Anime & Manga > Inazuma Eleven
Segui la storia  |       
Autore: Melabanana_    26/08/2019    2 recensioni
A un certo punto della storia che conosciamo, in tutto il globo terrestre hanno cominciato a nascere bambini con poteri sovrannaturali, dando inizio alla generazione dei "portatori di doni". Assoldati dalle "Inazuma Agency" come agenti speciali, Midorikawa e i suoi coetanei dovranno lottare contro persone disposte a tutto pur di conservare e accrescere il proprio potere. Ma possono dei ragazzini salvare il mondo?
Avvertimenti: POV in 1a persona, AU, forse OOC, presenza di OC (secondari).
Questa storia è a rating arancione per via delle tematiche trattate (violenza di vario grado, morte, trauma, occasionale turpiloquio). Ho cercato di includere questi temi con la massima sensibilità, ma vi prego comunque di avvicinarvi alla materia trattata con prudenza e delicatezza. -Roby
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Jordan/Ryuuji, Xavier/Hiroto
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Spy Eleven -Inazuma Agency '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Oggi, a sorpresa, siccome di angst non ce n'è mai abbastanza (ehm...), ho pubblicato anche qualcos altro oltre questo capitolo... **rullo di tamburi** Una oneshot prequel sui Fubuki! L'ho postata poco fa come parte della serie, potete leggerla qui. È possibile che ne scriverò altre su altri pg, ma non prometto nulla. Ci sono molte cose che vorrei raccontare, ma poi alla fine dipende tutto dalla mia voglia di scriverle, ahah. Se solo ci fosse un modo per estrarre le idee dalla testa trasferirle sul foglio Word per iscritto... Sarebbe inquietante, ma pratico (lol). 
Vi avverto che questo capitolo sarà abbastanza... insopportabile, sotto tanti punti di vista. Quindi fate un respiro profondo prima di immergervi. 





-Non posso credere che sei tornato in ospedale- borbottò Kazemaru. Aveva gli occhi cerchiati di rosso, come se avesse pianto. –Non posso proprio crederci- ripeté, le labbra incurvate in un’espressione più che mesta.
Risposi con una smorfia. In quel momento, non riuscivo a trovare nessuna parola per consolarlo. Mi lasciai scivolare contro il cuscino e mi accucciai nel letto, scalciando via le coperte per il caldo.
Hiroto sospirò. –Non riuscirò mai a convincerti di non aver rovinato la giornata, vero?- chiese.
-Infatti- sbottai, imbronciato.
-Ma non è colpa tua. Ancora non sappiamo bene cosa potrebbe… innescare questa cosa. La prossima volta starò più attento- osservò Hiroto. Mi scostò i capelli con una mano e mi baciò leggermente sulla fronte. Rimasi imbronciato. In quel momento entrò Hitomiko. Tutti ci girammo a guardarla.
-Non hanno trovato nulla di evidente. In tutta probabilità hai soltanto avuto un attacco di panico, per questo hai smesso di respirare e sei svenuto. Per fortuna Hiroto ha eseguito subito il primo soccorso- ci informò Hitomiko.
-Nulla di evidente?- ripeté Kazemaru, confuso.
-A livello fisico, è sano come un pesce- disse Hitomiko. –In teoria, potrebbero anche rilasciarlo subito.
Mi tirai su di scatto e la fissai come se avesse avuto tre occhi.
-Sono pericoloso! Non possono farlo!
-Pensavo che avresti colto al volo l’occasione di uscire- commentò la donna, accigliandosi.
-Beh, sì, io odio stare qui- ammisi. –Ma non posso andarmene a zonzo come se niente fosse, dopo quello che ho fatto!
Mi girai verso Hiroto, cercando la sua mano oltre che il suo sostegno. Lui abbassò lo sguardo, forse rimuginando su quello che era successo. Forse orripilato. Non riuscivo a leggere la sua espressione. Cominciai a farfugliare, troppo agitato per formare frasi sensate.
-Avrei potuto far male a qualcuno, ho avuto davvero paura che… che se qualcuno mi avesse toccato in quel momento… E poi c’era la canzone, quella che sento sempre quando succede, e la ruota e…
-Midorikawa- mormorò Hiroto, interrompendomi –non è successo nulla di grave.
Lo guardai stranito. –Ma io… ho perso il controllo, è stato un attimo, ho toccato quelle cose e si sono… sono sparite, così, davanti a me! Hiroto, tu c’eri, tu sai di che parlo…
-No, no, non è successo nulla di strano- insistette Hiroto, scuotendo anche il capo. Strinse forte la mia mano.
- Non ero molto lontano da te. All’improvviso ti ho sentito urlare e ti ho trovato nel panico, che parlavi del tuo potere, non sembravi neppure in te… E poi sei svenuto.- Sollevò il viso e mi guardò apprensivo. –Ma non c’era niente che non andasse. Se tu dici di aver visto qualcosa, allora… Midorikawa, io penso che tu…
Non completò la frase, ma non ce n’era bisogno. Avevamo tutti capito cosa voleva dire, anch’io, benché non volessi ammetterlo. Ci pensò Hitomiko a rompere quel silenzio imbarazzante.
-Non sono stati riscontrati problemi fisici, ma siamo preoccupati delle allucinazioni, Midorikawa- affermò, si morse il labbro inferiore. -Quello che ti è successo mesi fa potrebbe aver incrinato un delicato equilibrio. Dopotutto, non solo hai rischiato di morire, ma i tuoi poteri sono tornati, e non sappiamo come né perché. Poi sono scomparsi di nuovo e, ancora, non ne sappiamo niente.
-Ho richiesto una consulenza professionale da parte del signor Kudou, visto che è un esperto nel campo dello studio dei doni… Purtroppo, non ho ancora ricevuto una risposta. Nel frattempo, però, credo che dovresti rimanere in ospedale. Il medico ha detto che ti faranno degli altri controlli, vogliono assicurarsi che non ci sia niente che non vada nel tuo… cervello- spiegò.
Aprii la bocca, ma non trovai niente da dire. Stavo ancora metabolizzando le sue parole, che una parte di me, totalmente irrazionale, continuava a rigettare. Avrei voluto che qualcuno, chiunque, mi dicesse che era tutto uno scherzo. L’aria nella stanza era tesa e cupa. Abbassai lo sguardo, soprattutto per evitare quelli dei miei amici.
Allucinazioni. La parola suonava così inopportuna e fuori luogo, eppure… in qualche modo, aveva molto più senso di qualsiasi altra spiegazione. Perché i miei poteri avrebbero dovuto spuntare fuori così, dal nulla? Invece, aveva senso pensare che mi fossi lasciato suggestionare dalla ruota, dai miei ricordi che minacciavano di tornare. Non è successo nulla, aveva detto Hiroto. Ripensai alla reazione delle persone intorno a me in quel frangente. Era proprio così, mi ero inventato tutto, era tutta immaginazione. Allucinazioni.
Tutto il sangue mi fluì al viso per la vergogna. Il fatto che ci fosse una spiegazione, che non avevo messo in pericolo nessuno (tranne me stesso) mi dava un po’ di sollievo.
Peccato solo che fossi pazzo.
-Potete lasciarmi da solo?- chiesi. –Per favore?
Hiroto e Kazemaru si scambiarono una rapida occhiata. Hitomiko non batté ciglio.
-Sicuramente non è grave- disse Kazemaru. –Cerca di stare su, d’accordo?
Mi sforzai di sorridere per non far trapelare le mie vere emozioni.
-Sì, sì, lo so. Vorrei solo un po’ di tempo per pensare- ribattei. –Insomma, sarà solo qualche controllo, non sono nervoso, ma vorrei un po’ di spazio, okay?
Mi rivolsi a Hitomiko, evitando consapevolmente lo sguardo di Kazemaru. Sapevo che, se l’avessi guardato, lui avrebbe capito che stavo mentendo. Probabilmente lo immaginava, comunque, ma volevo evitare un confronto diretto. Misi anche un fermo alla mia empatia, così che i sentimenti di Kazemaru non potessero influenzare i miei e, di conseguenza, farmi sentire in colpa.
Da parte sua, Hitomiko sembrava ben disposta nei miei confronti. Era sempre stata una donna riservata e, per questo, non faceva fatica a comprendere questo mio bisogno di spazio.
-Sì, capisco- disse infatti –e credo sia inevitabile che tu voglia del tempo da solo, per riflettere su tutto questo. Di certo è tutto molto difficile da digerire… Proprio ora che siamo tornati alla pace, poi.- Inaspettatamente, il suo viso si aprì in un sorriso gentile, quasi materno. –Prenditi tutto il tempo che ti serve, Midorikawa. I tuoi amici potranno visitarti a partire da domani, negli orari di visita stabiliti. Intanto, io farò tutto il possibile per aiutare. Proverò nuovamente a contattare Kudou Michiya. Restare a riposo e rifletterci con calma è la cosa migliore che tu possa fare adesso.
Annuii, docile, e mormorai un ringraziamento. Hitomiko mi salutò con un cenno e uscì dalla stanza. Subito dopo, Kazemaru si alzò e mi abbracciò forte, mi sussurrò:- Ci vediamo domani, non stare in ansia, okay?-, poi la seguì. Capii che si era mosso per primo in considerazione mia e di Hiroto, per lasciarci qualche minuto da soli. Non ero sicuro di desiderare questa cortesia, perché Hiroto era la persona che più di tutte mi rendeva vulnerabile.
Per fortuna, sebbene fosse molto preoccupato, Hiroto non cedette alla tentazione di farmi domande. Portò la mia mano, ancora stretta nella sua, alle labbra e la baciò, un bacio leggero e sfuggevole come una farfalla; poi si chinò verso di me e poggiò la bocca sulla mia una, due, tre volte, ogni bacio breve quanto un battito di ciglia. Era così delicato e gentile con me da farmi venire un nodo alla gola. Avrei voluto riavvolgere il tempo, tornare alla mattina del giorno prima, quando tutto andava ancora bene e stavamo insieme in modo spensierato. Non rimpiangevo i bei momenti che Hiroto mi aveva regalato, ma non potevo fare a meno di pensare che se non fossimo andati al Luna Park… Un altro bacio mi impedì di finire il pensiero. Forse Hiroto voleva questo, voleva impedirmi di sprofondare in quel tipo di pensieri. Poggiai la mano libera sulla sua nuca, affondando le dita nei suoi capelli, mettendo in disordine le ciocche rosse volutamente, e lo attirai a me.
Questo bacio durò più a lungo degli altri. Non volevamo lasciare quel tepore così confortante. Le mie paure e i miei dubbi, però, non erano scomparsi; dopo un po’, riuscirono a svincolarsi dall’angolo della mente in cui li avevo momentaneamente cacciati, e tornarono a galla. Lasciai la presa sulla nuca di Hiroto e, allo stesso tempo, feci scivolare la mia mano fuori dall’intreccio con la sua. Mi separai da lui, sebbene lo avvertissi come uno strappo. Hiroto aprì gli occhi, mi guardò e capì in un istante.
-Non mi farai del male- bisbigliò. –Non avere paura per me.
-Non posso- risposi. Non riuscii ad andare oltre, ma sperai che capisse. Era impossibile che smettessi di preoccuparmi o di avere paura. Ironico che i nostri ruoli si fossero capovolti. Premetti una mano contro la sua guancia e la fronte contro la sua per un momento, poi mi staccai completamente. Perché faceva così male? Volevo soltanto proteggerlo. Ma Hiroto mi faceva sentire… Non sapevo come spiegarlo.
-Ci vediamo domani- conclusi. Hiroto esitò, poi annuì e si alzò. Lo guardai uscire dalla stanza, trattenendomi dal chiamarlo finché non scomparve alla mia vista; non appena fui solo, mi lasciai scivolare sotto le lenzuola, mi girai su un fianco e piansi nel cuscino.
 
 
Non toccai quasi per nulla la cena che mi portarono. Non avevo appetito e il cibo d’ospedale mi deprimeva ancora di più. L’infermiera che venne a ritirarlo provò a incoraggiarmi a mangiare almeno il riso in bianco; per non essere costretto a sentire altre ramanzine, afferrai la scodella dal vassoio e mangiai molto lentamente. Ne lasciai comunque un fondo, non me ne importava.
Poggiai la ciotola di riso sul comodino di fianco al letto e mi allungai verso il campanellino che serviva a chiamare l’infermiera, ma prima che potessi farlo, qualcuno aprì la porta della mia stanza. Non era lei, bensì due uomini con lunghi camici bianchi, evidentemente due medici del reparto. Una strana tensione si diffuse nell’aria, segno che almeno uno dei due uomini era parecchio nervoso. Aguzzai i sensi e, soprattutto, la mia abilità empatica: anche se di recente ero diventato sempre più restio ad utilizzarla, restava pur sempre un’arma utile e mi avrebbe permesso di studiare meglio le persone che avevo davanti. Per qualche motivo, non mi sentivo a mio agio.
Il primo uomo a entrare aveva un aspetto del tutto ordinario. Mi salutò e mi fece alcune domande di circostanza, mentre l’altro, semi-nascosto dietro di lui, prendeva chissà quali appunti. Mi sporsi per osservarlo meglio, ma mi ritrassi subito dopo: qualcosa, forse la sua pelle olivastra o gli zigomi fin troppo pronunciati, me lo facevano apparire quasi raccapricciante. La sensazione di disgusto aumentò quando lui si accorse del mio sguardo e mi gettò un sorriso indecifrabile.
-Purtroppo, ho una brutta notizia. Nei tuoi test sono state rilevate delle irregolarità, ci piacerebbe quindi tenerti qui ancora per un po’- mi stava dicendo, intanto, l’altro medico. –Abbiamo informato la struttura che si occupa di te e abbiamo ottenuto il loro consenso. Domattina ti faremo altri controllo, ma stai tranquillo, ti ruberemo pochissimo tempo.
Lo fissai, inespressivo, deciso a restare sulla difensiva, e mi limitai ad annuire. Rubarmi del tempo? Mi prendeva in giro? Non è che avessi chissà che da fare, a parte stare nel letto tutto il giorno; al massimo avrei potuto sgranchirmi un po’ le gambe camminando in tondo, visto che le infermiere rifiutavano ostinatamente di farmi lasciare la stanza, come se fossi stato contagioso.
Il medico si girò verso il collega e gli fece un cenno, poi si diresse verso la porta. Non uscì, rimase in piedi a braccia conserte, in attesa di qualcosa. L’uomo dalla pelle olivastra smise di scribacchiare sul suo taccuino e alzò lo sguardo verso di me, studiandomi attentamente con i suoi occhietti nero carbone. Lo squadrai a mia volta, doveva avere almeno una quarantina d’anni. Notai anche che aveva un filo di ombretto viola sulle palpebre gonfie. Alla fine della sua analisi approfondita, l’uomo mi sorrise e ancora una volta quel gesto di confidenza mi diede i brividi.
-Midorikawa Ryuuji- disse, soppesando le parole. –Hai davvero un bel nome. Ha qualche significato particolare?- chiese. Appariva calmo, educato. Di certo era molto bravo a celare i suoi veri sentimenti, tuttavia con la mia empatia riuscii a percepire certe sfumature del suo reale umore. Divertimento. Eccitazione. Forse mi vedeva come un soggetto terribilmente interessante.
-No, è solo un nome- risposi, secco. –Deve chiedermi altro?- O vuole solo prendermi in giro? Lo fissai con sfida, per fargli capire che non mi sarei fatto mettere in piedi in testa solo perché ero soltanto un ragazzo rispetto a lui. Lui non smise di sorridere.
-No… Sono certo che ci vedremo di nuovo, e molto presto. Dopotutto, dovrai restare qui con noi ancora per qualche giorno- affermò con noncuranza. –Volevo soltanto assicurarmi del tuo stato di salute, così come il mio collega. Spero che dormirai bene… Midorikawa.
Annuii rigidamente. Quella persona mi inquietava molto. Sembrava divertirsi molto, quando non c’era assolutamente nulla di divertente nella mia attuale condizione. Lo guardai scrivere di nuovo qualcosa nel taccuino, morivo dalla voglia di vedere cosa aveva scritto su di me e, al tempo stesso, non ero certo di voler sapere. Una volta che ebbe finito, si voltò e lasciò la stanza assieme al suo collega. Attesi qualche minuto, in caso tornassero, poi mi alzai dal letto e feci un giro nella camera, girando un paio di volte attorno al letto, andando avanti e indietro come un uccellino in gabbia. Dalla finestra, vidi i due medici con cui avevo appena parlato uscire dall’edificio e passeggiare sul vialone d’entrata. Tornai a letto e agitai il campanello per far venire un’infermiera.
A quel punto, non mi restava che andare a dormire. Stendendomi nuovamente sul letto, mi ritrovai a fissare il soffitto e a interrogarmi sul perché fosse accaduto tutto questo. A ben pensarci, non era la prima volta che soffrivo di allucinazioni… Tuttavia, non sapevo cosa le aveva causate. C’erano davvero troppe cose che non sapevo, e riguardavano tutte me stesso. Era l’ignoto, lo sconosciuto, a farmi paura. Se solo avessi conosciuto meglio il mio dono, forse avrei potuto evitare di finire in certe situazioni. Non appena chiusi gli occhi, però, mi tornò in mente quella notte… La notte in cui avevo perso il controllo dei miei poteri, subito dopo averli riottenuti senza sapere come…
No, non volevo sapere. Non volevo affrontare il mio dono. Forse stavo scappando, ma al momento mi sembrava l’unica possibilità, perché avevo ancora il terrore di aprire la porta della mia mente, la mia stanza 101… Non ero pronto. Non volevo sapere. Pensarci era logorante.
Mi addormentai senza accorgermene.


 
xxx

 
 
Quando mi svegliai la prima volta, era piena notte e il mio letto si stava muovendo. Socchiusi gli occhi e, ancora insonnolito, sollevai alla cieca una mano per cercare il bordo del letto, in un patetico tentativo di fermarlo. Un’ombra si affacciò davanti al mio volto, qualcuno mi afferrò il polso. Sentii un vago pizzicore, una specie di formicolio, diffondersi lungo il braccio. Qualcuno lo appoggiò di fianco a me, come se non fosse stato mio. In effetti, non lo sentivo quasi più come mio.
-Chi…?- riuscii a dire soltanto questo, con la bocca impastata dal sonno. Poi ripiombai nell’oblio.


 
xxx
 
 

Dovevo fare presto. Se mi avessero trovato fuori dalla stanza, si sarebbero arrabbiati di nuovo. Non ci picchiavano mai, ma non perché fossero gentili, piuttosto perché eravamo troppo preziosi per essere “danneggiati”. Un’arma difettosa, per quanto forte, non serve a niente. E questo lo avevamo capito anche noi. Allo stesso tempo, però, non avevano nessuna considerazione di noi come esseri umani, non eravamo niente più che oggetti, materiale da ricerca, un giocattolo da usare al massimo finché non si scaricano le pile. Ai loro occhi, non eravamo niente più di questo. Perciò dovevo correre e tornare al più presto nella nostra gabbia, prima che si accorgessero che avevo trovato nuovamente il modo di uscire, o sarebbero diventati ancora più duri con noi. Se non fossi riuscito a rientrare in tempo e a chiudere la porta in modo perfetto, come se non fosse mai stata toccata, come se l’ennesimo lucchetto non fosse stato manomesso, avrei potuto continuare a entrare e uscire come desideravo anche nei prossimi giorni. Era l’unica libertà che mi restava all’interno del nostro futuro già pianificato. Tastai al buio il muro per trovare la via che ormai ricordavo a memoria grazie al tatto e all’olfatto. C’era sempre odore di chiuso e di stantio, là sotto. Mi infilai tra gli scaffali, agile, toccando gli angoli dei libri per orientarmi. Raggiunsi la porta, ne afferrai la maniglia e la aprii.
 
 
Quando mi svegliai la seconda volta, era pomeriggio e una luce al neon risplendeva fastidiosamente su di me. C’era odore di candeggina e medicinali. Cercai di alzarmi, ma mi sentivo così fiacco da non riuscire a muovermi: piegando le dita delle mani, scoprii che erano fredde e intorpidite. Qualcosa non andava. Girai il capo dove sapevo esserci il comodino, intenzionato a suonare almeno il campanello, raccogliendo le forze che avevo.
Non c’era.
La stanza era totalmente spoglia, fatta eccezione per la branda su cui stavo, e bastò una semplice occhiata in giro per accorgermi che non mi trovavo nello stesso posto di prima: dovevano avermi spostato durante la notte. Era già pomeriggio, avevo dormito tutta la mattina? Perché mi avevano spostato? Mi morsi l’interno della guancia nervosamente. E se dai test fosse emerso qualcosa di più grave di quanto mi avevano detto? Forse non avevano potuto o voluto dirmelo a causa della mia età, forse era questo che intendevano quando avevano detto di aver ricevuto il consenso dell’agency. Forse avevano anche già contattato i Kazemaru, in quanto miei tutori legali. O non ce n’era bisogno, visto che avevano firmato, al tempo, per delegare all’agency tutte le responsabilità del caso? Non sapevo cosa pensare. Continuando a osservare il nuovo ambiente, notai una sola finestra, di piccola dimensione e posizionata troppo in alto perché potessi guardare fuori. Un lungo specchio, che ricopriva quasi l'intera superficie della parete opposta alla finestra, era affiancato da una singola porta di ferro.
Quella stessa porta si aprì poco dopo. A entrare fu il medico dagli zigomi sporgenti, con un’espressione tanto allegra quanto fuori posto ed il suo inseparabile taccuino; l’unica differenza dall’ultima volta che lo avevo visto era che indossava un completo sotto il camice aperto.
-Ah, sono lieto di vederti sveglio! Significa che sei in forma come non mai!- esclamò, come se fossimo stati amici di vecchia data. Cercai di usare l’empatia per leggere il suo stato d’animo, ma ero debole fisicamente e mi costava troppo sforzo controllarla, perciò mi trovai ad essere travolto da un’inaspettata carica di adrenalina e felicità, pura e semplice felicità, che mi lasciò scombussolato.
-Non riesco a credere che ci siamo incontrati di nuovo. È stata una meravigliosa serie di circostanze per il quale sono molto grato... Finalmente qualcuno è riuscito a portare alla luce il tuo dono- proseguì, pacato, mellifluo. –Sono stato così felice di constatare che il tuo potere è… esattamente come mi aspettavo. Potente. Terribilmente affascinante. Meravigliosamente distruttivo. Avevo provato a spiegarlo, anche allora, ma tu continuavi a non mostrare alcuna virtù, non c’erano prove, capisci, alla fine è stata soltanto colpa tua. Ma ora eccoci qua, no?
Lo ascoltavo in silenzio, ancora stordito, ma abbastanza lucido da capire che quest’uomo fosse fuori di testa. Parlava come se mi conoscesse, parlava del passato, ma che ne sapeva lui? Ero certo di non averlo mai visto prima. E trovavo rivoltante il suo modo di parlare e ogni parola che usciva dalla sua bocca violacea. Lui parve leggermi nel pensiero e rispose al mio disgusto con un sorriso ancora più largo. Socchiuse gli occhi e inclinò la testa nel guardarmi dall’alto in basso.
-Tu non hai idea di quello che sei davvero, non è così… Midorikawa? O dovrei chiamarti Ryuuji? O soggetto zero-tredici? È così che ti chiamavano allora, lo sai? Non puoi immaginare il mio stupore quando ho scoperto che eri sopravvissuto… Che eri vivo e vivevi sulla terra, come tutti, come un normale essere umano! Ma tu non sei come tutti. Un “mostro” non può vivere impunito tra gli “umani”. Non sai di cosa parlo, ma pian piano lo capirai. Recupererai tutti i tuoi ricordi perduti, te lo assicuro.
L’uomo si avvicinò al bordo del letto, infilò una mano nella tasca del camice e ne estrasse qualcosa velocemente. Vidi a stento luccicare l’ago nell’istante in cui me lo piantò nel braccio. Cacciai un urlo di sorpresa e dolore, e non riuscii a impedirgli di svuotare la siringa nella mia vena. Qualunque medicina mi avesse somministrato ebbe un effetto immediato, rendendo il mio corpo ancora più fiacco e intorpidito e conciliandomi il sonno. Nonostante davanti ai miei occhi stesse già calando nuovamente il buio, e il mio corpo non si muovesse come volevo, riuscii ad articolare alcune parole.
-Cosa… mi hai…?
-Purtroppo il tuo corpo ha sempre opposto resistenza a qualunque farmaco usassimo per tranquillizzarti o addormentarti. È colpa tua se sono costretto a somministrartene più dosi- mi rispose con falsa apprensione.
–Vedi, il problema è che mi servi privo di conoscenza, Ryuuji. Mi serve che liberi il tuo inconscio, che recuperi i tuoi ricordi il più in fretta possibile, cosicché potrai innescare il tuo potere. Questa volta riuscirò a scoprire tutto su di te e sul tuo dono, finanche come ricrearlo in laboratorio. Dopotutto, a che servirebbe avere questi "doni della natura"- lo disse in tono sarcastico, -se non li usassimo come armi? Lasciami svelare tutti i tuoi segreti!
Scoppiò a ridere. Non riuscivo a seguire il suo discorso, era solo follia. Persi i sensi.
 
 
Pioveva. Il viavai di macchine era continuo, un flusso infinito che copriva la visuale dal marciapiede dove ero seduto. Non sapevo quando o se qualcuno della casa famiglie sarebbe venuto a prendermi: un bambino inquieto, un bambino che scappa, un bambino senza passato è soltanto un peso. Nessuno di loro credeva che potessi avere un futuro, quindi per me esisteva soltanto il presente. Un’auto si fermò. Il mio sguardo cadde quasi istintivamente sul finestrino a me più vicino, vidi subito il bambino seduto sul sedile posteriore. Ci fissammo per un lungo momento, lui stupito, io divorato dalla gelosia. Avrei voluto essere al suo posto.
La portiera dell’auto si aprì e il bambino mi corse incontro sotto la pioggia fitta. 
-Stai bene? Cosa ti è successo?- mi chiese. 
-Niente- dissi, anche se volevo dire: tutto.
Lui si tolse la sua mantellina da pioggia e me la mise sul capo e sulle spalle. Mi irrigidii, non ero abituato a essere toccato, ma lui non parve accorgersene. Mi tese la sua mano. Lo guardai incredulo e sospettoso.
-Andiamo via da qui- disse. Vidi una donna, alle sue spalle, scendere dall’auto, probabilmente la sua mamma. Spostai lo sguardo dal bambino a lei, tentando di leggere le loro intenzioni. Dove volevano portarmi? E lei, era venuta a staccarmi da suo figlio? A rimproverarmi, forse. Il bambino si accorse, questa volta, della mia paura. 
-Non preoccuparti. Vogliamo solo aiutarti- mormorò, la sua voce appena udibile nel rumore della pioggia. La sua mano era ancora tesa verso di me, ma non furono le sue parole a farmi accettare. Fu il suo sguardo, curioso, vivo, ma anche pieno di dolcezza. Quando mi alzai in piedi, un po’ barcollante, la donna mi diede la sua mano per aiutarmi e mi sorrise teneramente. 
 
Cercai di riaprire gli occhi, ma era come se un velo mi avesse oscurato la vista. Il farmaco mi trascinò nuovamente nell'incoscienza e in un altro ricordo.
 
-Ehi, vuoi che ti aiuti ad asciugare i capelli, uhm…?- esclamò all’improvviso il bambino. -Ah, non mi hai ancora detto il tuo nome, non so come chiamarti. Come ti chiami?
Era la domanda più semplice del mondo, eppure mi spiazzò. Non riuscii a rispondere subito. 
Il bambino mi fissava, seduto sul bordo della vasca, e mi misi a contemplare la mia immagine nello specchio per evitare di guardarlo direttamente. Lui non si perse d’animo, oppure non capì che volevo evitarlo. Continuò imperterrito. 
–Io mi chiamo Kazemaru Ichirouta- offrì il suo nome, pensando che così sarebbe stato più facile. Non lo era. Il fatto che Kazemaru Ichirouta avesse un cognome rendeva ancora più evidente la differenza tra lui e me, tra ciò che lui aveva ed io no. Quella piccola crudeltà da parte sua non era stata fatta di proposito, semplicemente non poteva immaginarlo… 
-Ryuuji- mormorai infine. Fissai dritto negli occhi il mio riflesso nello specchio, riappropriandomi del mio nome, l’unico filo che mi legava al mio passato: un tentativo debole e disperato di affermarmi. E poi feci qualcosa che diede una svolta definitiva alla mia vita. Mi trasformai. Mi guardai allo specchio e mi inventai un altro nome. O meglio, un cognome che, decisi, sarebbe stato il mio futuro. 
–Midorikawa- dissi. –Il mio nome è Midorikawa Ryuuji.
 
Il mio passato. Il mio futuro. Tutto sembrava fondersi nel presente, un presente distorto e manipolato da qualcuno. Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui mi ero svegliato? Avevo perso ogni orientamento. L'uomo non c’era più. Ero ancora nella stessa stanza?
Il ritorno dei miei poteri aveva spalancato la porta dei miei ricordi, non solo quelli nascosti, ma anche gli altri, e insieme formavano una matassa confusa e frammentaria che non sapevo districare. O forse era stato il contrario: erano stati i miei ricordi a innescare i miei poteri? Per questo quell'uomo voleva che ricordassi? Non ne ero sicuro. Se fosse dipeso da me, avrei volentieri dimenticato ogni cosa. Avrei dato qualsiasi cosa pur di avere una vita normale, a costo della mia storia e del mio potere. Quel tizio era pazzo. Non c’era niente di bello in quel dono. Avevo paura di toccare qualsiasi cosa. Avevo paura delle persone.
Mi addormentai di nuovo e sognai ancora il mio primo incontro con Kazemaru. Questa volta, però, non appena la mia mano toccò la sua, Kazemaru e sua madre andarono in fumo davanti ai miei occhi. Vidi le loro figure sgretolarsi, annerirsi, diventare cenere. Come figurine di carta. Poi toccò alla macchina, al padre al volante, all’intera strada e infine alla ruota: ogni cosa venne assorbita.
Mi svegliai di scatto con sudori freddi e un urlo spezzato in gola.
-È solo un sogno- sussurrai, premendomi una mano sugli occhi. –Un sogno, non un ricordo. Un sogno, non un ricordo. Un sogno, solo un sogno…
Ma era difficile esserne sicuri.
 
 
xxx
 

 
Ero quasi sicuro che dovesse essere trascorsa almeno una settimana. Oscillavo costantemente tra sonno profondo, dormiveglia e ore di insonnia, perciò tenere il conto esatto dei giorni era impossibile, e comunque la mia mente era ormai stremata dai tentativi continui di distinguere sogni e ricordi, sogni e realtà, passato e presente. Tutti i miei sforzi erano per concentrarmi soltanto su una cosa: resistenza. Resistere. Mantenere quel tanto di lucidità sufficiente per non soccombere. Ogni tanto arrivava un medico, o un infermiere, o qualunque diavolo di cosa fossero. Mostri. Questo erano per me. Non li guardavo più come esseri umani. La cosa divertente era che era assolutamente reciproco: lo leggevo nei loro sguardi, cosa pensavano di me. Non mi importava più. Cominciavo a pensare che essere un mostro fosse il giusto prezzo per poter proteggere ciò che ami.
Se quella notte mi fossi trasformato in un mostro, l’avrei salvata.
Sorpreso da quella voce dentro di me, chiesi a me stesso: Chi?
Avrei salvato mia madre.  
Mia madre. Dapprima cercai di immaginarla, poi cominciai a ricordare ogni dettaglio... Aveva i capelli verdi come i miei, li legava sempre in una treccia, e i suoi occhi erano dello stesso colore. Le sue dita erano affusolate, prive di anelli di fidanzamento. Meglio di ogni altra cosa, ricordavo la sua voce piana, la voce di una persona che aveva paura di parlare a voce alta, perché troppo a lungo silenziata, la voce di qualcuno che sa che urlare non servirà a nulla, perché nessuno verrà. In quella gabbia, che allora era tutto il nostro mondo, c’eravamo solo noi due.
-Dai, andiamo insieme, tu ed io…- canticchiavo, steso sulla schiena, con un braccio sugli occhi chiusi e l’altro che penzolava dal bordo del letto.
 
-Dai, andiamo insieme, tu ed io…- canticchiava mia madre sotto voce, mentre con le dita mi spostava i capelli dalla fronte e mi baciava la tempia con delicatezza.
-Mamma- mormoravo, con voce assonnata, cercando di tenere gli occhi aperti. -Diventerò più forte, te lo prometto... Devo proteggerti...- E lei sorrideva con le lacrime agli occhi, e non smetteva di cantare...


Poi la scena davanti a me cambiò...

Eravamo in un luogo stretto, scuro e umido. La puzza era insopportabile, l'odore acre dell'acqua stagnante. Qualcuno mi teneva stretto per le braccia e, nonostante io scalciassi, mi dimenassi, piangessi, gridassi, non riuscivo a liberarmi. Poi di colpo il terreno venne a mancarmi da sotto i miei piedi e una raffica di vento freddo mi arrivò in faccia. Il mondo si capovolse. Sentivo il fruscio di acqua che scorreva. Non c’era altra luce che quella della luna.
Anche al di là del muro d’acqua che l’aveva sommersa, riuscivo a vedere le labbra di mia madre muoversi… ma non stava più cantando.
Un nome, stava gridando un nome. 

Ryuuji, il mio nome.
Lo sentivo distintamente, nonostante l’immagine di mia madre stesse svanendo rapidamente sotto le onde del fiumiciattolo olivastro. Sembrava disperata. Cercai di risponderle, ma la mia bocca e i miei polmoni si riempirono immediatamente d’acqua.

Sì, adesso ricordavo. Il dolore dell’impatto con l’acqua densa e gelida. Mia madre, che urlava il mio nome da qualche parte sopra di me. Non era lei ad affogare, ma io. Mi avevano gettato nel canale dell’acquedotto per liberarsi di me, come un vecchio oggetto che non serve più. Nell’oscurità e nel turbinio di quell’acqua lurida, nessun suono avrebbe potuto raggiungermi.
 
 
 
Mi morsi il braccio per strapparmi all’orrore di quella notte e per soffocare, allo stesso tempo, un urlo. Ero di nuovo confinato in una stanza, di nuovo prigioniero di quelle stesse persone. Scoppiai in un pianto silenzioso quando realizzai che non avrei mai potuto chiederle scusa. Mi girai su un fianco e mi rannicchiai su me stesso sulla branda, respirando con affanno.
 
 
 
Mi dispiace… Mamma, mi dispiace di non aver potuto rispondere, quando mi hai chiamato.

La prossima volta… Se qualcuno chiamerà ancora il mio nome, io…

Questa volta, io…
 
 




 

**Angolo dell'Autrice**
Ebbene, eccoci qui.
Questo è un capitolo molto pesante da digerire, me ne rendo conto. Mi dispiace. È stata dura anche per me scriverlo... ma questa è la storia di Midorikawa e andava raccontata, attraverso la sua voce. Spero di esserci riuscita. 
Non ho altro da dire sul capitolo, eccetto una cosetta.
Sono sicura che lo sappiate già, ma “Midorikawa” in giapponese significa “fiume verde” (suppongo sia per questo che l’adattamento europeo lo ha chiamato “Greenway”, visto che almeno per le prime tre serie di IE hanno puntato molto su una traduzione più o meno letterale dei cognomi giapponesi). Visto che il passato di Midorikawa è piuttosto incerto e lui non ne ha ricordo, ho deciso che aveva più senso per lui che s’inventasse il proprio cognome; in fondo, la madre lo chiama sempre e soltanto per nome e i ricordi di Midorikawa sono strettamente connessi a lei. Per lei Midorikawa era tutto il suo mondo, e viceversa. 
Al prossimo capitolo!
Un abbraccio,
                Roby
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Inazuma Eleven / Vai alla pagina dell'autore: Melabanana_