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Autore: ___Page    27/10/2019    3 recensioni
Era la sua panchina e quella sconosciuta gli aveva chiesto di condividerla.
Era iniziata esattamente così, niente di più, niente di meno.
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*Questa storia partecipa alla Challenge delle Parole Quasi Intraducibili (FairyPiece version) organizzata dal forum FairyPiece – Fanfiction & Images*
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Koala, Penguin, Trafalgar Law
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Oodal: 
quella finta rabbia che gli innamorati ostentano dopo un banale litigio, un grande amore mascherato da rabbia che può servire a ritrovarsi con più gioia quando si fa la pace. (Tamil - lingua parlata in India, Sri Lanka e Singapore)

LA PANCHINA
*Capitolo 2*


 
 
A Sara (senza H), che li voleva così per sempre...

 
Law non faceva mai le cose a caso.
Era il punto migliore del parco quello, aria perfetta, ombra e luce nella giusta combinazione, mai troppo freddo né troppo caldo e nessun rischio di ritrovarsi la panchina ricoperta di foglie secche, o fiori appassiti,  o frutta troppo matura.
Per quello era la sua panchina.
La loro panchina.
Sospirò, passandosi mentalmente una mano in volto, in realtà senza staccare i gomiti dallo schienale in legno, guardando davanti a sé senza vedere nulla.
Gli aggettivi possessivi gli continuavano a creare un bel po’ di problemi, ora forse più di un tempo. Più di dieci mesi prima di certo. Quella mattina in particolar modo e, sicuramente, se Law avesse continuato a bandire gli aggettivi possessivi dalla propria vita, non avrebbe avuto quell’umore nero per un motivo tanto idiota.
Razionalmente, il problema non esisteva proprio. Era stato un incidente e non era grave e che si trattasse della tazza di Kay, nella cucina di Kay, a casa di Kay non aveva nessun peso. Non era per questo che aveva dato il via a una discussione anziché scusarsi e basta, non era per via della discussione che ora si trovava al parco anziché a casa da lei, nella cucina… di Kay, appunto. Aveva provato a ripulire ma quando Koala era intervenuta, mettendoci mano, si era levato dai piedi, perché lo sapeva bene Law quando era di troppo e di intralcio.
E a raccogliere i cocci, non era mai stato bravo.
Neppure a interagire era mai stato bravo. Non fosse stato per lei, per il suo modo costante eppure mai insistente, testardo eppure discreto di farsi spazio e prendersi un posto sulla sua panchina e nella sua vita, ora non sarebbe stato lì.
Sulla loro panchina.
Non sarebbe stato lì, sulla loro panchina e con una palla rossa con gli esagoni blu ferma tra i piedi, rotolata fino a lui da chissà dove. Law la osservò senza cambiare cipiglio, chinandosi poi con estrema lentezza a raccoglierla.
Quella era intera, non doveva mica rimetterla insieme in qualche modo.
«Ciao signore!»
Ancora tutto teso verso il suolo, Law sollevò il capo e gli occhi, su due bambine, una bionda e una mora, che per un attimo lo spiazzarono, facendolo seriamente dubitare sull’impossibilità del viaggio nel tempo tanto ricordavano Lamy e Ishley, solo in un formato ancora più tascabile.
A quanto pareva, era destinato a venire perseguitato dal suo angelo e il suo diavolo ogni qualvolta che qualcosa nella sua vita girava anche solo vagamente fuori rotta e non certo perché lo avesse chiesto lui all’Universo. Anzi, era il tipo di uomo che i problemi se li smazzava da sé.  
«Ciao» rispose Law, senza sforzarsi di apparire più di tanto amichevole. Pen sosteneva che la sua aura, che tanto intimoriva gli adulti, fosse capace di calmare i bambini, senza necessariamente metterli in soggezione per questo, e gli era anche capitato che l’imbecille lo chiamasse con le più pittoresche scuse nel proprio studio quando aveva qualche piccolo paziente particolarmente poco collaborativo.   
Perché ancora fingeva di cascarci, non se lo spiegava.
«Cos’hai sulle mani?» chiese la seconda bambina, affiancando la gemella.
Law si guardò i dorsi, mentre si ritirava su, restando però con il busto piegato e le braccia appoggiate alle cosce. «Sono tatuaggi» spiegò, strappando a entrambe un’occhiata ammirata, anche se la biondina distolse gli occhi molto più in fretta per riportarli sul suo volto, guardandolo con uno strano sorriso che aveva un che di famelico, dietro l’espressione dolce e trasognata.
Okay, forse gli ricordavano tanto Lamy e Ish perché Mefisto procreava figlie tutte uguali.  
«Sei bello»
Law si concesse di sobbalzare appena dentro e sgranò impercettibilmente gli occhi. Non era come se non fosse abituato ai complimenti. Era coordinatore medico alla clinica nonostante la giovane età, aveva pazienti che gli mandavano ancora gli auguri di Natale con tanto di ringraziamento per aver risolto i loro problemi a distanza di anni, era un elemento conteso e apprezzato a ogni singolo congresso a cui partecipava.
Sapeva di essere bravo, intelligente e capace. A quei complimenti era abituato.  
Erano tutti gli altri che non era solito sentirsi dire, tra cui anche apprezzamenti espliciti sulla sua presunta bellezza. Sul fatto di saper leggere ad alta voce così bene da trascinarti nella storia. Che il suo essere maniacale a volte lo rendeva dolce. Non si abituava, neppure dopo dieci mesi. E anche si fosse abituato, ci sarebbe riuscito con una sola ed unica persona a cui era decisamente meglio che in quel momento non pensasse.
«…’on si dovrebbero dire queste cose agli sconosciuti»
Tornò a focalizzarsi sulle bambine, la morettina che ricordava alla bionda una regola a cui, per quanto si sforzasse di essere più ligia dell’altra, veniva sicuramente meno anche lei, bastava guardarla in faccia.
«Ma è la verità» si strinse nelle spalle la biondina. «Dico quello che penso»
«Nonno dice che a volte è meglio non dire quello che si pensa»
«Ma così sarebbe come dire le bugie» si accigliò la biondina.
«Beh non proprio» Law fece aderire tutti i polpastrelli tra loro, lasciando che la palla si bloccasse tra i propri avambracci. «Una bugia è quando dici una cosa che non è vera. Se non dici nulla, non puoi dire una bugia» spiegò nel modo più semplice che poteva, attento a non usare la parola “omissione”, e non tanto perché avrebbe dato il via a una sequela di domande a cui comunque non si sarebbe fatto troppe menate  a rispondere, per passare il tempo ovviamente, non perché lui fosse in alcuna misura bravo con i bambini, come diceva appunto Pen. 
Comunque Law stette attento a non usare la parola “omissione” e ciò nonostante le due creature non sembravano molto dell’idea di schiodarsi, ancora lì ferme a guardarlo, in attesa di qualche altra rivelazione esistenziale.
«Comunque non dire quello che si pensa è una cosa che da grandi vi toccherà fare spesso. Quindi finché siete piccole, io non mi farei così tanti problemi»
«E quando smettiamo di essere piccole?» si accigliò la morettina, davvero molto interessata alla questione, riuscendo a far accigliare a sua volta lui.
«Beh…» soppesò per un attimo la lista di risposte che gli stavano sovvenendo. «Quando smettete di andare dal pediatra. Che è il medico dei bambini»
«Perché, a un certo punto dobbiamo cambiare medico?» domandò la bimba bionda, in apparenza scioccata dalla notizia e, considerato che si trovavano lì in quel parco a giocare, il dubbio che potesse essere paziente di Pen e così sconvolta all’idea di non vederlo più riuscì persino a farlo ghignare.
Ora seriamente non vedeva l’ora di raccontarlo a Lamy anche se prima era, doveva ammetterlo, curioso di sapere cosa stesse pensando la bimba mora, in profonda riflessione da quasi un minuto ormai. Law, già tornato impassibile, non cambiò minimamente espressione quando la piccoletta smise di fissare il vuoto e si focalizzò su di lui.
«Per me non sei bello. Non sei biondo e sei serio» sentenziò e Law non si pentì nemmeno un po’ di aver già smesso di ghignare.
Tanto non si aspettava niente di meno dalla versione 2.0 di sua cugina, che doveva aver tra l’altro deciso di volerne approfittare fintanto che andava dal pediatra. E comunque meglio saper essere seri che sorridere sempre per ogni stronzata come faceva Sabo o ridere con quella risata cristallina che sembrava uno zampillo d’acqua e che gli stava riempiendo le orecchie in quel momento e…
Fermi tutti.
Risata cristallina? Riempiendo le orecchie?
Law si girò, nemmeno lui capace di spiegarsi perché mai si sentisse così... beh sorpreso non era l’aggettivo giusto e Law teneva molto agli aggettivi, anche quando non erano possessivi, e per questo si sforzò, nel mentre che lo stomaco gli faceva una capriola, di afferrare la parola giusta per autodescriversi in quel momento in cui si sentiva così… sopraffatto, ecco qual era la parola, a ritrovarsi Koala a un passo da sé, anche se con la panchina a dividerli, appoggiata allo schienale in una posa rilassata e un sorriso sulle sue carnose labbra, così bello e splendente che Law non capiva mai se era il sorriso a rendere lei bella e splendente o il contrario e neppure gli interessava capirlo se poteva solo goderselo quel sorriso e… E tenere a mente che lui era ancora parecchio contrariato.
Non nello specifico con lei ma con qualcosa che la riguardava da vicino. Quindi no, non aveva importanza se era andata a cercalo, a prenderlo per riportarlo a casa. Lui era contrariato e non perché fosse dalla parte della ragione e lei in torto o viceversa.
Avevano discusso, era contrariato.
Lineare.
«Ti assicuro, non è sempre serio» mormorò verso la bimba mora. «E quando non lo è, è ancora più bello» si girò complice verso la biondina e stavolta Law dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo, perché Kay non sembrava poi così arrabbiata, ma lei non sembrava praticamente mai arrabbiata e forse si stava illudendo, anche perché le bambine la guardavano come fosse stata una specie di fata apparsa da chissà che magica dimensione, apposta per lui, per tirarlo fuori dal nuvolone nero che lo avvolgeva da non sapeva neppure esattamente da quanto era uscito per andare lì al parco.
«È che qualcuno gli ha rubato il sorriso e io glielo devo restituire, però per farlo devo restare da sola con lui»
Le bimbe la ascoltavano a occhi sgranati e Law non riuscì quasi a credere che bastasse così poco per convincerle a tornare al loro gioco eppure dovette ricredersi quando la morettina gli chiese con gentilezza la palla, e lui manco si era accorto di averla ancora per le mani, e la bimba bionda lo salutò con un entusiasta “Ci vediamo presto!” e prima ancora di rendersene conto era rimasto da solo con Koala.
Improvvisamente qualunque cosa si trovasse davanti a sé divenne profondamene interessante e per niente attraente e Law sapeva che non sarebbe durato poi molto, che le sarebbe bastato aprire bocca e dire una cosa qualsiasi, come ad esempio…
«Posso sedermi?»
E il cuore riprese un ritmo conosciuto dieci mesi prima e non più dimenticato.
Era iniziato tutto così, con una sconosciuta che gli chiedeva di sedersi sulla sua panchina. E all’epoca la panchina gli era apparsa molto più sua della sconosciuta, anche se usava quell’aggettivo possessivo solo per esemplificare e non sprecare parole.
All’epoca.
Ora le cose stavano diversamente, quella era la loro panchina e quella sconosciuta non era più una sconosciuta e quello…
«È il tuo posto»
Il suo posto, accanto a lui e nella sua vita e se solo Law fosse riuscito a scendere a patti con il fatto che lui per primo era diventato irrimediabilmente proprietà di qualcuno, a cui quel qualcuno avrebbe benissimo potuto applicare un aggettivo possessivo con ragione, forse non avrebbe usato quel tono così scocciato e infastidito senza neppure una valida ragione.
La sentì scivolare al suo fianco e non si mosse di un millimetro, ignorando il prurito alle mani dalla voglia che aveva anche solo di sfiorarla, dal bisogno ridicolo di riconfermare che sì, Kay non solo non era più una sconosciuta ma che era sua, un bisogno che non sarebbe mai neppure venuto a galla se non si fosse accorto di pensare quello che pensava.
E comunque in quel momento, non era per non pensare a quello a cui non voleva pensare che avrebbe pagato oro per sapere a cosa stava pensando Koala. La vedeva anche con la coda dell’occhio fissare dritto di fronte a sé, l’espressione perennemente dolce e al massimo riflessiva, ma il solo fatto che fissasse caparbia di fronte a sé era un segnale che a essere contrariato dalla lite non era solo lui.
E c’erano buone probabilità che, a differenza sua, quella di Koala non fosse solo una posa e non avrebbe potuto darle torto, perché aveva iniziato lui e, dannazione, era tutto così idiota che non ricordava più nemmeno come aveva iniziato.
«Era solo una tazza»
«Sai benissimo che non è per la tazza in sé» ribatté pronto, perché evidentemente il suo cervello invece se lo ricordava eccome.
«E ci mancherebbe, era mia! Neppure si fosse rotto un tuo prezioso cimelio di famiglia»
Il tono fattuale, la precisazione dovuta e il pugno allo stomaco che tornava alla carica, perché a parte che chi si arrabbiava per una tazza rotta?! e comunque quella tazza era di Kay e basta. Sua no, neppure in minima parte, quindi ora era il momento di stare zitto e ammettere almeno con se stesso che stava esagerando e che se non voleva condividere con lei che il problema non risiedeva nella tazza allora doveva avere almeno la decenza di tenersi la rabbia per sé e…
«Se non usassi il lavello come centro entropico della tua esisten…»
«Oh dio ancora con questa storia? Sì lo so di avere ques…»
«…’za non sarebbe successo, ma a colazione non ci si può n…»
«…’to brutto vizio ma fino a prova contraria è l’unico momento della gior…»
«…‘eanche muovere o anche solo respirare perché c’è il rischio di destabilizzare un precario equili…»
«…’nata in cui me lo concedo e sai benissimo che mi sforzo di essere più ordinata da q…»
«…’brio che manco il caos primordiale, come fa a non venirti il nervoso?!»
«...’uando ci sei tu! Ma che razza di domanda è?! Adesso siccome fa venire il nervoso a te che lascio i biscotti sul tavolo fino a pranzo o a cena deve farlo venire a tutti?!»
Il silenzio calò improvviso tra loro, mentre entrambi riprendevano fiato e solo per un momento prima che Koala riprendesse anche la parola.
«Senti, mi rendo conto che non è una giustificazione, ma lo sai che io la mattina…»
«Sì lo so, ci metti un po’ a carburare e preferisci usare le energie per altro che per sistemare la cucina per due tazze e due ciotole, che tanto poi a pranzo è da sistemare un’altra volta. Lo so» la precedette Law, chinandosi di nuovo in avanti con il busto mentre si passava pollice e indice sugli occhi. «Lo so» ripeté, puntando di nuovo lo sguardo nel vuoto prima di vibrare, senza quasi rendersi conto che lo stava dicendo a voce alta: «E poi è casa tua»
Ora, Law non si reputava particolarmente empatico ma analitico e attento sì. Da bravo medico, doveva esserlo. E il fatto che stesse inconsciamente tenendo Koala sotto tiro con la coda dell’occhio da quando si era seduta, gli permise di cogliere molto bene il suo sussulto a quelle parole.
«Come?» esalò la ragazza, mentre lui si girava perplesso e poi si rimetteva dritto preoccupato. Perché quello che balenava negli occhi di Koala era indubbiamente panico e tensione e la reazione era quanto meno ingiustificata, quanto la risata nervosa in cui si produsse dopo aver aggiunto: «Cosa… cosa c’entra?»
«Kay, che ti pr…»
«Cioè scusa mi vuoi dire che è accettabile solo perché è casa mia?» domandò, una di quelle belle domande femminili che scavano nel significato di un’affermazione maschile, alla matta ricerca di una confutazione, e a Law non piaceva per niente quello che vedeva. A lui non piaceva vedere la sua Kay così e men che meno essere stato lui a provocare una simile reazione. «Sarebbe un ostacolo così insormontabile?»
Law sbatté le palpebre, interdetto. Un ostacolo a cosa?!
«Koa…»
«Perché per me non è casa mia e basta» 
Una qualche parte recondita del cervello di Law si chiese se il fatto di non riuscire più a respirare fosse in qualche modo correlato al fatto di riuscire a sentire, contemporaneamente e distintamente, il proprio cuore che si metteva a pestare all’impazzata, il fischio che il nulla totale e cosmico stava provocando nella sua testa e Koala che ormai parlava a raffica.
«…’i ho fatto spazio nei cassetti e nell’armadio, Pen ha portato direttamente da me lo scatolone con tutti i dvd che ti doveva restituire e mai potrei considerarla casa mia e basta dopo che siamo stati mezz’ora insieme a tenere premuti al muro gli adesivi dell’asta per gli asciugamani, perché le istruzioni dicevano trenta minuti anziché trenta secondi! E non voglio dire che tu ora devi trasferirti da me o che voglio affrettare i tempi o che mi aspetto qualcosa ma io non pensavo che una cosa stupida come essere disordinata la mattina…. Mi sembrava… Mi sembrava che andasse bene, che io e te stessimo…. e insomma io… Quello che sto cercando di dire, io…»  
«Voglio che andiamo a vivere insieme»
Koala era una persona curiosa, lo era sempre stata, sin da bambina. Imparare a conoscere qualsiasi cosa le era sempre piaciuto. Imparare a conoscere Law era qualcosa che aveva finito con l’amare. Per questo ci si era impegnata ogni giorno, con tutto il proprio essere e senza chiedere nulla in cambio, perché semplicemente lui era la sua più grande avventura, la più bella delle scoperte. Per questo a Koala non servì più del tempo necessario al suo cervello per elaborare il messaggio, per capire che Law non stava completando la sua frase ma dando voce a un proprio pensiero.
Restare senza fiato.
Temere che il cuore le sarebbe esploso dal battere troppo forte.
Realizzare che il pensiero di Law coincideva in tutto e per tutto con il proprio.
Ricominciare a sorridere come se illuminare il pianeta fosse compito suo.
«Davvero?!» soffiò emozionata, le mani puntellate alla panchina, gli occhi solo per lui. Non c’era niente da fare, ormai si era rassegnata, quando c’era di mezzo lui, regrediva a una ragazzina in piena adolescenza e Law amava vederla così.
Amava tutto di lei.
Amava il suo sorriso, il modo in cui leggeva per lui, le sue risposte sarcastiche e mai scontate, il disordine che lasciava in cucina dopo la colazione. Amava il caos che Koala aveva portato nella sua vita e non riusciva più a immaginare una vita ordinata.
Con un profondo respiro scivolò verso di lei, tra le sue mani.
«Io volevo proporti di venire a stare da me ma sai che voglio andarmene da Flevance Street e non potevo autoinvitarmi a casa tua» spiegò pratico. «Ho pensato di aspettare fino alla fine del contratto di affitto. Solo che più aspettavo più ci pensavo, finché non ha iniziato a sembrarmi una stronzata. E sai come sono fatto, devo valutare tutti i pro e tutti i contro e poi il dove solo che…»Law sospirò, fece per premersi una mano sul volto ma Koala lo precedette, poggiandogli la propria sulla guancia, sempre sorridente, sempre occhi a lui, in attesa senza mettergli fretta. «Il punto è che non importa. Io voglio svegliarmi in una casa che sia nostra, fare colazione nella nostra cucina, così incasinata da te da rompere una tazza nel nostro lavello» esalò un altro respiro, segno che aveva finito e non era stato semplice per niente e Kay lo sapeva, lo doveva sapere, non poteva lasciarlo appeso e senza una risposta, anche se il suo sorriso era parecchio eloquente, però ci voleva una risposta verbale, ne aveva bisogno lui e…
«Ti amo, Law»
Law avrebbe tanto voluto sapere come ci riusciva. Com’era possibile che quando lui restava senza parole lei trovava sempre quelle giuste e quelle rare occasioni in cui, invece, lui ne aveva fin troppe lei riusciva a rimettere tutto in ordine usandone appena tre.
Avrebbe tanto voluto saperlo ma probabilmente non lo avrebbe scoperto mai e gli andava perfettamente a genio fintanto che poteva stringersela addosso, prenderle il viso tra le mani e baciarla d’impeto, di cuore, come se non la vedesse da settimane, sulla loro panchina, nel parco vicino casa.
«Andiamo a casa?» propose Koala, separandosi appena da lui e pettinandogli la zazzera in perenne disordine con le dita.  
Law la fissò  qualche secondo, ancora sopraffatto da tutto quello che era appena successo, che stava succedendo, che sarebbe successo. «Quale… quale casa?» domandò, davvero perplesso e confuso, lo sapeva Koala.
Lo conosceva bene ormai eppure c’era ancora così tanto da scoprire, da imparare ad amare, come quel suo lato più vulnerabile, che chiedeva solo di non essere lasciato andare alla deriva in qualcosa che era perfettamente normale, come innamorarsi, rompere una tazza, andare a vivere insieme.
C’era ancora tanto da scoprire e Koala non vedeva l’ora.
«Nostra. A casa nostra» gli sorrise, senza lasciarlo andare. E anche Law lo avesse fatto apposta per sentirselo dire, Koala glielo avrebbe ripetuto all’infinito, solo per vedere quel ghigno meravigliosamente strafottente e felice disegnarsi sulla sua faccia ancora e ancora, alla sola idea di andare a casa.
A casa a fare l’amore, a fare la pace, anche a litigare. Ma a casa, insieme.
«Sì» si chinò su di lei, senza lasciarla andare, la bocca praticamente sulla sua. «Andiamo a casa, Kay»
 
 
     

 
     

 
  
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