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Autore: Hoel    31/10/2019    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 29. 08. 2021

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Capitolo Terzo

31 agosto 1511

e

18 agosto 1496

 

 

 

Io sont la Morte che porto corona

Sonte signora de ogni persona

Et cossì son fiera, forte et dura

Che trapasso le porte et ultra le mura. [1]

 

 

Plock … plock … plock …

Se non fosse stato per la saltuaria apertura della botola, giusto per darli da bere e accertarsi che ancora indugiavano in questa valle di lacrime (lui almeno, del bambino agli stradioti non fregava nulla), Hironimo si sarebbe creduto già seppellito in tomba, completamente avvolto da un nero bestemmia e un silenzio sconsolante rotto dalle ritmiche gocce d’umidità; dallo scorrere della Piave; dallo zampettare degli onnipresenti ratti; dal gorgoglio dei loro stomaci e infine dallo schiocco affamato delle labbra di Thomà, il quale aveva di recente incominciato a suggergli la camicia pur di tenere i denti occupati, quando non battevano dal freddo ben inteso. Ambedue non si sovvenivano dell’ultimo loro pasto; in certi momenti, neppure si sovvenivano d’essere mai stati in vita, trascorrendo ore infinite incastrati l’uno nell’altro in un disperato abbraccio onde riscaldarsi, preoccupandosi il giovane Miani di come la pelle del piccino divenisse ad ogni istante sempre più fredda e appiccicaticcia.  Si tenevano desti a furia di pizzicotti, ma il sonno dell’affamato e dell’infreddolito talvolta li intorpidiva, precipitandoli in sonni inquieti, orribili,  che li lasciavano al risveglio doppiamente spossati invece di ristorarli, complice inoltre l’aria stantia della cella, ammorbata oramai dal puzzo del loro sudore e, alas, escrementi.

“Zò! Te me dà el pie en bocha?”, protestò Hironimo, svegliandosi di soprassalto per colpa della rapida e dolorosa pedata in faccia da parte di Thomà, il quale, rannicchiandosi ulteriormente contro il suo stomaco, bofonchiò contrito e stanco:

“La me perdoni, patron, nol gh’ho fatto apposta: mi dormivo e chi dorme, manza …”

Sì, dormiva scalciando peggio d’un mulo, il nanerottolo! Almeno però dimostrava di vivere ancora, rallentato infatti il suo respiro al punto che il giovane patrizio talvolta faticava ad udirlo, controllandogli di tanto in tanto l’aria con due dita sotto il naso giusto per assicurarsi di non stringere un cadavere.

Hironimo borbottò qualcosa, o meglio la sua gola lo fece meccanicamente, sistemando il capo sull’avambraccio nella disperata ricerca di una posizione comoda: il dolore alle tempie pian piano s’era attenuato, purtroppo ciò non si poteva affermare della ferita sul fianco, ancora bruciante e che gli tirava molesta. Thomà, ignaro, dormendoci sopra gliela premeva, causandogli sottili fitte come punture d’aghi sottopelle. Le palpebre gli divennero pesanti, ghermendolo una violenta vertigine che lo allettò a perdersi nella lusinga del sonno e appena riuscì a socchiudere gli occhi una strana sensazione lo colse, non dissimile a quella dello sfruscio in inverno del morbido e caldo bordo di pelliccia.

Peccato, che la sua pelliccia non si muovesse e squittisse.

Hironimo s’irrigidì peggio d’un cadavere, mentre quell’essere immondo gli zampettava impunito sulla spalla.  “Coss’elo? Coss’elo?”, ansimò istericamente, mulinando a caso il braccio e udì l’animale cadere, sebbene continuando a corrergli accanto nel tentativo di risalirgli sopra, squittendo confuso e irato da quella sua ribellione.

“Un sorze, me sa!”, fu la secca constatazione del bambino, insensibile al topo e preferendo piuttosto continuare a dormire; al contrario, il giovane Miani non condivideva tale rassegnazione e appunto strillò:

“No! Levamelo di dosso!”, calciava il nemico ben protetto dall’oscurità,  soffiandogli contro adesso minaccioso.

“Se vuj lo lassate star, no ve fa gnente!”

“Non voglio sorci addosso!”

“Oh, che putelezzi (bambinate, ndr.)!”

“Thomà, cavami questo sorcio o te dago ‘na schiaffazza in tel muso!”

Il bambino scattò a carponi pronto alla pugna. “No, patron! Gnente schiaffazze pel poaro Thomà!”, frignò petulante e quando il topo partì all’assalto per l’ennesima volta, con gli occhi e la rapidità di un gatto Thomà artigliò a colpo sicuro il ratto e prima che la bestia potesse morderlo gli spezzò l’osso del collo, gettandolo poi in fondo alla cella in un umido tonfo, là dove si liberavano dei propri bisogno naturali.

Silenzio.

“Bauco! (citrullo, ndr.)”, commentò sarcastico Hironimo, già udendo la marcia di tutti i topi di Castelnuovo darsi appuntamento lì. “Ora lo raggiungeranno i suoi compari per mangiarsi il cadavere!”

Al che Thomà, dimentico di ogni prudenza, replicò scocciato: “Saveu, patron? Andé al diavol ché mi sun stuffo, non ve va ben mai gnente!”, incassando con la dignità di chi s’è sfogato a ragione il doloroso scappellotto elargitogli prontamente da un offeso patrizio. Dopodiché, mettendosi in piedi, allargò bene le gambe pericolosamente vicino al giovane uomo, che gli domandò assai preoccupato:

“Cossa fastu?”

“Pisso, patron”, sentenziò solenne e si slacciò la braghetta.

Hironimo lo spintonò via con un calcio. “Non t’azzardare! Va’ nell’angolo!”

“Col cadavar dil sorze? Patron, perché non poxo farla qui?”

“E me lo chiedi pure, sempio? (scemo, ndr.) Se te pissi qui, c’insudici a tutti e do!”

“Ma me scapa!”

“Tientela! O falla sull’angolo!”, sbraitò esasperato il giovane Miani.

“No!”, si ribellò Thomà e il famigliare zampillio da fontanella riecheggiò nella cella, formando una piccola pozzanghera che lentamente e sorniona raggiunse e bagnò la coscia di Hironimo, il quale sobbalzò disgustato dalla parte opposta. 

 “Òstrega! [2] Orco Juda maladeto rotto-in-cul, che schifo!”, ripeteva sdegnato, asciugandosi convulsamente la coscia nuda con un lembo della camicia. “Sacramento ! Che schifo! Che schifo!”

Scrollandosi a fine pisciata, Thomà sospirò soddisfatto e sollevato. “Ma vuj no pissate mai?”, inquisì curioso, riprendendo posto accanto al giovane patrizio, che, trattenendo a stento un conato di vomito, gli spiegò malevolo:

“Son galantuomo, io! Mi so trattenere! E vado all’angolo, contrariamente a te che sei n’onto porzel!”

“An pulito, se lo dixé vu …”, fece spallucce il bambino, rannicchiandosi di nuovo contro il più anziano. Poi, sogghignando perfido, aggiunse:  “Certo perhò che col pisso indosso stemo  horra ben caldi!”

Un secondo scappellotto lo indusse al silenzio.

La botola s’aprì all’improvviso, cogliendoli talmente alla sprovvista da sobbalzare, le mani corse immediatamente a riparare gli occhi feriti dalla luce.

“Tirateli su!”, berciò una voce dall’alto e Thomà afferrò spaventato il braccio di Hironimo, domandando:

“Che dixélo? I nui copan?”, ignorando infatti la lingua dello stradiota, il quale parlottava coi suoi compagni in un curioso misto tra greco e albanese, rendendo ardua la comprensione perfino al giovane Miani, il quale però, già dimentico dei dispetti del piccino, gli accarezzò il capo, mormorandogli:

“Stammi appresso e soprattutto guai a te se fiati. Da qui ne usciremo vivi tutte e due o nessuno e se quei cancari vogliono il riscatto, a loro converrà la prima opzione.”

Era quella l’unica sua certezza in quei giorni di orridi sconvolgimenti, avendo ben capito Hironimo quanto il capitano Mercurio Bua come prigioniero lo stimasse, arrivando perfino a contenderselo col maresciallo La Palice. Tutto quel fuoco, pertanto, gli garantiva la sua sopravvivenza (pur in condizioni discutibili) fino al pagamento del riscatto o dello scambio.

“Puoah! Puzzano di piscio e merda!”, li dileggiarono i soldati, una volta estratti i due dalla cella, pungolandoli con dei bastoni verso il cortile centrale, manco avessero a che fare con dei lebbrosi. “Non peggio dei loro compagni sicuramente!”, rincararono la dose e il giovane patrizio afferrò il motivo di quell’ora d’aria: nella loro immensa pigrizia, gli stradioti invece di seppellire loro i cadaveri dei marciani – oramai in via di decomposizione – avevano deciso di servirsi dei due prigionieri, cedendogli l’onore del becchino e ciò all’insaputa del Bua, Hironimo ci scommetteva il mignolo destro.

Quarantasette corpi, che la Fortuna li assistesse giacché a causa di quella Quaresima anticipata a malapena si reggevano in piedi dalla fame, figurarsi scavare una fossa comune e trasportare cadaveri uno ad uno.

“Quelle sono le vanghe. Via, sbrigatevi! E se tentate di scappare o d’attaccarci,  raggiungerete i vostri compagni un pezzettino alla volta!” e via a ridersela di gusto, affilando tuttavia le spade segno che la loro corrispondeva ad una battuta unilaterale.

“Andé in mona de vostra mare, fioi de cagna turca, ch’el diavol vi ciapi a la florentina e col sabion …”, sibilò tra i denti e Thomà arcuò il sopracciglio genuinamente impressionato nel sentir tali prodezze poetiche uscire dalla bocca di un patrizio veneziano, il quale lo fissò storto: “Coss’hastu da vardar, mamalucco?”

“Patron, poxiam per favor sepelir per primo mi fradelo Andrea?”

Stringendo le labbra e sperando di aver perduto l’olfatto, il giovane Miani iniziò a scavare tra la pila di cadaveri alla ricerca del bombardiere e il bambino, con le ultime energie e lesto peggio d’una scimmia, vi si arrampicò sopra, pronto all’opera.

  

***

 

Et son quela che fa tremar el mondo,

revolgendo mia falze atondo atondo

O vero l’archo col mio strale

Sapientia,beleza, forteza niente vale

Non e signor, madona, né vassallo

Bisognia che lor entri in questo ballo.

 

 

 

18 agosto 1496

Quella mattina il decenne Momolo aveva pianificato ogni cosa con la coscienziosità di un generale dell’Antica Roma: lo richiedeva lo scopo ultimo di quella missione, cioè farsi perdonare da Padre per avergli risposto malamente (Andé in malhorra, orco! tartaro! Vi odio quanto che sé!) a causa del calamaio tirato contro il priore di Santo Stefano e lettore di filosofia, l’agostiniano Jacomo Batista Aloisi da Ravenna.

Costui a Ca’ Miani esercitava il doppio ruolo di precettore degli studi humanitas di suo fratello Carlo e di protégé di suo padre il senatore sier Anzolo Miani q. Lucha, il quale finanziava le sue pubblicazioni, in particolare i suoi studi su Aristotele, nonché il fiorente Monastero degli Eremitani di Santo Stefano e la sua scuola per fanciulli fondata il secolo scorso. E tanto il senatore era rimasto impressionato dalla preparazione dei magister puerorum, complice la fama di dotti degli agostiniani, da interrompere l’antica tradizione d’inviare i propri rampolli a studiare al Monastero della Carità, dall’altra parte del Canal Grande e quasi opposto a Ca’ Miani.

Si poteva dunque affermare senz’esitazione, che don Jacomo Batista e il suo allievo e confratello don Bortolo Rivolta fossero oramai di casa, accettando sempre di buon grado gli inviti del loro mecenate o a pranzo o a cena così da discutere a tavola di certi argomenti, che tanto affascinavano i commensali quanto annoiavano a morte il piccolo Miani. Non riusciva a capire come mai Padre, suo fratello Carlo e perfino il suo cugino sier Zuam Francesco “il Pizzocchero” s’entusiasmassero tanto al recente progetto dell’Aloisi, ossia di redigere dei “commentari sui libri degli analitici posteriori di Aristotele dell’agostiniano Alberto di Sassonia” (il fantolino già s’era perso ad “analitici posteriori”). Per lui, corrispondevano a vuoti concetti, troppo astratti dalla sua vita quotidiana, un’ingarbugliata matassa di ragionamenti senza né capo né coda in greco antico e in latino. Anche alcuni padri agostiniani dal priore frequentemente citati – Paolo Veneto, Alberto di Sassonia, Egidio Romano, etc. etc. – [3] non gli dicevano un bel fico secco, al punto che Momolo biasimava i due religiosi ravennati per la loro meschinità, non reputando carino spettegolare così sulla gente morta.

Tuttavia, non era per questo motivo che il priore di Santo Stefano s’era ritrovato imbrattato d’inchiostro. Momolo aveva infatti tentato di giustificarsi dinanzi all’inflessibile giudice paterno, piangendo sconsolato come aveva voluto lordar di nero non padre Jacomo Batista, bensì suo fratello Carlo – quel turco adottato! – che nulla aveva di meglio da fare nella vita, se non di sfottere il fratellino mentre tentava di domare la grammatica latina. Carlino ha la lingua così lunga ed è così bugiardo – aveva strillato battendo il piede per terra – che riuscirebbe ad inchiodare per la seconda volta in croce IHS XHS!

Quest’impenitente sbeffeggiatore delle altrui disgrazie li aveva scovati – Momolo e l’altro suo fratello Marco - intenti ad un disperato ripasso, lo Ianua di Elio Donato aperto sulle ginocchia del più grande dei due, i cui capelli arruffati tradivano quanto ardua fosse stata l’impresa.

“Poeta”, lo interrogò Marco per l’ennesima volta, la voce leggermente roca a furia di ripetere all’infinito il medesimo passo. “Quae pars est?”

“Nomen est.”

“Quare est nomen?”

“Quia … quia significat subtantiam et qualitatem propriam vel …vel comunem cum casu.”

“Nomini quot accidunt?” e qui Marco gli presentò il palmo aperto della mano, iniziando la conta assieme al fratellino.

“Quinque: species …”, un dito, “… genus …”, un altro, “… numerus … figura et … euh … euh … euh … l’ultimo non me lo ricordo …”

“Ma se l’hai appena menzionato!”

“Casu?”

“Casus!”

“Ed io che ho detto?!”

“Molighe zò! Non contestare o ti stampo a furia di sberle la grammatica sulla fronte, così non te la scordi più! Allora, cuius speciei?”

“Primitive, quia a nullo derivat derivative, quia derivatur a poesia. Visto che ho studiato?”

“Sicuro, coi piedi, perché si dice “a poesis” - sempio! -  non “a poesia”!”

“Beh, non vale stavolta, prima l’ho saputa dire correttamente!”

“Gne, gne, sempre una testa-da-bigoli rimani. Cuius generis?”

“Ma … masculini …?”

“E pure t’era venuto il dubbio?”

Al che Carlo, dinanzi a quel giocondo quadretto, non aveva più resistito, rendendo nota la sua presenza tramite un colpetto di tosse. Hieronymus Aemilianus - Quae pars est?

I due giovinetti s’erano immediatamente guardati l’un l’altro perplessi.

Nomen est?, aveva cinguettato speranzoso Momolo.

Puer est?, era stata al contrario la sospettosa risposta di Marco, avvezzo al lato più dispettoso del fratello maggiore.

Lode al suo intuito poiché Carlo, sfoderando un sorriso rubato allo stesso Mazariol, aveva replicato: Asinus est!, per poi abbassarsi quando il decenne fantolino, rosso in volto e schiumante di collera, aveva afferrato il calamaio e glielo aveva scagliato contro, colpendo purtroppo per lui dritto in petto don Jacomo Batista, che disgraziatamente stava entrando proprio in quel momento nella sala grande accompagnato da Padre.

Tale spiegazione non aveva commosso il senatore sier Anzolo Miani, il quale gli aveva elargito ugualmente una salutare mezza dozzina di vergate, sennonché suo figlio, stufo marcio d’aver il sedere dolorante due volte su tre per via degli scarsi risultati scolastici, gli aveva morso la mano ed era corso via da Madre col furioso genitore alle calcagna, nascondendosi sotto le sue gonne.

Meno male, giacché esse avevano ovattato la litigata tra sier Anzolo e madona Leonora Morexini Miani, il primo che accusava la moglie di rovinare questo mio fiolo, voi me lo fate crescere storto! Voi, che alla sua età ancora gli permettete di giocare con le sue germane e per di più con sua nipote! Bone Jesu, s’è mai visto un puto di dieci anni che gioca con le pute? Naturale poi che frigni per un nonnulla! Ma cos’ho avuto, io, per creatura? Un maschio o una femmina? E l’altra ribatteva inclemente: Cosa volete ch’impari, se ad ogni sbaglio lo battete manco fosse un tamburo di galea? Si spaventa, povero piccolo, non capisce perché lo puniate così severamente. Sa solo che voi e il magister gli incutete una paura tremenda!

Madona Leonora aveva ragione: il severo agostiniano suo insegnante metteva in soggezione il piccolo Momolo, schiacciato dall’impari raffronto coi fratelli. Et el Luchino l’gera cussì, sapeva l’abaco a maraveggia … et el Carlino lezeva et declamava chome Cicero redivivo … et el Marchetto scriveva pulito et richo de vocabuli … et ti, Momolo, ti te sè na bestia ignorante! e questo ovviamente mentre il fantolino era sottoposto al “cavallo”: tenuto fermo dai compagni e posto a cavalluccio del magister e parzialmente denudato, l’ultimogenito Miani si sorbiva, oltre che alle vergate sulle natiche, anche la lista dei suoi fallimenti più i successi dei suoi maggiori.

E questo per tre anni, da quando, settenne, egli aveva abbandonato il suo precettore privato per proseguire gli studi a scuola.

Che ci poteva fare? Ogniqualvolta il rector scholarum entrava in classe  il bambino panicava, non si ricordava la lezione e impappinandosi sbrodolava frasi sconclusionate in un misto tra latino e veneziano. Manco male che il greco antico non era previsto, poiché già nella testa di Momolo facevano a pugni le divergenze tra la variante candiota e quella peloponnesiaca del greco vernacolare, in tutta onestà non necessitava di un terzo incomodo a creargli ulteriore confusione.

(Anche se, mano sul cuore, era divertente assistere alle pepate diatribe tra la vecchia prozia, madona Andronica da Modone relicta Miani, e la fantesca Eudokia di Sfakia di Candia, tra gli Ochi! di una e gli Oi! dell’altra.)

Ascoltando quindi i timidi resoconti di don Jacomo Batista sul suo rendimento  – il quale tentava cristianamente di minimizzare , asserendo come il bambino fosse sì intelligente ma assai distratto e poco incline alla disciplina e al duro lavoro -  Lucha e Carlo se la ridevano sotto i baffi; Padre, delusissimo, fissava Momolo in cagnesco, battendo poi snervato il pugno sulla scrivania ed ecco che i due maggiori si chetavano all’istante; Marco, impietosito e suo unico alleato, tentava d’aiutarlo dandogli di nascosto ripetizioni.

Ad ogni rientro dal Monastero di Santo Stefano (col sedere dolorante) Momolo correva a piangere disperato tra le braccia di Madre (rigorosamente all’insaputa di Padre) o in cucina tra quelle dell’Orsolina, che si diceva troppo rassomigliante al nonno sier Lucha Miani q. sier Marco, da non destar sospetti di una qualche consolazione da parte del patrizio tra una moglie e l’altra. Pur non essendolo stata de facto, Momolo la chiamava nèna (balia, ndr.) e le voleva un bene dell’anima contraccambiato con ugual fervore dalla massera, neanche l’avesse partorito lei. Gli piaceva trascorrere il tempo assieme in quell’arsenale in miniatura qual era la cucina di Ca’ Miani, coi fuochi sempre accesi e un viavai continuo di servi là dove nessuno lo prendeva in giro chiamandolo musso, oco, macaron de Pugia (asino, stupido, mollaccione, ndr.).

In quella calda e fumosa sancta sanctorum sedevano la fantesca e il bambino davanti al grande caminetto medievale costruito con colonnine di un qualche rudere di tempio romano, con l’Orsolina che filava la conocchia e annuiva pur non capendo il latino e il Momolo intento a leggerle ad alta voce i Disticha Catonis. A sua volta, il piccino ascoltava rapito le storie della donna, la sua preferita quella dei mercanti disonesti tramutati in pietra da Santa Maria Maddalena, le cui statue ancora si potevano vedere a Campo dei Mori a Cannareggio, chiaro monito ai loro colleghi. Se i tochate co la man, poderè sentir i cori palpitar e lì la piera la xé tiepida, chome carne viva.

A lei Momolo aveva confidato il suo infallibile piano onde ottenere il perdono di Padre, cui in seguito a quel suo sfogo lo trattava pien di gelida indifferenza, parlandogli a malapena e solamente al dì dell’Assunta. (A onor del vero, negli ultimi mesi il senatore Miani spendeva molto tempo a Palazzo Ducale e la notte rincasava a notte fonda, quindi sì, il suo discolo figliolo non aveva avuto concretamente modo di farsi perdonare)

Per tutto il tempo, il decenne si era esercitato nel segreto della cucina a leggere quel passaggio maledetto dei Disticha col proposito di declamarlo a memoria a fine pranzo, dove sarebbero state servite le anguille ai ferri con la polentina bianca di cui sier Anzolo andava assai ghiotto. Dopo aver ben disnà, el sior vuostro Pare starà de bona voja e bon consejo, lo aveva assicurato ottimista Orsolina.

Madona Leonora aveva ascoltato benevola il piano del figlioletto, permettendogli di accompagnare Orsolina e sua figlia Zanetta a Rialto a comprare le anguille, la cui preparazione affascinava il bambino, specie quando Nardo il cuoco le estraeva ancor vive dal sacco e queste gli si attorcigliavano ai polsi, mentre egli faceva cadere la mannaia e in un sol colpo le tranciava il capo. Ah, patron Momolo, durante la guera contra Frara, nel Po se pescavan zerti bisati (anguille, ndr.) da far spavento: a Rialto ne vendevan di grassi, bei et longhi chome un brazo e per render l’idea allungando l’arto appoggiava l’altra mano all’altezza della spalla. Saveu perché? Perché ste bestie, dopo la bataja, i se notriban de cristiani! Ha-ha!- e via! Un’altra testa rotolava.

Rosicchiando accanto al tavolo la crosta della polenta, Momolo ascoltava attento tali aneddoti e al contempo studiava il movimento meccanico delle fauci del pesce decollato e gli spasimi del corpo lungo e viscido: anche il florentin (perché poi? Era veneziano!) s’era contorto così, quando Padre l’aveva portato alla Piazzetta assieme ai fratelli onde assistere alla sua decapitazione tra San Marco e San Todero. La testa era stata spiccata via con la medesima precisione e forse dal collo era uscito più sangue, ma stranamente il corpo del florentin seguitava a muoversi convulso e Momolo s’era chiesto in quell’istante se si potesse vivere anche senza capo. Poi come l’anguilla anche i resti del condannato erano stati gettato nel fuoco e la folla aveva gridato contenta, che ben gli stava a quel degenerato.

Hai ben guardato, Momolo?”

“Siorsì.”

“Così finisce chi si comporta da femmina, senza alcuna considerazione e rispetto verso Dio, lo Stato e le buone leggi veneziane!

Il bambino sapeva d’essere colpevole quanto il florentin agli occhi del padre, giacché pizzicato a giocare con le cugine germane Maria, Querina, Magdalena, Anzola Morexini e la  sorellastra di quest’ultima, Maria Bolani. Non era colpa sua, Madre gli aveva insegnato a non fare malegrazie alle fanciulle, d’esser con loro cavaliere e di esaudirle in tutto per tutto, sopportando stoicamente le loro visite e se poi le capricciose seguaci di Onfale gli avevano serbato la medesima sorte di Ercole, di nuovo: non era colpa sua. Così come non era colpa sua, se gli piaceva giocare alla nena coi cuginetti ancora in culla.

Padre però negli ultimi anni non lo capiva, non ascoltava mai, non lo lasciava spiegare; sembrava che più il suo ultimogenito crescesse, più diminuisse il suo affetto, trasformandosi il suo premuroso Tata (papà, ndr.) in un intransigente patron di galea, ai cui ordini tutti dovevano scattare ed ubbidire.

Eppure, Momolo lo ammirava e gli voleva bene, declamando ai suoi compagnucci al Monastero di Santo Stefano tutte le gesta paterne, esagerandole ovviamente, e sostenendo come non esistesse miglior veneziano di Padre in tutta la Signoria. Et jo, sòo fiol – mentiva - lo fazo assa’ contento. Tutte balle, infatti, con la rara eccezione di quando Momolo suonava il liuto; ecco lì sier Anzolo si scioglieva in qualche complimento a metà per poi commentare amaro: Se solo ci mettesse lo stesso impegno negli studi …

Ma oggi, 18 agosto, si sarebbe ricreduto!

“Orsolina! Zanetta! Leste! Andèmo! O non catarem pì gnente!”, le chiamava a gran voce Momolo, incurante di svegliare in questo modo l’intera Ca’ Miani. Rivoltosi poi al pope de casàda [4] saltellando impaziente lo incoraggiava mentre questi faceva scivolare aiutato dal figlio Lucha la gondola in canale: “Symon! Dai mo! Almanco ti datte na mossa! O femo mezzodì!”

“Servo vostro, patron!”, esclamò gioviale l’uomo, afferrando Momolo per le ascelle e issatolo, lo adagiò lentamente dentro la gondola. Subito comparvero la suocera e la moglie Zanetta che s’era attardata per indossare lo zendale più bello, ancora incredula ma eccitatissima di viaggiare sulla gondola dei padroni – Madre non aveva voluto che le due donne si recassero a piedi col figlio fino a Rialto, le calli ancora scevre di luce per l’ora troppo temprana. E Orsolina, co’ te sarai a Rialto - aveva aggiunto madona Leonora all’ultimo momento -  ricordati di comprare anche un fia’ di colazione per il tuo patron: è uscito presto stamane per andare in bottega, temo che per far prima abbia saltato il pasto.

“Ancuò xé sant’Helena Imperatriz …”

 “… ora pro nobis!”

“Dèmo!” e detto questo Symon prese a vogare e il piccolo Momolo dalla fèlze guardava estasiato il sole apparire timidamente tra i palazzi, illuminandoli d’oro e rosa come l’Enrosadira baciava le Dolomiti. Le prime finestre si aprivano pigre e le massere calavano le tende onde proteggere gli interni dal sole estivo, oppure salivano in altana per stendere il bucato o per battere i tappeti, canticchiando o chiacchierando con le loro colleghe del palazzo accanto. In Piazza San Marco palpitavano i rintocchi del Paron de Casa, annunciando la Maragona l'inizio dell'attività lavorativa e che come il cuore coordinava il flusso musicale di tutte le altre campane, nonché la giornata di ciascun lavoratore, richiamandolo al proprio esercizio.

Usciti dal piccolo rio San Vidal ed immettendosi nel Canal Grande, il fantolino ammirò l’omonima chiesa fondata dai suoi avi [5] con la sua struttura gotica a tre navate e lo svettante campanile cuspidato. Entrando, immediatamente sulla sinistra si poteva ammirare l’altare della Madonna e un suo dipinto a grandezza naturale, commissionato da sier Marco Miani q. sier Lucha, lo zio paterno che Momolo non aveva mai conosciuto, giacché morto neppure trentenne nell’isola di Schiro, nel mar Egeo, dov’era rettore. Falciato dal tossicoloso morbo che flagellava l’isola, sier Marco, non desiderando arrischiare la vita dei marinai, aveva incaricato il suo cappellano don Hironimo e il suo lettore Alexandro Bernardo di seppellirlo lì, a Schiro, con la sua spada, gli speroni e lo scudo con raffigurato il leone di San Marco, secondo l’usanza. Ai suoi cari rimasti a Venezia, quell’atto devozionale.

(Per questo motivo Momolo si immaginava il suo barba un po’ come il San Giorgio del maestro Bortolo Vivarini: bello, nobile e fiero che al posto del drago impirava qualche turco come l’autunnale oca allo spiedo)

Malgrado fossero oramai trascorsi ventinove anni dal decesso del fratello maggiore, gli occhi di Padre s’inumidivano puntualmente alla mera menzione di sier Marco, strappandogli un malinconico sorriso pieno d’affetto. Dopo la funzione, il senatore si tratteneva parecchio tempo in preghiera davanti a quell’altare, che tanta fatica gli era costato per realizzarlo, la sua ostinazione più forte dell’inflessibilità del Maggior Consiglio [6]. Pur non invitato, Momolo gli faceva compagnia e si commuoveva durante le sue ingenue orazioni, immaginando quanta tristezza gli avrebbe provocato la morte del suo di fratello Marco.

Subito dietro l’abside di San Vidal, Ca’ Miani col resto dei suoi magazzini s’affacciava sia sul rio San Vidal sia sul Canal Grande: l’intero sito, piuttosto vasto, era da secoli di proprietà della famiglia del bambino e appariva composito ed esteticamente modesto, articolato in numerosi fabbricati e unità abitative, con alcune aree tuttora non edificate, collegate da una corte centrale con al centro un pozzo in comune. Infatti, oltre che alla famiglia padronale, nella casa da statio coabitavano i rami cadetti dei Miani di Carità- San Vidal e quelli di San Vidal, nonché sier Polo Antonio Miani da San Giacomo dell’Orio e la sua famiglia, che pur non possedendo alcuna porzione dell’edificio, pagavano a madona Magdalena Miani q. sier Francesco un cospicuo affitto di 60 ducati annui. E ciononostante, zia Maddaluzza seguitava imperterrita a lagnarsi a tavola di quanto lei fosse poara, vecia e sola, ricevendo l’usuale replica: Poareta vu, ve compatisso e poco importava se lei affittava mezza contrada di San Vidal.

(Un alveare insomma di parenti dai gradi più disparati e ronzante attorno alla dimora dominicale di Padre, il capoclan del ramo diretto e proprietario di gran parte dello stabile.)

Sporgendosi un poco, Momolo respirò a pieni polmoni l’aria mattutina ancora miracolosamente fresca e il suo cuoricino decenne venne colto all’improvviso da una grande gioia, voltandosi sorridente verso l’Orsolina e la Zanetta che lo imitarono altrettanto contente, la più anziana accarezzandogli dolcemente la guancia. Forse stavolta sul serio Padre avrebbe riservato anche a lui un simile trattamento, finalmente sorridendogli orgoglioso e perdonandogli la cattiveria urlatagli scioccamente contro. Bisognava possedere umiltà e coraggio per chiedere perdono – lo aveva ammonito il suo padre confessore – e il fantolino si ripromise di non fallire, così da riferire al buon frate l’esito positivo dei suoi consigli.

Sicché, risalito il Canal Grande, Momolo intravide l’imponente ponte levatoio in legno strutturale di Rialto, le cui rampe inclinate si chiudevano su di una parte centrale, rimossa poi al passaggio delle imbarcazioni più alte. Per poco non si tuffò in acqua pur di raggiungere la Riva del Ferro, dove si vendeva l’omonimo metallo. Immediatamente s’imbatté nei magazzini del grano e delle farine, grandi, ben riforniti e dai numerosi banchi, da cui s’accedeva attraverso due porte. Alla fine del Ponte di Rialto si trovava la casa della dogana, dove le merci venivano pesate, registrate e tassate. Su ogni prezzo vigilava accorta e severa la Signoria tramite una lista ad hoc, acciocché gli affari si concludessero quanto più onestamente e non si speculasse soprattutto sui generi alimentari e di prima necessità. Anche i rifornimenti privati dovevano seguire la via della temperanza: nessuna casa a Venezia doveva infatti accumulare più d’un mese di scorta di cibo e vino.

Tenuto per mano da ambedue le fantesche e camminando per le calli già gremite di gente, in direzione della piazzetta, Momolo si sentiva la creatura più felice del mondo, in quell’allegro trambusto dove egli giudicava essersi dati appuntamento ogni rappresentante della razza umana, riempiendosi gli occhi di visi e abiti dalle fogge più disparate e le orecchie d’accenti da ogni dove.

Purtroppo, similmente a tutti i bambini, il suo entusiasmo nel far le spese scemò ben presto, impiegando a suo parere le due donne troppo tempo per comperare il pane (che file lunghissime!), per contare le uova che ci fossero tutte nel paniere e per esaminare la frutta e la verdura (la moglie del frutaruol gli aveva pizzicato giocosamente le guanciotte - Caro, dolce pí che no xé el zúcaro! - e gli aveva regalato una pesca, prontamente divorata).

Non paghe della sua noia montante, madre e figlia perfino s’erano messe a litigare insistenti in Beccheria. No! Sì! No! E no!, sventolavano i pugni contro l’altrettanto battagliero bechèr (macellaio, ndr.) perché, durante le contrattazioni, quelle erano le uniche parole ammesse. Peggio ancora quando incontravano una loro comare amica, attaccando bottone e non finendola più e della Pescheria neanche l’ombra, per sommo chagrin di Momolo che davvero voleva vedere il pescaor estrarre a mani nude le anguille dalle vasche di legno! E i folpi appesi ad asciugare! E le aragoste da Rodi! E le cappelunghe fare la linguaccia! O mettere la mano dentro la bocca gigantesca della coda di rospo! Dall’Adriatico i pescatori di Murano, Burano, Torcello e Chioggia tornavano con pingui carichi di pesci di ogni grandezza e qualità e poiché esso si trovava alla base della dieta di ogni veneziano, indipendentemente dal ceto, il ricambio di merci era velocissimo, non avanzava mai nulla la sera sui banconi.

Di conseguenza, approfittando di un attimo di distrazione dell’Orsolina, il fanciullo scivolò via dalla sua presa e corse nella calca del mercato in avida avanscoperta, imbattendosi nei banchi dei pegni dei patrizi Pixani e Lipomano e dei cittadini Garzoni e Augustini; nei gallinari; nei venditori di telerie, nei pellicciai, nei funai, nei cimatori di stoffe, sarti, bottai, argentieri e orafi, pellegrini e visitatori, osti e studenti della Scuola di Rialto in un vorticoso tourbillon di colori e odori e schiamazzi.  Rialto, nel sestiere di San Polo, era il cuore pulsante di Venezia: chi voleva concludere affari veri doveva obbligatoriamente fermarsi in quel che si descriveva come il più ricco e variegato mercato del mondo. La città lagunare di per sé produceva poco, ma di tutto si poteva trovare e comprare, i suoi magazzini straripanti di mercanzia sia dal Levante che dal Ponente, e non si limitavano al pianoterra, ma si saliva in alto per riuscir ad esaminare tutta la merce trasportata dalle agili e infaticabili galee.

Senza accorgersene, Momolo si ritrovò davanti alla bottega di famiglia, là dove vendevano sia all’ingrosso che al minuto fustagni tedeschi e fiamminghi; pregiatissimi pannilana da Milano e i San Martino fiorentini, confezionati con le migliori lane inglesi; panni garbi di lana spagnola; panni di media qualità da Como, Monza e Brescia, ordinari da Bergamo e gli emergenti pannilana da Feltre e dal resto del Veneto, sempre più richiesti. Fruttuoso commercio, con solido mercato soprattutto nel Levante, che non soltanto aveva arricchito la gens Miana, ma che le aveva permesso d’essere inclusa nel Libro d’Oro, prima della Serrata, assicurandosi in perpetuo il suo posto nel campidoglio veneto [7]. Seguendo le orme dei loro antenati, la mercatura era una tradizione ben radicata nei patrizi veneziani, che non disdegnavano le fatiche e i pericoli del viaggio, imbarcandosi e finanziando spedizioni nelle Fiandre, in Barbaria, Beirut, Alessandria d’Egitto, nelle isole greche e Costantinopoli, nel Mar Nero e ad Aigues-Mortes. Tale spirito avventuroso e proattivo, la costanza e l’esaltazione del lavoro come mezzo di riuscita sociale e non come svilente necessità, unito alla prudenza e alla saggezza del governo della Signoria, avevano contribuito alla fortuna e alla gloria della loro Venezia, bella, ricca, altera, invidiata.

Il bambino entrò trotterellando nel famigliare ambiente dell’emporio, dai pingui scaffali e arioso malgrado la strettezza (le proprietà a Rialto erano costosissime) sebbene v’indugiasse un lieve sentore di pecora per via della lana più grezza. Momolo salutò allegro e scansò i garzoni che trasportavano pesanti rotoli di tessuto e che li sistemavano a seconda della provenienza, del costo, del colore e della moda; poco distante, alcuni clienti ragionavano coi commessi, scrutandoli attentissimi mentre costoro srotolavano sul banco i campioni di stoffa scelta. Pendendo in avanti col naso a qualche spanna dai tessuti, i potenziali compratori vi scorrevano appena appena i polpastrelli per poi tastarli tra indice e pollice, quest’ultimo in esperti movimenti circolari onde saggiarne la qualità sia in robustezza che morbidezza.

“Quest’è rosso, come si usa proprio a Stia. Altri colori ch’abbiamo sono l’arancione, il verde e il bigio”, spiegava Zandomenego Martintoni, uno dei miglior commessi e rappresentante di Padre nelle mude di Fiandra, poiché, essendo egli originario di Rovereto, conosceva bene il tedesco così d’accaparrarsi le merci migliori ad Anversa, Bruges e nelle città delle Leghe Anseatiche. Sier Anzolo aveva fatto da padrino a due suoi figlioli e la moglie di Zandomenego ad ogni Santa Lucia regalava al loro datore di lavoro una grande torta alle mele, cannella e chiodi di garofano per la felicità dei bambini di Ca’ Miani.

In quel momento, l’uomo era intento a contrattare con dei mercanti napoletani per del panno cosentino, in un duello all’ultimo sangue sul prezzo, troppo alto per i clienti e troppo basso per quello proposto dal venditore. Piazzandosi in un angolino dietro al bancone, Momolo s’acquattò onde meglio assistere al serrato botta-e-risposta, finché, dopo una bella mezzoretta di sì e no e forse, si raggiunse un accordo, ossia che i mercanti avrebbero ottenuto uno sconto a patto che acquistassero il doppio della quantità richiesta e che pagassero metà in contanti entro la giornata.

“Perché hanno comprato tutto quel panno cosentino? Non vale molto, lo usano i frati per i sai”, commentò Momolo una volta che i napoletani se ne furono andati, intanto che Zandomenego chiudeva sottochiave l’anticipo e il contratto firmato.

“La guerra, patron Momolo, la guerra: ora li vedete piangere il morto, ma questi furboni di mercanti rivenderanno quei panni minimo il doppio a chi vorrà ricavarci delle mantelline per le cavalcature, braghe, ziponi, vai te a sapere … Meglio per noi, ci siamo liberati di merce ch’oramai nessuno comprava da un bel po’ e, d’altronde, che se ne fanno i soldati di panno San Martino o milanese? Forse il Re e manco lui, cui a momenti mancano i soldi perfino per vestire se stesso.”

Il giovinetto annuì serio e accorto: dei fatti di guerra a Napoli, egli l’aveva appresi ascoltando i discorsi tra Padre, senatore dei Pregadi e perciò degli affari esteri, e gli zii materni, assieme ad altri argomenti quali la visita a luglio dell’Imperatore Maximilian al duca di Milano Ludovico il Moro e a sua moglie Beatrice d’Este, nonché la spinosissima e non ancor risolta questione del piacentino Giorgio Valla, professore di latino e greco alla Scuola di San Marco, e del suo allievo Placido Amerino, imprigionati ambedue da febbraio con l’accusa di spionaggio per conto del Re di Francia, passando a Gian Giacomo Trivulzio informazioni sulla lega stipulata tra la Signoria e il Ducato di Milano.

Ma Napoli occupava tenacemente il primo posto nelle conversazioni sia a tavola sia in studio anche per motivi famigliari: sier Francesco Morexini, suocero di sier Batista zio materno di Momolo, era partito per la Bassa Italia a combattere per la causa del re Ferrandino d’Aragona, in piena campagna di riconquista del suo regno occupato dai Francesi. A gennaio gli ambasciatori napoletani erano giunti a Venezia allo scopo di strappare alla Signoria un sostegno sia militare sia pecuniario, favore che il giovane re aveva ottenuto impegnando i porti pugliesi di Otranto, Brindisi e Trani in cambio di denari, fanti, stradioti, uomini d’arme e galee. Se l’Aragona fosse però riuscito ad estinguere ogni debito, la Signoria gli avrebbe restituito tutte le città, le terre e le fortezze circostanti, immediatamente e senz’eccezione. Un patto semplice e onesto in vista, chissà, di una futura, lunga e vantaggiosa alleanza con Ferrandino, reputato uomo d’onore più del padre Alfonso e del vecchio re Ferrante messi assieme.

“Zandomenego, hai visto el sior mio Pare?”, domandò di punto in bianco Momolo, tallonando il commesso ch’aveva incominciato ad aggiornare i cataloghi.

“Avete controllato nel suo ufficio?”

“E’ il primo posto dove sono andato.”

“Il signor Ruberto?”

“Manco lui lo sa.”

Al che l’uomo distolse lo sguardo dalle pagine fittamente scritte, guardandosi perplesso attorno. Da quando il suo padrone aveva ottenuto la carica di senatore nei Pregadi, lo si vedeva in bottega e ai fonteghi solamente di mattina presto o alla sera tardi, per controllare l’inventario e l’incasso di fine di giornata. Tuttavia, anche se di recente sier Anzolo non si vedeva spesso, comunque rendeva ben nota la sua presenza ai suoi dipendenti, informandoli sui suoi spostamenti o di persona o tramite il suo segretario Ruberto Franco. In fin dei conti, quando a Venezia, il patrizio si dimostrava una creatura piuttosto abitudinaria.  

“Strano, molto strano che neppure lui lo sappia …”, mormorò Zandomenego, chiudendo il pesante quadernone e alzandosi dallo scranno. Avanzò di qualche passo, a caso, allungando il collo onde scovare tra i presenti la nota figura di sier Anzolo. “Io non … non credo d’averlo visto uscire … Cioè, doveva in effetti andare dal Capo Sestiere però non … penso … non … Aspettate, patron Momolo, vado un attimo a parlare col signor Ruberto!”, si diresse l’uomo velocemente verso l’ufficio del segretario del senatore, abbandonando al bancone un interdetto Momolo.

Vedendolo così disorientato e in pena, Lele, uno dei garzoni, ebbe di lui compassione e gli spiegò brevemente la faccenda: “Co’ ghemo averto, ea volta la gera tutta rebaltà, co la roba per tera, ‘na gran confusion dil diaol! El patron gh’avea creduo ser vegnui i ladri e perzò gh’ha volesto prima vardar cossa ghe gera stà robà e depo’ a far la denunzia al Cao de Contrada.”

Lo stomaco del bambino s’attorcigliò dolorosamente, provocandogli un lieve riflusso fino in gola, mentre ragnetti di brividi freddi incominciarono a risalirgli molesti lungo il collo, rizzandogli i capelli. S’inumidì le labbra d’un tratto secche, attorcigliando ansioso le dita: ignorava il motivo esatto, eppure un’arcana sensazione di pericolo l’aveva colto, quell’antica vestigia d’animale rimasta negli uomini che, senza l’ausilio di parole e ragionamenti, allertava e consigliava ad una pronta azione. Tale stato d’allerta irrigidiva ora le membra del fantolino, sentendosi questi improvvisamente solo e vulnerabile.

“Sai s’è alla fine uscito?”, soffiò Momolo, avvertendo il cuore martellargli in petto.

Lele scosse il capo. “Lo gh’ho visto ‘nultima volta là” ed indicò uno sgabuzzino seminascosto dagli scaffali,  “depo’, mi sun ‘ndà a laorar e nol poxo dirve de pì.” Poiché il garzone notò come il fanciullo stesse contemplando quella porta col medesimo trasognato timore, che un condannato riserverebbe al suo ceppo e che di conseguenza non accennava ad avanzare d’un passo, egli schioccò le dita verso un collega poco lì distante, intimandogli di controllare se il padrone si trovasse ancora lì.

Nettandosi le mani sul grembiale, l’altro ragazzo gli rispose tramite un silente cenno affermativo e sparì all’interno dell’angusta stanza, lasciando la porta aperta per far più luce. 

Ed ecco.

Bastò un unico, acuto, mezzo soffocato grido per stravolgere quella placida mattina d’agosto, per segnare una violenta linea netta tra il “prima” e il “dopo”, senza possibilità di capire, di rimediare, di tornare indietro e di cancellare per sempre quel brevissimo istante in cui il giovane apprendista usciva incespicando dallo sgabuzzino, sconvolto e la mano sul petto ansante, il viso piegato in una smorfia di pura agonia. Indietreggiando, egli tentava di parlare e indicava insistente l’interno semibuio, da cui s’intravedeva una scala e appoggiato a malapena su di essa qualcosa di grosso e scuro.

Immediatamente Lele lo raggiunse, strattonando per le spalle il compagno che farfugliava e piangeva e scuoteva il capo, ordinandogli di rivelargli ciò che tanto lo aveva turbato. Non ottenendo però alcuna risposta, entrò anch’egli e di nuovo quel grido, quel “No!” atroce, mentre il ragazzo rimasto fuori si copriva la bocca con la mano, per poi segnarsi continuamente mentre scivolava per terra in ginocchio. “Oh, Verzene Maria … Oh, Madona …!”

Attirati da cotanta sinistra gazzarra, si creò tosto un folto gruppetto tra garzoni e commessi il cui numero crebbe fino ad ostruire l’entrata dello sgabuzzino, al che Ruberto Franco, giungendo assieme a Zandomenego, dovette subito intervenire, spintonando via gli astanti in modo da non sconcertare gli altrettanto incuriositi clienti.

“Oh, bone Jesus dolciximo  … El patron! El patron! … Mi no savevo … mi no gh’ho podesto … el gera vivo, eo gh’ho veduo staman e horra … horra …”

Zandomenego, udito ciò, pigliò subito per un braccio un pallidissimo Momolo per allontanarlo. “Su, andiamo a casa, patron Momolo, vi ci porto io …”, lo esortò dolcemente, ricevendo invece un feroce strattone di diniego da parte del giovinetto. 

Riavutosi dall’iniziale spaesamento, Momolo gli oppose una fiera resistenza, piantò ben bene i piedi prima e tirò e scalciò peggio d’un mulo in direzione opposta poi, rifiutandosi d’abbandonare la bottega fintanto che non gli spiegavano cosa fosse accaduto a Padre, fintanto …

 

“No! No! Lassame! Lassame!”, strillò quegli instancabile; a furia di svincolarsi, torcersi e piegarsi era finito col sedere sul pavimento e la camicia fuori dalle brache, costringendo Zandomenego a sollevarlo di peso. “Vojo vardar! Xé’l mio sior Pare!”, si dimenò di disperata ansia e mulinò sconclusionatamente la braccia per schiaffeggiare via il commesso, che indietreggiando si stava dirigendo all’uscita del negozio.

“Lo vedrete, ve lo giuro! Ma ora andiamo a casa!”

“No! Lo voglio vedere ora! Ora! Ora! Ora!”

“Patron Momolo, per favore … Lo rivedrete …!”

Momolo inarcò la schiena in un doloroso arco, si girò ed elargì un calcio agli stinchi di Zandomenego. Finalmente libero schizzò velocissimo dentro lo sgabuzzino, seminando l’uomo che lo rincorreva. “Tata! Tata!” Si fece strada sgomitando, gli occhi già umidi di lacrime e invocando il padre, le braccia protese in avanti come se, una volta giunto in quello stanzino, al suo interno fosse sicurissimo di trovarvi Padre, vivo e in salute. Come se fosse lì ad attenderlo a braccia aperte, pronto ad abbracciarlo e a consolarlo.

“Tata! Tata!”

 

 

Mia figura o peccator contemplerai

Simile a mi tu vegnirai

 

 

Digrignando i denti e centellinando col naso l’aria mefitica, Hironimo districò faticosamente e a mani nude i cadaveri accatastati in barcollanti pile, disponendoli in ordine uno accanto all’altro, acciocché potesse riconoscerli e salutarli nella sua testa prima di seppellirli, in muto ringraziamento per il loro eroico ma inutile servigio.

Quando arrivò il turno di sistemare il corpo seminudo di Menego, il figlio dell’Orsolina, grigio, mezzo marcio e assolutamente anonimo, il giovane Miani si domandò perché mai i volti dei morti s’assomigliassero tutti.  

 

Non ofender a Dio per tal sorte

Che al transire non temi la morte

Che più oltra non me impazo in be né male

Che l’anima lasso al judicio eternale

Et come tu averai lavorato

Cossì bene sarai pagato.

 

 

Se non fosse stato per la toga nera manco l’avrebbe riconosciuto.

O meglio: lo avrebbe, ma Momolo per quanto si sforzasse non capiva come mai quel fantoccio penzolante scalzo, dalla faccia gonfia, dalle pupille dilatate e dalla lingua fuori potesse essere Padre, il senatore sier Anzolo Miani. Su quel viso di cinquantenne il bambino aveva contemplato ogni genere di sentimento, però mai quello gelido e immobile della morte, avendo Momolo sempre creduto Padre immutabile ed eterno come Domine Iddio e ironicamente, pensò, adesso stavano tutti a contemplarlo sconcertati e dolenti col naso all’insù come le Pie Donne e San Giovanni sotto la Croce.

E appunto come la Maddalena il bambino afferrò le caviglie del genitore e se le strinse forte al petto, strusciando la guancia sulla stoffa nera. Trattenendo i singhiozzi, Momolo si mise in punta dei piedi e spinse in alto con tutte le sue forze, illudendosi di poter salvare suo padre, di poter sfilare quella corda dal collo bluastro.

Gridò dallo sforzo, maledì la sua impotenza. “Tata! Tata!”, gli batteva le ginocchia. “Tata! Tata!”

All’improvviso, la luce scomparve e Momolo si ritrovò cieco a causa di una mano callosa sui suoi occhi: Zandomenego l’aveva preso in braccio, nascondendogli poi il viso sull’incavo della sua spalla. Di riflesso, il bambino strinse tra i pugni la stoffa del suo farsetto, lasciandosi avvolgere da quel buio improvvisato affinché lo conducesse via da quel luogo, dalle immagini impietose marchiatesi a fuoco nel suo cervello.

“Lele, molighe de fiffar e corate dal Cao de Contrada, lesto!”, gli giungeva sempre più ovattata e distante la voce affannata di Ruberto. “Vuialtri, mandé via tutti e serrate ea botega! Nissun gh’ha da vardarlo, nissun!”

Momolo voleva urlare. Voleva piangere. Svenire. Qualsiasi cosa pur di liberarsi da quel subitaneo nodo alla gola, che gli impediva di respirare e gli tingeva la visuale di chiazze. Invece, tenuto saldamente da Zandomenigo, altro non gli riusciva se non d’aprire e chiudere la mano, come se desiderasse afferrare quella spalancata e rigida del padre.

Un prima. Un dopo. Un mai più.

Il giovinetto avvertì il mondo ruotare, capovolgersi e schizzare via in una moltitudine di colori che si mischiarono e sciolsero vorticosamente fino a scagliarlo in un mare di luce bianchissima, dove il decenne fantolino v’affogò volentieri, accogliendo a braccia aperte quel doloroso nulla che tanto s’era fatto aspettare.

Nel dolore implose.

 

O peccator non peccar non più

Chel tempo fuge e tu non te n’avedi

 

 

Neanche un prete a benedire le loro tombe. Oh, che differenza avrebbe poi fatto? I morti non si lamentano.

Thomà, instancabile, intrecciava con l’erba piccole croci da mettere sui petti di ciascuno intanto che Hironimo scavava la fossa comune.

Le lacrime sincere di quel bambino erano più sante di qualsiasi acqua benedetta.

 

De la tua morte che certeza aitu

Tu sei forsi alo extremo et non lo credi

De ricore col core al bon Iesu

Et del tuo fallo perdonanza chiedi

Vedi che in croce la Sua testa inchlina

Per abrazar l’anima tua meschina …

 

 

Madre e le fantesche avevano agghindato Padre con la medesima perizia, che il defunto avrebbe usato per recarsi alle riunioni dei Pregadi a Palazzo Ducale, quasi a cancellare attraverso una raffinata eleganza ogni ricordo dello stato indecoroso, nel quale era stato rinvenuto.

Dopo che l’ufficiale sanitario e i barellieri se ne furono andati, lasciando il cataletto e il suo triste cargo sotto un lenzuolo, madona Leonora -  riavutasi dall’iniziale deliquio e spediti i figli al piano di sopra da madona Maria Foscarini Miani - gelida come il marmo aveva disposto di sistemare il consorte sul tavolo e di preparare il necessario onde ripulirlo e acconciarlo per l’ultimo suo viaggio terreno. Il tutto in un silenzio assoluto, chiunque avesse osato fiatare avrebbe incontrato i latrati ferocissimi della vedova, la quale aveva concesso al massimo di piangere con la bocca chiusa, dando l’esempio coi suoi occhi rosso fuoco e le guance smorte rigate.

Lei stessa aveva insistito di vestire sier Anzolo, accarezzandogli furtiva i capelli con la scusa di pettinarglieli e le guance di chiudergli il colletto, lo sguardo dolente e amorevole fisso sul suo corpo rigido ed illividito come se, tramite le sue carezze, desiderasse risvegliare il marito da quel gelido sonno. Orsolina e le altre domestiche avevano finto di non vedere, concentrandosi sul gravoso compito, semmai accelerandolo acciocché tutto fosse pronto per l’arrivo del resto del parentado, sempre senza proferire alcun motto, avendo infatti già comunicato ciò che dovevano comunicarsi, oramai abituate a quella mesta usanza, la memoria ben allenata dai passati decessi in Ca’ Miani. Ne avevano seppelliti abbastanza da saper alla perfezione cosa fare e come comportarsi, sebbene non negavano un certo turbamento per le circostanze della morte del padrone, le quali nessuno pareva darsi la pena di chiarire, in primis la moglie.

Quando Zanetta salì a chiamare Momolo ed i suoi fratelli, era tardo pomeriggio e la vestizione completa; s’attendevano i parenti più stretti per trasportare il defunto a San Vidal e lì iniziare la veglia.

Uno alla volta giunsero a porgere i propri rispetti: il biscugino sier Zuan Francesco Miani e sua moglie Maria Foscarini Miani; l’anziana Maddaluzza Miani e madona Ysabeta Zen relicta Miani ora Grioni col ventitreenne figlio Alvixe Miani e il di lui fratellastro Piero Grioni; sier Polo Antonio Miani e sua moglie Maria Morexini Miani, cugina di Madre, e i loro cinque figlioli, di cui l’ultimo, Piero, ancora in braccio alla balia. Poco più tardi si presentarono Crestina Miani da Molin, la figlia di primo letto di sier Anzolo, assieme al marito sier Thomà da Molin e alla piccola Leonora detta Dionora; appena scorse la matrigna, la venticinquenne patrizia le corse incontro, abbracciandola forte e piangendo silenziose lacrime sulla sua spalla, mentre madona Leonora le accarezzava il capo velato di nero.

A costoro s’aggregarono le famiglie dei commessi e degli operai di sier Anzolo, Ruberto Franco e Zandomenego Martintoni i primi a presentarsi; poi quelle della contrada di San Vidal e dintorni; in serata  alcuni amici intimi del senatore, quali il senatore della Zonta sier Antonio Trum e suo fratello minore Sebastian Trum, previi cognati del Miani. Madre ed i suoi figli li accoglievano rigidamente composti, la donna vestita interamente di nero, accollatissima, le belle trecce nascoste sotto una scuffia nera e un voluminoso paneselo nero lungo fino ai fianchi tanto da scambiarla per una suora. Il ventunenne Lucha e il diciannovenne Carlo già si presentavano con l’ombra della barba che, per tre anni, avrebbero sfoggiato a mo’ di lutto, assieme al mantello serrato bruno, dallo strascico assai lungo, stretto ai fianchi da una cintura di cuoio e affibbiato sotto la gola.

“Le nostre più vive condoglianze”, sentiva Momolo ripetere ogni visitatore, mentre Madre e i fratelli stringevano di continuo mani e sorridevano forzatamente a quella processione di volti familiari; quest’ultimi però stentavano di rimando a riconoscerli, stravolti com’erano da quell’inatteso e tragico evento.

Sua nonna, madona Ysabeta Contarini relicta Morexini, accorgendosi del silente nipotino, gli accarezzò la guancia, sussurrandogli parole di conforto prima di recarsi nella camera da letto del morto per unirsi allo scoordinato coro di “Ave Maria”. Ogni tanto gli si batteva sulla schiena o sulla spalla, incoraggiandolo a farsi forza, al che Momolo replicava annuendo, ricacciando indietro quelle lacrime che solo dopo le esequie e nella segretezza della sua stanza gli sarebbe stato consentito di versare. Ma non ora. Non in pubblico, a quello ci pensavano le donne. Non era ciò che sempre Padre gli aveva rimproverato? Di frignare ad ogni occasione? Mai più – si ripromise – mai più avrebbe pianto. Egli era un ometto e gli uomini non piangono. 

La genitrice e i fratelli si dividevano anch’essi tra gli infiniti convenevoli, i saluti e le melodrammatiche proclamazioni su quanto la morte di sier Anzolo Miani li avesse rattristati e se ciò corrispondesse al vero, meglio non sapere.

Momolo, aggrappato alla mano di Madre, assisteva passivo all’intero spettacolo e un poco innervosito, gli occhi ben asciutti.

Al crepuscolo trasportarono Padre su di un cataletto nella chiesa parrocchiale di San Vidal per la veglia funebre – al lume delle torce rette dai fratelli Lucha, Carlo, dal biscugino sier Zuan Francesco e dai suoi zii sier Batista, sier Lunardo e sier Hironimo Morexini “da Lisbona” (quest'ultimo senatore dei Pregadi come il cognato) accorsi in tempi diversi durante il giorno. Un affare semplice, privatissimo, quasi vergognoso e in netto contrasto con la pomposa cerimonia che si apprestava a compiere il giorno seguente.

Nell’andirivieni generale di partecipanti e babe pizzochere, soltanto lo zio di Momolo, sier Batista, era sempre rimasto in chiesa, avendo infatti mandato avanti la matrigna madona Ysabeta, i suoi fratelli e la moglie madona Morexina Morexini, promettendo di raggiungerli a Ca’ Miani. In passato, vegliare su di un cadavere pronto per l’ultima dimora terrena non aveva mai scosso suo zio più di tanto, ricordandoselo Momolo impassibile se non talora annoiato; ora, invece, l’uomo gli appariva inquieto, forse per colpa dell’innaturale silenzio regnante nella chiesa o forse perché, come tutti, non si capacitava di tale disgrazia abbattutasi improvvisa e violenta sul cognato e sulla sua famiglia.   

E il fantolino poteva ben immaginare, quanto tale sua apprensione non fosse rivolta a Padre – ormai in gloria di Dio – bensì a Madre, che sier Batista trovò là dove l’aveva lasciata, seduta in uno stato pressoché sonnambolico davanti al catafalco, illuminata a malapena dalla fioca luce dei ceri funebri, proiettando questi lunghe ombre sui muri e trasformando il morto in un’informe massa scura. Sulle ginocchia di madona Leonora sonnecchiava appena Momolo, la mano tuttora stretta a quella della genitrice; il quindicenne Marco, dal canto suo, s’era accontentato della spalla. Quanto a Lucha e a Carlo, erano rientrati a Ca’ Miani per coordinare il piccolo rinfresco e sorbirsi, volenti o nolenti, la compagnia del parentado, che fino al dì del funerale si sarebbe accampato nella casa da statio.

Sedendosi accanto alla sorellastra, sier Batista le mormorò dolcemente: “Dovreste coricarvi, almeno per qualche oretta: non avete neppure mangiato e domani …” e si bloccò in tempo onde evitare sciocchezze tipo: sarà una giornata impegnativa. E come no!

Madona Leonora scosse lentamente il capo in diniego, gli occhi vitrei riflettenti l’arancione delle candele, fissandolo sperduta come se l’avesse visto per la prima volta in vita sua. Negli abiti neri da vedova pareva ancor più giovane e al contempo vecchia per via delle spalle ricurve, del pallore dell’insonne e delle profonde occhiate. “Domani lo lascerò … non stanotte, no, stanotte rimango con Anzolo …”, gracchiò, passandosi rapida e vergognosa il dorso della mano guantata sugli occhi. “Il fumo …”, bofonchiò a mo’ di scusa, tirando su col naso.

Il suo fratellastro accettò la debole giustificazione senza commentare. In quel momento, Momolo uscì completamente dalla sua dormiveglia, ma, accorgendosi dell’espressioni serie di confidenza tra Madre e Avunculo, seguitò nel suo finto sonno, in ascolto, specie quando, inaspettatamente, l'altro zio sier Hironimo Morexini s'unì a loro.

“Siete ritornato in ritardo, oggi.” Il tono di sier Batista suonava tanto duro quanto gli altari di marmo e quel suo velato rimprovero doveva fondarsi su ottime motivazioni, per rivolgersi così al fratello maggiore.

“Sapete perché", replicò altrettanto tagliente sier Hironomo.

“Mi permetteranno di seppellirlo in chiesa?”, altre erano le preoccupazioni della vedova e almeno in questo, i due Morexini ebbero di lei, rassicurandola:

“Il priore don Jacomo Batista non nutre alcun dubbio a riguardo.”

“Questo vi ha trattenuto?”

Un istante d’esitazione.

“No.”

Madre si voltò verso sier Hironimo, guardandolo tanto supplicante quanto sier Batista accusatore. “Significa che sanno chi è stato. Mi rifiuto di credere che mio marito si sia tolto la vita”, interruppe lei la replica del fratellastro più anziano, zittendolo bruscamente. “Anzolo non s’arrendeva dinanzi a nulla, né sarebbe stato così codardo ed egoista da scegliere a nostro discapito questa triste scappatoia. Non lo credo! Non è possibile! Me lo hanno ammazzato e i Dieci conoscono il colpevole!”

Il senatore dei Pregadi girò il capo dall’altro lato, evitando di risponderle e ciò confermò le intime angosce della donna.

“Voi lo sapete! Ve lo hanno comunicato, quando vi siete recato a Palazzo per assicurargli una sepoltura da cristiano! E’ così?”, lo incalzò sier Batista e madona Leonora, dinanzi all'ostinato mutismo del fratellastro, gli ordinò affannata: “Me lo dovete dire, Hironimo! Sono sua moglie! I miei figli hanno il diritto di sapere chi ha ucciso il loro padre! Perché mi fate questo sgarbo tacendomelo?! Perché ci costringete a vivere con questo peso?”

Il patrizio allora s’alzò di scatto, avanzando a grossi passi verso il catafalco.

“Perché non abbiamo prove!”, sbottò frustrato sier Hironimo, appoggiando la mano poco distante da quella guantata ed inerte del cognato, quasi desiderasse scusarsi con lui  per la sua impotenza. “Senza prove concrete, inizieremmo uno scandalo di tal portata, che se le nostre teorie si rivelassero sbagliate, ci risulterebbe difficile se non impossibile ritrattare”, le confessò, calmandosi e respirando a fondo. Dopodiché il Morexini riaccese alcune candele, lo stoppino soffocato dall’eccesso di cera. “Se Anzolo fosse stato ucciso da un qualsiasi suddito della Signoria, quant’è vero Iddio lo avremmo scovato e tagliato a pezzi tra Sen Marco e Sen Todero. Poiché sospettiamo non essere così … Senza prove concrete non possiamo nominare nessuno a voce alta”, e si passò stancamente una mano sulla tempia. “Noi tutti siamo amareggiati per quel che è successo. Si poteva evitare”, e terminata l’operazione di riaccensione delle candele, riprese il suo posto sullo sgabello in attesa dell’alba.“Ma una testa rotolerà per certo, sorella mia, questo ve lo promettiamo: hanno voluto darci un monito. Ebbene, anche loro riceveranno il nostro.”

Momolo rabbrividì all’udire quella minacciosa promessa, ch’odorava di sangue, stringendosi inconsciamente a Madre.

A Venezia ogni cosa pubblica doveva essere uno spettacolo e il funerale di un suicida (o presunto tale, come si correggeva ferocemente lo sprovveduto pettegolo che affermava il contrario) lo era assai, attirando più partecipanti di quanti invitati, pareva aver reso l’anima Missier il Doge e non un senatore a giudicare dalle finestre gremite di facce incuriosite e scandalizzate; delle calli quasi ostruite di gente che si univa al corteo o che tentava di sbirciare il volto del morto, se si notavano i segni della corda (c’erano e belli scuri sotto il velo rosso postovi da Madre, in modo da confondersi con il colletto della vesta).

Per sicurezza, durante il tragitto verso Santo Stefano, i Miani avevano ordinato ai servitori di tenere ben pronti i bastoni in mano, da calare su qualsiasi testa facinorosa e fanatica che avesse osato disturbarli. Per fortuna non fu il caso, procedendo serenamente il pingue corteo indisturbato, tra Litanie dei Santi e segni della croce dei passanti o di chi s’affacciava alla finestra, srotolando da essa un panno viola o nero in segno di partecipazione. Momolo aveva assistito ad altri funerali, come ad esempio quello del suo omonimo prozio sier Hironimo Miani e di sua zia Barbara Moro Morexini, però ugualmente rimase sopraffatto da tutta quella gente, dai preti agostiniani e dai chierici; dai dipendenti in bottega e magazzini ai marinai e comiti che avevano servito nelle fuste e galee di sier Anzolo, quando questi era stato Capitano della Riviera della Marca durante la Guerre del Sale e capitano della muda di Beirut.

Oltre a costoro, seguivano poi: sier Thomà Miani cugino di Padre con le figlie Anzola e Maria, maritate rispettivamente in sier Alvixe Zantani e sier Fantin Dandolo; sier Daniel Contarini, figlio della prozia Helena Miani Contarini, e sua moglie Cypriana Arimondi Contarini; l'anziano procuratore di San Marco sier Andrea Contarini e madona Andriana Miani Contarini, altra zia paterna del defunot, e i loro numerosissimi figlioli e figliole tra cui sier Thadio e sier Antonio Contarini, che vivevano a San Vidal, il secondo assieme al figlio Sebastian Contarini e madona Pellegrina Contarini Morexini in compagnia dei figli Silvestro, Phelipo detto "l'Avaro" e Bortolamio Morexini.

Lontani parenti, ma pur sempre in Ca’ Miani partecipavano il novantaduenne sier Andrea Miani q. sier Vidal, tenuto sottobraccio da sua nipote Maddaluzza Miani con accanto madona Magdalena Marzelo da Canal, moglie di Marin da Canal suo altro nipote.

Dei Miani di San Giacomo dell’Orio si presentarono, oltre a sier Polo Antonio e famiglia, anche i suoi fratelli Batista, Sebastian, Zuanne, Lorenzo e Domenego e i loro cugini germani, Segondo, Zuam Batista e Domenego figli del cugino del nonno paterno di Momolo, quel sier Thomà Miani che tanto lo amava quasi se non più d’un fratello, da compartire l’anno di esilio quando, stolti e impetuosi ventenni ch’erano stati, sier Lucha e sier Thomà avevano deciso d’impegolarsi in strane sette. Momolo aveva conosciuto nei dettagli la succosa vicenda al funerale del medesimo sier Thomà, deceduto quello stesso anno.

E per virtù di matrimoni, che legano il mondo, la cognata di sier Thomà, madona Agnete Vituri, aveva sposato sier Nicolò Loredan fratello di madona Crestina Loredan Miani, madre di sier Anzolo, sicché costoro non poterono mancare, anche dopo che sier Lucha Miani, soffrendo del mal dell’eterno marito, si era risposato con la giovane vedova di sier Francesco Dolfin. Tra questi parenti spiccava l’anziana madona Agnexina Minotto Loredan, moglie del prozio sier Bertuzi e figliola del magnifico messer Hironimo Minotto, morto decapitato a Costantinopoli assieme al figlio Zorzi e ad altri sette patrizi veneziani, dopo averla virilmente difesa contro i Turchi. Madona Agnexina e suo fratello sier Polo Minotto, catturati assieme alla madre e destinati ad una vita di schiavitù, per grazia di Dio e della Madonna erano invece riusciti a fuggire e a rimpatriare a Venezia, assegnando la Signoria una dote alla fanciulla.

A proposito di Turchi: ai fratelli sier Antonio e sier Sebastian Trum s’erano aggregati i loro quanto mai numerosi famigliari, tra cui Momolo riconobbe sier Phelippo Trum q. il Serenissimo Missier el Doxe Nicolò Trum con la moglie e e la cugina di Madre sua cognata, quest’ultima rimasta precocemente vedova del sopracomito sier Zuane Trum, morto a Negroponte per “la fede e per el stado”; i figli di madona Francesca Trum Dolfin, il cui marito era stato anch’egli alla custodia di Costantinopoli sebbene con epilogo più felice; il capitano sier Hironimo Contarini “il Grillo” dei SS. Apostoli e sua moglie Orsetta Trum Contarini, nota per la sua bruttezza leggendaria, coi figli Francesco e Magdalena. Degli altri cugini di suo zio sier Antonio, il piccolo Miani si soffermò su Stae Trum q. sier Antonio, il quale i medici patavini avevano dichiarato irrecuperabilmente pazzo furioso e di fatti lo tenevano ben stretto i suoi fratelli Carlo e Donado e seminascosto dagli altri fratelli, sier Francesco, sier Lucha e sier Marco. Il povero Stae, scagnato dai parenti e seppellito vivo in casa, al decenne Miani in verità suscitava un’infinita tenerezza, povero prigioniero della sua medesima mente, dal sorriso sghembo e svagato, gli occhi distratti sempre vaganti di qua e di là e un filetto di saliva che gli rigava il mento, quando parlando esibiva nei suoi criptici discorsi la tipica saggezza dei matti. Non era nato così - aveva appreso il giovinetto - avendo anzi lavorato come giudice nella Quarantia Criminal; semplicemente, nel corso degli anni qualche demone interiore aveva roso, poco alla volta, il senno di sier Stae e soltanto Domine Iddio poteva nominarlo.

Dalle bande di Madre, oltre alla nonna Ysabeta, Momolo salutò i suoi cugini Zuanne, Donado e Francesco Michiel, quest'ultimo con la moglie Ysabeta Longo Michiel, figli dei sier Donado Michiel q. Zuanne detto "il Fusta", figliastro di sua nonna e di Cecilia Trum Michiel, cugina di sier Antonio e sorella di madona Francesca; dopodiché il piccolo Miani passò agli altri cugini, Alvixe, Andrea ed Hironimo Barbaro, figli dell'altra figliastra di madona Ysabeta, Diamante Michiel Barbaro e di Piero Barbaro q. sier Donado. Venne anche il cognato dell'avia materna, sier Ambruoxo Contarini q. sier Beneto, capitano della galea Aegeus contro i Turchi, ambasciatore ed esploratore, in compagnia di sua moglie madona Margareta Crispo Contarini col figliolo Beneto Contarini. Momolo per questo parente nutriva una grande fascinazione e gli dispiaceva di rincontrarlo in tali infelici circostanze, adorando infatti sedersi ai suoi piedi per ascoltare le sue avventure nel Levante. Il piccolo Miani forse non si ricordava manco sotto tortura gli Ianua e i Disticha Catonis, però poteva citare verbatim ogni singola parola dei libri-resoconto “Questo è el Viazo de misier Ambrogio Contarini” e “Viaggio al signor Usun Hassan re di Persia”, ripetendo come da grande egli avrebbe imitato il prozio e viaggiato per il mondo in lungo e in largo, ammazzando Turchi, salvando donzelle in pericolo e divenendo amico di re e imperatori di paesi esotici e mai scoperti. “Sì, sì, sempio come sei, appena metti fuori il naso dal Golfo, ti catturano i Turchi e ti vendono schiavo al Sultano d’Alessandria d’Egitto per fargli da scimmia!” “Sior Pare, aveu sentito?” “Carlino, molighe: qui nessuno vende nessuno al Sultano!”

I più vicini al cataletto, però, rimanevano i Morexini dalla Sbarra di Santa Ternita, cognominati “da Lisbona” per via dei lunghi anni in Portogallo del fu sier Carlo Morexini q. Nicolò, nonno materno di Momolo, senatore e “companheiro” del fiorentino Bartolomeo di Jacopo di Vanni, con cui aveva fondato una società di cambi tra Lisbona e Roma tramite la banca Gianchinotti-Cambini di Firenze, società tra i cui clienti s’era annoverato perfino l’infante don Enrique d’Avis.

Tra i suoi sei figli di primo letto, avuti da Querina Querini q. Piero q. Gelmo, spiccava appunto sier Batista che pur il minore di loro era divenuto per i suoi meriti il nuovo capofamiglia; gli camminavano vicino sua moglie Morexina “dalla Testa” e i figli più grandicelli Carlo, Piero, Nicolò, Hironimo e Maria, mentre Querina e Ferigo erano rimasti a casa con la balia. Un po’ in disparte, dietro padre, matrigna e fratellastri, li seguiva Andrea Morexini detto “il Vendramino”, illegittimo, nato prima del matrimonio di sier Batista. E dietro a costoro gli zii Nicolò, Piero, Ferigo, Hironimo e Lunardo con le rispettive consorti e prole, la cui compagnia solitamente Momolo apprezzava grandemente, ma ora la rifuggiva, neanche gli ricordasse quei giorni felici che giudicava rubatigli ingiustamente, provando una forte invidia, poiché i suoi cugini, nel bene e nel male, seguitavano a godere della presenza di un padre, mentre lui ne sarebbe rimasto orbato per sempre. L'unico a salvarsi dal suo rancore rimaneva il figlioccio e il più giovane dei cognati di sier Battista, il diciassettenne Anzolo Morosini, il cui padre Francesco detto "da Zara" si trovava in Bass'Italia a combattere per Ferrandino d'Aragona re di Napoli.

A far da ponte, oltre a Madre, tra Miani e Morosini, erano venuti a porgere i propri rispetti anche i biscugini di Padre, in primis sier Christofal Moro q. sier Lorenzo: suo nonno il fu sier Antonio aveva impalmato la prozia di sier Anzolo - madona Barbara Miani Moro q. sier Zuanne. La sua omonima nipote, Barbara detta "Barbarella" s'era poi maritata con sier Hironimo "da Lisbona" zio di Momolo, morendo tuttavia due anni addietro, anch'ella ad agosto. Ma non era per la sua parentela, che l'arrivo di sier Christofal suscitò qualche bisbiglio e sorrisetto: era la compagnia della sua terza moglie, madona Istriana Pasqualigo Moro di sier Cosimo, la sua bellezza direttamente proporzionale alla grande gelosia che il marito nutriva nei suoi confronti. Madona Istriana era pregna per la terza volta e ci si domandava non senza malizia se, dopo le figliolette Ysabetta e Paola, il suo figliastro Lorenzo Moro avrebbe finalmente avuto quel tanto sospirato fratellino o se per tal impresa fosse necessario l'ausilio di una quarta moglie.

Codesto variegato corteo occupò quindi la Chiesa di Santo Stefano e la cerimonia soddisfò pienamente le sue aspettative. Il cataletto, una volta entrati, era stato collocato sotto un baldacchino pieno di lumi su cui incombeva il manichino di una Morte alata, dal pesante mantello nero, munita di falce e del suo usuale ghigno, reso doppiamente sinistro dalla penombra e i fumi dell’incenso. Simbolo della caducità della vita e della vanità delle passioni, a Momolo quel fantoccio parve al contrario un difensore del corpo di Padre, quasi volesse scansare da lui i suoi assassini e risparmiargli le loro ipocrite lacrime.

Sier Anzolo giaceva in gelida composta perfezione sul suo catafalco, recante tra le mani ricoperte da morbidi guanti di cuoio una piccola icona della Panaghia Tricherousa [8], l’ultimo dono di suo fratello sier Marco da Schiro, da cui il patrizio non se ne separava mai. In rispetto alla sua carica nei Pregadi, la vesta sceltagli era di velluto semplice, pavonazzo, dalle maniche grandi e aperte e foderata d’ermellino; le calze e le pianelle invece erano rosse così come la stola sulla spalla. Sul capo, una beretta nera.

Si recitarono le orazioni e si cantarono le esequie, incensando di continuo il defunto, alla mercé dello sguardo indagatore e venale di ogni visitatore, che valutava in pecunia ogni spanna di seta e velluto con la scusa di pregare per la sua anima, nonché cercava di capire in che cosa differisse il cadavere di un suicida da uno morto cristianamente. Accanto a Padre, i corocciosi (parenti in lutto, ndr.) assistevano alla Messa da Requiem gravi e solenni, in statuaria immobilità, interamente coperti da un lungo mantello nero a strascico e un cappuccio, tanto da scambiarli per lugubri statue.

Tenuto per mano stavolta da Marco, Momolo notava come tutti si rivolgessero con estrema cortesia al primogenito Lucha, fino a qualche giorno fa sempre dietro a Padre, in silenzio se non interpellato. Adesso, invece, lo accarezzavano ipocritamente dogliosi e lo trattavano da gran amico, ormai chiaro il temporaneo cambio di testimonio a Ca’ Miani. Dopodiché, al compimento della maggiore età degli altri fratelli, il Tempo avrebbe svelato chi veramente avrebbe assunto il ruolo di capofamiglia.

Ai dubbiosi, agli addolorati nonché ai morbosi e ai pettegoli che s’accalcarono alla cerimonia funebre, sier Batista imbastì un gran bel discorso circa la causa di quel violento trapasso, cioè un vile assassinio causato dal crescente tasso di criminalità notturna a Venezia. Come poteva infatti il magnifico messere Anzolo Miani – declamava pieno d’infuocata enfasi - avvocato e giudice, capitano delle galere e podestà, provveditore e senatore essersi macchiato di un tal peccato mortale, aborrito dalla Serenissima e condannando la sua anima all’eterna dannazione? Sier Zuan Francesco “il Pizzocchero” e sier Antonio Trum rincararono poi la dose sciorinandosi in ulteriori articolate e solenni liste di benemerenze del defunto, ognora indicandolo come un uomo devotissimo alla Signoria Loro, dalla condotta irreprensibile, padre e sposo di rara virtù, meritevole solo di grandi lodi e onori. Il priore di Santo Stefano, don Jacomo Batista Aloisi, aveva ricordato commosso l’impagabile sostegno del Miani sia come mecenate sia come benefattore in generale e di come avesse sempre vissuto da buon cristiano.

Momolo ascoltava a malapena, barcollando mezzo stordito dalla stanchezza e dall’incenso. Un doloroso groppo in gola gli si formò a fine funzione, quando i becchini sollevarono il corpo di Padre e lo posero delicatamente nella costosa bara di larice. Marco lo dovette trattenere a viva forza, nel momento in cui il coperchio venne inchiodato e il feretro ricoperto d'un panno di velluto nero, costringendo il fratellino ad allungare il collo e a porsi in punta dei piedi, così da contemplare fino all’ultimo i lineamenti del genitore, celati per sempre dietro quel marmoreo sepolcro fino al dì in cui si sarebbero ricongiunti nell’Aldilà.

“Non voglio dimenticare la sua faccia, Marchetto. Non voglio!”, confidò angosciato sottovoce al maggiore, intanto che sollevavano il feretro nell’arca, collocata nella parte posteriore dell’abside.

“Te la descriverò ogni sera, Momolo, promesso”, giurò solennemente Marco, baciandogli furtivo la tempia onde sigillare quel segreto patto fraterno.

Nudo uscii dal seno di mia madre; e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!”, concluse e benedisse l’arca sigillata don Jacomo Batista Aloisi.

“Amen! Amen! Amen!”, rispose grave l’assemblea, segnandosi tre volte. “Misericordia! Misericordia! Misericordia!”

Il povero Stae Trum, ridacchiando e schioccando la lingua, indicò la tomba e il fantoccio. “Varda! Varda! La Morte s’è presa il cugino Zanzetto, ch’è volato via con lei!”

Nel frattanto, a Ca’ Miani, Symon il pope de casàda confidava sottovoce a Nardo il cuoco e alla di lui nipotina Ufemia alcuni suoi dubbi: suicida o assassinato? Ammettendo che sia vero, ma perché? - insisteva Ufemia mentre tirava il collo ai volatili per il pranzo - che motivo avrebbe avuto il sior patron di togliersi la vita? - A Rialto, poi! Dove tutta Venezia l’avrebbe saputo! - Debiti di gioco?  - No, il sior patron li aborriva, vi ricordate come prese a schiaffi i padroncini Luchin e Carlino quando li vide con le carte in mano?  - Mala gestione? Abuso della sua carica? Accusa di corruzione?  - Macché! Ce ne fossero di onesti in Senato come il povero padrone! – Ascoltate qua: il servo di sier Antonio della Zonta mi ha detto che il suo padrone è andato a chiarirsi con uno suo amico tra i Dieci e che questi gli ha confermato come la Signoria Nostra non abbia  mai avuto nulla da rimproverare al padrone nostro, al contrario sempre l’è stata soddisfatta del suo zelante operato. – La so io: malfrancese!  - Puoah, caro mio, e tu pensi che la padrona gliel’avrebbe fatta passare liscia, se l’avesse cornificata?

“Olà, bestie!”, ruggì Orsolina, chetandoli tutti. “Aveu finio de ciacolar? Deboto zonzeran i patroni e gli ospiti, e savé ben chome i patricij i magnan per zento ! Cossa ghe servirem a st’altri in tola? Le vuostre zanze?” (ciance, ndr.)

Si preannunciava un pranzo effettivamente abbondante di commensali ché a compiangere  il senatore sier Anzolo Miani oltre ai suoi parenti, ai suoi dipendenti, marinai, amici s’erano aggiunti anche i vicini di casa e di contrada. Nell’infinito viavai dello stipatissimo piano nobile di Ca’ Miani, Momolo, prima di rintanarsi in un angolo tranquillo, fu costretto a salutare la zia Ysabeta Morexini Corner, moglie di sier Zorzi Corner il cavaliere e fratello della Regina di Cipro, coi figli più grandi Zuanne, Francesco, Marco, Jacomo ed Hironimo. E come se non ne avesse abbastanza, anche la zia Marina Morexini Vituri, moglie di sier Piero, la quale figli non ne aveva e non tanto perché lei fosse sterile, bensì il marito, ch'era un prete mancato. Niente figli neppure per lo zio sier Thadio Morexini, l’altro figlioccio e cognato di zio Batista, sposato da due anni con madona Contarina Contarini Morexini, nipote della prozia madona Andriana Miani Contarini per suo figlio sier Zentil Contarini, ma lì, Momolo aveva origliato, era questione soltanto di tempo.

Madona Maria Malipiero Gradenigo fu l’unica che si rivolse direttamente a Momolo, stringendolo al petto e accarezzandogli tenera il capo, per crocifiggere poi con un’occhiataccia il marito sier Zuam Paulo Gradenigo che, tra il goffo e il burbero, su sua insistenza, gli bofonchiò: “Fa’ il bravo, veh” per poi riparare strategicamente tra sier Fantin Dandolo e madona Laura Dandolo Contarini, altra biscugina del piccolo Miani, sposata a Thadio Contarini cugino di Padre e nipote del fu Serenissimo sier Zuanne Mozenigo .

Vennero a salutare Madre anche sier Lunardo Loredan, i suoi figli e le figlie coi generi che abitavano a San Vidal; vestita a lutto compartì le sue condoglianze anche madona Laura Contarini relicta Zustignan (cognata di sier Lunardo) e la figlia Luzia Zustignan Dolfin, ch’aveva sposato il podestà e capitano di Mestre sier Piero Dolfin figlio di Francesca Trum Dolfin, così d’avere stretti non solo i parenti ma anche i vicini. Degli undici figli del fu sier Unfrè, accompagnarono madre e sorella Alvixe, Francesco, Andrea, Lorenzo, Lunardo e Pangrazio, il resto a casa poiché troppo giovani, nonché madona Paula Zustignan maritata anch’ella ad un sier Piero Dolfin, guadagnandosi il primato di miglior barzelletta del sestiere, la quale adombrava scambi di mariti tra le due sorelle, quando annoiate. Momolo si chiedeva come potesse ciò avvenire, essendo i due Dolfin diversissimi tra loro, decisamente figli di padri e madri diverse.

La chicca però corrispose alla partecipazione inattesa del cavalier sier Zacharia Contarini “dai Scrigni” con Alba Donado “dalle Rose” sua moglie e i figli maggiori appresso. Dell’intera sua gens  (e metà del patriziato lì presente) sier Zacharia appariva l’unico genuinamente dispiaciuto della tragica dipartita di sier Anzolo, avendo infatti orato durante la funzione con gran fervore per la salvezza dell'anima del parente acquisito, ambedue pronipoti di Andriana Miani Contarini.   

Il Cavaliere, ambasciatore e rappresentante speciale a suo tempo presso le corti di Francesco Gonzaga, Ludovico Sforza, Charles VIII e ora appena rimpatriato dalla corte dell’Imperatore Maximilian I., di recente aveva infatti riallacciato i rapporti col cugino alla lontana, specie in gondola durante il tragitto da Palazzo Ducale verso i rispettivi palazzi. Oltre alle accese discussioni sulle recenti difficoltà del Moro e sull’ignavia dell’Habsburg che bravo era solo ad incassare i soldi loro e del Duca, ad unire i due patrizi erano le lagnanze sui rispettivi figli minori. Sier Anzolo, ascoltando sier Zacharia, gli aveva in più occasioni confidato come anch’egli si crucciasse per il suo Momolo, da tutti adorato e coccolato e che tanto dicevano esser buono, cortese ed estroverso; chissà perché con lui invece si comportava da turco, sempre serio e rabbiosamente chiuso, che gli mordeva la mano se tentava di castigarlo e gli lanciava parole tanto dure, che il senatore neanche si capacitava da dove provenisse tutto quel rancore in un fantolino.

“Ascolta bene, Momolo: checché ne dica lo stolto volgo, il tuo sior Pare era un grand’uomo, per lui devi provare soltanto orgoglio!”

Soffocato da quella gazzarra di ospiti e infastidito dai loro rivoltanti sorrisi compassionevoli, Momolo scivolò via inosservato giù in cucina, alla ricerca della famigliare e rassicurante compagnia dei servitori, fintanto che Madre non l’avesse chiamato a tavola. Strisciò sotto la pistoria, s’accoccolò in posizione fetale e catturò il gatto, abbracciandolo mentre questi lo rilassava con le sue fusa; poco gli importava se così facendo si sporcava il farsetto di peli e farina, anzi in questo modo lo avrebbero spedito in camera sua e lasciato finalmente in pace.

“Zò, patron Momolo! Cossa faseu qua sotto? Vegné, a xé pronto en tola!”

“No gh’ho fame!”

“Mo via, gnente putelezzi!”

Al banchetto funebre si servirono le pietanze amate in vita dal defunto e gli occhi del piccolo Miani s’ingrandirono terrorizzati alla vista delle anguille portate in gran trionfo sui vassoi d’argento. Quando le ebbe sotto il naso, nella mente del bambino cozzarono violentemente vari ricordi, tra cui la testa del florentin tenuta in mano dal boia e quelle delle anguille scartate da Nardo il cuoco; della faccia tumefatta e irriconoscibile di Padre, colla lingua fuori come il toro a Carlevar, e sempre di Padre il viso rigido e color della cera che aveva baciato sulle labbra a mo’ di commiato.

“Di le toe virtù, ricchezze e forza fidar no te vole”, canticchiava serafico Stae Trum il matto, sviscerando il pesce con le mani con la medesima fascinazione di un infante. Accortosi di come i bambini a tavola lo stessero osservando divertiti, egli abbandonò l’anguilla sul piatto, tagliò a metà la sua fetta di polenta e ci giocò, nella sua mente degli scheletrini danzanti: “No sastu, Momolo?”, gli chiese, ponendosi l’indice sulle labbra. “La Morte chi lei vole, lei tole.”

Il piccolo Miani non resse più e vomitò dunque sul piatto e sarebbe stato allontanato in camera sua tra l’imbarazzo generale, se suo fratello Marco non avesse afferrato prontamente il piatto, gettandone non visto i contenuti fuori dalla finestra, in canale.

“E come dicono i Greci: buon viaggio, Anzolo nostro.”

“Buon viaggio!”

Momolo incominciò a sudare, ad avvertire fastidiosi crampi allo stomaco e scalpitava per la fine di quel (per lui) infinito calvario; inoltre, il fantolino esigeva l’abbraccio confortante di Madre e non riusciva più a trattenere il doloroso urlo ingroppatosi in gola per via della consapevolezza, che Padre era morto per davvero e senza che lui, suo figlio, avesse avuto modo di domandargli scusa e dirgli quanto l’amasse.

 

No sastu, Momolo? La Morte chi lei vole, lei tole.

Le mani gli bruciavano, sanguinanti; le braccia gli pesavano quanto il piombo. Hironimo s’asciugò la fronte madida di sudore, i capelli arruffati in battaglia, respirando a boccate irregolari, senza fiato e senza energie rimaste, lo stomaco attorcigliato dalla fame e la gola secca. Accanto a lui, il piccolo Thomà barcollava sfinito eppure ancora v’erano corpi da seppellire.

Il sole stava calando, forse li avrebbero ricondotti in cella, bastava fingere ancora per un po’ di lavorare …

“No ghe la fazzo! No ghe la fazzo pì!”, piagnucolava il fantolino, usando la vanga più alta di lui a mo’ di bastone, leccandosi le labbra secche e screpolate.

Percependo il peso delle occhiate degli stradioti sulla schiena, resosi infatti conto di come i ritmi lavorativi andassero rallentandosi, il giovane patrizio diede un colpetto d’incoraggiamento al braccio del bambino, spronandolo ad uscire dal suo incantamento. “Dèmo! Ancora un altro!”, insistette dolcemente.

Thomà scosse il capo, il moccio che gli fluiva liberamente dal naso. “Sun stracho! Gh’ho fame! Vojo la mama!”, prese a singhiozzare, stropicciandosi ambedue gli occhi e ritornando ad essere un piccino di dieci anni e non il linguacciuto assistente alle polveri di Andrea il bombardiere.

L’espressione di Hironimo da compassionevole s’indurì. “Non piangere, sempio, tanto lei non tornerà mai più da te!”

Il bambino strascicò qualcosa d’inintelligibile , sennonché un calcio al sedere da parte di un contrariato stradiota lo interruppe, facendolo rotolare dentro la fossa tra i cadaveri.  Dinanzi allo strillo spaventato di Thomà, agitandosi peggio d’un diavol nell’acqua santa in quell’ammasso di carne gelida e puzzolente, l’uomo e i suoi compari si scompisciarono dalle risate e anzi, afferrate delle manciate di terra, le buttavano addosso al decenne che urlava e piangeva isterico, scrollandosi via di dosso come ustionato la terra. 

“Toga! Toga! Fio dil suicida! Fio dil dannato!”

In mezzo al chiostro del Monastero della Carità, dove adesso studiava, Momolo era divenuto il bersaglio preferito degli studenti, i quali tra una lezione di grammatica e di retorica adoravano tenere fermo e ricoprire di fango il nuovo arrivato, il figlio del Suicida, come ormai appellavano il fu sier Anzolo Miani alle spalle della famiglia, sottovoce. 

“Basta! Basta!” , guaiva sfinito Thomà, rannicchiandosi in cerca di rifugio da quella terrosa lapidazione.

Hironimo strinse di riflesso la vanga, insensibile alle vesciche alle mani.

“Patron, ajudo!”

E quella vanga la spaccò in testa allo stradiota. 

“Fio dil dannato! Fio dil diavol d’inferno!”

Sì, forse lo era, poiché non porgeva l’altra guancia e malgrado la figura ancora esile e l’enorme disparità numerica (uno contro tutti), Momolo rispondeva a calci e pugni e morsi alle provocazioni dei compagni, colpendoli all’inguine approfittando della sua bassa statura e tirando loro i capelli una volta a terra; li graffiava quasi volesse strapparli gli occhi dal cranio e proferiva tali oscenità manco un battelante chioggiotto.

“Mi no sun debole! Mi no sun femena! Mi no sun fio dil suicida!”

Rosso, rosso di rabbia cieca e famelica, null’altro vedevano gli occhi impazziti di Hironimo mentre riempiva di pugni e randellate chiunque gli si parasse di fronte, prendendo e ricevendo, gli stradioti sgomenti dall’incuranza con cui incassava i colpi, senza neanche accorgersi del sangue che gli colava dalla fronte assieme al sudore, essendosi riaperta la ferita.

Indietreggiarono a quel suo sorriso sghembo, malato, il biancore degli occhi esaltato dalla maschera scarlatta.

“Basta così!” e stavolta non si trattò della voce piagnucolosa di Thomà, bensì di quella autoritaria e terribile di Mercurio Bua, ritornato dalle sue scorrerie nel territorio.  Spronando il cavallo, il capitano di ventura li raggiunse, il viso torvo e i denti ben esposti, maledicendo tra sé e sé quegli sciagurati cialtroni incapaci di rimanere mezza giornata al campo senza causare danni.  “Cosa significa tutto questo?”, esigette spiegazioni, indicando la fossa, gli uomini semi-incoscienti dalle botte e Hironimo col bastone in mano e il viso contorto di rabbia. Approfittando della confusione, Thomà era risalito nel frattempo, appiccandosi al fianco del patrizio che di riflesso lo strinse a sé.

“Allora?”, non aveva in realtà bisogno d’alcun chiarimento, l’albanese già si figurava alla perfezione le dinamiche di quell’indecente bailamme; ciononostante, leggere l’incertezza e il timore in faccia a quei masnadieri lo riempiva di una perversa soddisfazione. “Razza d’otri piene di sterco, chi vi ha dato l’ordine di far uscire il prigioniero? Chi? Potete anche solo rendervi conto, coglioni, di che cosa sarebbe potuto accadere, se fosse riuscito a scappare? Potete?”, sbraitò, schioccando la scutica sulle loro spalle, sulle braccia erte a mo’ di difesa, ovunque riuscisse a colpirli. “Idioti! Cani bastardi! Merde viventi! Chi vi ha dato il permesso di toccare ciò che non vi appartiene?”

“Ma … ma capitano …”, tentarono una disperata giustificazione. “Ha incominciato questo pazzo furioso … ci ha malmenato senza alcun motivo! …”

“E ha fatto bene! Troppo delicato! Al suo posto vi avrei scuoiati vivi! Anzi! Vi acconcio subito!” e diede ordine che quei disgraziati venissero passati sotto le forche caudine [9] con sommo gaudio degli altri stradioti, assai avidi di distrazione da quel mortorio senza né soldi né cibo né donne.

“Che sia ben chiaro a tutti”, enunciò però prima a gran voce e tutti i suoi uomini si misero sull’attenti in ascolto, consci di aver tirato troppo la corda col loro tremendo capitano. Mercurio Bua si spostò col cavallo dietro Hironimo e, avutolo nel suo raggio d’azione, se lo issò sopra con la medesima facilità di un fanciullo che si ruba un gatto, indifferente all’indignato divincolarsi del giovane patrizio. “Questo qui non è un prigioniero qualsiasi da tormentare a vostro piacimento”, spiegò perentorio, mettendo bene in mostra Hironimo in una grottesca parodia della Madonna col Bambino, “questo qui è Girolamo Emiliani, patrizio veneziano e mio bottino personale. Intendete? Mio! Egli è mio. Ciò significa che nessuno di voi lo deve toccare né gli deve parlare né tantomeno anche solo avvicinarsi a lui, se non sarò io stesso a comandarlo. Violate questo mio ordine e mi premurerò d’impalarvi di persona come fecero i turchi con le vostre famiglie!”

Fu sconcertante e meraviglioso leggere la paura in quei visi arcigni e spavaldi, ora ridotti a balbettanti scolaretti vergognosi e intimiditi.

Soddisfatto dell’esito positivo di quel suo discorsetto, Mercurio Bua spronò al trotto il suo cavallo in direzione del cortile interno.

“Ributtateli dentro e perdio dategli da mangiare: la Serenissima non sborsa danaro per i morti!”, comandò l’albanese. “Quanto a questi cadaveri, buttateli nella Piave: siamo soldati, non becchini! Ci penseranno a Venezia a seppellirli, quando le acque li trasporteranno in laguna. O quel che di loro resterà”, e spinse giù Hironimo su della paglia lercia di fango e altro sulla cui natura per la pace dell’anima sua preferì non inquisire.

Per fortuna i due stradioti, che prontamente l’agguantarono, tanta fretta avevano avuto di assistere alla punizione dei compagni da confondere le celle, da gettare il giovane Miani e Thomà in una cella pulita senza escrementi e cadaveri di topi e i due, a seguito di un lauto pasto a base di pane ed acqua, s’addormentarono quella sera sfiniti uno tra le braccia dell’altro, tirando un gran sospiro di sollievo.  

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Incominciamo coi flashback! Di nuovo, a causa delle scarse notizie sull’infanzia e sulla giovinezza del Nostro, abbiamo molto supplito con la fantasia, però sempre tenendo a mente gli anni della sua vita matura come “meta ultima” del suo percorso di formazione.

La morte di Angelo Miani, ritrovato impiccato il 18 agosto 1496 su di una scala in una bottega di Rialto (altre versioni addirittura sulla volta del ponte) rimane tutt’oggi un caso irrisolto: fu suicidio oppure omicidio? Perché a Rialto, uno dei luoghi più affollati di Venezia?  In ambedue i casi è assai difficile stabilire il movente di tale gesto, ma una cosa è certa: immediatamente sia i Miani che i Morosini sostennero a gran voce la tesi dell’assassinio pur incapaci di fornire un nome, più che altro per evitare l’infamia di un seppellimento in terra sconsacrata.

L’unica menzione di quest’avvenimento che si ha è l’ambigua frase di Domenico Malipiero “A' 18 d'Auosto, è stà trova a Rialto, in una volta, apicà Anzolo Miani ; e no è stà lassà a veder a nissun.”

Poi silenzio. Al che ci porta a due considerazioni: o fu suicidio fatto e finito oppure si trattò di un omicidio a fondo politico, messo a tacere in nome del segreto di Stato.

Ultimo punto, i rapporti coi servi erano molto diversi rispetto ad altrove, molto informale almeno tra le mura domestiche, convivendo infatti in un ambiente quasi “incestuoso” per via degli spazi ristrettissimi di Venezia. Non era strano, pertanto, che i figli dei padroni frequentassero specie da bambini i servi, o che il padrone concedesse una dote ad una sua domestica o tenesse a battesimo i figli dei domestici,  facendo da padrino (se non era anche il padre) o madrina. Non potendo ignorarli, i patrizi se li tenevano buoni anche perché i servitori potevano divenire all’occasione i primi accusatori dei padroni.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Da “La Danza Macabra”, testi ed affreschi di Simone Baschenis(1539), che si possono ammirare sulla parete sud della chiesa di San Vigilio a Pinzolo. Parti di questa ballata ispirarono il cantautore Angelo Branduardi per la sua celebre canzone “Ballo in Fa Diesis Minore”.

[2] òstrega = letteralmente significa “ostrica”, però in questo contesto è usata con senso eufemistico di Ostia!

[3] Paolo Veneto o Paolo Nicoletti (1369-1429); Alberto di Sassonia (1316-1390) ed Egidio Romano o Egidio Colonna (1243-1316) furono tutti filosofi e teologi agostiniani, su cui Giacomo Battista Aloisi si concentrò in particolare nei suoi studi e pubblicazioni.

[4] pope de casàda = il corrispondente dell’autista moderno. Erano gondolieri privati che vivevano a palazzo (spesso tramandavano di padre in figlio il mestiere), spostandosi i patrizi più per gondola che a piedi, essendo infatti più sicuro.

[5] La chiesa di San Vidal (o San Vitale) fu in realtà fondata nel 1084 dal doge Vitale Falier. Poiché nelle antiche descrizioni delle famiglie nobili veneziane ho trovato indicati invece i Miani come fondatori della chiesa, ho deciso di lasciare quest’incongruenza.

[6] Dal testamento di Marco Miani, del 18 gennaio 1465: “ … Item prego quei ch’in Vanesia in la giesia de San Vidal per mezo el permetto da cha Miani sia fabricà uno altar con la immagine et grandezza de Nostra Donna et spenda 10 ho più quel imponerà …” Anche le disposizioni per la sua sepoltura – con la spada, speroni e scudo – di cui don Girolamo e Alessandro Bernardi dovranno assicurarsi, appaiono nel testamento.

Il 17 maggio 1473, suo fratello Angelo Miani chiede direttamente al Doge Nicolò Tron di autenticare la cedola testamentaria. Il doge, ignorando il decreto del Maggior Consiglio del 4 aprile dello stesso anno, si appellò alle forme abitudinarie e fece riconoscere la grafia del defunto, autentificando il testamento e pertanto approvando la costruzione dell’altare e la commissione del dipinto.

[7] Serrata = si riferisce alla Serrata del Maggior Consiglio (1279). Brevemente, si trattò di una riforma con cui si fissava in via definitiva ed ereditaria, tramite puntigliosi parametri, il numero di famiglie patrizie che potevano accedere al Maggior Consiglio. Il conseguente malcontento portò alla congiura di Marco Querini, Bajamonte Tiepolo e Badoero Badoer (1310), che prevedeva l’assassinio del Doge Pietro Gradenigo e dei suoi fedelissimi, in particolare il clan di sua moglie, i Morosini della Sbarra (Leonora Morosini madre del Nostro discendeva proprio da questo ramo!) e i Dandolo. La congiura venne prontamente sventata. Tuttavia, nel corso dei secoli molte famiglie riuscirono ad entrare ugualmente “per merito” nel M.C., come ad esempio durante la guerra contro Genova.

[8] Panaghia Tricherousa= “Tutta Santa Madre delle Tre Mani” icona molto venerata nella Chiesa Ortodossa. In essa è raffigurata la Madonna col Bambino ed una terza mano, quella del teologo arabo San Giovanni Damasceno, che gli fu amputata e poi, miracolosamente, restituita.

[9] passati sotto le forche caudine =  punizione fisica in ambito militare in cui il condannato viene costretto a marciare tra due file di soldati e da essi frustato ripetutamente. Si riferisce alla celebre umiliazione dei soldati romani per mano dei Sanniti a seguito della loro sconfitta.

 

 

  
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