Vi auguro una buona
lettura,
H.
Aggiornato il 29. 08. 2021
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Capitolo Terzo
31
agosto 1511
e
18
agosto 1496
Io sont la Morte che porto
corona
Sonte signora de ogni
persona
Et cossì son fiera, forte
et dura
Che trapasso le porte et
ultra le mura.
[1]
Plock … plock …
plock …
Se
non fosse stato per la saltuaria apertura della botola, giusto per
darli da
bere e accertarsi che ancora indugiavano in questa valle di lacrime
(lui
almeno, del bambino agli stradioti non fregava nulla), Hironimo si
sarebbe
creduto già seppellito in tomba, completamente avvolto da un
nero bestemmia e
un silenzio sconsolante rotto dalle ritmiche gocce
d’umidità; dallo scorrere
della Piave; dallo zampettare degli onnipresenti ratti; dal gorgoglio
dei loro
stomaci e infine dallo schiocco affamato delle labbra di
Thomà, il quale aveva
di recente incominciato a suggergli la camicia pur di tenere i denti
occupati, quando
non battevano dal freddo ben inteso. Ambedue non si sovvenivano
dell’ultimo
loro pasto; in certi momenti, neppure si sovvenivano d’essere
mai stati in
vita, trascorrendo ore infinite incastrati l’uno
nell’altro in un disperato
abbraccio onde riscaldarsi, preoccupandosi il giovane Miani di come la
pelle
del piccino divenisse ad ogni istante sempre più fredda e
appiccicaticcia. Si tenevano desti a furia di
pizzicotti, ma il
sonno dell’affamato e dell’infreddolito talvolta li
intorpidiva, precipitandoli
in sonni inquieti, orribili, che li lasciavano al
risveglio
doppiamente spossati invece di ristorarli, complice inoltre
l’aria stantia
della cella, ammorbata oramai dal puzzo del loro sudore e, alas,
escrementi.
“Zò! Te
me dà el pie en bocha?”, protestò
Hironimo, svegliandosi di soprassalto per
colpa della rapida e dolorosa pedata in faccia da parte di
Thomà, il quale,
rannicchiandosi ulteriormente contro il suo stomaco,
bofonchiò contrito e
stanco:
“La
me perdoni, patron, nol gh’ho fatto apposta: mi dormivo e chi
dorme, manza …”
Sì,
dormiva scalciando peggio d’un mulo, il nanerottolo! Almeno
però dimostrava di
vivere ancora, rallentato infatti il suo respiro al punto che il
giovane
patrizio talvolta faticava ad udirlo, controllandogli di tanto in tanto
l’aria
con due dita sotto il naso giusto per assicurarsi di non stringere un
cadavere.
Hironimo
borbottò qualcosa, o meglio la sua gola lo fece
meccanicamente, sistemando il
capo sull’avambraccio nella disperata ricerca di una
posizione comoda: il
dolore alle tempie pian piano s’era attenuato, purtroppo
ciò non si poteva
affermare della ferita sul fianco, ancora bruciante e che gli tirava
molesta.
Thomà, ignaro, dormendoci sopra gliela premeva, causandogli
sottili fitte come
punture d’aghi sottopelle. Le palpebre gli divennero
pesanti, ghermendolo
una violenta vertigine che lo allettò a perdersi nella
lusinga del sonno e
appena riuscì a socchiudere gli occhi una strana sensazione
lo colse, non
dissimile a quella dello sfruscio in inverno del morbido e
caldo bordo di
pelliccia.
Peccato,
che la sua pelliccia non si muovesse e squittisse.
Hironimo
s’irrigidì peggio d’un cadavere, mentre
quell’essere immondo gli zampettava
impunito sulla
spalla. “Coss’elo?
Coss’elo?”, ansimò istericamente,
mulinando a caso il braccio e udì l’animale
cadere, sebbene continuando a
corrergli accanto nel tentativo di risalirgli sopra, squittendo confuso
e irato
da quella sua ribellione.
“Un
sorze, me sa!”, fu la secca constatazione del bambino,
insensibile al topo e
preferendo piuttosto continuare a dormire; al contrario, il giovane
Miani non
condivideva tale rassegnazione e appunto strillò:
“No!
Levamelo di dosso!”, calciava il nemico ben protetto
dall’oscurità, soffiandogli
contro adesso minaccioso.
“Se
vuj lo lassate star, no ve fa gnente!”
“Non
voglio sorci addosso!”
“Oh,
che putelezzi (bambinate, ndr.)!”
“Thomà,
cavami questo sorcio o te dago ‘na schiaffazza in tel
muso!”
Il
bambino scattò a carponi pronto alla pugna. “No,
patron! Gnente schiaffazze pel
poaro Thomà!”, frignò petulante e
quando il topo partì all’assalto per
l’ennesima volta, con gli occhi e la rapidità di
un gatto Thomà artigliò a
colpo sicuro il ratto e prima che la bestia potesse morderlo gli
spezzò l’osso
del collo, gettandolo poi in fondo alla cella in un umido tonfo,
là dove si
liberavano dei propri bisogno naturali.
Silenzio.
“Bauco!
(citrullo, ndr.)”, commentò sarcastico Hironimo,
già udendo la marcia di tutti
i topi di Castelnuovo darsi appuntamento lì. “Ora
lo raggiungeranno i suoi
compari per mangiarsi il cadavere!”
Al
che Thomà, dimentico di ogni prudenza, replicò
scocciato: “Saveu, patron? Andé
al diavol ché mi sun stuffo, non ve va ben mai
gnente!”, incassando con la
dignità di chi s’è sfogato a ragione il
doloroso scappellotto elargitogli prontamente
da un offeso patrizio. Dopodiché, mettendosi in
piedi, allargò bene le
gambe pericolosamente vicino al giovane uomo, che gli
domandò assai
preoccupato:
“Cossa
fastu?”
“Pisso,
patron”, sentenziò solenne e si slacciò
la braghetta.
Hironimo
lo spintonò via con un calcio. “Non
t’azzardare! Va’ nell’angolo!”
“Col
cadavar dil sorze? Patron, perché non poxo farla
qui?”
“E me
lo chiedi pure, sempio? (scemo, ndr.) Se te pissi qui,
c’insudici a tutti e
do!”
“Ma
me scapa!”
“Tientela!
O falla sull’angolo!”, sbraitò
esasperato il giovane Miani.
“No!”,
si ribellò Thomà e il famigliare zampillio da
fontanella riecheggiò nella
cella, formando una piccola pozzanghera che lentamente e sorniona
raggiunse e
bagnò la coscia di Hironimo, il quale sobbalzò
disgustato dalla parte
opposta.
“Òstrega!
[2] Orco Juda maladeto rotto-in-cul, che schifo!”, ripeteva
sdegnato,
asciugandosi convulsamente la coscia nuda con un lembo della camicia.
“Sacramento ! Che schifo! Che schifo!”
Scrollandosi
a fine pisciata, Thomà sospirò soddisfatto e
sollevato. “Ma vuj no pissate
mai?”, inquisì curioso, riprendendo posto accanto
al giovane patrizio, che,
trattenendo a stento un conato di vomito, gli spiegò
malevolo:
“Son
galantuomo, io! Mi so trattenere! E vado all’angolo,
contrariamente a te che sei
n’onto porzel!”
“An
pulito, se lo dixé vu …”, fece
spallucce il bambino, rannicchiandosi di nuovo
contro il più anziano. Poi, sogghignando perfido,
aggiunse: “Certo
perhò che col pisso indosso stemo horra
ben caldi!”
Un
secondo scappellotto lo indusse al silenzio.
La
botola s’aprì all’improvviso,
cogliendoli talmente alla sprovvista da
sobbalzare, le mani corse immediatamente a riparare gli occhi feriti
dalla
luce.
“Tirateli
su!”, berciò una voce dall’alto e
Thomà afferrò spaventato il braccio di Hironimo,
domandando:
“Che
dixélo? I nui copan?”, ignorando infatti la lingua
dello stradiota, il quale
parlottava coi suoi compagni in un curioso misto tra greco e albanese,
rendendo
ardua la comprensione perfino al giovane Miani, il quale
però, già dimentico dei
dispetti del piccino, gli accarezzò il capo, mormorandogli:
“Stammi
appresso e soprattutto guai a te se fiati. Da qui ne usciremo vivi
tutte e due
o nessuno e se quei cancari vogliono il riscatto, a loro
converrà la prima
opzione.”
Era
quella l’unica sua certezza in quei giorni di orridi
sconvolgimenti, avendo ben
capito Hironimo quanto il capitano Mercurio Bua come prigioniero lo
stimasse,
arrivando perfino a contenderselo col maresciallo La Palice. Tutto quel
fuoco,
pertanto, gli garantiva la sua sopravvivenza (pur in condizioni
discutibili)
fino al pagamento del riscatto o dello scambio.
“Puoah!
Puzzano di piscio e merda!”, li dileggiarono i soldati, una
volta estratti i
due dalla cella, pungolandoli con dei bastoni verso il cortile
centrale, manco
avessero a che fare con dei lebbrosi. “Non peggio dei loro
compagni
sicuramente!”, rincararono la dose e il giovane patrizio
afferrò il motivo di
quell’ora d’aria: nella loro immensa pigrizia, gli
stradioti invece di
seppellire loro i cadaveri dei marciani – oramai in via di
decomposizione –
avevano deciso di servirsi dei due prigionieri, cedendogli
l’onore del becchino
e ciò all’insaputa del Bua, Hironimo ci
scommetteva il mignolo destro.
Quarantasette
corpi, che la Fortuna li assistesse giacché a causa di
quella Quaresima
anticipata a malapena si reggevano in piedi dalla fame, figurarsi
scavare una
fossa comune e trasportare cadaveri uno ad uno.
“Quelle
sono le vanghe. Via, sbrigatevi! E se tentate di scappare o
d’attaccarci, raggiungerete
i vostri compagni un pezzettino alla volta!” e via a
ridersela di gusto,
affilando tuttavia le spade segno che la loro corrispondeva ad una
battuta
unilaterale.
“Andé
in mona de vostra mare, fioi de cagna turca, ch’el diavol vi
ciapi a la
florentina e col sabion …”, sibilò tra
i denti e Thomà arcuò il sopracciglio
genuinamente impressionato nel sentir tali prodezze poetiche uscire
dalla bocca
di un patrizio veneziano, il quale lo fissò storto:
“Coss’hastu da vardar,
mamalucco?”
“Patron,
poxiam per favor sepelir per primo mi fradelo Andrea?”
Stringendo
le labbra e sperando di aver perduto l’olfatto, il giovane
Miani iniziò a
scavare tra la pila di cadaveri alla ricerca del bombardiere e il
bambino, con
le ultime energie e lesto peggio d’una scimmia, vi si
arrampicò sopra, pronto
all’opera.
***
Et
son quela che fa tremar el mondo,
revolgendo
mia falze atondo atondo
O
vero l’archo col mio strale
Sapientia,beleza,
forteza niente vale
Non e
signor, madona, né vassallo
Bisognia
che lor entri in questo ballo.
18 agosto 1496
Quella mattina il decenne Momolo aveva
pianificato
ogni cosa con la coscienziosità di un generale
dell’Antica Roma: lo richiedeva
lo scopo ultimo di quella missione, cioè farsi perdonare da
Padre per avergli
risposto malamente (Andé in malhorra, orco!
tartaro!
Vi odio quanto che sé!) a causa del calamaio tirato contro
il priore di
Santo Stefano e lettore di filosofia, l’agostiniano Jacomo
Batista Aloisi da
Ravenna.
Costui a Ca’ Miani
esercitava il doppio ruolo di
precettore degli studi humanitas di suo fratello
Carlo e di protégé di
suo padre il senatore sier Anzolo Miani q. Lucha, il quale finanziava
le sue
pubblicazioni, in particolare i suoi studi su Aristotele,
nonché il fiorente Monastero
degli Eremitani di Santo Stefano e la sua scuola per fanciulli fondata
il
secolo scorso. E tanto il senatore era rimasto impressionato dalla
preparazione
dei magister puerorum, complice la fama di dotti
degli agostiniani, da
interrompere l’antica tradizione d’inviare i propri
rampolli a studiare al Monastero
della Carità, dall’altra parte del Canal Grande e
quasi opposto a Ca’ Miani.
Si poteva dunque affermare
senz’esitazione, che don
Jacomo Batista e il suo allievo e confratello don Bortolo Rivolta
fossero
oramai di casa, accettando sempre di buon grado gli inviti del loro
mecenate o
a pranzo o a cena così da discutere a tavola di certi
argomenti, che tanto
affascinavano i commensali quanto annoiavano a morte il piccolo Miani.
Non riusciva
a capire come mai Padre, suo fratello Carlo e perfino il suo cugino
sier Zuam
Francesco “il Pizzocchero”
s’entusiasmassero tanto al recente progetto
dell’Aloisi, ossia di redigere dei “commentari
sui libri degli analitici
posteriori di Aristotele dell’agostiniano Alberto di Sassonia”
(il
fantolino già s’era perso ad “analitici
posteriori”). Per lui, corrispondevano
a vuoti concetti, troppo astratti dalla sua vita quotidiana,
un’ingarbugliata
matassa di ragionamenti senza né capo né coda in
greco antico e in latino. Anche
alcuni padri agostiniani dal priore frequentemente citati –
Paolo Veneto,
Alberto di Sassonia, Egidio Romano, etc. etc. – [3] non gli
dicevano un bel
fico secco, al punto che Momolo biasimava i due religiosi ravennati per
la loro
meschinità, non reputando carino spettegolare
così sulla gente morta.
Tuttavia, non era per questo motivo
che il priore
di Santo Stefano s’era ritrovato imbrattato
d’inchiostro. Momolo aveva infatti
tentato di giustificarsi dinanzi all’inflessibile giudice
paterno, piangendo
sconsolato come aveva voluto lordar di nero non padre Jacomo Batista,
bensì suo
fratello Carlo – quel turco adottato! – che nulla
aveva di meglio da fare nella
vita, se non di sfottere il fratellino mentre tentava di domare la
grammatica
latina. Carlino ha la lingua così lunga ed
è così bugiardo – aveva
strillato battendo il piede per terra – che
riuscirebbe ad inchiodare per la
seconda volta in croce IHS XHS!
Quest’impenitente
sbeffeggiatore delle altrui
disgrazie li aveva scovati – Momolo e l’altro suo
fratello Marco - intenti ad
un disperato ripasso, lo Ianua di Elio Donato
aperto sulle ginocchia del
più grande dei due, i cui capelli arruffati tradivano quanto
ardua fosse stata
l’impresa.
“Poeta”, lo
interrogò Marco per l’ennesima volta, la voce
leggermente roca a furia di ripetere all’infinito il medesimo
passo. “Quae pars
est?”
“Nomen est.”
“Quare est nomen?”
“Quia … quia
significat subtantiam et qualitatem propriam vel …vel
comunem cum casu.”
“Nomini quot
accidunt?” e qui Marco gli presentò il palmo
aperto
della mano, iniziando la conta assieme al fratellino.
“Quinque: species
…”, un dito, “… genus
…”, un altro, “… numerus
…
figura et … euh … euh … euh
… l’ultimo non me lo ricordo
…”
“Ma se l’hai
appena menzionato!”
“Casu?”
“Casus!”
“Ed io che ho
detto?!”
“Molighe zò! Non
contestare o ti stampo a furia di sberle la
grammatica sulla fronte, così non te la scordi
più! Allora, cuius speciei?”
“Primitive, quia a nullo
derivat derivative, quia derivatur a
poesia. Visto che ho studiato?”
“Sicuro, coi piedi,
perché si dice “a poesis” - sempio! - non “a
poesia”!”
“Beh, non vale stavolta,
prima l’ho saputa dire correttamente!”
“Gne, gne, sempre una
testa-da-bigoli rimani. Cuius generis?”
“Ma … masculini
…?”
“E pure t’era
venuto il dubbio?”
Al che Carlo, dinanzi a quel giocondo
quadretto,
non aveva più resistito, rendendo nota la sua presenza
tramite un colpetto di
tosse. Hieronymus Aemilianus - Quae pars est?
I due giovinetti s’erano
immediatamente guardati
l’un l’altro perplessi.
Nomen est?, aveva cinguettato speranzoso Momolo.
Puer est?, era stata al contrario la sospettosa
risposta di
Marco, avvezzo al lato più dispettoso del fratello maggiore.
Lode al suo intuito poiché
Carlo, sfoderando un
sorriso rubato allo stesso Mazariol, aveva replicato: Asinus
est!, per
poi abbassarsi quando il decenne fantolino, rosso in volto e schiumante
di
collera, aveva afferrato il calamaio e glielo aveva scagliato contro,
colpendo purtroppo
per lui dritto in petto don Jacomo Batista, che disgraziatamente stava
entrando
proprio in quel momento nella sala grande accompagnato da Padre.
Tale spiegazione non aveva commosso il
senatore
sier Anzolo Miani, il quale gli aveva elargito ugualmente una salutare
mezza dozzina
di vergate, sennonché suo figlio, stufo marcio
d’aver il sedere dolorante due
volte su tre per via degli scarsi risultati scolastici, gli aveva morso
la mano
ed era corso via da Madre col furioso genitore alle calcagna,
nascondendosi
sotto le sue gonne.
Meno male, giacché esse
avevano ovattato la
litigata tra sier Anzolo e madona Leonora Morexini Miani, il primo che
accusava
la moglie di rovinare questo mio fiolo, voi me lo fate
crescere storto! Voi,
che alla sua età ancora gli permettete di giocare con le sue
germane e per di
più con sua nipote! Bone Jesu, s’è mai
visto un puto di dieci anni che gioca
con le pute? Naturale poi che frigni per un nonnulla! Ma
cos’ho avuto, io, per
creatura? Un maschio o una femmina? E l’altra
ribatteva inclemente: Cosa
volete ch’impari, se ad ogni sbaglio lo battete manco fosse
un tamburo di
galea? Si spaventa, povero piccolo, non capisce perché lo
puniate così
severamente. Sa solo che voi e il magister gli incutete una paura
tremenda!
Madona Leonora aveva ragione: il
severo agostiniano
suo insegnante metteva in soggezione il piccolo Momolo, schiacciato
dall’impari
raffronto coi fratelli. Et el Luchino l’gera
cussì, sapeva l’abaco a
maraveggia … et el Carlino lezeva et declamava chome Cicero
redivivo … et el
Marchetto scriveva pulito et richo de vocabuli … et ti,
Momolo, ti te sè na
bestia ignorante! e questo ovviamente mentre il fantolino era
sottoposto al
“cavallo”: tenuto fermo dai compagni e posto a
cavalluccio del magister e
parzialmente denudato, l’ultimogenito Miani si sorbiva, oltre
che alle vergate
sulle natiche, anche la lista dei suoi fallimenti più i
successi dei suoi
maggiori.
E questo per tre anni, da quando,
settenne, egli
aveva abbandonato il suo precettore privato per proseguire gli studi a
scuola.
Che ci poteva fare? Ogniqualvolta il rector
scholarum entrava in classe il
bambino panicava, non si ricordava la lezione e impappinandosi
sbrodolava frasi
sconclusionate in un misto tra latino e veneziano. Manco male che il
greco
antico non era previsto, poiché già nella testa
di Momolo facevano a pugni le
divergenze tra la variante candiota e quella peloponnesiaca del greco
vernacolare, in tutta onestà non necessitava di un terzo
incomodo a creargli
ulteriore confusione.
(Anche se, mano sul cuore, era
divertente assistere
alle pepate diatribe tra la vecchia prozia, madona Andronica da Modone
relicta
Miani, e la fantesca Eudokia di Sfakia di Candia, tra gli Ochi!
di una e
gli Oi! dell’altra.)
Ascoltando quindi i timidi resoconti
di don Jacomo
Batista sul suo rendimento –
il quale
tentava cristianamente di minimizzare , asserendo come il bambino fosse
sì
intelligente ma assai distratto e poco incline alla disciplina e al
duro lavoro
- Lucha e Carlo se
la ridevano sotto i
baffi; Padre, delusissimo, fissava Momolo in cagnesco, battendo poi
snervato il
pugno sulla scrivania ed ecco che i due maggiori si chetavano
all’istante;
Marco, impietosito e suo unico alleato, tentava d’aiutarlo
dandogli di nascosto
ripetizioni.
Ad ogni rientro dal Monastero di Santo
Stefano (col
sedere dolorante) Momolo correva a piangere disperato tra le braccia di
Madre (rigorosamente
all’insaputa di Padre) o in cucina tra quelle
dell’Orsolina, che si diceva troppo
rassomigliante al nonno sier Lucha Miani q. sier Marco, da non destar
sospetti
di una qualche consolazione da parte del patrizio tra una moglie e
l’altra. Pur
non essendolo stata de facto, Momolo la chiamava nèna
(balia, ndr.) e le voleva
un bene dell’anima contraccambiato con ugual fervore dalla
massera, neanche
l’avesse partorito lei. Gli piaceva trascorrere il tempo
assieme in
quell’arsenale in miniatura qual era la cucina di
Ca’ Miani, coi fuochi sempre
accesi e un viavai continuo di servi là dove nessuno lo
prendeva in giro
chiamandolo musso, oco, macaron de Pugia (asino,
stupido, mollaccione,
ndr.).
In quella calda e fumosa sancta
sanctorum sedevano
la fantesca e il bambino davanti al grande caminetto medievale
costruito con
colonnine di un qualche rudere di tempio romano, con
l’Orsolina che filava la
conocchia e annuiva pur non capendo il latino e il Momolo intento a
leggerle ad
alta voce i Disticha Catonis. A sua volta, il
piccino ascoltava rapito
le storie della donna, la sua preferita quella dei mercanti disonesti
tramutati
in pietra da Santa Maria Maddalena, le cui statue ancora si potevano
vedere a
Campo dei Mori a Cannareggio, chiaro monito ai loro colleghi. Se
i tochate co
la man, poderè sentir i cori palpitar e lì la
piera la xé tiepida, chome carne
viva.
A lei Momolo aveva confidato il suo
infallibile
piano onde ottenere il perdono di Padre, cui in seguito a quel suo
sfogo lo
trattava pien di gelida indifferenza, parlandogli a malapena e
solamente al dì
dell’Assunta. (A onor del vero, negli ultimi mesi il senatore
Miani spendeva
molto tempo a Palazzo Ducale e la notte rincasava a notte fonda, quindi
sì, il
suo discolo figliolo non aveva avuto concretamente modo di farsi
perdonare)
Per tutto il tempo, il decenne si era
esercitato
nel segreto della cucina a leggere quel passaggio maledetto dei Disticha
col proposito di declamarlo a memoria a fine pranzo, dove sarebbero
state
servite le anguille ai ferri con la polentina bianca di cui sier Anzolo
andava
assai ghiotto. Dopo aver ben disnà, el sior
vuostro Pare starà de bona voja
e bon consejo, lo aveva assicurato ottimista Orsolina.
Madona Leonora aveva ascoltato
benevola il piano
del figlioletto, permettendogli di accompagnare Orsolina e sua figlia
Zanetta a
Rialto a comprare le anguille, la cui preparazione affascinava il
bambino,
specie quando Nardo il cuoco le estraeva ancor vive dal sacco e queste
gli si
attorcigliavano ai polsi, mentre egli faceva cadere la mannaia e in un
sol
colpo le tranciava il capo. Ah, patron Momolo, durante la
guera contra Frara,
nel Po se pescavan zerti bisati (anguille, ndr.) da far
spavento: a Rialto
ne vendevan di grassi, bei et longhi chome un brazo e per
render l’idea
allungando l’arto appoggiava l’altra mano
all’altezza della spalla. Saveu
perché? Perché ste bestie, dopo la bataja, i se
notriban de cristiani! Ha-ha!-
e via! Un’altra testa rotolava.
Rosicchiando accanto al tavolo la
crosta della
polenta, Momolo ascoltava attento tali aneddoti e al contempo studiava
il
movimento meccanico delle fauci del pesce decollato e gli spasimi del
corpo
lungo e viscido: anche il florentin
(perché poi? Era veneziano!) s’era
contorto così, quando Padre l’aveva portato alla
Piazzetta assieme ai fratelli
onde assistere alla sua decapitazione tra San Marco e San Todero. La
testa era
stata spiccata via con la medesima precisione e forse dal collo era
uscito più
sangue, ma stranamente il corpo del florentin
seguitava a muoversi convulso
e Momolo s’era chiesto in quell’istante se si
potesse vivere anche senza capo.
Poi come l’anguilla anche i resti del condannato erano stati
gettato nel fuoco
e la folla aveva gridato contenta, che ben gli stava a quel degenerato.
“Hai ben guardato,
Momolo?”
“Siorsì.”
“Così finisce chi
si comporta da femmina, senza alcuna
considerazione e rispetto verso Dio, lo Stato e le buone leggi
veneziane!”
Il bambino sapeva d’essere
colpevole quanto il florentin
agli occhi del padre, giacché pizzicato a giocare con le
cugine germane Maria,
Querina, Magdalena, Anzola Morexini e la
sorellastra di quest’ultima, Maria Bolani. Non
era colpa sua, Madre gli
aveva insegnato a non fare malegrazie alle fanciulle, d’esser
con loro
cavaliere e di esaudirle in tutto per tutto, sopportando stoicamente le
loro
visite e se poi le capricciose seguaci di Onfale gli avevano serbato la
medesima
sorte di Ercole, di nuovo: non era colpa sua. Così come non
era colpa sua, se
gli piaceva giocare alla nena coi cuginetti ancora in culla.
Padre però negli ultimi
anni non lo capiva, non
ascoltava mai, non lo lasciava spiegare; sembrava che più il
suo ultimogenito
crescesse, più diminuisse il suo affetto, trasformandosi il
suo premuroso Tata
(papà, ndr.) in un intransigente patron di galea, ai cui
ordini tutti dovevano
scattare ed ubbidire.
Eppure, Momolo lo ammirava e gli
voleva bene, declamando
ai suoi compagnucci al Monastero di Santo Stefano tutte le gesta
paterne,
esagerandole ovviamente, e sostenendo come non esistesse miglior
veneziano di
Padre in tutta la Signoria. Et jo, sòo fiol
– mentiva - lo fazo assa’
contento. Tutte balle, infatti, con la rara eccezione di
quando Momolo
suonava il liuto; ecco lì sier Anzolo si scioglieva in
qualche complimento a
metà per poi commentare amaro: Se solo ci mettesse
lo stesso impegno negli
studi …
Ma oggi, 18 agosto, si sarebbe
ricreduto!
“Orsolina! Zanetta! Leste!
Andèmo! O non catarem pì
gnente!”, le chiamava a gran voce Momolo, incurante di
svegliare in questo modo
l’intera Ca’ Miani. Rivoltosi poi al pope de
casàda [4] saltellando impaziente
lo incoraggiava mentre questi faceva scivolare aiutato dal figlio Lucha
la
gondola in canale: “Symon! Dai mo! Almanco ti datte na mossa!
O femo mezzodì!”
“Servo vostro,
patron!”, esclamò gioviale l’uomo,
afferrando Momolo per le ascelle e issatolo, lo adagiò
lentamente dentro la
gondola. Subito comparvero la suocera e la moglie Zanetta che
s’era attardata
per indossare lo zendale più bello, ancora incredula ma
eccitatissima di
viaggiare sulla gondola dei padroni – Madre non aveva voluto
che le due donne
si recassero a piedi col figlio fino a Rialto, le calli ancora scevre
di luce
per l’ora troppo temprana. E Orsolina,
co’ te sarai a Rialto - aveva
aggiunto madona Leonora all’ultimo momento - ricordati di
comprare anche un fia’ di
colazione per il tuo patron: è uscito presto stamane per
andare in bottega,
temo che per far prima abbia saltato il pasto.
“Ancuò
xé sant’Helena Imperatriz …”
“… ora
pro nobis!”
“Dèmo!”
e detto questo Symon prese a vogare e il
piccolo Momolo dalla fèlze guardava estasiato il
sole apparire timidamente
tra i palazzi, illuminandoli d’oro e rosa come
l’Enrosadira baciava le
Dolomiti. Le prime finestre si aprivano pigre e le massere calavano le
tende
onde proteggere gli interni dal sole estivo, oppure salivano in altana
per
stendere il bucato o per battere i tappeti, canticchiando o
chiacchierando con
le loro colleghe del palazzo accanto. In Piazza San Marco palpitavano i
rintocchi del Paron de Casa, annunciando la Maragona l'inizio dell'attività lavorativa e che come il cuore coordinava il flusso
musicale di
tutte le altre campane, nonché la giornata di ciascun
lavoratore, richiamandolo
al proprio esercizio.
Usciti dal piccolo rio San Vidal ed
immettendosi nel
Canal Grande, il fantolino ammirò l’omonima chiesa
fondata dai suoi avi [5] con
la sua struttura gotica a tre navate e lo svettante campanile
cuspidato.
Entrando, immediatamente sulla sinistra si poteva ammirare
l’altare della
Madonna e un suo dipinto a grandezza naturale, commissionato da sier
Marco
Miani q. sier Lucha, lo zio paterno che Momolo non aveva mai
conosciuto,
giacché morto neppure trentenne nell’isola di
Schiro, nel mar Egeo, dov’era
rettore. Falciato dal tossicoloso morbo che flagellava
l’isola, sier Marco, non
desiderando arrischiare la vita dei marinai, aveva incaricato il suo
cappellano
don Hironimo e il suo lettore Alexandro Bernardo di seppellirlo
lì, a Schiro,
con la sua spada, gli speroni e lo scudo con raffigurato il leone di
San Marco,
secondo l’usanza. Ai suoi cari rimasti a Venezia,
quell’atto devozionale.
(Per questo motivo Momolo si
immaginava il suo
barba un po’ come il San Giorgio del maestro Bortolo
Vivarini: bello, nobile e
fiero che al posto del drago impirava qualche turco come
l’autunnale oca allo
spiedo)
Malgrado fossero oramai trascorsi
ventinove anni
dal decesso del fratello maggiore, gli occhi di Padre
s’inumidivano
puntualmente alla mera menzione di sier Marco, strappandogli un
malinconico
sorriso pieno d’affetto. Dopo la funzione, il senatore si
tratteneva parecchio
tempo in preghiera davanti a quell’altare, che tanta fatica
gli era costato per
realizzarlo, la sua ostinazione più forte
dell’inflessibilità del Maggior
Consiglio [6]. Pur non invitato, Momolo gli faceva compagnia e si
commuoveva
durante le sue ingenue orazioni, immaginando quanta tristezza gli
avrebbe
provocato la morte del suo di fratello Marco.
Subito dietro l’abside di
San Vidal, Ca’ Miani col
resto dei suoi magazzini s’affacciava sia sul rio San Vidal
sia sul Canal
Grande: l’intero sito, piuttosto vasto, era da secoli di
proprietà della
famiglia del bambino e appariva composito ed esteticamente modesto,
articolato
in numerosi fabbricati e unità abitative, con alcune aree
tuttora non
edificate, collegate da una corte centrale con al centro un pozzo in comune. Infatti, oltre che alla famiglia padronale, nella casa da
statio
coabitavano i rami cadetti dei Miani di Carità- San Vidal e
quelli di San Vidal,
nonché sier Polo Antonio Miani da San Giacomo
dell’Orio e la sua famiglia, che
pur non possedendo alcuna porzione dell’edificio, pagavano a
madona Magdalena
Miani q. sier Francesco un cospicuo affitto di 60 ducati annui. E
ciononostante, zia Maddaluzza seguitava imperterrita a lagnarsi a
tavola di
quanto lei fosse poara, vecia e sola, ricevendo
l’usuale replica: Poareta
vu, ve compatisso e poco importava se lei affittava mezza
contrada di San
Vidal.
(Un alveare insomma di parenti dai
gradi più
disparati e ronzante attorno alla dimora dominicale di Padre, il
capoclan del
ramo diretto e proprietario di gran parte dello stabile.)
Sporgendosi un poco, Momolo
respirò a pieni polmoni
l’aria mattutina ancora miracolosamente fresca e il suo
cuoricino decenne venne
colto all’improvviso da una grande gioia, voltandosi
sorridente verso
l’Orsolina e la Zanetta che lo imitarono altrettanto
contente, la più anziana
accarezzandogli dolcemente la guancia. Forse stavolta sul
serio Padre
avrebbe riservato anche a lui un simile trattamento, finalmente
sorridendogli
orgoglioso e perdonandogli la cattiveria urlatagli scioccamente contro.
Bisognava possedere umiltà e coraggio per chiedere perdono
– lo aveva ammonito
il suo padre confessore – e il fantolino si ripromise di non
fallire, così da
riferire al buon frate l’esito positivo dei suoi consigli.
Sicché, risalito il Canal
Grande, Momolo intravide l’imponente
ponte levatoio in legno strutturale di Rialto, le cui rampe inclinate si chiudevano su di una parte centrale, rimossa poi al passaggio delle imbarcazioni più alte. Per poco non si tuffò in
acqua pur di
raggiungere la Riva del Ferro, dove si vendeva l’omonimo
metallo.
Immediatamente s’imbatté nei magazzini del grano e
delle farine, grandi, ben
riforniti e dai numerosi banchi, da cui s’accedeva attraverso
due porte. Alla
fine del Ponte di Rialto si trovava la casa della dogana, dove le merci
venivano pesate, registrate e tassate. Su ogni prezzo vigilava accorta
e severa
la Signoria tramite una lista ad hoc, acciocché gli affari
si concludessero
quanto più onestamente e non si speculasse soprattutto sui
generi alimentari e
di prima necessità. Anche i rifornimenti privati dovevano
seguire la via della
temperanza: nessuna casa a Venezia doveva infatti accumulare
più d’un mese di
scorta di cibo e vino.
Tenuto per mano da ambedue le
fantesche e
camminando per le calli già gremite di gente, in direzione
della piazzetta,
Momolo si sentiva la creatura più felice del mondo, in
quell’allegro trambusto dove
egli giudicava essersi dati appuntamento ogni rappresentante della
razza umana,
riempiendosi gli occhi di visi e abiti dalle fogge più
disparate e le orecchie
d’accenti da ogni dove.
Purtroppo, similmente a tutti i
bambini, il suo
entusiasmo nel far le spese scemò ben presto, impiegando a
suo parere le due donne
troppo tempo per comperare il pane (che file lunghissime!), per contare
le uova
che ci fossero tutte nel paniere e per esaminare la frutta e la verdura
(la
moglie del frutaruol gli aveva pizzicato giocosamente le guanciotte - Caro,
dolce pí che no xé el zúcaro!
- e gli aveva regalato una pesca, prontamente
divorata).
Non paghe della sua noia
montante, madre e
figlia perfino s’erano messe a litigare insistenti in
Beccheria. No! Sì! No! E no!, sventolavano i pugni contro
l’altrettanto battagliero bechèr
(macellaio, ndr.) perché, durante le contrattazioni, quelle erano le uniche parole ammesse.
Peggio
ancora quando incontravano una loro comare amica, attaccando bottone e
non
finendola più e della Pescheria neanche l’ombra,
per sommo chagrin di Momolo
che davvero voleva vedere il pescaor estrarre a mani nude le anguille
dalle
vasche di legno! E i folpi appesi ad asciugare! E le aragoste
da Rodi! E
le cappelunghe fare la linguaccia! O mettere la mano dentro la bocca
gigantesca
della coda di rospo! Dall’Adriatico i pescatori di Murano,
Burano, Torcello e
Chioggia tornavano con pingui carichi di pesci di ogni grandezza e
qualità e
poiché esso si trovava alla base della dieta di ogni
veneziano,
indipendentemente dal ceto, il ricambio di merci era velocissimo, non
avanzava mai
nulla la sera sui banconi.
Di conseguenza, approfittando di un
attimo di
distrazione dell’Orsolina, il fanciullo
scivolò via dalla sua presa e
corse nella calca del mercato in avida avanscoperta, imbattendosi nei
banchi
dei pegni dei patrizi Pixani e Lipomano e dei cittadini Garzoni e
Augustini;
nei gallinari; nei venditori di telerie, nei pellicciai, nei funai, nei
cimatori di stoffe, sarti, bottai, argentieri e orafi, pellegrini e
visitatori,
osti e studenti della Scuola di Rialto in un vorticoso tourbillon di
colori e
odori e schiamazzi. Rialto, nel sestiere di San
Polo, era il cuore
pulsante di Venezia: chi voleva concludere affari veri doveva
obbligatoriamente
fermarsi in quel che si descriveva come il più ricco e
variegato mercato del
mondo. La città lagunare di per sé produceva
poco, ma di tutto si poteva trovare
e comprare, i suoi magazzini straripanti di mercanzia sia dal Levante
che dal
Ponente, e non si limitavano al pianoterra, ma si saliva in alto per
riuscir ad
esaminare tutta la merce trasportata dalle agili e infaticabili galee.
Senza accorgersene, Momolo si
ritrovò davanti alla
bottega di famiglia, là dove vendevano sia
all’ingrosso che al minuto fustagni
tedeschi e fiamminghi; pregiatissimi pannilana da Milano e i San
Martino
fiorentini, confezionati con le migliori lane inglesi; panni garbi di
lana
spagnola; panni di media qualità da Como, Monza e Brescia,
ordinari da Bergamo
e gli emergenti pannilana da Feltre e dal resto del Veneto, sempre
più
richiesti. Fruttuoso commercio, con solido mercato soprattutto nel
Levante, che
non soltanto aveva arricchito la gens Miana, ma che le aveva permesso
d’essere
inclusa nel Libro d’Oro, prima della Serrata, assicurandosi
in perpetuo il suo
posto nel campidoglio veneto [7]. Seguendo le orme dei loro antenati,
la
mercatura era una tradizione ben radicata nei patrizi veneziani, che
non
disdegnavano le fatiche e i pericoli del viaggio, imbarcandosi e
finanziando
spedizioni nelle Fiandre, in Barbaria, Beirut, Alessandria
d’Egitto, nelle isole
greche e Costantinopoli, nel Mar Nero e ad Aigues-Mortes. Tale spirito
avventuroso e proattivo, la costanza e l’esaltazione del
lavoro come mezzo di
riuscita sociale e non come svilente necessità, unito alla
prudenza e alla
saggezza del governo della Signoria, avevano contribuito alla fortuna e
alla
gloria della loro Venezia, bella, ricca, altera, invidiata.
Il bambino entrò
trotterellando nel famigliare
ambiente dell’emporio, dai pingui scaffali e arioso malgrado
la strettezza (le
proprietà a Rialto erano costosissime) sebbene
v’indugiasse un lieve sentore di
pecora per via della lana più grezza. Momolo
salutò allegro e scansò i garzoni
che trasportavano pesanti rotoli di tessuto e che li sistemavano a
seconda della
provenienza, del costo, del colore e della moda; poco distante, alcuni
clienti ragionavano
coi commessi, scrutandoli attentissimi mentre costoro srotolavano sul
banco i
campioni di stoffa scelta. Pendendo in avanti col naso a qualche spanna
dai
tessuti, i potenziali compratori vi scorrevano appena appena i
polpastrelli per
poi tastarli tra indice e pollice, quest’ultimo in esperti
movimenti circolari
onde saggiarne la qualità sia in robustezza che morbidezza.
“Quest’è
rosso, come si usa proprio a Stia. Altri
colori ch’abbiamo sono l’arancione, il verde e il
bigio”, spiegava Zandomenego
Martintoni, uno dei miglior commessi e rappresentante di Padre nelle
mude di
Fiandra, poiché, essendo egli originario di Rovereto,
conosceva bene il tedesco
così d’accaparrarsi le merci migliori ad Anversa,
Bruges e nelle città delle
Leghe Anseatiche. Sier Anzolo aveva fatto da padrino a due suoi
figlioli e la
moglie di Zandomenego ad ogni Santa Lucia regalava al loro datore di
lavoro una
grande torta alle mele, cannella e chiodi di garofano per la
felicità dei
bambini di Ca’ Miani.
In quel momento, l’uomo era
intento a contrattare
con dei mercanti napoletani per del panno cosentino, in un duello
all’ultimo
sangue sul prezzo, troppo alto per i clienti e troppo basso per quello
proposto
dal venditore. Piazzandosi in un angolino dietro al bancone, Momolo
s’acquattò
onde meglio assistere al serrato botta-e-risposta, finché,
dopo una bella
mezzoretta di sì e no e forse, si raggiunse un accordo,
ossia che i mercanti
avrebbero ottenuto uno sconto a patto che acquistassero il doppio della
quantità
richiesta e che pagassero metà in contanti entro la
giornata.
“Perché hanno
comprato tutto quel panno cosentino?
Non vale molto, lo usano i frati per i sai”,
commentò Momolo una volta che i
napoletani se ne furono andati, intanto che Zandomenego chiudeva
sottochiave l’anticipo
e il contratto firmato.
“La guerra, patron Momolo,
la guerra: ora li vedete
piangere il morto, ma questi furboni di mercanti rivenderanno quei
panni minimo
il doppio a chi vorrà ricavarci delle mantelline per le
cavalcature, braghe,
ziponi, vai te a sapere … Meglio per noi, ci siamo liberati
di merce ch’oramai
nessuno comprava da un bel po’ e, d’altronde, che
se ne fanno i soldati di
panno San Martino o milanese? Forse il Re e manco lui, cui a momenti
mancano i
soldi perfino per vestire se stesso.”
Il giovinetto annuì serio e
accorto: dei fatti di
guerra a Napoli, egli l’aveva appresi ascoltando i discorsi
tra Padre, senatore
dei Pregadi e perciò degli affari esteri, e gli zii materni,
assieme ad altri
argomenti quali la visita a luglio dell’Imperatore Maximilian
al duca di Milano
Ludovico il Moro e a sua moglie Beatrice d’Este,
nonché la spinosissima e non
ancor risolta questione del piacentino Giorgio Valla, professore di latino
e greco
alla Scuola di San Marco, e del suo allievo Placido Amerino,
imprigionati
ambedue da febbraio con l’accusa di spionaggio per conto del
Re di Francia,
passando a Gian Giacomo Trivulzio informazioni sulla lega stipulata tra
la
Signoria e il Ducato di Milano.
Ma Napoli occupava tenacemente il
primo posto nelle
conversazioni sia a tavola sia in studio anche per motivi famigliari:
sier
Francesco Morexini, suocero di sier Batista zio materno di Momolo, era
partito per
la Bassa Italia a combattere per la causa del re Ferrandino
d’Aragona, in piena
campagna di riconquista del suo regno occupato dai Francesi. A gennaio gli
ambasciatori napoletani erano giunti a Venezia allo scopo di strappare alla
Signoria un
sostegno sia militare sia pecuniario, favore che il giovane re aveva
ottenuto
impegnando i porti pugliesi di Otranto, Brindisi e Trani in cambio di
denari,
fanti, stradioti, uomini d’arme e galee. Se
l’Aragona fosse però riuscito ad
estinguere ogni debito, la Signoria gli avrebbe restituito tutte le
città, le
terre e le fortezze circostanti, immediatamente e
senz’eccezione. Un patto
semplice e onesto in vista, chissà, di una futura, lunga e
vantaggiosa alleanza
con Ferrandino, reputato uomo d’onore più del
padre Alfonso e del vecchio re
Ferrante messi assieme.
“Zandomenego, hai visto el
sior mio Pare?”, domandò
di punto in bianco Momolo, tallonando il commesso ch’aveva
incominciato ad
aggiornare i cataloghi.
“Avete controllato nel suo
ufficio?”
“E’ il primo posto
dove sono andato.”
“Il signor
Ruberto?”
“Manco lui lo sa.”
Al che l’uomo distolse lo
sguardo dalle pagine
fittamente scritte, guardandosi perplesso attorno. Da quando il suo
padrone
aveva ottenuto la carica di senatore nei Pregadi, lo si vedeva in
bottega e ai
fonteghi solamente di mattina presto o alla sera tardi, per controllare
l’inventario e l’incasso di fine di giornata.
Tuttavia, anche se di recente
sier Anzolo non si vedeva spesso, comunque rendeva ben nota la sua
presenza ai
suoi dipendenti, informandoli sui suoi spostamenti o di persona o
tramite il
suo segretario Ruberto Franco. In fin dei conti, quando a Venezia, il
patrizio si
dimostrava una creatura piuttosto abitudinaria.
“Strano, molto strano che
neppure lui lo sappia …”,
mormorò Zandomenego, chiudendo il pesante quadernone e
alzandosi dallo scranno.
Avanzò di qualche passo, a caso, allungando il collo onde
scovare tra i
presenti la nota figura di sier Anzolo. “Io non …
non credo d’averlo visto
uscire … Cioè, doveva in effetti andare dal Capo
Sestiere però non … penso …
non … Aspettate, patron Momolo, vado un attimo a parlare col
signor Ruberto!”,
si diresse l’uomo velocemente verso l’ufficio del
segretario del senatore,
abbandonando al bancone un interdetto Momolo.
Vedendolo così disorientato
e in pena, Lele, uno
dei garzoni, ebbe di lui compassione e gli spiegò brevemente
la faccenda: “Co’
ghemo averto, ea volta la gera tutta rebaltà, co la roba per
tera, ‘na gran
confusion dil diaol! El patron gh’avea creduo ser vegnui i
ladri e perzò gh’ha
volesto prima vardar cossa ghe gera stà robà e
depo’ a far la denunzia al Cao
de Contrada.”
Lo stomaco del bambino
s’attorcigliò dolorosamente,
provocandogli un lieve riflusso fino in gola, mentre ragnetti di
brividi freddi
incominciarono a risalirgli molesti lungo il collo, rizzandogli i
capelli.
S’inumidì le labbra d’un tratto secche,
attorcigliando ansioso le dita:
ignorava il motivo esatto, eppure un’arcana sensazione di
pericolo l’aveva
colto, quell’antica vestigia d’animale rimasta
negli uomini che, senza
l’ausilio di parole e ragionamenti, allertava e consigliava
ad una pronta
azione. Tale stato d’allerta irrigidiva ora le membra del
fantolino, sentendosi
questi improvvisamente solo e vulnerabile.
“Sai
s’è alla fine uscito?”,
soffiò Momolo,
avvertendo il cuore martellargli in petto.
Lele scosse il capo. “Lo
gh’ho visto ‘nultima volta
là” ed indicò uno sgabuzzino
seminascosto dagli scaffali, “depo’,
mi sun ‘ndà a laorar e nol poxo dirve
de pì.” Poiché il garzone
notò come il fanciullo stesse contemplando quella
porta col medesimo trasognato timore, che un condannato riserverebbe al
suo
ceppo e che di conseguenza non accennava ad avanzare d’un
passo, egli schioccò
le dita verso un collega poco lì distante, intimandogli di
controllare se il
padrone si trovasse ancora lì.
Nettandosi le mani sul grembiale,
l’altro ragazzo
gli rispose tramite un silente cenno affermativo e sparì
all’interno
dell’angusta stanza, lasciando la porta aperta per far
più luce.
Ed ecco.
Bastò un unico, acuto,
mezzo soffocato grido per
stravolgere quella placida mattina d’agosto, per segnare una
violenta linea
netta tra il “prima” e il
“dopo”, senza possibilità di capire, di
rimediare, di
tornare indietro e di cancellare per sempre quel brevissimo istante in
cui il
giovane apprendista usciva
incespicando dallo sgabuzzino, sconvolto
e la mano sul petto ansante, il viso piegato in una smorfia di pura
agonia. Indietreggiando,
egli tentava di parlare e indicava insistente l’interno
semibuio, da cui
s’intravedeva una scala e appoggiato a malapena su di essa
qualcosa di grosso e
scuro.
Immediatamente Lele lo raggiunse,
strattonando per
le spalle il compagno che farfugliava e piangeva e scuoteva il capo,
ordinandogli di rivelargli ciò che tanto lo aveva turbato.
Non ottenendo però
alcuna risposta, entrò anch’egli e di nuovo quel
grido, quel “No!” atroce,
mentre il ragazzo rimasto fuori si copriva la bocca con la mano, per
poi
segnarsi continuamente mentre scivolava per terra in ginocchio.
“Oh, Verzene
Maria … Oh, Madona …!”
Attirati da cotanta sinistra gazzarra,
si creò tosto
un folto gruppetto tra garzoni e commessi il cui numero crebbe fino ad
ostruire
l’entrata dello sgabuzzino, al che Ruberto Franco, giungendo
assieme a
Zandomenego, dovette subito intervenire, spintonando via gli astanti in
modo da
non sconcertare gli altrettanto incuriositi clienti.
“Oh, bone Jesus
dolciximo … El patron!
El patron! … Mi no savevo … mi no gh’ho
podesto … el gera vivo, eo gh’ho veduo
staman e horra … horra …”
Zandomenego, udito ciò,
pigliò subito per un
braccio un pallidissimo Momolo per allontanarlo. “Su, andiamo
a casa, patron
Momolo, vi ci porto io …”, lo esortò
dolcemente, ricevendo invece un feroce
strattone di diniego da parte del giovinetto.
Riavutosi dall’iniziale
spaesamento, Momolo gli
oppose una fiera resistenza, piantò ben bene i piedi prima e
tirò e scalciò
peggio d’un mulo in direzione opposta poi, rifiutandosi
d’abbandonare la
bottega fintanto che non gli spiegavano cosa fosse accaduto a Padre,
fintanto …
“No! No! Lassame!
Lassame!”, strillò quegli
instancabile; a furia di svincolarsi, torcersi e piegarsi era finito
col sedere
sul pavimento e la camicia fuori dalle brache, costringendo Zandomenego
a
sollevarlo di peso. “Vojo vardar! Xé’l
mio sior Pare!”, si dimenò di disperata
ansia e mulinò sconclusionatamente la braccia per
schiaffeggiare via il
commesso, che indietreggiando si stava dirigendo all’uscita
del negozio.
“Lo vedrete, ve lo giuro! Ma
ora andiamo a casa!”
“No! Lo voglio vedere ora!
Ora! Ora! Ora!”
“Patron Momolo, per favore
… Lo rivedrete …!”
Momolo inarcò la schiena in
un doloroso arco, si
girò ed elargì un calcio agli stinchi di
Zandomenego. Finalmente libero schizzò
velocissimo dentro lo sgabuzzino, seminando l’uomo che lo
rincorreva. “Tata!
Tata!” Si fece strada sgomitando, gli occhi già
umidi di lacrime e invocando il
padre, le braccia protese in avanti come se, una volta giunto in quello
stanzino, al suo interno fosse sicurissimo di trovarvi Padre, vivo e in
salute.
Come se fosse lì ad attenderlo a braccia aperte, pronto ad
abbracciarlo e a
consolarlo.
“Tata! Tata!”
Mia
figura o peccator contemplerai
Simile
a mi tu vegnirai
Digrignando
i denti e centellinando col naso l’aria
mefitica, Hironimo districò
faticosamente e a mani nude i cadaveri accatastati in barcollanti pile,
disponendoli
in ordine uno accanto all’altro, acciocché potesse
riconoscerli e salutarli
nella sua testa prima di seppellirli, in muto ringraziamento per il
loro eroico
ma inutile servigio.
Quando
arrivò il turno di sistemare il corpo seminudo di Menego, il
figlio dell’Orsolina,
grigio, mezzo marcio e assolutamente anonimo, il giovane Miani si
domandò perché
mai i volti dei morti s’assomigliassero tutti.
Non
ofender a Dio per tal sorte
Che
al transire non temi la morte
Che
più oltra non me impazo in be né male
Che
l’anima lasso al judicio eternale
Et
come tu averai lavorato
Cossì
bene sarai pagato.
Se non fosse stato per la toga nera
manco l’avrebbe
riconosciuto.
O meglio: lo avrebbe, ma Momolo per
quanto si
sforzasse non capiva come mai quel fantoccio penzolante scalzo, dalla
faccia
gonfia, dalle pupille dilatate e dalla lingua fuori potesse essere
Padre, il
senatore sier Anzolo Miani. Su quel viso di cinquantenne il bambino
aveva contemplato
ogni genere di sentimento, però mai quello gelido e immobile
della morte,
avendo Momolo sempre creduto Padre immutabile ed eterno come Domine
Iddio e
ironicamente, pensò, adesso stavano tutti a contemplarlo
sconcertati e dolenti
col naso all’insù come le Pie Donne e San Giovanni
sotto la Croce.
E appunto come la Maddalena il bambino
afferrò le caviglie
del genitore e se le strinse forte al petto, strusciando la guancia
sulla
stoffa nera. Trattenendo i singhiozzi, Momolo si mise in punta dei
piedi e
spinse in alto con tutte le sue forze, illudendosi di poter salvare suo
padre,
di poter sfilare quella corda dal collo bluastro.
Gridò dallo sforzo,
maledì la sua impotenza. “Tata!
Tata!”, gli batteva le ginocchia. “Tata!
Tata!”
All’improvviso, la luce
scomparve e Momolo si
ritrovò cieco a causa di una mano callosa sui suoi occhi:
Zandomenego l’aveva
preso in braccio, nascondendogli poi il viso sull’incavo
della sua spalla. Di
riflesso, il bambino strinse tra i pugni la stoffa del suo farsetto,
lasciandosi avvolgere da quel buio improvvisato affinché lo
conducesse via da
quel luogo, dalle immagini impietose marchiatesi a fuoco nel suo
cervello.
“Lele, molighe de fiffar e
corate dal Cao de Contrada,
lesto!”, gli giungeva sempre più ovattata e
distante la voce affannata di
Ruberto. “Vuialtri, mandé via tutti e serrate ea
botega! Nissun gh’ha da
vardarlo, nissun!”
Momolo voleva urlare. Voleva piangere.
Svenire.
Qualsiasi cosa pur di liberarsi da quel subitaneo nodo alla gola, che
gli
impediva di respirare e gli tingeva la visuale di chiazze. Invece,
tenuto
saldamente da Zandomenigo, altro non gli riusciva se non
d’aprire e chiudere la
mano, come se desiderasse afferrare quella spalancata e rigida del
padre.
Un prima. Un dopo. Un mai
più.
Il giovinetto avvertì il
mondo ruotare,
capovolgersi e schizzare via in una moltitudine di colori che si
mischiarono e
sciolsero vorticosamente fino a scagliarlo in un mare di luce
bianchissima,
dove il decenne fantolino v’affogò volentieri,
accogliendo a braccia aperte
quel doloroso nulla che tanto s’era fatto aspettare.
Nel dolore implose.
O
peccator non peccar non più
Chel
tempo fuge e tu non te n’avedi
Neanche
un prete a benedire le loro tombe. Oh, che differenza avrebbe poi
fatto? I
morti non si lamentano.
Thomà,
instancabile, intrecciava con l’erba piccole croci da mettere
sui petti di
ciascuno intanto che Hironimo scavava la fossa comune.
Le
lacrime sincere di quel bambino erano più sante di qualsiasi
acqua benedetta.
De la
tua morte che certeza aitu
Tu
sei forsi alo extremo et non lo credi
De
ricore col core al bon Iesu
Et
del tuo fallo perdonanza chiedi
Vedi
che in croce la Sua testa inchlina
Per
abrazar l’anima tua meschina …
Madre e le fantesche avevano
agghindato Padre con
la medesima perizia, che il defunto avrebbe usato per recarsi alle
riunioni dei
Pregadi a Palazzo Ducale, quasi a cancellare attraverso una raffinata
eleganza
ogni ricordo dello stato indecoroso, nel quale era stato rinvenuto.
Dopo che l’ufficiale
sanitario e i barellieri se ne
furono andati, lasciando il cataletto e il suo triste cargo sotto un
lenzuolo, madona
Leonora - riavutasi
dall’iniziale
deliquio e spediti i figli al piano di sopra da madona Maria Foscarini
Miani - gelida
come il marmo aveva disposto di sistemare il consorte sul tavolo e di
preparare
il necessario onde ripulirlo e acconciarlo per l’ultimo suo
viaggio terreno. Il
tutto in un silenzio assoluto, chiunque avesse osato fiatare avrebbe
incontrato
i latrati ferocissimi della vedova, la quale aveva concesso al massimo
di
piangere con la bocca chiusa, dando l’esempio coi suoi occhi
rosso fuoco e le
guance smorte rigate.
Lei stessa aveva insistito di vestire
sier Anzolo,
accarezzandogli furtiva i capelli con la scusa di pettinarglieli e le
guance di
chiudergli il colletto, lo sguardo dolente e amorevole fisso sul suo
corpo
rigido ed illividito come se, tramite le sue carezze, desiderasse
risvegliare
il marito da quel gelido sonno. Orsolina e le altre domestiche avevano
finto di
non vedere, concentrandosi sul gravoso compito, semmai accelerandolo
acciocché
tutto fosse pronto per l’arrivo del resto del parentado,
sempre senza proferire
alcun motto, avendo infatti già comunicato ciò
che dovevano comunicarsi, oramai
abituate a quella mesta usanza, la memoria ben allenata dai passati
decessi in
Ca’ Miani. Ne avevano seppelliti abbastanza da saper alla
perfezione cosa fare
e come comportarsi, sebbene non negavano un certo turbamento per le
circostanze
della morte del padrone, le quali nessuno pareva darsi la pena di
chiarire, in
primis la moglie.
Quando Zanetta salì a
chiamare Momolo ed i suoi
fratelli, era tardo pomeriggio e la vestizione completa;
s’attendevano i
parenti più stretti per trasportare il defunto a San Vidal e
lì iniziare la
veglia.
Uno alla volta giunsero a porgere i
propri
rispetti: il biscugino sier Zuan Francesco Miani e sua moglie Maria
Foscarini
Miani; l’anziana Maddaluzza Miani e madona Ysabeta Zen
relicta Miani ora Grioni col ventitreenne
figlio Alvixe Miani e il di lui fratellastro Piero Grioni; sier Polo Antonio Miani e sua moglie Maria Morexini
Miani,
cugina di Madre, e i loro cinque figlioli, di cui l’ultimo,
Piero, ancora in
braccio alla balia. Poco più tardi si presentarono Crestina
Miani da Molin, la
figlia di primo letto di sier Anzolo, assieme al marito sier
Thomà da Molin e
alla piccola Leonora detta Dionora; appena scorse la matrigna, la
venticinquenne patrizia le corse incontro, abbracciandola forte e
piangendo
silenziose lacrime sulla sua spalla, mentre madona Leonora le
accarezzava il
capo velato di nero.
A costoro s’aggregarono le
famiglie dei commessi e
degli operai di sier Anzolo, Ruberto Franco e Zandomenego Martintoni i
primi a
presentarsi; poi quelle della contrada di San Vidal e dintorni; in
serata alcuni amici
intimi del senatore, quali il
senatore della Zonta sier Antonio Trum e suo fratello minore Sebastian
Trum,
previi cognati del Miani. Madre ed i suoi figli li accoglievano
rigidamente
composti, la donna vestita interamente di nero, accollatissima, le
belle trecce
nascoste sotto una scuffia nera e un voluminoso paneselo nero lungo
fino ai
fianchi tanto da scambiarla per una suora. Il ventunenne Lucha e il
diciannovenne Carlo già si presentavano con
l’ombra della barba che, per tre
anni, avrebbero sfoggiato a mo’ di lutto, assieme al mantello
serrato bruno,
dallo strascico assai lungo, stretto ai fianchi da una cintura di cuoio
e
affibbiato sotto la gola.
“Le nostre più
vive condoglianze”, sentiva Momolo
ripetere ogni visitatore, mentre Madre e i fratelli stringevano di
continuo
mani e sorridevano forzatamente a quella processione di volti
familiari;
quest’ultimi però stentavano di rimando a
riconoscerli, stravolti com’erano da
quell’inatteso e tragico evento.
Sua nonna, madona Ysabeta Contarini
relicta
Morexini, accorgendosi del silente nipotino, gli accarezzò
la guancia,
sussurrandogli parole di conforto prima di recarsi nella camera da
letto del
morto per unirsi allo scoordinato coro di “Ave
Maria”. Ogni tanto gli si
batteva sulla schiena o sulla spalla, incoraggiandolo a farsi forza, al
che Momolo
replicava annuendo, ricacciando indietro quelle lacrime che solo dopo
le
esequie e nella segretezza della sua stanza gli sarebbe stato
consentito di
versare. Ma non ora. Non in pubblico, a quello ci pensavano le donne.
Non era
ciò che sempre Padre gli aveva rimproverato? Di frignare ad
ogni occasione? Mai
più – si ripromise – mai più
avrebbe pianto. Egli era un ometto e gli uomini
non piangono.
La genitrice e i fratelli si
dividevano anch’essi
tra gli infiniti convenevoli, i saluti e le melodrammatiche
proclamazioni su
quanto la morte di sier Anzolo Miani li avesse rattristati e se
ciò
corrispondesse al vero, meglio non sapere.
Momolo, aggrappato alla mano di Madre,
assisteva passivo
all’intero spettacolo e un poco innervosito, gli occhi ben
asciutti.
Al crepuscolo trasportarono Padre su
di un
cataletto nella chiesa parrocchiale di San Vidal per la veglia funebre
– al
lume delle torce rette dai fratelli Lucha, Carlo, dal biscugino sier
Zuan
Francesco e dai suoi zii sier Batista, sier Lunardo e sier Hironimo
Morexini “da
Lisbona” (quest'ultimo senatore dei Pregadi come il cognato) accorsi in tempi diversi durante il giorno. Un affare semplice,
privatissimo, quasi vergognoso
e in netto contrasto con la pomposa cerimonia che si apprestava a
compiere il
giorno seguente.
Nell’andirivieni generale di
partecipanti e babe
pizzochere, soltanto lo zio di Momolo, sier Batista, era sempre rimasto
in
chiesa, avendo infatti mandato avanti la matrigna madona Ysabeta, i
suoi
fratelli e la moglie madona Morexina Morexini, promettendo di
raggiungerli a
Ca’ Miani. In passato, vegliare su di un cadavere pronto per
l’ultima dimora
terrena non aveva mai scosso suo zio più di tanto,
ricordandoselo Momolo
impassibile se non talora annoiato; ora, invece, l’uomo gli
appariva inquieto,
forse per colpa dell’innaturale silenzio regnante nella
chiesa o forse perché,
come tutti, non si capacitava di tale disgrazia abbattutasi improvvisa
e
violenta sul cognato e sulla sua famiglia.
E il fantolino poteva ben immaginare,
quanto tale
sua apprensione non fosse rivolta a Padre – ormai in gloria
di Dio – bensì a Madre,
che sier Batista trovò là dove l’aveva
lasciata, seduta in uno stato pressoché
sonnambolico davanti al catafalco, illuminata a malapena dalla fioca
luce dei
ceri funebri, proiettando questi lunghe ombre sui muri e trasformando
il morto
in un’informe massa scura. Sulle ginocchia di madona Leonora
sonnecchiava
appena Momolo, la mano tuttora stretta a quella della genitrice; il
quindicenne
Marco, dal canto suo, s’era accontentato della spalla. Quanto
a Lucha e a
Carlo, erano rientrati a Ca’ Miani per coordinare il piccolo
rinfresco e
sorbirsi, volenti o nolenti, la compagnia del parentado, che fino al
dì del
funerale si sarebbe accampato nella casa da statio.
Sedendosi accanto alla sorellastra,
sier Batista le
mormorò dolcemente: “Dovreste coricarvi, almeno
per qualche oretta: non avete
neppure mangiato e domani …” e si
bloccò in tempo onde evitare sciocchezze
tipo: sarà una giornata impegnativa. E come no!
Madona Leonora scosse lentamente il
capo in
diniego, gli occhi vitrei riflettenti l’arancione delle
candele, fissandolo
sperduta come se l’avesse visto per la prima volta in vita
sua. Negli abiti neri
da vedova pareva ancor più giovane e al contempo vecchia per
via delle spalle
ricurve, del pallore dell’insonne e delle profonde occhiate.
“Domani lo lascerò
… non stanotte, no, stanotte rimango con Anzolo
…”, gracchiò, passandosi rapida
e vergognosa il dorso della mano guantata sugli occhi. “Il
fumo …”, bofonchiò a
mo’ di scusa, tirando su col naso.
Il suo fratellastro accettò
la debole giustificazione
senza commentare. In quel momento, Momolo uscì completamente
dalla sua
dormiveglia, ma, accorgendosi dell’espressioni serie di
confidenza tra Madre e Avunculo,
seguitò nel suo finto sonno, in ascolto, specie quando, inaspettatamente, l'altro zio sier Hironimo Morexini s'unì a loro.
“Siete ritornato in ritardo,
oggi.” Il tono di sier Batista suonava tanto duro quanto gli altari di marmo e quel suo velato rimprovero doveva fondarsi su ottime motivazioni, per rivolgersi così al fratello maggiore.
“Sapete
perché", replicò altrettanto tagliente sier Hironomo.
“Mi permetteranno di
seppellirlo in chiesa?”, altre erano le preoccupazioni della vedova e almeno in questo, i due Morexini ebbero di lei, rassicurandola:
“Il priore don Jacomo
Batista non nutre alcun
dubbio a riguardo.”
“Questo vi ha
trattenuto?”
Un istante d’esitazione.
“No.”
Madre si voltò verso sier Hironimo, guardandolo tanto supplicante quanto sier Batista accusatore. “Significa che sanno chi è stato. Mi
rifiuto di credere che mio
marito si sia tolto la vita”, interruppe lei la replica
del fratellastro più anziano, zittendolo
bruscamente. “Anzolo non s’arrendeva dinanzi a
nulla, né sarebbe stato così
codardo ed egoista da scegliere a nostro discapito questa triste
scappatoia.
Non lo credo! Non è possibile! Me lo hanno ammazzato e i
Dieci conoscono il
colpevole!”
Il senatore dei Pregadi girò il capo
dall’altro lato, evitando
di risponderle e ciò confermò le intime angosce
della donna.
“Voi lo sapete! Ve lo hanno
comunicato, quando vi
siete recato a Palazzo per assicurargli una sepoltura da cristiano!
E’ così?”,
lo incalzò sier Batista e madona Leonora, dinanzi all'ostinato mutismo del fratellastro, gli ordinò affannata: “Me lo
dovete dire, Hironimo! Sono sua moglie! I miei figli hanno il diritto di sapere
chi ha
ucciso il loro padre! Perché mi fate questo sgarbo
tacendomelo?! Perché ci
costringete a vivere con questo peso?”
Il patrizio allora
s’alzò di scatto, avanzando a
grossi passi verso il catafalco.
“Perché non
abbiamo prove!”, sbottò frustrato sier Hironimo,
appoggiando la mano poco distante da quella guantata ed inerte del
cognato,
quasi desiderasse scusarsi con lui
per la
sua impotenza. “Senza prove concrete, inizieremmo uno
scandalo di tal portata, che
se le nostre teorie si rivelassero sbagliate, ci risulterebbe difficile
se non
impossibile ritrattare”, le confessò, calmandosi e
respirando a fondo.
Dopodiché il Morexini riaccese alcune candele, lo stoppino
soffocato
dall’eccesso di cera. “Se Anzolo fosse stato ucciso
da un qualsiasi suddito
della Signoria, quant’è vero Iddio lo avremmo
scovato e tagliato a pezzi tra
Sen Marco e Sen Todero. Poiché sospettiamo non essere
così … Senza prove concrete
non possiamo nominare nessuno a voce alta”, e si
passò stancamente una mano
sulla tempia. “Noi tutti siamo amareggiati per quel che
è successo. Si poteva
evitare”, e terminata l’operazione di riaccensione
delle candele, riprese il
suo posto sullo sgabello in attesa dell’alba.“Ma
una testa rotolerà per certo,
sorella mia, questo ve lo promettiamo: hanno voluto darci un monito.
Ebbene,
anche loro riceveranno il nostro.”
Momolo rabbrividì
all’udire quella minacciosa
promessa, ch’odorava di sangue, stringendosi inconsciamente a
Madre.
A Venezia ogni cosa pubblica doveva
essere uno
spettacolo e il funerale di un suicida (o presunto tale, come si
correggeva
ferocemente lo sprovveduto pettegolo che affermava il contrario) lo era
assai,
attirando più partecipanti di quanti invitati, pareva aver
reso l’anima Missier
il Doge e non un senatore a giudicare dalle finestre gremite di facce
incuriosite e scandalizzate; delle calli quasi ostruite di gente che si
univa
al corteo o che tentava di sbirciare il volto del morto, se si notavano
i segni
della corda (c’erano e belli scuri sotto il velo rosso
postovi da Madre, in
modo da confondersi con il colletto della vesta).
Per sicurezza, durante il tragitto
verso Santo
Stefano, i Miani avevano ordinato ai servitori di tenere ben pronti i
bastoni
in mano, da calare su qualsiasi testa facinorosa e fanatica che avesse
osato
disturbarli. Per fortuna non fu il caso, procedendo
serenamente il pingue
corteo indisturbato, tra Litanie dei Santi e segni della croce dei
passanti o
di chi s’affacciava alla finestra, srotolando da essa un
panno viola o nero in
segno di partecipazione. Momolo aveva assistito ad altri funerali, come
ad
esempio quello del suo omonimo prozio sier Hironimo Miani e di sua zia
Barbara
Moro Morexini, però ugualmente rimase sopraffatto da tutta
quella gente, dai
preti agostiniani e dai chierici; dai dipendenti in bottega e magazzini
ai
marinai e comiti che avevano servito nelle fuste e galee di sier
Anzolo, quando
questi era stato Capitano della Riviera della Marca durante la Guerre
del Sale
e capitano della muda di Beirut.
Oltre a costoro, seguivano poi: sier
Thomà Miani
cugino di Padre con le figlie Anzola e Maria, maritate rispettivamente in sier Alvixe Zantani e sier Fantin
Dandolo; sier Daniel Contarini, figlio della prozia Helena Miani
Contarini, e
sua moglie Cypriana Arimondi Contarini; l'anziano procuratore di San Marco sier Andrea Contarini e madona Andriana Miani Contarini, altra zia paterna del defunot, e i loro numerosissimi figlioli e figliole tra cui sier Thadio e sier Antonio Contarini, che vivevano a San
Vidal,
il secondo assieme al figlio Sebastian Contarini e madona Pellegrina
Contarini
Morexini in compagnia dei figli Silvestro, Phelipo detto "l'Avaro" e Bortolamio Morexini.
Lontani parenti, ma pur sempre in
Ca’ Miani
partecipavano il novantaduenne sier Andrea Miani q. sier Vidal, tenuto
sottobraccio da sua nipote Maddaluzza Miani con accanto madona
Magdalena
Marzelo da Canal, moglie di Marin da Canal suo altro nipote.
Dei Miani di San Giacomo
dell’Orio si presentarono,
oltre a sier Polo Antonio e famiglia, anche i suoi fratelli Batista,
Sebastian,
Zuanne, Lorenzo e Domenego e i loro cugini germani, Segondo, Zuam
Batista e
Domenego figli del cugino del nonno paterno di Momolo, quel sier
Thomà Miani
che tanto lo amava quasi se non più d’un fratello,
da compartire l’anno di
esilio quando, stolti e impetuosi ventenni ch’erano stati,
sier Lucha e sier
Thomà avevano deciso d’impegolarsi in strane
sette. Momolo aveva conosciuto nei
dettagli la succosa vicenda al funerale del medesimo sier
Thomà, deceduto
quello stesso anno.
E per virtù di matrimoni,
che legano il mondo, la
cognata di sier Thomà, madona Agnete Vituri, aveva sposato
sier Nicolò Loredan
fratello di madona Crestina Loredan Miani, madre di sier Anzolo,
sicché costoro
non poterono mancare, anche dopo che sier Lucha Miani, soffrendo del
mal dell’eterno
marito, si era risposato con la giovane vedova di sier Francesco
Dolfin. Tra
questi parenti spiccava l’anziana madona Agnexina Minotto
Loredan, moglie del
prozio sier Bertuzi e figliola del magnifico messer Hironimo Minotto,
morto
decapitato a Costantinopoli assieme al figlio Zorzi e ad altri sette
patrizi
veneziani, dopo averla virilmente difesa contro i Turchi. Madona
Agnexina e suo
fratello sier Polo Minotto, catturati assieme alla madre e destinati ad
una
vita di schiavitù, per grazia di Dio e della Madonna erano
invece riusciti a
fuggire e a rimpatriare a Venezia, assegnando la Signoria una dote alla
fanciulla.
A proposito di Turchi: ai fratelli
sier Antonio e
sier Sebastian Trum s’erano aggregati i loro quanto mai
numerosi famigliari,
tra cui Momolo riconobbe sier Phelippo Trum q. il Serenissimo Missier
el Doxe
Nicolò Trum con la moglie e e la cugina di Madre sua cognata,
quest’ultima rimasta precocemente
vedova del sopracomito sier Zuane Trum, morto a Negroponte per “la fede e per el
stado”; i figli di
madona Francesca Trum Dolfin, il cui marito era stato
anch’egli alla custodia
di Costantinopoli sebbene con epilogo più felice; il
capitano sier Hironimo
Contarini “il Grillo” dei SS. Apostoli e sua moglie
Orsetta Trum Contarini,
nota per la sua bruttezza leggendaria, coi figli Francesco e Magdalena.
Degli
altri cugini di suo zio sier Antonio, il piccolo Miani si
soffermò su Stae Trum
q. sier Antonio, il quale i medici patavini avevano dichiarato
irrecuperabilmente pazzo furioso e di fatti lo tenevano ben stretto i
suoi
fratelli Carlo e Donado e seminascosto dagli altri fratelli, sier Francesco, sier Lucha e sier Marco. Il povero Stae, scagnato dai parenti e
seppellito vivo
in casa, al decenne Miani in verità suscitava
un’infinita tenerezza, povero
prigioniero della sua medesima mente, dal sorriso sghembo e svagato,
gli occhi distratti
sempre vaganti di qua e di là e un filetto di saliva che gli
rigava il mento,
quando parlando esibiva nei suoi criptici discorsi la tipica saggezza
dei
matti. Non era nato così - aveva appreso il giovinetto - avendo anzi lavorato come giudice nella Quarantia Criminal; semplicemente, nel corso degli anni qualche demone interiore aveva roso, poco alla volta, il senno di sier Stae e soltanto Domine Iddio poteva nominarlo.
Dalle bande di Madre, oltre alla nonna
Ysabeta, Momolo salutò i suoi cugini Zuanne, Donado e Francesco Michiel, quest'ultimo con la moglie Ysabeta Longo Michiel, figli dei sier Donado Michiel q. Zuanne detto "il Fusta", figliastro di sua nonna e di Cecilia Trum Michiel, cugina di sier Antonio e sorella di madona Francesca; dopodiché il piccolo Miani passò agli altri cugini, Alvixe, Andrea ed Hironimo Barbaro, figli dell'altra figliastra di madona Ysabeta, Diamante Michiel Barbaro e di Piero Barbaro q. sier Donado.
Venne anche il cognato dell'avia materna, sier Ambruoxo Contarini q. sier Beneto, capitano
della galea Aegeus
contro i Turchi, ambasciatore ed esploratore, in compagnia di sua
moglie madona
Margareta Crispo Contarini col figliolo Beneto Contarini. Momolo per
questo
parente nutriva una grande fascinazione e gli dispiaceva di
rincontrarlo in
tali infelici circostanze, adorando infatti sedersi ai suoi piedi per
ascoltare
le sue avventure nel Levante. Il piccolo Miani forse non si ricordava
manco
sotto tortura gli Ianua e i Disticha
Catonis, però poteva citare
verbatim ogni singola parola dei libri-resoconto “Questo
è el Viazo de
misier Ambrogio Contarini” e “Viaggio
al signor Usun Hassan re di Persia”,
ripetendo come da grande egli avrebbe imitato il prozio e viaggiato per
il
mondo in lungo e in largo, ammazzando Turchi, salvando donzelle in
pericolo e
divenendo amico di re e imperatori di paesi esotici e mai scoperti. “Sì,
sì,
sempio come sei, appena metti fuori il naso dal Golfo, ti catturano i
Turchi e
ti vendono schiavo al Sultano d’Alessandria
d’Egitto per fargli da scimmia!”
“Sior Pare, aveu sentito?” “Carlino,
molighe: qui nessuno vende nessuno al
Sultano!”
I più vicini al cataletto,
però, rimanevano i
Morexini dalla Sbarra di Santa Ternita, cognominati “da
Lisbona” per via dei
lunghi anni in Portogallo del fu sier Carlo Morexini q.
Nicolò, nonno materno
di Momolo, senatore e “companheiro”
del fiorentino Bartolomeo di
Jacopo di Vanni, con cui aveva fondato una società di cambi
tra Lisbona e Roma tramite
la banca Gianchinotti-Cambini di Firenze, società tra i cui
clienti s’era
annoverato perfino l’infante don Enrique d’Avis.
Tra i suoi sei figli di primo letto, avuti da
Querina Querini q. Piero q. Gelmo, spiccava appunto sier Batista che
pur il
minore di loro era divenuto per i suoi meriti il nuovo capofamiglia;
gli
camminavano vicino sua moglie Morexina “dalla
Testa” e i figli più grandicelli
Carlo, Piero, Nicolò, Hironimo e Maria, mentre Querina e
Ferigo erano rimasti a
casa con la balia. Un po’ in disparte, dietro padre, matrigna
e fratellastri,
li seguiva Andrea Morexini detto “il Vendramino”,
illegittimo, nato prima del
matrimonio di sier Batista. E dietro a costoro gli zii
Nicolò, Piero, Ferigo,
Hironimo e Lunardo con le rispettive consorti e prole, la cui compagnia
solitamente Momolo apprezzava grandemente, ma ora la rifuggiva, neanche
gli
ricordasse quei giorni felici che giudicava rubatigli ingiustamente,
provando
una forte invidia, poiché i suoi cugini, nel bene e nel
male, seguitavano a
godere della presenza di un padre, mentre lui ne sarebbe rimasto orbato
per
sempre. L'unico a salvarsi dal suo rancore rimaneva il figlioccio e il più giovane dei cognati di sier Battista, il diciassettenne Anzolo Morosini, il cui padre Francesco detto "da Zara" si trovava in Bass'Italia a combattere per Ferrandino d'Aragona re di Napoli.
A far da ponte, oltre a Madre, tra Miani e Morosini, erano venuti a porgere i propri rispetti anche i biscugini di Padre, in primis sier Christofal Moro q. sier Lorenzo: suo nonno il fu sier Antonio aveva impalmato la prozia di sier Anzolo - madona Barbara Miani Moro q. sier Zuanne. La sua omonima nipote, Barbara detta "Barbarella" s'era poi maritata con sier Hironimo "da Lisbona" zio di Momolo, morendo tuttavia due anni addietro, anch'ella ad agosto. Ma non era per la sua parentela, che l'arrivo di sier Christofal suscitò qualche bisbiglio e sorrisetto: era la compagnia della sua terza moglie, madona Istriana Pasqualigo Moro di sier Cosimo, la sua bellezza direttamente proporzionale alla grande gelosia che il marito nutriva nei suoi confronti. Madona Istriana era pregna per la terza volta e ci si domandava non senza malizia se, dopo le figliolette Ysabetta e Paola, il suo figliastro Lorenzo Moro avrebbe finalmente avuto quel tanto sospirato fratellino o se per tal impresa fosse necessario l'ausilio di una quarta moglie.
Codesto variegato corteo
occupò quindi la Chiesa di
Santo Stefano e la cerimonia soddisfò pienamente le sue
aspettative. Il cataletto,
una volta entrati, era stato collocato sotto un baldacchino pieno di
lumi su
cui incombeva il manichino di una Morte alata, dal pesante mantello
nero,
munita di falce e del suo usuale ghigno, reso doppiamente sinistro
dalla
penombra e i fumi dell’incenso. Simbolo della
caducità della vita e della
vanità delle passioni, a Momolo quel fantoccio parve al
contrario un difensore
del corpo di Padre, quasi volesse scansare da lui i suoi assassini e
risparmiargli le loro ipocrite lacrime.
Sier Anzolo giaceva in gelida composta
perfezione sul
suo catafalco, recante tra le mani ricoperte da morbidi guanti di cuoio
una
piccola icona della Panaghia Tricherousa [8], l’ultimo dono
di suo fratello
sier Marco da Schiro, da cui il patrizio non se ne separava mai. In
rispetto
alla sua carica nei Pregadi, la vesta sceltagli era di velluto
semplice, pavonazzo,
dalle maniche grandi e aperte e foderata d’ermellino; le
calze e le pianelle invece
erano rosse così come la stola sulla spalla. Sul capo, una
beretta nera.
Si recitarono le orazioni e si
cantarono le
esequie, incensando di continuo il defunto, alla mercé dello
sguardo indagatore
e venale di ogni visitatore, che valutava in pecunia ogni spanna di
seta e
velluto con la scusa di pregare per la sua anima, nonché
cercava di capire in
che cosa differisse il cadavere di un suicida da uno morto
cristianamente. Accanto
a Padre, i corocciosi (parenti in lutto, ndr.) assistevano
alla Messa da
Requiem gravi e solenni, in statuaria immobilità,
interamente coperti da un lungo
mantello nero a strascico e un cappuccio, tanto da scambiarli per
lugubri
statue.
Tenuto per mano stavolta da Marco,
Momolo notava
come tutti si rivolgessero con estrema cortesia al primogenito Lucha,
fino a
qualche giorno fa sempre dietro a Padre, in silenzio se non
interpellato.
Adesso, invece, lo accarezzavano ipocritamente dogliosi e lo trattavano
da gran
amico, ormai chiaro il temporaneo cambio di testimonio a Ca’
Miani. Dopodiché, al
compimento della maggiore età degli altri fratelli, il Tempo
avrebbe svelato
chi veramente avrebbe assunto il ruolo di capofamiglia.
Ai dubbiosi, agli addolorati
nonché ai morbosi e ai
pettegoli che s’accalcarono alla cerimonia funebre, sier
Batista imbastì un
gran bel discorso circa la causa di quel violento trapasso,
cioè un vile
assassinio causato dal crescente tasso di criminalità
notturna a Venezia. Come
poteva infatti il magnifico messere Anzolo Miani – declamava
pieno d’infuocata enfasi
- avvocato e giudice, capitano delle galere e podestà,
provveditore e senatore
essersi macchiato di un tal peccato mortale, aborrito dalla Serenissima
e
condannando la sua anima all’eterna dannazione? Sier Zuan
Francesco “il
Pizzocchero” e sier Antonio Trum rincararono poi la dose
sciorinandosi in
ulteriori articolate e solenni liste di benemerenze del defunto, ognora
indicandolo come un uomo devotissimo alla Signoria Loro, dalla condotta
irreprensibile, padre e sposo di rara virtù, meritevole solo
di grandi lodi e
onori. Il priore di Santo Stefano, don Jacomo Batista Aloisi, aveva
ricordato
commosso l’impagabile sostegno del Miani sia come mecenate
sia come benefattore
in generale e di come avesse sempre vissuto da buon cristiano.
Momolo ascoltava a malapena,
barcollando mezzo
stordito dalla stanchezza e dall’incenso. Un doloroso groppo
in gola gli si
formò a fine funzione, quando i becchini sollevarono il
corpo di Padre e lo
posero delicatamente nella costosa bara di larice. Marco lo dovette
trattenere
a viva forza, nel momento in cui il coperchio venne inchiodato e il feretro ricoperto d'un panno di velluto nero,
costringendo il
fratellino ad allungare il collo e a porsi in punta dei piedi,
così da contemplare
fino all’ultimo i lineamenti del genitore, celati per sempre
dietro quel
marmoreo sepolcro fino al dì in cui si sarebbero ricongiunti
nell’Aldilà.
“Non voglio dimenticare la
sua faccia, Marchetto.
Non voglio!”, confidò angosciato sottovoce al
maggiore, intanto che sollevavano
il feretro nell’arca, collocata nella parte posteriore
dell’abside.
“Te la descriverò
ogni sera, Momolo, promesso”,
giurò solennemente Marco, baciandogli furtivo la tempia onde
sigillare quel
segreto patto fraterno.
“Nudo uscii dal
seno di mia madre; e nudo vi
ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia
benedetto il nome del
Signore!”, concluse e benedisse l’arca
sigillata don Jacomo Batista Aloisi.
“Amen! Amen!
Amen!”, rispose grave l’assemblea, segnandosi
tre volte. “Misericordia! Misericordia!
Misericordia!”
Il povero Stae Trum, ridacchiando e
schioccando la
lingua, indicò la tomba e il fantoccio. “Varda!
Varda! La Morte s’è presa il
cugino Zanzetto, ch’è volato via con
lei!”
Nel frattanto, a Ca’ Miani,
Symon il pope de casàda
confidava sottovoce a Nardo il cuoco e alla di lui nipotina Ufemia
alcuni suoi
dubbi: suicida o assassinato? Ammettendo che sia vero, ma
perché? - insisteva Ufemia
mentre tirava il collo ai volatili per il pranzo - che motivo avrebbe
avuto il sior
patron di togliersi la vita? - A Rialto, poi! Dove tutta Venezia
l’avrebbe saputo!
- Debiti di gioco? - No, il sior patron li aborriva,
vi ricordate
come prese a schiaffi i padroncini Luchin e Carlino quando li vide con
le carte
in mano? - Mala gestione? Abuso della sua carica?
Accusa di
corruzione? - Macché! Ce ne fossero di
onesti in Senato come il
povero padrone! – Ascoltate qua: il servo di sier Antonio
della Zonta mi ha detto
che il suo padrone è andato a chiarirsi con uno suo
amico tra i Dieci e
che questi gli ha confermato come la Signoria Nostra non
abbia mai
avuto nulla da rimproverare al padrone nostro, al contrario sempre
l’è stata
soddisfatta del suo zelante operato. – La so io:
malfrancese! - Puoah,
caro mio, e tu pensi che la padrona gliel’avrebbe fatta
passare liscia, se
l’avesse cornificata?
“Olà,
bestie!”, ruggì Orsolina, chetandoli tutti.
“Aveu finio de ciacolar? Deboto zonzeran i patroni e gli
ospiti, e savé ben
chome i patricij i magnan per zento ! Cossa ghe servirem a
st’altri in tola? Le
vuostre zanze?” (ciance, ndr.)
Si preannunciava un pranzo
effettivamente
abbondante di commensali ché a
compiangere il senatore sier Anzolo
Miani oltre ai suoi parenti, ai suoi dipendenti, marinai, amici
s’erano
aggiunti anche i vicini di casa e di contrada. Nell’infinito
viavai dello
stipatissimo piano nobile di Ca’ Miani, Momolo, prima di
rintanarsi in un
angolo tranquillo, fu costretto a salutare la zia Ysabeta Morexini
Corner,
moglie di sier Zorzi Corner il cavaliere e fratello della Regina di
Cipro, coi
figli più grandi Zuanne, Francesco, Marco, Jacomo ed
Hironimo. E come se non ne avesse abbastanza, anche la zia Marina Morexini Vituri, moglie di sier Piero, la quale figli non ne aveva e non tanto perché lei fosse sterile, bensì il marito, ch'era un prete mancato. Niente figli neppure per lo zio sier Thadio Morexini, l’altro figlioccio e cognato di zio Batista, sposato da due anni con madona Contarina Contarini Morexini, nipote della prozia madona Andriana Miani Contarini per suo figlio sier Zentil Contarini, ma lì, Momolo aveva origliato, era questione soltanto di tempo.
Madona Maria Malipiero Gradenigo fu
l’unica che si
rivolse direttamente a Momolo, stringendolo al petto e accarezzandogli
tenera
il capo, per crocifiggere poi con un’occhiataccia il marito
sier Zuam Paulo
Gradenigo che, tra il goffo e il burbero, su sua insistenza, gli
bofonchiò:
“Fa’ il bravo, veh” per poi riparare
strategicamente tra sier Fantin
Dandolo e madona Laura Dandolo Contarini, altra biscugina del piccolo Miani, sposata a Thadio Contarini cugino di Padre e nipote del fu Serenissimo sier Zuanne Mozenigo .
Vennero a salutare Madre anche sier
Lunardo
Loredan, i suoi figli e le figlie coi generi che abitavano a San Vidal;
vestita
a lutto compartì le sue condoglianze anche madona Laura
Contarini relicta
Zustignan (cognata di sier Lunardo) e la figlia Luzia Zustignan Dolfin, ch’aveva
sposato il podestà e
capitano di Mestre sier Piero Dolfin figlio di Francesca Trum Dolfin,
così
d’avere stretti non solo i parenti ma anche i vicini. Degli
undici figli del fu
sier Unfrè, accompagnarono madre e sorella Alvixe,
Francesco, Andrea, Lorenzo,
Lunardo e Pangrazio, il resto a casa poiché troppo giovani,
nonché madona Paula
Zustignan maritata anch’ella ad un sier Piero Dolfin,
guadagnandosi il primato
di miglior barzelletta del sestiere, la quale adombrava scambi di
mariti tra le
due sorelle, quando annoiate. Momolo si chiedeva come potesse
ciò avvenire,
essendo i due Dolfin diversissimi tra loro, decisamente figli di padri
e madri
diverse.
La chicca però corrispose
alla partecipazione
inattesa del cavalier sier Zacharia Contarini “dai
Scrigni” con Alba Donado “dalle
Rose” sua moglie e i figli maggiori appresso.
Dell’intera sua gens (e
metà del patriziato lì presente) sier Zacharia
appariva l’unico genuinamente dispiaciuto della tragica
dipartita di sier
Anzolo, avendo infatti orato durante la funzione con gran fervore per la salvezza dell'anima del parente acquisito, ambedue pronipoti di Andriana Miani Contarini.
Il Cavaliere, ambasciatore e
rappresentante
speciale a suo tempo presso le corti di Francesco Gonzaga, Ludovico
Sforza,
Charles VIII e ora appena rimpatriato dalla corte
dell’Imperatore Maximilian
I., di recente aveva infatti riallacciato i rapporti col cugino alla lontana, specie in
gondola durante il tragitto
da Palazzo Ducale verso i rispettivi palazzi. Oltre alle accese
discussioni
sulle recenti difficoltà del Moro e sull’ignavia
dell’Habsburg che bravo era
solo ad incassare i soldi loro e del Duca, ad unire i due patrizi erano
le
lagnanze sui rispettivi figli minori. Sier Anzolo, ascoltando sier
Zacharia,
gli aveva in più occasioni confidato come
anch’egli si crucciasse per il suo Momolo,
da tutti adorato e coccolato e che tanto dicevano esser buono, cortese
ed
estroverso; chissà perché con lui invece si
comportava da turco, sempre serio e
rabbiosamente chiuso, che gli mordeva la mano se tentava di castigarlo
e gli
lanciava parole tanto dure, che il senatore neanche si capacitava da
dove
provenisse tutto quel rancore in un fantolino.
“Ascolta bene, Momolo:
checché ne dica lo stolto
volgo, il tuo sior Pare era un grand’uomo, per lui devi
provare soltanto
orgoglio!”
Soffocato da quella gazzarra di ospiti
e
infastidito dai loro rivoltanti sorrisi compassionevoli, Momolo
scivolò via inosservato
giù in cucina, alla ricerca della famigliare e rassicurante
compagnia dei
servitori, fintanto che Madre non l’avesse chiamato a tavola.
Strisciò sotto la
pistoria, s’accoccolò in posizione fetale e
catturò il gatto, abbracciandolo
mentre questi lo rilassava con le sue fusa; poco gli importava se
così facendo
si sporcava il farsetto di peli e farina, anzi in questo modo lo
avrebbero
spedito in camera sua e lasciato finalmente in pace.
“Zò, patron
Momolo! Cossa faseu qua sotto? Vegné, a
xé pronto en tola!”
“No gh’ho
fame!”
“Mo
via, gnente putelezzi!”
Al banchetto funebre si servirono le
pietanze amate
in vita dal defunto e gli occhi del piccolo Miani
s’ingrandirono terrorizzati
alla vista delle anguille portate in gran trionfo sui vassoi
d’argento.
Quando le ebbe sotto il naso, nella mente
del bambino cozzarono
violentemente vari ricordi, tra cui la testa del florentin tenuta in
mano dal
boia e quelle delle anguille scartate da Nardo il cuoco; della faccia
tumefatta
e irriconoscibile di Padre, colla lingua fuori come il toro a
Carlevar, e
sempre di Padre il viso rigido e color della cera che aveva baciato
sulle
labbra a mo’ di commiato.
“Di le toe virtù,
ricchezze e forza fidar no te
vole”, canticchiava serafico Stae Trum il matto, sviscerando
il pesce con le
mani con la medesima fascinazione di un infante. Accortosi di come i
bambini a
tavola lo stessero osservando divertiti, egli abbandonò
l’anguilla sul piatto,
tagliò a metà la sua fetta di polenta e ci
giocò, nella sua mente degli
scheletrini danzanti: “No sastu, Momolo?”, gli
chiese, ponendosi l’indice sulle
labbra. “La Morte chi lei vole, lei tole.”
Il piccolo Miani non
resse più e vomitò dunque
sul piatto e sarebbe stato allontanato in camera sua tra
l’imbarazzo generale,
se suo fratello Marco non avesse afferrato prontamente il piatto,
gettandone
non visto i contenuti fuori dalla finestra, in canale.
“E come dicono i Greci: buon viaggio, Anzolo
nostro.”
“Buon viaggio!”
Momolo incominciò a sudare,
ad avvertire fastidiosi
crampi allo stomaco e scalpitava per la fine di quel (per lui) infinito
calvario; inoltre, il fantolino esigeva
l’abbraccio confortante di
Madre e non riusciva più a trattenere il doloroso urlo
ingroppatosi in gola per
via della consapevolezza, che Padre era morto per davvero e senza che
lui, suo
figlio, avesse avuto modo di domandargli scusa e dirgli quanto
l’amasse.
No
sastu, Momolo? La Morte chi lei
vole, lei tole.
Le
mani gli bruciavano, sanguinanti; le braccia gli pesavano quanto il
piombo.
Hironimo s’asciugò la fronte madida di sudore, i
capelli arruffati in
battaglia, respirando a boccate irregolari, senza fiato e senza energie
rimaste, lo stomaco attorcigliato dalla fame e la gola secca. Accanto a
lui, il
piccolo Thomà barcollava sfinito eppure ancora
v’erano corpi da seppellire.
Il
sole stava calando, forse li avrebbero ricondotti in cella, bastava
fingere
ancora per un po’ di lavorare …
“No
ghe la fazzo! No ghe la fazzo pì!”, piagnucolava
il fantolino, usando la vanga
più alta di lui a mo’ di bastone, leccandosi le
labbra secche e screpolate.
Percependo
il peso delle occhiate degli stradioti sulla schiena, resosi infatti
conto di
come i ritmi lavorativi andassero rallentandosi, il giovane patrizio
diede un
colpetto d’incoraggiamento al braccio del bambino,
spronandolo ad uscire dal
suo incantamento. “Dèmo! Ancora un
altro!”, insistette dolcemente.
Thomà
scosse il capo, il moccio che gli fluiva liberamente dal
naso. “Sun
stracho! Gh’ho fame! Vojo la mama!”, prese a
singhiozzare, stropicciandosi
ambedue gli occhi e ritornando ad essere un piccino di dieci anni e non
il
linguacciuto assistente alle polveri di Andrea il bombardiere.
L’espressione
di Hironimo da compassionevole s’indurì.
“Non piangere, sempio, tanto lei non
tornerà mai più da te!”
Il
bambino strascicò qualcosa d’inintelligibile ,
sennonché un calcio al sedere da
parte di un contrariato stradiota lo interruppe, facendolo rotolare
dentro la
fossa tra i cadaveri. Dinanzi allo strillo
spaventato di Thomà,
agitandosi peggio d’un diavol nell’acqua santa in
quell’ammasso di carne gelida
e puzzolente, l’uomo e i suoi compari si scompisciarono dalle
risate e anzi,
afferrate delle manciate di terra, le buttavano addosso al decenne che
urlava e
piangeva isterico, scrollandosi via di dosso come ustionato la
terra.
“Toga! Toga! Fio dil
suicida! Fio dil dannato!”
In mezzo al chiostro del Monastero
della Carità, dove adesso
studiava, Momolo era divenuto il bersaglio preferito degli studenti, i
quali
tra una lezione di grammatica e di retorica adoravano tenere fermo e
ricoprire
di fango il nuovo arrivato, il figlio del Suicida, come ormai
appellavano il fu
sier Anzolo Miani alle spalle della famiglia, sottovoce.
“Basta!
Basta!” , guaiva sfinito Thomà, rannicchiandosi in
cerca di rifugio da quella
terrosa lapidazione.
Hironimo
strinse di riflesso la vanga, insensibile alle vesciche alle mani.
“Patron,
ajudo!”
E
quella vanga la spaccò in testa allo stradiota.
“Fio dil dannato! Fio dil
diavol d’inferno!”
Sì, forse lo era,
poiché non porgeva l’altra guancia e malgrado la
figura ancora esile e l’enorme disparità numerica
(uno contro tutti), Momolo
rispondeva a calci e pugni e morsi alle provocazioni dei compagni,
colpendoli
all’inguine approfittando della sua bassa statura e tirando
loro i capelli una
volta a terra; li graffiava quasi volesse strapparli gli occhi dal
cranio e
proferiva tali oscenità manco un battelante chioggiotto.
“Mi no sun debole! Mi no sun
femena! Mi no sun fio dil suicida!”
Rosso,
rosso di rabbia cieca e famelica, null’altro vedevano gli
occhi impazziti di
Hironimo mentre riempiva di pugni e randellate chiunque gli si parasse
di
fronte, prendendo e ricevendo, gli stradioti sgomenti
dall’incuranza con cui
incassava i colpi, senza neanche accorgersi del sangue che gli colava
dalla
fronte assieme al sudore, essendosi riaperta la ferita.
Indietreggiarono
a quel suo sorriso sghembo, malato, il biancore degli occhi esaltato
dalla
maschera scarlatta.
“Basta
così!” e stavolta non si trattò della
voce piagnucolosa di Thomà, bensì di
quella autoritaria e terribile di Mercurio Bua, ritornato dalle sue
scorrerie
nel territorio. Spronando il cavallo, il capitano di
ventura li
raggiunse, il viso torvo e i denti ben esposti, maledicendo tra
sé e sé quegli
sciagurati cialtroni incapaci di rimanere mezza giornata al campo senza
causare
danni. “Cosa significa tutto
questo?”, esigette spiegazioni,
indicando la fossa, gli uomini semi-incoscienti dalle botte e Hironimo
col
bastone in mano e il viso contorto di rabbia. Approfittando della
confusione,
Thomà era risalito nel frattempo, appiccandosi al fianco del
patrizio che di
riflesso lo strinse a sé.
“Allora?”,
non aveva in realtà bisogno d’alcun chiarimento,
l’albanese già si figurava
alla perfezione le dinamiche di quell’indecente bailamme;
ciononostante,
leggere l’incertezza e il timore in faccia a quei masnadieri
lo riempiva di una
perversa soddisfazione. “Razza d’otri piene di
sterco, chi vi ha dato l’ordine
di far uscire il prigioniero? Chi? Potete anche solo rendervi conto,
coglioni,
di che cosa sarebbe potuto accadere, se fosse riuscito a scappare?
Potete?”,
sbraitò, schioccando la scutica sulle loro spalle, sulle
braccia erte a mo’ di
difesa, ovunque riuscisse a colpirli. “Idioti! Cani bastardi!
Merde viventi!
Chi vi ha dato il permesso di toccare ciò che non vi
appartiene?”
“Ma …
ma capitano …”, tentarono una disperata
giustificazione. “Ha incominciato
questo pazzo furioso … ci ha malmenato senza alcun motivo!
…”
“E ha
fatto bene! Troppo delicato! Al suo posto vi avrei scuoiati vivi! Anzi!
Vi
acconcio subito!” e diede ordine che quei disgraziati
venissero passati sotto
le forche caudine [9] con sommo gaudio degli altri stradioti, assai
avidi di
distrazione da quel mortorio senza né soldi né
cibo né donne.
“Che
sia ben chiaro a tutti”, enunciò però
prima a gran voce e tutti i suoi uomini
si misero sull’attenti in ascolto, consci di aver tirato
troppo la corda col
loro tremendo capitano. Mercurio Bua si spostò col cavallo
dietro Hironimo e,
avutolo nel suo raggio d’azione, se lo issò sopra
con la medesima facilità di
un fanciullo che si ruba un gatto, indifferente all’indignato
divincolarsi del
giovane patrizio. “Questo qui non è un prigioniero
qualsiasi da tormentare a
vostro piacimento”, spiegò perentorio, mettendo
bene in mostra Hironimo in una
grottesca parodia della Madonna col Bambino, “questo qui
è Girolamo Emiliani,
patrizio veneziano e mio bottino personale. Intendete? Mio! Egli
è mio.
Ciò significa che nessuno di voi lo deve toccare
né gli deve parlare né
tantomeno anche solo avvicinarsi a lui, se non sarò io
stesso a comandarlo.
Violate questo mio ordine e mi premurerò
d’impalarvi di persona come fecero i
turchi con le vostre famiglie!”
Fu
sconcertante e meraviglioso leggere la paura in quei visi arcigni e
spavaldi,
ora ridotti a balbettanti scolaretti vergognosi e intimiditi.
Soddisfatto
dell’esito positivo di quel suo discorsetto, Mercurio Bua
spronò al trotto il
suo cavallo in direzione del cortile interno.
“Ributtateli
dentro e perdio dategli da mangiare: la Serenissima non sborsa danaro
per i morti!”,
comandò l’albanese. “Quanto a questi
cadaveri, buttateli nella Piave: siamo
soldati, non becchini! Ci penseranno a Venezia a seppellirli, quando le
acque
li trasporteranno in laguna. O quel che di loro
resterà”, e spinse giù Hironimo
su della paglia lercia di fango e altro sulla cui natura per la pace
dell’anima
sua preferì non inquisire.
Per
fortuna i due stradioti, che prontamente l’agguantarono,
tanta fretta avevano
avuto di assistere alla punizione dei compagni da confondere le celle,
da
gettare il giovane Miani e Thomà in una cella pulita senza
escrementi e
cadaveri di topi e i due, a seguito di un lauto pasto a base di pane ed
acqua,
s’addormentarono quella sera sfiniti uno tra le braccia
dell’altro, tirando un
gran sospiro di sollievo.
Continua
…
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Incominciamo
coi flashback! Di nuovo, a causa delle scarse notizie
sull’infanzia e sulla
giovinezza del Nostro, abbiamo molto supplito con la fantasia,
però sempre
tenendo a mente gli anni della sua vita matura come “meta
ultima” del suo
percorso di formazione.
La
morte di Angelo Miani, ritrovato impiccato il 18 agosto 1496 su di una
scala in
una bottega di Rialto (altre versioni addirittura sulla volta del
ponte) rimane
tutt’oggi un caso irrisolto: fu suicidio oppure omicidio?
Perché a Rialto, uno
dei luoghi più affollati di Venezia? In
ambedue i casi è assai
difficile stabilire il movente di tale gesto, ma una cosa è
certa:
immediatamente sia i Miani che i Morosini sostennero a gran voce la
tesi
dell’assassinio pur incapaci di fornire un nome,
più che altro per evitare
l’infamia di un seppellimento in terra sconsacrata.
L’unica
menzione di quest’avvenimento che si ha è
l’ambigua frase di Domenico Malipiero
“A' 18 d'Auosto, è
stà trova a Rialto, in
una volta, apicà Anzolo Miani ; e no è
stà lassà a veder a nissun.”
Poi
silenzio. Al che ci porta a due considerazioni: o fu suicidio fatto e
finito
oppure si trattò di un omicidio a fondo politico, messo a
tacere in nome del
segreto di Stato.
Ultimo
punto, i rapporti coi servi erano molto diversi rispetto ad altrove,
molto
informale almeno tra le mura domestiche, convivendo infatti in un
ambiente
quasi “incestuoso” per via degli spazi
ristrettissimi di Venezia. Non era
strano, pertanto, che i figli dei padroni frequentassero specie da
bambini i
servi, o che il padrone concedesse una dote ad una sua domestica o
tenesse a
battesimo i figli dei domestici, facendo da padrino
(se non era
anche il padre) o madrina. Non potendo ignorarli, i patrizi se li
tenevano
buoni anche perché i servitori potevano divenire
all’occasione i primi
accusatori dei padroni.
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto!
Alla
prossima!
Un po’ di noticine:
[1] Da “La Danza
Macabra”, testi ed affreschi di Simone
Baschenis(1539), che si possono ammirare sulla parete sud della chiesa
di San
Vigilio a Pinzolo. Parti di questa ballata ispirarono il cantautore
Angelo
Branduardi per la sua celebre canzone “Ballo in Fa Diesis
Minore”.
[2] òstrega =
letteralmente significa “ostrica”, però
in questo contesto è usata con senso
eufemistico di Ostia!
[3] Paolo
Veneto o Paolo Nicoletti (1369-1429); Alberto di Sassonia (1316-1390)
ed Egidio
Romano o Egidio Colonna (1243-1316) furono tutti filosofi e teologi
agostiniani, su cui Giacomo Battista Aloisi si concentrò in
particolare nei
suoi studi e pubblicazioni.
[4] pope de casàda = il corrispondente
dell’autista moderno. Erano gondolieri
privati che vivevano a palazzo (spesso tramandavano di padre in figlio
il
mestiere), spostandosi i patrizi più per gondola che a
piedi, essendo infatti
più sicuro.
[5] La chiesa di San Vidal (o San
Vitale) fu in realtà fondata nel 1084 dal doge Vitale
Falier. Poiché nelle
antiche descrizioni delle famiglie nobili veneziane ho trovato indicati
invece
i Miani come fondatori della chiesa, ho deciso di lasciare
quest’incongruenza.
[6] Dal testamento di Marco Miani,
del 18 gennaio 1465: “ …
Item prego quei
ch’in Vanesia in la giesia de San Vidal per mezo el permetto
da cha Miani sia
fabricà uno altar con la immagine et grandezza de Nostra
Donna et spenda 10 ho
più quel imponerà …”
Anche le disposizioni per la sua sepoltura – con la
spada, speroni e scudo – di cui don Girolamo e Alessandro
Bernardi dovranno assicurarsi,
appaiono nel testamento.
Il 17
maggio 1473, suo fratello Angelo Miani chiede direttamente al Doge
Nicolò Tron
di autenticare la cedola testamentaria. Il doge, ignorando il decreto
del
Maggior Consiglio del 4 aprile dello stesso anno, si appellò
alle forme
abitudinarie e fece riconoscere la grafia del defunto, autentificando
il
testamento e pertanto approvando la costruzione dell’altare e
la commissione
del dipinto.
[7] Serrata = si riferisce alla Serrata del Maggior
Consiglio (1279). Brevemente, si trattò di una riforma con
cui si fissava in
via definitiva ed ereditaria, tramite puntigliosi parametri, il numero
di
famiglie patrizie che potevano accedere al Maggior Consiglio. Il
conseguente
malcontento portò alla congiura di Marco Querini, Bajamonte
Tiepolo e Badoero
Badoer (1310), che prevedeva l’assassinio del Doge Pietro
Gradenigo e dei suoi
fedelissimi, in particolare il clan di sua moglie, i Morosini della
Sbarra
(Leonora Morosini madre del Nostro discendeva proprio da questo ramo!)
e i Dandolo.
La congiura venne prontamente sventata. Tuttavia, nel corso dei secoli
molte
famiglie riuscirono ad entrare ugualmente “per
merito” nel M.C., come ad
esempio durante la guerra contro Genova.
[8] Panaghia Tricherousa= “Tutta Santa Madre delle
Tre Mani”
icona molto venerata nella Chiesa Ortodossa. In essa è
raffigurata la Madonna
col Bambino ed una terza mano, quella del teologo arabo San Giovanni
Damasceno,
che gli fu amputata e poi, miracolosamente, restituita.
[9] passati
sotto le forche caudine = punizione
fisica in ambito
militare in cui il condannato viene costretto a marciare tra due file
di
soldati e da essi frustato ripetutamente. Si riferisce alla celebre
umiliazione
dei soldati romani per mano dei Sanniti a seguito della loro sconfitta.