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Autore: heliodor    17/10/2019    1 recensioni
Joyce è nata senza poteri in un mondo dove la stregoneria regna sovrana. Figlia di potenti stregoni, è cresciuta al riparo dai pericoli del mondo esterno, sognando l'avventura della sua vita tra principi valorosi e duelli magici.
Quando scoppia la guerra contro l'arcistregone Malag, Joyce prende una decisione: imparerà la magia proibita per seguire il suo destino, anche se questo potrebbe costarle la vita...
Tra guerre, tradimenti, amori cortesi e duelli magici Joyce forgerà il suo destino e quello di un intero mondo.
Fate un bel respiro, rilassatevi e gettatevi a capofitto nell'avventura più fitta. Joyce vi terrà compagnia a lungo su queste pagine.
Buona lettura!
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di Anaterra'
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Denti
 
L’acqua sfrecciava sotto di lei a velocità impossibile. Non aveva mai volato così veloce, a parte forse quando si era battuta con gli alfar contro l’armata di Rancey. Allora era inseguita da un’aquila gigante che voleva farla a pezzi.
Davvero ho fatto una sciocchezza del genere? Si chiese mentre sorvolava le piccole increspature del lago.
Joane era stata abile a convincerla o l’aveva voluto lei? In quel momento era stata certa di aver scelto di andare, ma pensandoci meglio non era andata proprio così.
Dannata Joane, pensò. In che guaio mi hai messa? Sbaglio o l’acqua è più vicina? Si chiese subito dopo.
Nel momento in cui aveva saltato aveva scelto un posto rialzato di qualche passo e si era diretta verso l’alto. Era la scelta migliore.
La levitazione non era un vero volo. La magia la sosteneva in aria, ma a mano a mano che perdeva forza si abbassava. Era come lottare contro una corda invisibile che cercava di tenerla legata al suolo.
Recitando ogni tanto la formula giusta poteva contrastare la forza della corda invisibile, ma senza una spinta iniziale verso l’alto non avrebbe mai spiccato il volo.
Quella volta aveva anche spinto in orizzontale per spostarsi verso la piattaforma, posto che esistesse davvero. Galef e Caldar giuravano di sì.
Si fidava di suo fratello e anche della guida, ma avrebbe preferito vedere con i suoi occhi. Almeno avrebbe saputo se stesse andando nella direzione giusta.
Mi sto abbassando? Si chiese muovendo la testa di lato.
L’acqua le sembrava più vicina rispetto a qualche minuto prima. La levitazione non si interrompeva all’improvviso come gli altri incantesimi, anche se recitava la formula che l’annullava.
Prima avrebbe rallentato.
La sua immagine distorta si rifletteva nell’acqua. Poteva usarla per capire se stesse scendendo o meno e a quale velocità.
Fissò il suo profilo per qualche secondo, in modo che si imprimesse sulla retina. Chiuse gli occhi e contò fino a trenta, per poi riaprirli all’improvviso.
Se si era abbassata, la forma che aveva ancora impressa sarebbe stata più piccola di quella riflessa nell’acqua.
Non notò alcuna differenza, solo una leggera sfumatura sui bordi.
Non funziona, si disse. Devo trovare un altro modo.
Ma prima ancora che potesse finire quel pensiero, notò il leggero ribollire dell’acqua proprio nei pressi della sua immagine riflessa.
Socchiuse gli occhi e li vide.
Decine, forse centinaia di piccoli pesci che nuotavano appena sotto il pelo dell’acqua. Erano gli stessi che avevano attaccato Galef, non aveva alcun dubbio.
Poteva immaginare i loro piccoli e affilati denti con i quali si preparavano ad assaggiare la sua carne. Scacciò dalla mente quel pensiero.
Concentrate, si disse.
Prima di partire Joane le aveva suggerito una strategia.
“Se sei costretta a entrare in acqua, usa la pelle di quercia” le aveva detto. “Hai capito?”
“Sì. So come si usa.”
Galef aveva scosso la testa. “È inutile. I denti di quei mostri sono capaci di penetrare anche la pelle indurita da un incantesimo.”
“In ogni caso” aveva risposto Joane. “Gli renderai la vita difficile.”
“Meglio se risparmia le forze per nuotare veloce. Hai un incantesimo che ti permetta di respirare sott’acqua?” le aveva chiesto suo fratello.
Nemmeno sapeva che ne esistesse uno. Scosse la testa.
“Peccato. Conoscevo uno stregone che sapeva usarlo. È molto raro.”
“Potrebbe usare lo scudo magico” aveva suggerito Biqin. “È così che lo chiamate, no?”
“Sarebbe inutile contro quelle bestiacce” aveva risposto Bardhian. “Lo scudo non respinge le creature viventi, ma solo gli attacchi magici e a volte quelli fisici.”
“E non è saggio cercare di usarlo in acqua” aveva aggiunto Joane. “Usa la pelle di quercia. È la tua unica possibilità.”
“Nuota velocemente” aveva detto Galef. “Può dipendere tutto da questo.”
Tra poco lo scoprirò, si disse Joyce.
Ora riusciva a sentire gli spruzzi d’acqua sul viso.
Sì, mi sto abbassando, pensò. E anche in fretta.
Il ribollio sotto di lei divenne frenetico. I pesci guizzavano verso l’alto, le piccole bocche rotonde irte di denti spalancate. Quando la richiudevano di scatto sentiva lo schiocco dei denti che mordevano l’aria.
Ben presto il ticchettio delle mandibole divenne un sottofondo assordante.
Dannate bestiacce, si disse. Lasciatemi in pace.
Pensò alla formula del raggio magico e lo scagliò contro i pesci. La lancia di energia penetrò l’acqua tagliando in due sul suo percorso una decina di pesci. Gli altri si dispersero in un attimo.
Joyce sospirò.
Bastava così poco a metterli in fuga? Si chiese.
I pesci tornarono a riunirsi sotto di lei e il ribollio riprese insieme al ticchettio delle mandibole.
Ce ne sono anche di più, pensò sgomenta.
L’attacco col raggio magico sembrava averli resi ancora più furiosi.
Sono arrabbiati, pensò. Anche io lo sono.
Mentre sfrecciava a un palmo di mano dall’acqua, i pesci sei erano fatti ancora più audaci, saltando più in alto per cercare di morderla.
Un paio di aggrapparono al tessuto dei pantaloni, strappandolo. Joyce se li scrollò di dosso con una manata decisa.
Non sta andando bene, si disse.
Guardò in Avanti, dove una striscia grigia e piatta si estendeva sopra l’acqua.
La piattaforma, pensò. Esiste davvero.
Non era a più di cento passi.
Quante bracciate servono per arrivarci? Si chiese.
Galef aveva tentato di insegnarle a stare in acqua, ma lei preferiva bagnarsi appena quando faceva caldo. Mentre si abbassava sentì il cuore martellarle nel petto.
Un attimo prima dell’impatto, pensò alla formula della pelle di pietra e poi a quella dello scudo magico. La bolla di energia tenne lontana l’acqua nel momento in cui vi si tuffò. Allo stesso tempo, cominciò ad affondare.
Annullò lo scudo magico e si mise a sbracciare frenetica per raggiungere la superficie. I pesci le furono subito addosso, circondandola.
Joyce guadagnò la superficie e inalò una lunga boccata d’aria. I pesci la circondarono e si lanciarono verso di lei.
Piccole bocche aguzze si piantarono sui suoi vestiti e su ogni punto scoperto. All’inizio le sentì appena, come piccole punture fastidiose ma non dolorose.
Se ne scrollò di dosso qualcuno e prese a nuotare.
Il ribollio dell’acqua attorno a lei crebbe d’intensità a mano a mano che avanzava. Sembrava che i suoi sforzi stessero richiamando altri di quei mostri.
In breve ne fu circondata al punto da nuotare attraverso un mare di piccoli pesci dal corpo argenteo che si lanciavano contro di lei con la bocca spalancata.
I morsi si fecero più dolorosi all’improvviso. Il pensiero che le stessero strappando la pelle un lembo alla volta la travolse, gettandola nel panico.
Annaspò tra i flutti cercando un appiglio che non poteva trovare.
Quanto è lontana la piattaforma? Si chiese in uno sprazzo di lucidità. Ormai non deve essere lontana.
Evocò una nuova pelle di pietra che ridusse il dolore e rese più difficile il lavoro dei piccoli mostri che stavano cercando di mangiarla viva.
Voltando la testa a destra e sinistra intravide la piattaforma, una striscia grigiastra in mezzo alla plumbea piattezza dell’acqua.
Non è lontana, si disse per farsi coraggio. Solo dieci o venti bracciate.
Nuotò ignorando il dolore intenso che sentiva alle braccia e alle gambe, le parti del corpo su cui i denti affilati si erano accaniti di più.
Il branco di pesci reagiva ai suoi sforzi cercando di trattenerla sul posto. Altri si erano agganciati ai pantaloni formando diverse file.
Il loro peso combinato la rallentava e la faceva affondare a ogni bracciata.
Cercano di mandarmi a fondo, si disse sgomenta. Vogliono affogarmi e poi mangiarmi con calma.
La sola idea di affogare ed essere mangiata viva le diede la forza di percorrere la distanza che la separava dalla piattaforma. Cinque o sei bracciate e toccò qualcosa di solido, simile a roccia. Con un ultimo sforzo si issò sopra la piattaforma, trascinandosi dietro un centinaio di quelle bestiacce.
Fuori dall’acqua continuarono a morderla. Joyce se li scrollò di dosso colpendoli con le mani e scuotendo le gambe frenetica.
I piccoli mostri dai denti affilati si staccarono portandosi dietro lembi di tessuto e di pelle dove erano riusciti a penetrare l’incantesimo di protezione.
Joyce si trascinò lontana dall’acqua, terrorizzata dal pensiero che in qualche modo potessero balzarle addosso anche da lì, spostandosi verso il centro della piattaforma.
Esausta e sanguinante si abbandonò, le forze che le mancarono all’improvviso.
 
Quando si sentì abbastanza forte da rialzarsi, si mise a sedere con le gambe incrociate. Per prima cosa esaminò gambe e braccia per vedere se avesse delle ferite.
La camicia e i pantaloni erano pieni di buchi e imbrattate di sangue che si era rappreso in piccole macchie circolari. Le ferite sottostanti erano più simili a graffi e solo un paio erano così profonde da sanguinare ancora.
La pelle di pietra aveva fatto il suo dovere, anche se non era bastata a fermare del tutto i denti di quelle creature.
Solo il potere della stregoneria poteva penetrare la pelle di pietra o una spada molto pesante e affilata nelle mani giuste.
I denti di quelle bestiacce erano troppo piccoli per fare un danno simile.
O no? si chiese. Forse usano anche loro qualche stregoneria.
Il pensiero che dei mostri usassero il potere era al tempo stesso bizzarro e inquietante. Aveva visto animali e mostri trasformati dal potere, ma lì in giro non vedeva uno stregone che potesse mutare quei pesci negli assassini che erano.
Sono nati così, si disse. Da chissà quanto tempo. Non c’è altra spiegazione.
Mise da parte i dubbi sui pesci assassini e si guardò attorno. La piattaforma sorgeva al centro dell’acqua. Era ampia una ventina di passi in ogni direzione e sembrava fatta di solida roccia di colore grigio, non diversa da quella del resto della grotta.
C’era altra acqua attorno a lei che proseguiva fino alla parete della grotta. Da qui si innalzava fino al soffitto, formando la cupola che racchiudeva quel piccolo mondo sotterraneo.
Non c’era altro.
Nessuna uscita, nessuna scala e nemmeno un cunicolo che la portasse altrove.
Era finita su di uno scoglio in mezzo a un mare infestato da creature mortali.
“E ora come torno indietro?” si chiese ad alta voce guardando la riva che si era lasciata alle spalle.
Misurò la piattaforma a grandi passi. Ne contò venti nella direzione della riva e quindici nell’altra.
Non bastano, si disse.
Nel volo precedente aveva usato più di cento passi per la rincorsa. Con venti non sarebbe arrivata abbastanza lontana.
L’idea di inabissarsi a metà strada, mentre i pesci la facevano a brandelli le provocò un brivido di terrore lungo la schiena.
Devo trovare il modo di andarmene o morirò su questo scoglio.
Passò due ore a pensare a come riuscirci, scartando una per una le idee che le vennero in mente. A parte la levitazione, non trovò un altro modo per andarsene.
Anche usando la forza aumentata lo slancio non sarebbe stato sufficiente. Le serviva una superficie solida per poter prendere la rincorsa. Senza di quella era perduta lì sopra, come una naufraga sullo scoglio.
Non voleva arrendersi. Una parte di sé era certa che, non vedendola tornare, Joane e gli altri avrebbero trovato il modo di salvarla.
Forse non proprio Joane, che sembrava interessata solo a sé stessa. E nemmeno Bardhian, che aveva battuto a duello barando e ce l’aveva ancora con lei. Forse Halux, che aveva costretto a venire fin lì quando poteva restarsene al sicuro con gli urgar. Caldar e i due eruditi non sembravano capaci di tanto.
Le restava solo Galef, che non avrebbe esitato un istante a correre in soccorso della sua sorellina. Peccato non avesse idea di chi fosse Sibyl.
Nessuno verrà ad aiutarmi, si disse. E se lo faranno, moriranno nel tentativo, divorati da quei maledetti pesci dai denti affilati. Dovrò salvarmi da sola.
Non era la prima volta che si trovava in trappola. Era successo nel deserto di fuoco, nel santuario di Lotayne e a Malinor quando i colossi avevano attaccato la città.
Era sopravvissuta tutte le volte, in qualche modo.
Si distese sulla schiena per pensare e riposare. Si sentiva stanca e per volare più veloce non aveva portato acqua e cibo.
Non osava bere quella del lago né provare a catturare uno di quei maledetti pesci. Se erano così pericolosi da vivi, potevano esserlo anche da morti.
Devo trovare un’uscita, si disse. Un’uscita che mi porti lontana da qui.
I suoi occhi vagarono sul soffitto della grotta, immerso nella penombra appena rischiarata da piccole fontane di luce che piovevano dall’alto.
Luce, si disse. Da dove viene?
Pensò alla formula della vista speciale. La grotta sparì e al suo posto apparve la copia distorta di un firmamento. Un manto oscuro punteggiato da minuscole fiammelle simili a stelle che brillavano nel cielo.
Solo che quelle non erano stelle, ma fori scavati nella roccia. E la luce veniva da qualche parte passando attraverso quei fori.
Forse ho visto nella direzione sbagliata, pensò. Forse ho cercato l’uscita dove una maga suprema non l’avrebbe mai posizionata. Magari Urazma sapeva anche volare e usava quei condotti per uscire o entrare nella grotta.
Si alzò di scatto, piena di nuovo vigore.
Scelse con cura uno di quei fori. Era proprio sopra lo scoglio. Era la scelta più semplice che potesse fare. Mormorò la formula della forza straordinaria e, dopo aver piegato le gambe, si diede una spinta decisa verso l’alto mentre pensava alla formula della levitazione.
La salita fu rapida e stavolta senza ostacoli. Non doveva tener conto dell’inclinazione per andare più lontana, il foro che voleva raggiungere era in alto, ma non così tanto da richiedere più di qualche minuto di volo.
Poco prima di raggiungerlo annullò la vista speciale. I bordi frastagliati del condotto le apparvero in modo nitido. Fu come entrare nella bocca spalancata di una creatura gigantesca.
Si ritrovò a volare attraverso il condotto, le pareti che si restringevano sempre di più. La roccia sfrecciava a velocità tale che anche un minimo contatto avrebbe potuto ferirla, ma non ne aveva paura. Con la pelle di pietra poteva evitare ferite serie e concentrarsi su dove stava andando.
Prima o poi la spinta della levitazione sarebbe finita e avrebbe iniziato una lenta discesa. Per quel momento sperava di trovare un appiglio.
Vide uno sperone di roccia protendersi nel vuoto e seppe che era quello il suo obiettivo. Allungò le braccia, pronta ad aggrapparsi con tutte le sue forze per rallentare l’ascesa.
Come aveva previsto, l’impatto fu violento ma per niente dannoso. La forza aumentata le permise di afferrare la roccia con una presa salda mentre la pelle di pietra la difese dai danni che un simile impatto le avrebbe procurato.
Con una mossa goffa ruotò attorno alla pietra facendo aderire i piedi alla superficie e si issò oltre il bordo. Con un’ultima spinta fu al di là della pietra, su di un punto abbastanza piatto dove poteva restare sdraiata, se lo avesse voluto.
Ce l’ho fatta, si disse trionfante.
Poi udì un urlo che la fece sussultare e qualcosa di enorme l’afferrò per la vita.

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