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Autore: BabaYagaIsBack    13/09/2019    0 recensioni
●Book I●
Aralyn e Arwen anelano alla libertà. Fin dall'alba dei tempi quelli come loro sono stati emarginati, sfruttati, ripudiati, ma adesso è giunto il momento di cambiare le cose, perché nessun licantropo ama sottomettersi, nessun uomo accetta la schiavitù. Armati di tenacia e coraggio, i fratelli Calhum compiono la più folle delle imprese, rubando a uno dei Clan più potenti d'Europa l'oggetto del loro potere. In una notte il destino di un'intera specie sembra cambiare, peccato che i Menalcan non siano disposti a farsi mettere i piedi in testa e, allora, lasciano a Joseph il compito di riappropriarsi del Pugnale di Fenrir - ma soprattutto di vendicarsi dell'affronto subìto.
Il Fato però si sa, non ama le cose semplici, così basta uno sguardo, un contatto, qualche frecciatina maliziosa e ogni cosa cambia forma, mettendo in dubbio qualsiasi dottrina.
Divisi tra il richiamo del sangue e l'assordante palpitare del cuore, Aralyn e Joseph si ritroveranno a dover compiere terribili scelte, mettendo a rischio ciò che di più importante hanno.
Genere: Fantasy, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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What is left unsaid

Arwen lanciò un'occhiata truce in direzione del proprio migliore amico. La tensione non era scemata per un solo momento da quando era arrivato, tendendo i nervi fino allo spasmo: sarebbe bastata una sola parola sbagliata per far scoppiare la rabbia che l'Alpha servava in sé. Nonostante Garrel fosse il suo più vecchio e caro compagno, il fatto che avesse abbandonato Aralyn lo rendeva un bersaglio.

Stringendo i pugni, l'albino s'impose di non perdere il controllo, cosa che vedeva ogni minuto sempre meno facile: «Era viva?» domandò, senza però curarsi del tono. Per quanto quella perdita potesse gravare anche sulle spalle dell'uomo sedutogli di fronte, Arwen non era intenzionato a cedere all'indulgenza: un fallimento restava tale, sia che fosse stato compiuto con premeditazione, sia che fosse avvenuto per puro caso.

L'altro annuì: «Lo erano entrambi, suppongo vogliano ottenere da loro informazioni»
«Una supposizione non mi è sufficiente» ringhiò di rimando, aumentando la pressione sulle mani. Poté avvertire con chiarezza le unghie infilarsi nei palmi e bucare la pelle.

Di quel passo si sarebbe riempito d'inutili ferite.

Garrel lo fulminò con lo sguardo. Non era per nulla preoccupato della possibile reazione del suo leader, ma piuttosto sembrava pronto a tenergli testa.
«Ma è tutto quello che abbiamo, Arwen» sottolineò con teatralità, infastidendo maggiormente l'altro che, per non perdere la testa, colpì con forza il tavolo a cui era seduto; ormai il suo studio era inagibile e, piuttosto che niente, si era dovuto accontentare della sala comune, conscio che al di là di qualsiasi porta o finestra vi fossero le orecchie ben attente dei suoi sottoposti. 
Nessuno voleva farsi sfuggire l'occasione di capire cosa fosse successo.

«Ed è per colpa tua se non c'è altro!» sbraitò con talmente tanta foga da far allungare i canini. Sentiva i nervi talmente tesi da essere sul punto di spezzarsi, così come avvertiva il chiaro desiderio di afferrare ancora un qualsiasi oggetto e distruggerlo.

L'uomo non retrocesse. In meno di qualche falcata si ritrovò faccia a faccia con il suo capoclan e, mostrando a sua volta i denti, gli tenne testa: «Lo so bene! So perfettamente che lei era una mia responsabilità» ammise, soffiando dal naso. «Ho dovuto scegliere, Arwen. Morire tutti o provare a salvare qualcuno» e seppur fosse stata la mossa giusta da fare, l'Alpha non riuscì a giustificare quella scelta. Il suo qualcuno equivaleva a nessuno, se sua sorella non era contemplata.

«Con lei c'era Josh... pensavo l'avrebbe salvata. Lo aveva già fatto... mi sono sbagliato»

A quelle parole Arwen sentì le viscere stringersi. Anche lui aveva fatto lo stesso ragionamento; anche lui aveva pensato di inserire il novellino nella squadra con il chiaro intento di proteggere ancora una volta la ragazza, peccato solo che non ci fosse riuscito, mandando ogni cosa in frantumi.

Si erano sbagliati in due.

Mordendosi la lingua, l'albino si volse verso una delle tante finestre da cui la luce stava cercando d'entrare senza badare al loro cattivo umore: «Io devo riprendermela» sussurrò poi, sentendo la necessità di fare qualcosa per smettere di sentirsi impotente: «Cinque giorni. È il tempo che impiegheremo per organizzare un'offensiva».

«Mi hai fatto chiamare?» chiese Kyle entrando nelle stanze di Joseph. Da quando era tornato alla Villa, il giorno precedente, non avevano ancora avuto modo di parlare e la cosa, a suo giudizio, non prometteva nulla di buono. Gli occhi ghiacciati del suo superiore sembrarono più severi di quanto non fossero mai stati e nel calare su di lui parvero portarsi dietro la stessa tempesta che imperversava sui possedimenti del clan.

Lentamente, temendo ciò che lo stava aspettando, l'uomo si avvicinò al ragazzo, studiandone ogni movimento o espressione. C'era qualcosa di strano in tutta quella situazione, così come nell'aria sembrava essersi impregnata un'insolita tensione.

L'erede di Douglas si appoggiò con la schiena all'enorme porta-finestra che dava sul giardino, fronteggiandolo totalmente: «Già... è stato impossibile vederti nelle ultime ventiquattr'ore» gli fece notare poi, continuando a scrutarlo mentre si faceva vicino.

«Ho avuto da fare» si giustificò Kyle che purtroppo, in mancanza del suo vero Signore, aveva dovuto sottostare agli ordini diretti dell'Alpha ancora in carica. Avrebbe di gran lunga preferito vedere Joseph, parlargli, fare domande su ciò che era successo in quei mesi di lontananza, ma non aveva potuto fuggire dai suoi doveri. Eppure, ora che finalmente si era ricongiunto con il proprio migliore amico, si rese conto di non volergli chiedere altro che il motivo di quello sguardo duro - perché certamente gli stava nascondendo qualcosa.

«Sì, lo so. Hai incontrato la mia prigioniera» con un sospiro il ragazzo si staccò dal vetro, ritornando poi a guardare l'orizzonte grigio al di là della finestra: «Cosa ti ha detto?» domandò dopo alcuni istanti di totale silenzio, quasi avesse avuto bisogno di soppesare le proprie parole. 
Nel suo tono, notò l'uomo, vi era una freddezza forzata, quasi quell'argomento fosse per lui fonte di turbamento - e fu inevitabile per Kyle domandarsene il perchè.

Riluttante, prese posto su una delle sedie non troppo distanti dal punto in cui si trovava l'altro, in modo da poterlo scrutare meglio.

«A parte la variopinta varietà d'insulti? Nulla...» ammise: «nemmeno dopo qualche percossa» e nel dirlo spostò lo sguardo sulle nocche arrossate, lascito dei pugni che le aveva tirato nel tentativo di convincerla a parlare. Effettivamente, nonostante le lacrime e le grida di dolore, l'Impura non aveva dato alcun segno di cedimento. La sua fedeltà nei confronti del fratello e del Duca sembravano essere più salde di quanto ci si sarebbe aspettato da una ragazzetta del suo calibro.

«Non ti ha fatto domande?»
«Avrebbe dovuto?» più confuso che mai, Kyle alzò gli occhi sull'amico, trovandolo ora rivolto nella sua direzione, intento a scrutargli le mani. Persino senza sforzarsi, scoprì nell'espressione di Joseph un velo di puro odio. Sembrava detestare con tutto se stesso ciò che lui, galoppino del branco e di Douglas in persona, aveva dovuto fare a quella ragazza.

Perché?

Corrugando le sopracciglia si protese in avanti: «Devo essere messo al corrente di qualcosa?» chiese, convincendosi sempre più che ci fossero in ballo verità non dette in quella situazione. Eppure, in tutti gli anni che avevano passato al fianco l'uno dell'altro, tra loro non vi erano mai stati segreti - ogni cosa, dalla più eclatante alla meno conosciuta, era stata condivisa. Ma adesso, a differenza di qualsiasi altra occasione passata, qualcosa era evidentemente cambiato.

Ancora una volta il silenzio calò nella stanza, portando con sé più incertezze di prima; se il più maturo dei due non sapeva cosa aspettarsi, l'altro, probabilmente, cosa dire.

Che il giovane Menalcan avesse smesso di fidarsi di lui? No, impossibile. Non una sola volta lo aveva tradito, men che meno pensato di farlo. Nemmeno in un'occasione aveva preferito ubbidire ad altri invece che a lui. Più e più volte gli aveva offerto la propria vita senza alcuna esitazione, quindi perché tagliarlo fuori a quel modo e dopo ciò che aveva portato a termine? Cosa era accaduto nei mesi che avevano trascorso lontani?

Joseph si tirò indietro i capelli scuri, sospirando: «No» gli rispose poi, socchiudendo appena gli occhi. La frustrazione che lo stava corrodendo dentro era palpabile, per un momento Kyle parve sentirla un po' sua; ma fu questione di un istante, perché subito dopo lo vide scuotere la testa, dissipando in lui quella sensazione: «Non ora, quantomeno» aggiunse, riaprendo gli occhi sul panorama degli ettari verdi della Villa.

«Joseph, se è successo qualco-» provò a esortarlo, venendo però interrotto bruscamente.
«Te ne prego. Finiamola qui» gli chiese l'altro, lanciandogli la stessa occhiata severa con cui lo aveva accolto. Le iridi del ragazzo parvero trafiggergli la pelle al pari di stalattiti cadute al suolo e, con indiscutibile certezza, l'uomo capì che c'era davvero qualcosa d'impronunciabile a tormentare l'animo del suo Signore.

E lui avrebbe scoperto cosa, a qualsiasi costo.

Fuori dalla cella della prigioniera, Kyle si domandò se fosse corretto trovarsi lì. In qualche angolo recondito di sé sapeva di potersi recare da lei solo per estorcerle delle informazioni, ma era anche conscio che se voleva risposte, doveva provare a ottenerle anche dall'ultima persona pensabile. Così, stando attento a non farsi notare da nessuno, era sceso nuovamente nelle segrete di Villa Menalcan, spingendosi sino a quel punto.

Circospetto allungò una mano verso i chiavistelli che, a causa della ruggine, dovette girare lentamente, in modo da non produrre eccessivo rumore. Seppur fosse un membro d'alto rango del clan, non poteva permettersi di essere trovato in quel luogo all'infuori dei momenti in cui Douglas, Gabriel o Joseph gli ordinavano di presentarsi - le sue azioni sarebbero potute essere interpretate in qualsiasi maniera, persino nella peggiore, affibbiandogli l'appellativo di traditore.

Appena la serratura si sbloccò, l'uomo aprì l'anta, infilandosi nella cella e richiudendosi la porta alle spalle. Premuto contro il legno malconcio della soglia, attese in silenzio che qualche rumore gli giungesse alle orecchie, ma quando fu solo il silenzio a presentarsi, capì di averla fatta franca - per il momento.

Svelto fece saettare lo sguardo sulla figura di fronte a sé, ora rannicchiata in un chiaro gesto difensivo. Quella che si palesò innanzi ai suoi occhi fu una scena pietosa: la sorella del grande Arwen altro non era se non una bambina spaventata.

Con le gambe piene di lividi strette al petto e le braccia rovinate dall'argento presente nelle catene che la tenevano legata a terra, dava l'impressione di essere sul punto di morire. L'avevano massacrata nel giro di poco; un po' lui, con i cazzotti che le aveva dato in mattinata, un po' Gabriel quando l'aveva fatta trascinare nel furgone - e lì, mentre i suoi uomini l'imbottivano di sedativo, chissà quale altre atrocità aveva dovuto subire.

Kyle le si avvicinò lentamente, ma non vedendola reagire in alcun modo si domandò se, alla fine, non fosse morta veramente. Con la punta della scarpa le picchiettò il fianco, provando così a capire se potesse in qualche modo essergli d'aiuto. La colpì un paio di volte, finché, del tutto inaspettatamente, la ragazza non provò ad azzannargli la gamba con le fauci da lupo. I suoi canini si erano pericolosamente allungati, mentre i connotati del viso avevano preso una forma più ferina.

Con un sobbalzo le si allontanò: «Quindi hai ancora la forza per ribellarti» le disse, arretrando il necessario per poterla osservare nella sua interezza. L'Impura avrebbe potuto provare un nuovo attacco, ma da quella distanza, si assicurò l'uomo, non avrebbe ottenuto alcun risultato.

Ringhiando, la prigioniera tornò a rannicchiarsi: «Ne avrò fino al momento in cui non mi taglierete la gola» rispose poi, nascondendo in parte il viso. Non sembrava affatto disposta ad avere una normale e tranquilla conversazione con lui, ma questo a Kyle importò poco: ciò che davvero gli interessava era riuscire a carpire qualche indizio che potesse rivelargli il motivo del malumore di Joseph - e persino a suon di guaiti e ululati avrebbe potuto ottenere qualcosa.

«Potrebbe volerci un po'» sorridendole incrociò le braccia al petto, preparandosi a dover far fronte a un lungo ed estenuante scambio, esattamente come era accaduto qualche ora prima.

«Hai un nome?» le chiese dopo alcuni secondi. Nonostante sapesse quali fossero le sue origini, né Douglas, né Gabriel, l'avevano mai chiamata per nome, preferendo piuttosto riferirsi a lei con qualche termine dispregiativo: bastarda, meticcia, cagna o sgualdrina. Ma come biasimarli? Per la loro mentalità, e quella di buona parte del branco, gli Impuri erano alla stregua del letame; persino un umano aveva più dignità di loro.

La ragazza soffiò dal naso, stringendosi le ginocchia al petto. Ogni suo gesto parve dire con chiarezza che non gli avrebbe dato alcuna risposta; da qualche parte però, doveva pur iniziare la loro conversazione.

«Okay, visto che non me lo vuoi dire, ti chiamerò signorina Calhum» e, a quella sottospecie di battuta, la giovane reagì. Forse, si disse Kyle, sentir pronunciare il proprio cognome da un lurido nemico generava in lei abbastanza fastidio da farle cambiare idea - dopotutto era come se in parte si stesse riferendo anche ad Arwen, usando quel nominativo.

«Non azzardarti!»
«Dammi una risposta, allora, anche perché mi basta chiedere a qualcuno dei miei superiori per scoprirlo» l'incitò con tono duro, senza farsi vedere in alcun modo colpito dalla sua reazione.

L'Impura si morse le labbra, probabilmente capendo che in ogni caso erano i Menalcan ad avere il coltello dalla parte del manico.
«Aralyn» sussurrò poi, faticando a pronunciare il proprio nome. Doveva costarle non poco ubbidire alle sue richieste, sia che queste fossero di grande o di piccola entità.

«Perfetto, Aralyn. Ora che ne pensi di parlare un po' con me?»

Con sguardo schifato, la ragazza provò a dimostrargli quanto quell'approccio non avrebbe portato ad alcun tipo di risultato - non che ci avesse sperato, comunque.
Solo quella mattina, per farle pronunciare qualche insulto del tutto privo di utilità, era dovuto ricorrere alle maniere forti, colpendola più e più volte nella speranza che l'illusione di vederlo smettere li avrebbe condotti da qualche parte: confidare nel fatto che ora gli rispondesse senza fare alcuna resistenza era pressoché ridicolo.

«Ammazzami, piuttosto»

Fu impossibile per il Menalcan trattenere uno sbuffo: «Forse ne avrò modo, più avanti. Devo ancora vendicarmi del fatto che hai rovinato uno dei miei abiti preferiti» teatralmente abbassò gli occhi sulla giacca che stava indossando, immaginando al suo posto il meraviglioso panno Casentino a cui aveva dovuto dire addio dopo il loro primo incontro.

«Usque ad finem. Non tradirò mai il mio clan» un nuovo ringhio le uscì dalla gola, questa volta più gutturale. Si stava aggrappando alle promesse fatte al Duca, ma anche all'appartenenza al proprio Alpha; cercava di resistere riportando alla mente ciò che aveva di più caro, esattamente come ogni prigioniero - ma a lui non importava nulla, in quel momento, del suo clan: Arwen poteva benissimo restarsene dov'era.

Kyle si avvicinò a una delle umide pareti che componevano la cella e, senza staccarle gli occhi di dosso, sorrise: «Non dubito che tu sia un tipo difficile da convincere, ma se fossi qui per altro?» e a quella domanda, sul viso di Aralyn si andò a disegnare un'espressione confusa.
Sicuramente si stava chiedendo quale altro tipo d'informazione potesse volere uno come lui da lei, oppure se la stesse prendendo in giro o meno; in fin dei conti tutto poteva essere possibile - agli aguzzini piaceva sempre giocare con le vittime.

Immaginando qualche terribile scenario, l'Impura aumentò la stretta sulle proprie gambe, irrigidendosi. Con grande probabilità, la sua mente doveva averla portata a pensare a uno stupro, cosa che, a essere sinceri, lui non avrebbe mai commesso. Per quanto amasse i corpi delle donne e la sensazione di assoluto potere che poteva dargli una scopata, l'ultimo dei suoi desideri era quello di violare una cosetta sporca e del tutto indifesa come era lei ora.

«Altro?» la sentì sibilare. Vi era talmente tanta preoccupazione nella sua voce che, per poco, non fu sopraffatto da un nuovo moto di pietà.

Prendendo in mano la motivazione che lo aveva spinto sin lì, Kyle si decise a mettere fine ai vari convenevoli: «Joseph».

Appena Aralyn udì quel nome sentì la gola seccarsi, mentre il cuore prese a batterle forte nel petto. Avvertì i palpiti farsi intensi, tanto che per un istante temette le potessero spezzare le ossa della gabbia toracica uccidendola sul colpo, ma provò comunque a mantenere una sorta di contegno.
Che c'entrava Joseph Menalcan, ora? Per quale stupida ragione lo aveva dovuto citare?

Quel tizio non aveva neppure idea di quanto quelle sei lettere potessero graffiarle l'anima al pari delle belve che erano; non s'immaginava nemmeno quale forma di tortura fosse associare quel nome al viso del ragazzo che aveva iniziato ad amare.

Gli occhi presero nuovamente a bruciarle e seppe con certezza che portare alla mente anche un singolo ricordo che aveva condiviso con lui sarebbe equivalso a spezzare l'armatura che era stata costretta a indossare in quell'occasione.

Si morse il labbro, tanto d'avvertire il sapore del sangue pizzicarle la lingua. 
Cosa avrebbe dovuto dire?

«Feccia»
Traditore, la corresse la mente, ma non poteva certo ammettere di essersi totalmente fidata di lui, arrivando persino a innamorarsene ed essere stata tanto sciocca da venir fregata.

Kyle parve non convincersi: «Joseph Menalcan» ripeté ancora, questa volta con più fermezza. 
E per Aralyn fu un pugno dritto sulla bocca dello stomaco. La nausea l'investì con talmente tanta forza che credette di essere sul punto di vomitare persino le interiora.

Joseph Menalcan, non Josh, si ricordò.

Il nemico, non il licantropo che le aveva confessato i propri sentimenti. Non la persona che aveva tessuto una così fitta rete di menzogne da catturarla al pari di uno stupido insetto.

«Infame» rispose ancora, aggrappandosi a ogni pensiero negativo che l'aveva assalita per tutto il tempo che era stata rinchiusa in quella cella. Doveva trovare la forza per respingere il dolore, per riconoscerlo e odiarlo come era giusto che fosse - peccato solo che ogni sforzo sembrava essere vano, che si sentisse debole di fronte alle proprie emozioni.

Lui era il licantropo che aveva ferito suo fratello, la persona che lei aveva giurato di ammazzare per vendicare l'onore di Arwen - ma riusciva davvero a detestarlo con ogni fibra del proprio essere?

«Joseph Menalcan, l'uomo che si è infiltrato tra di voi» insistette Kyle, incapace di trovare soddisfazione nelle parole che Aralyn si costringeva a dire.

Joseph era l'assassino.
Il mostro.
La minaccia.
Il bastardo che le aveva spezzato il cuore.
L'aberrante erede di Douglas.
Lui era il male, l'eresia, il tradimento.
Era la rinuncia, il rimpianto.
Falso.
Meschino.
Egoista.
Sadico.

«Mi ha mentito! Bugiardo!» gridò infine, facendosi sopraffare dai sentimenti. Rendendosi conto del danno che si era appena auto-inflitta, si prese la bocca tra le mani, cercando di catturare nuovamente quella confessione e impedirle di giungere alle orecchie di Kyle - ma ormai era tardi, ciò che aveva detto non poteva più tornare indietro e, quando alzò lo sguardo su quell'uomo, capì la gravità di quello che aveva fatto.

Gli occhi grigi del mannaro si fecero grandi di stupore e le braccia strette al petto si allentarono. Aveva capito.

   
 
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