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Autore: NPC_Stories    23/10/2019    3 recensioni
Collezione di oneshot fantasy a tema "fairy", come indicato nella lista di Inktober che io e la mia affezionata illustratrice Erika abbiamo scelto (no, non Erika la webmaster, un'altra Erika). Io scrivo, lei disegna... speriamo di tenere il passo!
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Alcune di queste storie saranno ambientate nel nostro mondo, alcune altre nell'ambientazione del fandom in cui sono più attiva, Forgotten Realms, e altre ancora saranno ambientate in mondi di mia creazione o di fantasy generico, o parodistico.
Alcune di queste storie vi faranno ridere (spero), altre vi faranno piangere (mh, forse sto esagerando), ma in ogni caso mi auguro che tutte vi piacciano.
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Che la vostra vita possa essere piena di momenti di piccola meraviglia!
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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23. Black Blood


Sotto-genere: lore
Ambientazione: Forgotten Realms
Nota: sequel di 11. Crown


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Se c’era una cosa che Boklop non aveva mai capito degli umani, era la loro logica assurda e insensata.
Da quando avevano iniziato a considerarlo un dio, l’antico folletto si era ritrovato oggetto di venerazione attraverso i canali più strani.
Gli umani che vivevano in quella regione del Chult gli avevano costruito un tempio. A lui, che odiava restare più di un anno nello stesso posto. Aveva insegnato a quella gente l’importanza di spostarsi continuamente per trovare nuovi territori e nuove prede, e per offrire il fianco ai predatori il meno possibile. Aveva insegnato loro la necessità di conoscere il proprio territorio palmo a palmo. E loro gli avevano dedicato una chiesa, una struttura fissa che costringeva l’intera popolazione a limitare il proprio territorio di caccia, visto che avevano questa stupida idea di fare visita a quel luogo sacro almeno una volta l’anno.
Poi erano cominciati i sacrifici di sangue.
Boklop non aveva mai chiesto sacrifici di sangue. Per fortuna si trattava ancora di una cosa di buonsenso: i suoi seguaci umani catturavano una preda, la uccidevano e offrivano a lui il sangue, ma poi la carne veniva consumata da tutta la tribù. Era un modo di ottimizzare le risorse sul piano fisico e metafisico, in un certo senso, come prendere due piccioni con una fava. Boklop non se ne faceva niente del sangue di animale, non capiva il senso della cosa, ma non era nemmeno contrario a quella pratica.

Il punto in realtà non era il sangue. Boklop lo capì quando i suoi fedeli riuscirono per la prima volta ad abbattere un deinonico, un dinosauro astuto che d’abitudine caccia in branco.
Il sacrificio di quel pericoloso predatore rese davvero più forte il legame fra Boklop e i suoi seguaci, e in minima parte il dio percepì che l’uccisione aveva rinfocolato il suo potere divino.
Non era il sangue in sé, in quel momento lo capì chiaramente: era l’entità della preda.
Aveva insegnato ai suoi umani ad essere astuti e letali, e loro avevano dimostrato di essere degni allievi. Più la preda era intelligente e scaltra, più il sacrificio avrebbe dato potere a Boklop.
Da quel giorno, il grasso dio-folletto accettò con grande piacere i sacrifici dei suoi piccoli seguaci umani. E loro ottennero sempre più vantaggi e insegnamenti grazie alla benevolenza del loro piccolo dio.
Sembrava un perfetto rapporto di simbiosi destinato a durare in eterno, ma gli umani ad un certo punto cominciarono a diventare troppo furbi per il loro stesso bene.
Quale prova di astuzia, si dissero, può mai essere più sublime che ingannare il dio stesso della furbizia e dell’inganno?

Organizzarono una grande caccia, capitanata dal più eroico e più intelligente guerriero della tribù. Lo scopo era manifesto: tendere una trappola a un julaji molus che infestava il territorio della tribù da molti anni. Il mostro era simile a un babbuino ma alto quanto tre uomini adulti, e il solo vederlo induceva un antico terrore anche nei cuori più impavidi. Il suo nome significava letteralmente divoratore di bambini, perché quella laida creatura usava i suoi poteri metamorfici per trasformarsi in creaturine graziose e attirare i bambini lontani dalle madri. Non c’era alcun dubbio però che potesse divorare anche gli adulti, all’occorrenza.
Troppi ragazzi e giovani cacciatori avevano incontrato la morte fra le sue fauci, e la tribù aveva deciso di prendere provvedimenti.
Per fare questo, i sacerdoti avevano pregato per tre giorni e tre notti nel tempio di giada per assicurarsi il favore di Boklop e la buona sorte, e avevano donato al guerriero prescelto la spada sacra del culto: una splendida lama di ossidiana indurita con la magia, che era stata usata per innumerevoli sacrifici nel corso dei secoli.
Il ripetuto utilizzo e il favore divino avevano reso quell’arma ancora più magica; in certa misura, era in grado di trasferire le qualità della creatura uccisa al loro dio.

La trappola a cui la tribù aveva pensato era tutt’altro che ingenua. Prevedeva di fingere un’evacuazione dell’accampamento estivo con la scusa del pericolo crescente, e di portare gli anziani, i bambini e i deboli nel tempio. I guerrieri sapevano che il julaji molus non avrebbe resistito alla tentazione di trovarsi chiuso in un edificio insieme a tante prede indifese. Un vero banchetto luculliano.
La tribù non aveva fatto mistero di quel progetto, parlandone apertamente per giorni prima dell’esodo: il mostro era in grado di capire e di parlare la loro lingua, e loro sapevano che ogni tanto veniva all’accampamento a spiarli. Le madri avevano spiegato ai bambini che questa volta, e solo questa volta, avevano il permesso di raccogliere e portare con sé qualsiasi piccolo animale grazioso che avessero incontrato lungo il tragitto, che fossero scimmiette, cuccioli abbandonati di grossi felini, piccoli marsupiali dagli occhi grandi, o qualsiasi creatura che ispirasse tenerezza.
In mezzo a quella fiumana di gente, alcune donne guerriero si erano nascoste fra i profughi, gonfiando i vestiti con stracci appallottolati per sembrare gravide; gli uomini invece si erano camuffati da anziani e da storpi, e avanzavano strascicando i piedi e tenendo la schiena curva. Il mostro non doveva capire che c’erano dei giovani combattenti nascosti fra quegli umani apparentemente indifesi.

Il tempio era una tozza torre di pietra a pianta circolare, il tetto costituito da una cupola. Le pareti all’esterno erano rivestite da preziosi intarsi in giada, da cui il nome. Il tetto a cupola era stato creato intrecciando lunghe canne di bambù, un materiale elastico e molto resistente, poi ricoperte di fango in modo da chiudere tutti i buchi. All’esterno la cupola era stata ricoperta con pezzi di qualsiasi materiale resistente fosse reperibile nella giungla: sassi piatti, squame di coccodrillo e di yuan-ti uccisi nelle schermaglie, perfino le scaglie di un drago verde che un eroe mitico aveva ucciso generazioni addietro. Strati su strati di queste protezioni, sistemate in modo sapiente, permettevano al tetto di resistere alle piogge tropicali.
L’interno del tempio era buio e soffocante, anche se i corridoi erano ampi. Si diceva che i loro antenati avessero costruito quella struttura pensando gli spazi in modo che fossero comodi anche per il loro dio opulento. Almeno due statue di Boklop erano state scolpite e sistemate in bella vista nel corridoio circolare. L’aspetto tondeggiante del dio, con la parte superiore del corpo da umano e la parte inferiore da rana, era una vista rassicurante per quella popolazione sperduta nella giungla.
I bambini si guardarono intorno con meraviglia, perché per molti di loro era la prima volta che venivano ammessi in quel luogo sacro. Una di loro, una ragazzina di nemmeno sei anni, stringeva fra le braccia un galagone. Il piccolo mammifero era simile a una scimmia con una lunga coda lanosa, e si guardava intorno con occhi sgranati. Anche gli occhi della bambina erano sgranati, ma non solo per la sorpresa. Era anche terrorizzata all’idea che l’animale che aveva in braccio potesse essere il julaji molus. Non era l’unica a portare con sé un animaletto, ma il suo istinto le diceva di tenersi pronta alla fuga.

In condizioni normali, il piano sotterraneo del tempio era accessibile solo ai sacerdoti, ma quella volta fecero un’eccezione. In uno dei dormitori c’era uno sgabuzzino. Sotto una stuoia di giunchi, però, era nascosta una botola.
La gente venne fatta scendere al piano inferiore. Era lì che si trovava il vero cuore religioso della struttura, la stanza delle preghiere e delle evocazioni. Furono portati tutti lì, ma nella stanza non ci stavano tutti. I bambini vennero fatti entrare, insieme ai guerrieri travestiti da anziani e da persone deboli. I veri anziani rimasero fuori, nel corridoio serpeggiante e nelle altre stanze.
Vicino al cerchio sacro per le evocazioni c’era un grosso braciere, che non smetteva mai di bruciare e non consumava l’aria perché era sostentato dalla magia: in realtà era un’illusione.

I bambini si avvicinarono al braciere, stanchi e tremanti. L’idea era che fingessero di tremare dal freddo, perché erano abituati a climi molto caldi e nel seminterrato c’era una frescura inusuale e umida. In realtà tremavano soprattutto di paura.
Poi, ad un cenno di uno dei guerrieri, i bambini che avevano un animaletto lo gettarono nel fuoco.

Le bestiole passarono oltre l’illusione, senza danno, ma cominciarono a scappare da tutte le parti per lo spavento. Il julaji molus invece, temendo che la sua piccola forma animale restasse ferita dal fuoco, aveva già cominciato a trasformarsi durante il salto per riprendere la sua forma originale. Quando si accorse dell’inganno era troppo tardi per ritrasformarsi in un innocuo cucciolo.
Impossibile dire quale fosse di quelle bestiole, nella confusione del momento; una mezza dozzina di quadrupedi stava correndo e rimbalzando in giro per la stanza, i bambini erano terrorizzati ed erano fuggiti urlando prima ancora che il mostro avesse riacquistato le sue vere dimensioni.
Lungo le pareti della stanza, i chierici avevano già cominciato a intonare un canto per richiamare il loro dio, mentre cinque guerrieri esperti avevano gettato da parte i travestimenti e sfoderato le armi.
Fra loro, il prescelto dalla tribù impugnava la spada sacra e sacrificale. Sapevano tutti che la parte più difficile sarebbe stata resistere all’aura di paura emanata dal mostro come un puzzo gelido, ma il canto dei sacerdoti li stava aiutando a trovare il coraggio.

Non fu una battaglia facile. Non era previsto che fosse facile. Era giusto che fosse sudata, doveva essere un sacrificio abbastanza grande per attirare lì il loro dio, il sacro Boklop.
Funzionò.
Il grande eroe Oytai affondò la lama nel petto del julaji molus mentre i sui compagni e le sue compagne lo tenevano impegnato pungolandolo ai fianchi. Ormai il mostro era troppo ferito e rallentato per riuscire a evitare il colpo. Proprio in quel momento, il possente Boklop si manifestò in carne e ossa, emergendo dalle ombre.
L’enorme folletto-rana sorrise in segno di approvazione. Quella era stata una dura prova, la perfetta applicazione dei suoi insegnamenti secolari: inganno, pianificazione, ma anche lealtà verso il proprio popolo.
Il giovane Oytai sfilò la spada di ossidiana dal corpo morente del mostro e la alzò verso il soffitto, lasciando che il sangue gli gocciolasse lungo il braccio.
Il dio aprì bocca per complimentarsi ed elargire la sua benedizione…

...e un momento dopo la spada sacrificale, lanciata con maestria ineguagliabile, gli trapassò la gola.
I guerrieri esplosero in un urlo selvaggio, e i sacerdoti alzarono la voce invocando il suo nome in estasi.
“Boklop! Boklop! Signore delle astuzie!”
“Immenso Boklop! Il più grande sacrificio è per te! Il più grande di tutti gli inganni!”
Il dio comprese troppo tardi che i suoi seguaci avevano imparato la sua lezione anche troppo bene. Non era il julaji molus la vera preda! Era tutto un elaborato inganno per attirarlo lì e… sacrificarlo a se stesso.
E lui non poteva tirarsi indietro. Aveva benedetto quella lama perché potesse uccidere qualsiasi creatura non più potente di lui, e aveva fatto in modo che i poteri di quella creatura gli venissero offerti perché potesse consumarli. Ma cosa succede quando un dio degli inganni viene ingannato? Aveva ancora diritto a quel titolo?
La sua natura divina gli venne strappata dal filo della lama, e poi gli venne infusa nuovamente perché l’arma era consacrata a lui. Poi gli venne strappata di nuovo, e gli venne restituita, in un ciclo infinito. Il dio continuava a venire ucciso dal potere della spada e poi reso divino da essa, oscillando fra la vita e la morte.
Era diventato un paradosso.
Un dio ingannatore, ingannato dai suoi seguaci. Un immortale, ucciso dal suo stesso potere. Una creatura che promuoveva la libertà, che era diventato una divinità aiutando quegli umani a liberarsi dalla schiavitù, eppure incapace di fuggire.

I suoi protetti continuarono a urlare e invocare il suo nome, fieri del proprio successo, finché ad un certo punto si accorsero che il dio non reagiva. Non riusciva a liberarsi dal gorgo in cui era intrappolato. Le grida di esultanza si fecero sempre più incerte, fino a cessare del tutto.
I guerrieri guardarono i sacerdoti, ma nemmeno loro avevano una risposta. Il coraggioso Oytai cercò di avvicinarsi al dio per afferrare la spada e tirarla fuori dal suo collo, ma un’aura innaturale lo investì appena la sua mano sfiorò l’impugnatura.
Un simbolo sconosciuto si tracciò da solo sulla fronte di Oytai, e l’uomo cominciò a urlare e ridere istericamente afferrandosi i capelli. Barcollò lontano dal dio morente, poi si mise a saltellare ridendo come un pazzo e facendo piroette. Quando uno dei suoi amici si avvicinò per calmarlo, Oytai gli diede una testata sul setto nasale e corse verso l’uscita della stanza.
Più tardi lo trovarono completamente nudo, che si rotolava sul pavimento del corridoio.
Nessuno più si azzardò ad avvicinarsi a Boklop. L’area intorno a lui stava cominciando a vibrare di energia caotica. Le pareti cambiavano colore, nell’aria si sentivano profumi sconosciuti, come di fiori esotici, e poi venne l’odore di sangue, di carne alla brace e di sudore, e mille altri odori tutti insieme.

Gli umani cominciarono a scappare. I sacerdoti fecero evacuare il tempio, e fu molto difficile mettere un argine al panico della gente, perché anche loro erano terrorizzati. Un giovane adepto aveva provato a pregare, entrando in contatto spirituale con il loro dio, e sotto di lui si era aperto un Portale che lo aveva fatto cadere in una qualche dimensione sconosciuta. Per fortuna il Portale si era richiuso subito dopo.

Non c’era altra scelta se non la fuga. A malincuore, con animo pesante e terrorizzato, i chierici aiutarono tutti a uscire dal tempio (anche Oytai che sembrava completamente impazzito) e avvertirono tutti di non entrarci più per nessun motivo.

Per un po’, tutti sperarono che la situazione fosse temporanea, e che il loro dio sarebbe tornato a dargli ascolto. Ma dopo mesi, dopo un anno, qualunque sacerdote provasse a pregare si ritrovava ancora vittima di incantesimi completamente casuali.
La tribù alla fine dovette prendere la dolorosa decisione di abbandonare il suo dio.
Il sacerdote più anziano tornò nel tempio una volta sola, per scrivere in una stanza incisioni che raccontavano che cos’era successo; poi uscì dal tempio e lo sigillò, sperando che restasse inviolato per sempre.

Non è chiaro cosa accadde alla tribù, ma è probabile che si sia spostata verso nord e si sia fusa con altre popolazioni umane che occupavano il Chult già in quei tempi antichi. Quello che è certo è che con il tempo si perse la memoria del loro dio imprigionato, e si perse anche la loro lingua e la loro cultura, come spesso accade quando diverse tradizioni si mescolano.

Nel frattempo, nel sotterraneo dell’antico tempio, il povero Boklop rimase intrappolato a rivivere in eterno l’istante della sua morte, emanando un’aura di caos a causa del paradosso che era diventato.
Con il passare dei secoli, perfino lui perse memoria di chi era e di perché si trovava in quella situazione. Era diventato un essere di puri istinti, capace solo di sentire e di soffrire, non di ragionare.
Dal taglio sulla sua gola cominciò a sgorgare un sottilissimo rivolo di liquido scuro, simile a sangue nero, ma più oleoso. Il dio si rese conto che era solo un’altra manifestazione del caos, ma non gli importava più. Non era più capace di pensieri coerenti.

   
 
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