziona. Chicco scoppia a ridere, la sua meravigliosa risata contagiosa, quella che da un anno ad oggi mi ha regalato pochissime volte. Strano che proprio in questa occasione, con un perfetto estraneo a pochi metri, riesca a liberarsi di quelle barriere sottili, ma invincibili che ha costruito dopo l’incidente per tenermi a distanza. Mi appago di questo suono, mi fa tornare indietro nel tempo, a prima di tutta questa confusione, quando liberi e legati da un’amicizia che solo noi capivamo appieno passeggiavamo per la città e parlavamo per ore intere senza aver nulla da dirci, ma senza mai smettere. Confidenze, segreti, gossip, cavolate, tutto quello che ci passava per la testa, senza censure e senza paure. Non tutti comprendevano la nostra amicizia, qualcuno malignava sospettando che sotto sotto fossimo amanti o qualcosa del genere, alcuni addirittura avendoci visto insieme da sempre pensava che il nostro rapporto avesse qualcosa di incestuoso. Ma noi li lasciavamo parlare, noi sapevamo la verità e non ci importavano quelle dicerie. Siamo sempre stati l’uno l’ossigeno dell’altro. Quel giorno cambiò tutto. Quel giorno, una distrazione inaccettabile, ma pur sempre un’incidente cambiò la mia vita, ma anche la sua.
Eravamo appena tornati da un pomeriggio piuttosto impegnativo. Era sabato e non un sabato qualunque, ma un sabato organizzato da mesi. Era il nostro reciproco regalo per i diciassette anni e lo avevamo atteso con ansia e desiderio fin da quando avevamo solo dieci anni. Il volo in parapendio. Ero certa sarebbe stato meraviglioso liberarsi nell’aria e sentirsi padroni del mondo, almeno per quell’istante in cui le membra si liberano della forza di gravità, ma andò molto diversamente. Prima di tutto mi assalì l’ansia perché compresi che non sarei scesa con Chicco, ma con un estraneo, sebbene un esperto istruttore necessario per evitare di schiantarmi al suolo. A quel punto è subentrata la delusione, se non potevo scendere con Chicco, per lo meno speravo di farlo da sola, ma ovviamente per lo stesso motivo per il quale non potevo volare con Chicco, non potevo farlo nemmeno da sola. Mi rassegnai e seguii tutte le direttive, quando fui pronta e ben legata alla guida ci lanciammo. Ero certa avrei provato gioia, libertà, potere. Al contrario subito mi aggredì la paura, il terrore, sentivo i piedi che cercavano disperatamente la terra, volevo il suolo, l’erba, il terreno, tutto quanto mi facesse risentire viva, lì in aria mi sentivo morire. Cercai di dirlo all’istruttore, volevo chiedergli di portarmi giù, ma non riuscivo quasi a respirare, tanto meno avrei potuto parlare. Il panico stava prendendo il sopravvento, il cuore voleva saettare fuori dal torace per cercare un luogo dove sentirsi al sicuro e la vista si annebbiò fino a mostrarmi solo piccole scie luminose e vibranti, stavo perdendo i sensi. Poi qualcosa mi ridestò, sentii una vibrazione, una sorta di sollecito delicato sotto la pianta dei piedi, come aria compatta che premeva e mi permetteva di sentirmi sorretta o comunque appoggiata. Grazie a quel piccolo sostegno mi sentii meglio. Poi un altro fremito intorno ai polpacci, questa volta la sensazione fu diversa, venni avvolta da una morbida coperta accogliente fatta d’aria tiepida. Ripresi a respirare regolarmente, il cuore frenò la sua pazza corsa e il panico perse il dominio sul mio corpo e sulla mente. Tra le braccia dell’aria più che dell’istruttore riuscii a godermi quella bella esperienza. Non ho mai capito cosa sia successo veramente, ma comincio a credere che esista un collegamento tra tutti gli avvenimenti strani che mi sono capitati nell’ultimo anno. Tra le nuvole il tempo passò velocemente e mi ritrovai con i piedi a terra più in fretta di quanto pensassi. Chicco era già atterrato da qualche minuto e mi corse incontro saltellando come un grillo. Agitava le braccia in aria ed emetteva urletti di gioia, aveva amato quell’esperienza più di qualsiasi altra cosa avesse mai provato. Era quasi isterico, le frasi sconclusionate e la voce stridula ed alterata dall’eccitazione. Mai gli raccontai del mio panico iniziale, mi sentivo imbarazzata per aver provato tanta paura, era stato il nostro sogno, ma per me per qualche attimo si era trasformato in un incubo. Lui non era solo entusiasta, era elettrizzato e dalle sue parole capii che per la prima volta nella nostra vita avevamo qualcosa che ci divideva diametralmente, oltre ai gusti per i libri. Io sono fatta per stare ancorata alla Terra, lui in Aria. Tornando a casa in moto percepii ancora di più il suo desiderio di tornare lassù, alzava la testa sollazzandosi del vento sul viso e allargava le braccia lasciando il manubrio incustodito. Continuavo a dargli colpetti sui fianchi per farlo tornare alla realtà, ma mi ignorava quasi sotto un incantesimo. Anche a casa l’euforia non pareva voler allentare la presa. Entrambi eravamo affamati, piombai in cucina e cominciai a rovistare in frigorifero. Siamo cresciuti tra casa mia e casa sua, nessuno di noi due ha mai provato imbarazzo o timidezza nella famiglia altrui o nella casa altrui e anche i nostri genitori in questo senso ci hanno lasciati liberi di muoverci sentendoci in famiglia in entrambe le case. Preparai due panini con prosciutto e formaggio, un thè caldo al limone e trovai in forno ben nascoste due fette di crostata alla marmellata. Niente paura, siamo sempre stati abituati a trangugiare dolce e salato alternativamente senza problemi. Chicco nel frattempo era andato in camera sua per cambiarsi, nell’eccitazione del volo aveva strappato la manica della maglia. Visto che tardava a tornare in cucina andai vicino alle scale per chiamarlo, ma niente, allora salii e udii un rumore provenire dalla stanza delle armi, la stanza dove il padre di Chicco tiene tutti i suoi fucili. È una guardia forestale e ha una vera e propria passione per le armi, ha una collezione di fucili da caccia davvero impressionante. Io odio le armi, ma avendo vissuto in casa sua tanto quanto nella mia, mi sono abituata ad averle intorno, non tanto per quella stanza che è sempre stata rigorosamente chiusa a chiave, piuttosto perché il papà di Chicco che ce le mostrò più volte rendendoci così consapevoli della loro minaccia.
Quel giorno Chicco trovò la porta della stanza delle armi aperta e la luce accesa, suo padre era sotto la doccia ed era appena rientrato dopo un turno notturno. Convinto di essere solo in casa non l’aveva chiusa a chiave come invece era suo uso fare da quando, ventitré anni prima, era nato il suo primo figlio, Peter, il fratello di Chicco. Chicco entrò per spegnere la luce e chiudere la porta e notò che uno dei fucili non era al suo posto nelle vetrinette, ma appoggiato malamente sul bracciolo di una piccola poltroncina. Non so chi o cosa l’abbiano spinto a fare il passo successivo perché non posso credere che anni e anni di raccomandazioni siano sfumate nel nulla senza una ragione precisa. Suo padre non ha mai lasciato quella porta aperta, siamo entrati in quella stanza solo accompagnati da lui e con il divieto tassativo di toccare alcunché. Ci ha ripetuto milioni di volte che se mai avessimo trovato aperto, mai e poi mai avremmo dovuto toccare qualsiasi cosa presente di quel luogo. Rimane quindi un mistero perché Chicco quel dannato giorno abbia pensato fosse cosa giusta prendere il fucile per riporlo al suo posto. Proprio in quel momento l’istinto traditore mi portò vicino a quella porta, la scostai delicatamente attratta dal rumore e dalla luce accesa. Nella stanza aleggiava una strana sensazione, se il pericolo avesse un odore e un peso avrebbe proprio quello che percepii in quel momento, ma non bastò a fermarmi. Nell’istante in cui varcai la soglia Chicco si voltò spaventato, timoroso che ad entrare fosse il padre che certamente lo avrebbe sgridato per aver toccato il suo fucile. Fu questione di un attimo. Si voltò e con lui anche il fucile che puntava dritto alla mia pancia, poi lo sparo. Ho provato a reagire voltandomi per scappare, ma il proiettile ovviamente è stato più veloce e mi ha penetrato le carni, lacerandomi anima e corpo e conficcandosi nella spina dorsale. Quanto successo dopo è solo un ricordo vago e il resoconto di Chicco e suo padre che sentito lo sparo si è precipitato nella stanza delle armi. Lo scenario immagino sia stato agghiacciante, Chicco per mesi si è svegliato in piena notte strillando il mio nome e piangendo come un vitello. Il padre di Chicco mi ha raccontato che ha subito chiamato il pronto soccorso, ma per farlo mi ha lasciato da sola nella stanza perché il cellulare si trovava al piano inferiore. Non ha potuto far affidamento sul figlio perché non appena compreso di avermi colpito Chicco si è accasciato al suolo spaventato e sotto shock. Dei pochi minuti che ho trascorso sdraiata a terra sola, necessari al padre di Chicco per chiamare i soccorsi, ricordo solo di aver provato una sensazione di conforto e amore, come se mi trovassi tra le braccia di mia madre che amorevole mi coccolava per proteggermi dalla paura. Anche il dolore che immaginavo sopraggiungere dopo la prima scarica di adrenalina, non arrivò mai. Percepivo uno scudo potente a difendermi da tutto e per un attimo intravidi anche una luce dolce e incoraggiante e udii una voce dolce e carezzevole che mi sussurrava parole di conforto e di incoraggiamento, poi il buio, fitto e impenetrabile fino al momento in cui ho riaperto gli occhi un’ora dopo la fine di un’operazione durata diverse ore. Non ricordo altro, ma pare che Lukas creda sia successo altro e lo stavo per scoprirlo appena prima arrivasse Chicco. Sento l’urgenza di avere risposte e non sono più disposta ad aspettare, a questo punto voglio tutta la verità.
- Maya non hai niente nell’occhio e lo sai anche tu. Quel tipo voleva baciarti. Mi credi scemo?
Lo dice ridendo, non è arrabbiato, solo divertito dalla mia scenetta drammatica. Levo la mano dall’occhio che ormai è rosso per lo sforzo e gli faccio la linguaccia. Dovevo immaginare che non avrebbe creduto alla storiella del moscerino, ma non me la sento di parlargli di Lukas. Tento la strada della compassione, è il suo punto debole. Sono proprio perfida, ma prima di spiegare a Chicco cosa mi sta succedendo, devo capirlo io stessa.
- Chicco piantala, pensi che potrei attirare l’attenzione di un ragazzo come quello inchiodata su questo attrezzo infernale!
Colpito e affondato, la rabbia si trasforma in dolore e la curiosità in colpa. Sono davvero una stronza, ho esagerato. Cerco il suo sguardo, i suoi occhi, voglio far pace, voglio il nostro nuovo abbraccio. È il nostro modo per chiederci scusa, è nato spontaneo qualche settimana dopo il mio ritorno a casa dopo l’operazione.
Quel giorno, ero molto arrabbiata con lui, non era mai venuto in ospedale e nemmeno a casa, la scusa era ogni volta diversa e non era nemmeno lui a rifilarmela. Sua madre era terribilmente imbarazzata ogni volta che telefonavo e chiedevo di lui e non riusciva proprio a mentire senza che capissi quanto false fossero quelle scuse. Un giorno non ce la feci più, chiesi a mia madre di accompagnarmi da lui, ancora non avevo la mia spider elettrica.
- Maya non credo che sia una buona idea.
Mia madre in quei giorni era molto protettiva e pensava che Chicco fosse l’ultimo dei miei problemi, ma al contrario era il primo dei miei pensieri. Non lo colpevolizzarono per quanto accaduto, ma credevano – soprattutto a causa dei suggerimenti degli psicologi dell’ospedale – che ci volesse tempo prima di ritrovarci come amici. Pietà, amore materno, sfinimento… comunque mi accompagnò. Le chiesi di tornarsene a casa, le avrei telefonato non appena la situazione lo avesse concesso, non volevo che rimanesse in macchina o mi aspettasse in cucina, volevo sentirmi libera di prendermi tutto il tempo necessario. Citofonai e mi rispose proprio Chicco, era solo in casa e ne fui molto lieta, anche la mamma di Chicco era diventata una chioccia. Lei, mia madre, e Grazia, la mamma dei gemelli, sono amiche da sempre, il trio dell’Ave Maria, così le canzona mio padre e dopo l’incidente sono diventate un po’soffocanti nei miei riguardi e nei riguardi di tutto quello che mi circonda. Entrai in casa e lo trovai seduto sul divano con il telecomando in mano, fisso a guardare uno stupido cartone animato per bambini. Non si girò nemmeno per salutarmi, allora spinsi la carrozzina fino a quando non gli fui davanti. Non mi guardò nemmeno in quel momento, preferì spostare la testa di lato per continuare a fissare quello stupido maialetto animato.
- Ciao Chicco.
Ero arrabbiata, molto arrabbiata e volevo urlargli addosso tutta la mia rabbia, ma realizzai che dovevo essere cauta perché era chiuso nel suo dolore ed io e la mia condizione ne erano la fonte principale. Non sono una psicologa, ma compresi in fretta che il senso di colpa lo stava divorando.
- Senti Chicco, lo so che ti senti in colpa, ma non devi. È stato un incidente.
Non mi rispose e forse nemmeno mi ascoltò, allora provai ad avvicinarmi, ma non fu facile, ancora non avevo il pieno controllo della carrozzina.
- Dai Chicco, parlami. Non ti sembra assurda questa situazione, non ti pare che abbia sopportato abbastanza?
 Non guardava più la tv, lo sguardo era rivolto verso i suoi piedi. Pian piano però si spostò verso i miei piedi che erano appoggiati inermi e indifesi sulla pedana, poi salì e squadrò le gambe timide e tristi nella loro condizione immobile, infine mi guardò negli occhi piangendo. Era un pianto silenzioso, senza singhiozzi o lamenti, e doloroso, ma senza richiesta d’aiuto. Fu un pianto di consapevolezza, la consapevolezza insensata di aver rovinato l’avvenire della propria migliore amica, di colei che consideri una sorella, di colei che riempie da sempre la metà mancante della tua esistenza. Non aveva bisogno di parlarmi perché riuscivo a leggere queste certezze nei suoi occhi. Certezze per lui, per me erano assurdità. Non gli davo la colpa di quanto accaduto e non l’ho mai data a nessuno, ma non perché io sia particolarmente buona o religiosa, ma semplicemente perché anche analizzando nei dettagli tutto quanto accaduto non è possibile arrivare ad altra conclusione se non quella che è stato un enorme, tragico incidente.
- Chicco, ti prego, parlami.
- Maya, mi dispiace… mi dispiace… mi dispiace così tanto…
Le lacrime scorrevano copiose e gli bagnavano la maglietta bianca che si appiccicava sulla sua pelle. Avrei voluto più di ogni altra cosa alzarmi, accucciarmi ai suoi piedi e abbracciarlo, ma non potevo e Chicco doveva capirlo, quella era la mia nuova condizione e doveva accettarla per poter tornare amici come prima.
- Tu non hai colpe, è stato solo un indicente.
- Io ti ho sparato, il proiettile che non ti permette di camminare è uscito dalla canna di un fucile che io imbracciavo. È colpa mia e ho bisogno che tu lo ammetta.
Cominciavo a capire cosa voleva, forse aveva bisogno del mio perdono, anche di un perdono di facciata, ma era quello di cui aveva bisogno per ricominciare da capo.
- Ok Chicco, ammetto che il fucile era tra le tue mani e che il proiettile era in quel fucile, quindi forse indirettamente sei in parte responsabile della mia condizione, ma non sapevi che era carico e nemmeno che io fossi vicino a quella porta, quindi se tenere in mano quell’arma è stata un’azione intenzionale, sparare no. Sparare è stato un incidente. Puoi accettare questa versione? Puoi accettare il mio perdono? Ho bisogno del mio amico, ho bisogno di mio fratello, ho bisogno di te.
Fermò le lacrime soffiandosi il naso con la maglietta e mi sorrise, non forse lo stesso sorriso a cui ero abituata, ma qualcosa di accettabile.
- Va bene, accetto la tua versione e accetto il tuo perdono, ma non so se riuscirò mai ad accettare questa nuova condizione. Ti chiedo scusa per ogni volta che guardandoti mi rabbuierò, per ogni volta in cui mi sentirò un verme per non essere riuscito a proteggerti, per ogni volta in cui non saprò consolarti o capirti…
Va bene, pensai, accetto tutto, purché Chicco torni da me e non mi lasci più sola.
- Troveremo un nuovo equilibrio, te lo prometto.
Prima dell’incidente ci saremmo abbracciati per suggellare quel momento, ma circondata da ferraglia non è facile accogliere un abbraccio senza imporre all’altra persona di piegarsi alla mia nuova altezza rendendo l’abbraccio faticoso e poco spontaneo. Quindi quel giorno facemmo il primo passetto verso il nuovo equilibrio scegliendo un nuovo modo per scambiarci quell’abbraccio tanto importante nelle nostre vite. Si alzò, si posizionò dietro la mia carrozzina, con le mani mi prese la testa ai lati, vicino alle orecchie, fece una leggera leva per ripiegarla indietro e si piegò a baciare la mia fronte con tanta dolcezza da sciogliere quella rabbia e quella delusione che avevo provato appena entrata in casa. Da quel giorno, quando vogliamo ritrovarci dopo esserci persi, ci guardiamo e silenziosamente pretendiamo quel nostro nuovo abbraccio.
Esattamente come in questo momento, l’ha capito, ha letto il bisogno nel mio sguardo e si avvicina. Si posiziona dietro la carrozzina, con le mani mi prende la testa ai lati, vicino alle orecchie, fa una leggera leva per ripiegarla indietro e si piega a baciare la mia fronte con dolcezza… lo stesso gesto… rassicurante e comprensivo. Tutto quello di cui ho bisogno e tutto quello che mi serve per allontanare per qualche minuto la tensione accumulata per colpa di Lukas. Lukas… Dov’è? Cosa sta facendo? E i gemelli? Mi sono smarrita nei ricordi e ho perso la cognizione del tempo.
Guardo verso lo scivolo e i gemelli stanno ancora giocando, questa volta è Pippo che si lascia dondolare per essere salvato. Sposto lo sguardo, ma non vedo Lukas. Chicco intanto sta andando a salutare i bambini. Volto la carrozzina di novanta gradi, ma non lo vedo, poi sento dei rumori dietro di me e capisco che è lì. Sento i suoi occhi puntati addosso e sono certa che siano infuocati perché mi brucia la pelle. Non riesco ad evitarlo e mi volto, è proprio come immaginavo, le sue pupille ardono. Mi perdo in esse giusto il tempo necessario a lui per avvicinarsi. Mi gira intorno e si posiziona laddove si trovava Chicco fino a pochi minuti prima, dietro di me. Fa gli stessi gesti di Chicco, non voglio perché quello è solo nostro, ma non riesco a ribellarmi, tremo solo al pensiero di quello che vuole fare. Sono tra le sue mani e la sua bocca è vicinissima alla mia fronte, ma si sposta all’ultimo momento per avvicinarsi pericolosamente al mio orecchio e sussurrare:
- Questo è un bacio!
 E mi bacia sulle labbra lasciando una scia di fuoco e di attesa per molto altro che mi percorre fino a brandire lo stomaco lasciandomi senza fiato. Sento le gambe rinvigorirsi da questa scossa elettriche e pretendere la libertà, ma il bacio dura solo pochi istanti perché la carrozzina si sposta violentemente in avanti separandomi da tanta lussuria. Tanta è stata la rapidità del movimento che sono quasi stata sbalzata giù dalla sedia. Riprendo possesso del mio corpo e del mio cervello e cerco di capire cosa mi ha mosso, ringraziandola mentalmente qualunque cosa sia. Sebbene il desiderio sarebbe quello di prendermi tutto quello che Lukas ha da offrirmi, sono consapevole di essere in un parco pubblico, con tre bambini piccoli, un caro amico geloso e una carrozzina a ricordarmi la mia condizione. Non riesco a darmi una risposta, ma non ho nemmeno molto tempo per cercarla perché i gemelli corrono verso di me come delle furie per informarmi che hanno tantissima fame. Cerco Chicco con lo sguardo, sta arrivando e mi pare dal suo viso sereno che non abbia assistito al piccolo scambio di “idee” con Lukas di poco fa. Che fortuna! Non ce la farei a sopportare un’altra inquisizione.
Faccio le presentazioni di rito, c’è astio tra di loro, ma non ne comprendo il motivo, soprattutto da parte di Lukas. Chicco è il mio migliore amico, da sempre il suo occhio vigila su di me e sulle persone che dimostrano un interesse nei miei confronti. Senza essere mai stato geloso dei ragazzi che frequento, si è però sempre preoccupato di indagare chi fossero e di informarmi quando c’era qualcosa da sapere. Una sorta di fratello maggiore poliziotto. Non mi ha mai infastidito il suo comportamento, anche se non ha mai dovuto preoccuparsi più di tanto perché le mie conoscenze non sono mai andate oltre il quinto appuntamento e il livello “mani sotto la maglietta”. Effettivamente mi rendo conto solo ora che ho avuto più intimità con Lukas in tre ore di conoscenza che con chiunque altro, tranne Chicco. Con lui, durante il nostro periodo “amici/fidanzati” ci siamo toccati e guardati parecchio, in realtà ero più io che toccavo, lui ha osato solo una volta infilarsi sotto il reggiseno, ma si è ritratto come se la mia pelle gli avesse bruciato le mani. Siamo anche arrivati sul punto di fare l’amore, ma proprio in quell’occasione abbiamo capito che non era quello il nostro destino. Anche in quel caso fu lui a capirlo per primo, ricordo che eravamo nudi uno di fronte all’altro, a distanza di poco più di un metro. Io non ero per nulla imbarazzata, nonostante la mia natura piuttosto timida e vergognosa con lui mi sentivo a mio agio. Sono stata io a fare il primo passo, come sempre con lui, mi sono avvicinata per poterlo toccare e guardare meglio. Chicco è decisamente un gran bel ragazzo. Un metro e novanta di muscoli e mistero. Occhi azzurri come il cielo terso dell’inverno e mascella pronunciata. È tenebroso, a tratti quasi scocciato o incupito, regala i suoi sorrisi migliori solo a pochi eletti che comprendono la cerchia della sua famiglia, della mia e dei suoi compagni di Jujitsu. A scuola non c’è ragazza che non desideri le sue attenzioni, riceve inviti e proposte, talvolta anche sfacciate e svergognate, quasi quotidianamente. Lui si diverte con tante, per lo più sceglie ragazze facili, ma si concede sempre con rispetto e chiarezza. Non sono mai stata gelosa, forse perché non ha mai degnato nessuna di una seconda occhiata. Ricordo che quel giorno, quando secondo i miei piani avrei perso la verginità, mi avvicinai fino a sfiorarci con i corpi nudi e gli accarezzai il torace liscio e possente. Lui sussultò e mi sentii lusingata perché la risposta del suo corpo andò ben oltre quel semplice sussulto. Ero lucida e determinata, esattamente l’opposto di come mi sento quando c’è Lukas nei paraggi. Desideravo però che lui facesse altrettanto, ero curiosa, avevo diciassette anni e nessun uomo mi aveva ancora sfiorata la pelle. Continuai ad accarezzarlo cercando di fargli capire quello che volevo, ma lui non si muoveva, sembrava inchiodato al pavimento, le braccia immobili lungo i fianchi. Allora osai ancora di più e portai la mia mano più in basso sfiorandolo proprio nel suo intimo, la reazione fu immediata ed eccitante. Sussurrando il mio nome finalmente si mosse e tese il braccio e agganciò la mia nuca per sospingermi verso di lui. I miei seni nudi si appoggiarono al suo torace granitico. Tremava, mentre io ero incredibilmente tranquilla e curiosa e attendevo il passo successivo che però fu molto diverso da quanto mi sarei aspettata. Un balzo indietro, improvviso e brutale. Giurerei di aver visto dolore e paura per un secondo passargli negli occhi, che però si sono dissolti velocemente lasciando posto a consapevolezza e determinazione. Mi apparve così buffo il suo improvviso cambiamento che scoppiai a ridere. Una risata divertita e contagiosa e ho capito. Non potevamo farlo, eravamo troppo amici, troppo fratelli per toccarci in quel modo, troppo l’uno la spalla dell’altro per vederci come fidanzati. Quel giorno, nella sua cameretta, in quella situazione un po’ buffa terminò il nostro brevissimo rapporto amoroso e capimmo che il solo e unico legame che ci avrebbe sempre uniti sarebbe stato quello dell’amicizia.
- Piacere Federico, Chicco per gli amici. Tu sei lo zio dei gemelli?
Lukas annuisce leggermente, non si degna nemmeno risponde, anche se dalla sua faccia torva credo sia meglio così. Perché abbia questo atteggiamento nei confronti di Chicco proprio non lo capisco, mi irrita e mi piacerebbe dirgli quello che penso della sua superbia, ma mi mordo la lingua. Intanto i gemelli perdono la pazienza e cercando di appendersi al braccio dello zio chiariscono a tutti la necessità urgente di soddisfare uno dei bisogni più primordiali che esistano: la fame.
- Zio Lukas! Zio Lukas! Abbiamo fame!
- Andiamo a casa prima che decidiate di mangiare me.
Ci dirigiamo tutti insieme verso casa mia, la prima in ordine di percorso. C’è uno strano silenzio, un po’ inquietante, stranamente anche i bambini non fiatano. Giunti sulla porta di casa li saluto, Chicco mi segue in casa, mentre il resto del gruppo se ne va. Dal salotto li osservo percorrere la salita che porta a casa di Grazia, di fronte alla quale c’è quella di Chicco. I bambini sono davanti e saltellano felici, Lukas è qualche passo dietro di loro e cammina apparentemente spensierato. Poi si volta e mi fissa. Ha percepito il mio sguardo, come io percepisco il suo senza bisogno di vederlo. C’è qualcosa di strano fra di noi, ma non voglio pensarci troppo e soprattutto prima di capire cosa ci unisce, devo capire cosa mi sta succedendo e solo lui può spiegarmelo, di questo ne sono certa.
Chicco sta parlando con mia madre, sono sempre andati d’accordo, talvolta più con la mia che con la sua. Credo sia dovuto al fatto che mia madre ha la capacità di mettere a proprio agio le persone, le capisce e sa subito prenderle per il verso giusto. Sarà perché è una psicologa o forse semplicemente perché ha un dono, ma in ogni caso sa ascoltare. Con Chicco è sempre stata dolce, senza però essere invadente. Lo ha consigliato, senza apparire altezzosa o presuntuosa e lo ha ascoltato senza giudicarlo. Credo che in parte sia per questo loro rapporto speciale che ho pensato fosse giusto che la mia prima volta fosse con lui e fino all’arrivo di Lukas ancora non avevo capito veramente cosa si prova quando si desidera fisicamente qualcuno. Ieri sera con Lukas ho completamente perso il controllo della situazione, non riuscivo a razionalizzare o a pensare cosa fare o non fare, desideravo solo mi toccasse e non smettesse mai di farlo e lo stesso oggi quando mi ha sfiorato le labbra, ma devo smettere di pensarci. Devo concentrarmi su quello che sta accadendo alle mie gambe e sull’energia che sento quando Lukas è vicino a me, ma non quella che mi rende languida, bensì quella che risveglia le mie gambe e mi dà la forza per camminare. Forse però le due cose sono più collegate di quello che penso.
- Ehi, Maya, a cosa pensi?
È Chicco che mi risveglia da fantasticherie un po’ troppo erotiche.
- Niente, pranzi da noi?
- Certo, sai che non posso resistere alle lasagne di tua madre.

Sorrido, certo che lo so, so tutto di Chicco e niente di Lukas.
 
   
 
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