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Autore: NPC_Stories    28/10/2019    1 recensioni
Collezione di oneshot fantasy a tema "fairy", come indicato nella lista di Inktober che io e la mia affezionata illustratrice Erika abbiamo scelto (no, non Erika la webmaster, un'altra Erika). Io scrivo, lei disegna... speriamo di tenere il passo!
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Alcune di queste storie saranno ambientate nel nostro mondo, alcune altre nell'ambientazione del fandom in cui sono più attiva, Forgotten Realms, e altre ancora saranno ambientate in mondi di mia creazione o di fantasy generico, o parodistico.
Alcune di queste storie vi faranno ridere (spero), altre vi faranno piangere (mh, forse sto esagerando), ma in ogni caso mi auguro che tutte vi piacciano.
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Che la vostra vita possa essere piena di momenti di piccola meraviglia!
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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28. Scars


Sotto-genere: drammatico, romantico
Ambientazione: Forgotten Realms


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1316 DR, pendici meridionali delle Montagne Fiocco di Neve

Saelas era un elfo ferito.
Non erano passati nemmeno due anni da quando il suo villaggio era stato devastato da una sortita drow. Il suo cuore si era spezzato ed era morto insieme a sua moglie e al loro figlio non ancora nato, e non sarebbe più tornato come prima.
Non erano passati neanche due anni da quando tutti i guerrieri di Silverthorn avevano subito un lutto terribile, un dolore devastante. Le loro famiglie erano state spazzate via, mentre loro erano impegnati in una battuta di caccia. Certo, qualche guerriero era rimasto al villaggio, ma non erano pronti a far fronte a un attacco drow. La foresta era sempre stata un luogo abbastanza pacifico, pericoloso ma entro limiti ragionevoli. Quindi anche quei pochi difensori erano morti.
I sopravvissuti si portavano dietro un tremendo senso di colpa per non essere stati lì, a proteggere i loro cari, e avevano tutti una ferita che non sarebbe mai guarita… o almeno, lui pensava che non sarebbe mai guarita. Quasi tutti loro avevano deciso con slancio di votarsi a Shevarash, dio della vendetta contro i drow.
Erano perfino partiti per una missione nel sottosuolo, per vendicarsi… ma quella missione non era finita benissimo. Erano sopravvissuti, ma solo perché si erano ritirati con la coda fra le gambe. Non era quello che Saelas aveva sperato.
Erano stati catturati dai duergar, alleati dei drow. In realtà erano i padroni dei drow, perché i drow che li avevano attaccati erano solo un gruppo di schiavi sfuggiti al controllo dei nani grigi, ma Saelas non credeva a quella versione. Non poteva accettare che i mostri che avevano distrutto il suo villaggio fossero degli ex-schiavi, erano sicuramente in una posizione di potere, alleati dei duergar. Non che gli importasse, ma se qualcuno gliel’avesse chiesto avrebbe risposto così.
Dopo la loro cattura, erano stati salvati da un mezzo umano. Uno che non era nemmeno completamente elfo. E per di più, quello stronzo si era permesso di decidere al posto loro che avrebbero dovuto ritirarsi e tornare in Superficie. L’aveva fatto attraverso il più bieco dei ricatti: si era rifiutato di aiutarli a ritrovare le loro armi. Sì, avevano rubato un paio di asce, ma quale elfo sapeva usare bene un’ascia?
Così, armati in modo inadeguato per una battaglia già fin troppo difficile, non avevano avuto altra scelta che ritirarsi.
Quel che è peggio, quella piccola disavventura sembrava aver scoraggiato la maggior parte dei suoi compagni. O forse era stato il discorsetto di quel dannato mezz’umano: “i vostri parenti morti ora sono in pace e non vi vorrebbero veder soffrire, gni gni gni, sono un borioso arrogante che caga giudizi, e in fin dei conti la vita è bella”.
E gli altri ci erano cascati. Si erano lasciati manipolare da un… maledetto pacifista che voleva vederli diventare della mammolette.
Alcuni avevano detto di essere stanchi di soffrire, come se avessero una fottuta scelta. Altri avevano detto che si erano già vendicati dei diretti responsabili, il gruppetto di razziatori, ma non era possibile sbarazzarsi di tutti i duergar e i drow del sottosuolo. Qualche poeta mancato aveva perfino detto che era tempo di lasciare che le ferite si chiudessero, ma che avrebbero portato per sempre le cicatrici.
Ah! Cicatrici! Come se fossero un valido sostituto dei loro figli e dei loro fratelli trucidati. Come se fossero un valido sostituto della vendetta.

Saelas conosceva la verità dietro a queste vuote rivendicazioni: erano tutti dei codardi. Non erano più disposti a lottare, a mantenere vivo il ricordo dei loro famigliari massacrati.
Ma lui era diverso. Se nessuno nella foresta di Shilmista intendeva dargli soddisfazione, avrebbe cercato alleati altrove. Non a Sarenestar, perché il mezz’umano aveva amici lì, ma aveva sentito dire che c’erano delle cellule del culto di Shevarash nell’est.
Al diavolo Shilmista e tutta la regione.
Era partito prima che la stagione si facesse troppo fredda. Aveva intenzione di aggirare le Montagne Fiocco di Neve, a sud, e poi avrebbe cercato una strada o un sentiero che portasse verso il Bosco di Chondal. Sicuramente in quell’antica e nobile foresta c’erano elfi con una visione del mondo più affine alla sua.

Quando iniziò a calare il tramonto, Saelas si fermò e decise di montare il campo. Era molto stanco per la camminata e dalle montagne scendevano venti freddi, non sarebbe stato prudente proseguire con il buio. Nonostante quello che potevano pensare gli altri, Saelas non aveva intenzione di morire senza un buon motivo.

Dopo aver montato il campo consumò una cena frugale a base di carne secca e bacche, e si ritirò nella sua tenda ben mimetizzata per concedersi qualche ora di riposo.
Mentre la sua mente scivolava verso l’incoscienza, cullata dai dolci flussi della meditazione elfica, Saelas cominciò a sognare una strana melodia. Non conosceva quella canzone, ma assomigliava molto alle musiche del suo popolo, e la voce accarezzava la sua coscienza per scendere dritta verso il centro delle sue emozioni, la memoria. Era la voce di sua moglie.
Saelas spalancò gli occhi. Era la voce di sua moglie!
Ma non era possibile, sua moglie era morta, falciata dalla crudeli spade dei drow. La sete di sangue degli elfi scuri non aveva risparmiato nessuno, Saelas ricordava di aver trovato il cadavere della sua amata Maegel fra gli altri. Quell’immagine da incubo era ancora orribilmente vivida, come se fosse rimasta impressa nei suoi occhi. Quindi, com’era possibile che ora sentisse la sua voce nel vento?
S’intabarrò nel suo mantello, infilò gli stivali e uscì nella notte. Prese anche le sue armi, per precauzione. Quell’eco lontana poteva essere un inganno dei suoi sensi… o poteva essere un fantasma? Se avesse scoperto che la sua Maegel non era andata in pace, come avrebbe reagito? Il pensiero era desolante, eppure Saelas avrebbe pagato qualsiasi prezzo pur di rivederla, anche se fosse stata solo un’ombra di ciò che era in vita. E quel desiderio, che a malapena riusciva a confessare a se stesso, non era innominabile per un elfo? Che razza di persona avrebbe voluto che i propri cari fossero intrappolati fra la vita e la morte?
Il dolore lo aveva reso egoista. Una parte della sua mente lo riconobbe, poi spinse quel pensiero di nuovo in fondo, nascosto in un angolo, per non lasciarlo crescere.
Maegel aspettava un bambino quand’era morta. Il loro primo figlio, che avevano atteso tanto a lungo. Il loro amore era perfetto, e anche la loro felicità era sul punto di diventare perfetta… poi tutto era stato spazzato via nell’arco di un momento.
Se solo avesse potuto almeno dirle addio.

La voce era reale. Fuori dalla tenda risuonava con più nitidezza nell’aria della notte. Sembrava la voce di Maegel; la dolce elfa dei boschi aveva il dono di saper cantare come una sirena, con una voce splendida e cristallina.
L’elfo accelerò il passo, attirato fra gli alberi da quelle note di speranza. Alla fine si mise quasi a correre. C’era una luce in lontananza?
Sfondò la resistenza degli ultimi cespugli e si ritrovò in una piccola radura. La luce c’era davvero, ma era il riflesso della luna su uno specchio d’acqua calma.

Nella pozza d’acqua c’era una donna. Stava cantando, e all’elfo sembrò quasi che… era un pensiero sciocco, lei cantava rivolta alla luna, con i capelli neri che scendevano come morbide onde a coprire la schiena… ma aveva la netta sensazione che cantasse per lui.
La donna era immersa nell’acqua fino alla vita, e vista di spalle sembrava che fosse nuda. Voltò appena appena il capo, guardando il ranger con la coda dell’occhio, e magari era solo un’impressione ma gli sembrò che stesse sorridendo in modo malinconico.
“Chi sei?” chiese lui, affascinato da quell’apparizione. Il canto si avvitò in un gorgheggio inimitabile, una maestria che sorpassava perfino quella di Maegel.
Saelas cominciò a sentirsi… strano. Il suo cuore doveva essere morto insieme a sua moglie, eppure ora stava ricominciando a battere. Quella voce… era come se Maegel si fosse reincarnata in una creatura fatata, una ninfa dei fiumi, e ora lo stesse chiamando.
La donna si voltò. I suoi tratti erano delicati, ma non appuntiti come quelli di un’elfa. Le orecchie erano tonde, come quelle degli umani, ma Saelas era sicuro che lei fosse aliena alla razza umana quanto a quella elfica.
La fata non era nuda, indossava un abito succinto che le lasciava scoperta la schiena e lasciava intravedere i seni in una generosa scollatura. La stoffa azzurro ghiaccio rivaleggiava con il colore dei suoi occhi, e di sicuro non era stata tessuta da mani mortali. Le sue labbra erano pallide ma invitanti, ora chiuse mentre canticchiava sottovoce la solita melodia. La sua nenia era diventata un sussurro, come se volesse condividere con lui un segreto.
Poteva essere un’idea folle, ma l’elfo dei boschi venne colpito dalla certezza che la fata dovesse essere la reincarnazione di Maegel. Continuò a muoversi verso di lei, incurante del fatto che i suoi piedi stavano affondando nel fondo limaccioso della pozza d’acqua. Quando finalmente raggiunse la donna, prese quelle mani diafane nelle sue e si rese conto che erano calde, nonostante lei fosse immersa nell’acqua. Baciò le sue dita, ma non le labbra, voleva che lei continuasse a cantare. Voleva continuare a sentire la voce di Maegel nella sua.

La glaistig sorrise, sapendo che quell’elfo era completamente in suo potere. Era facile, usare il suo canto ipnotico sui guerrieri. Certo sugli umani era più facile che sugli elfi… ma aveva rischiato, e non aveva fallito. Ora avrebbe potuto nutrirsi della vita di un’altra creatura.
Continuò a cantare, cercando di non sorridere troppo. Non voleva che lui vedesse i suoi canini affilati. Non era facile, perché lui le fissava la bocca come se nascondesse il tesoro della vita eterna.
La glaistig si crogiolò nel suo sguardo adorante, ma solo per qualche altro secondo. Si era divertita abbastanza, era il momento di nutrirsi. La sua sola vicinanza avrebbe mantenuto l’elfo in uno stato di fascinazione, non c’era più bisogno che cantasse.
Incrociò il suo sguardo un’ultima volta, e quello che vide la fece esitare.
Non erano gli occhi di un elfo stregato, erano quelli di un innamorato. Il guerriero stringeva le sue mani con la speranza e la disperazione di qualcuno che ha il cuore spezzato, e che ha appena intravisto un barlume di luce. La sua espressione era piena di amore e di dolore, come se la sua anima fosse segnata dalle cicatrici e lei fosse un balsamo.
“Maegel” sussurrò l’elfo, con voce spezzata.
La glaistig non aveva mai avuto un nome. Non sapeva com’era nata, non aveva mai conosciuto nessuno al di là di quella pozza e delle vittime che vi trascinava dentro, quindi nessuno l’aveva mai chiamata in nessun modo. Era piacevole avere un nome. Maegel aveva un suono melodico.
“Maegel” rispose, con la sua voce suadente “Maegel…” si rigirò in bocca quella parola come per sentirne il sapore. Poi prese una decisione improvvisa, liberò le mani dalla stretta dell’elfo e gli buttò le braccia al collo. Anziché morderlo, com’era sua intenzione all’inizio, gli sussurrò all’orecchio una breve litania nel linguaggio delle fate. Era un incantesimo che gli avrebbe consentito di respirare sott’acqua.
Maegel, o la creatura che ora si faceva chiamare così, sapeva che prima o poi avrebbe dovuto nutrirsi di sangue. Non subito, però. Poteva resistere qualche altro anno, e non le sembrava giusto uccidere qualcuno che era già così ferito.
Perché succede anche questo; raramente, una volta su un milione, succede che una glaistig desideri trovare un compagno.

   
 
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