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Autore: Enchalott    05/11/2019    5 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Adara osservò lo sguardo freddo di Anthos, faticando a seguire il suo repentino cambio d’umore. Era estremamente complicato immaginare cosa gli stesse passando per la mente, perché la sua espressione riusciva a mantenersi solitamente indifferente. Eppure, era convinta che qualcosa nella risposta che gli aveva scagliato contro lo avesse colpito e non se ne capacitava: quale persona avrebbe invitato un altro essere umano a prestare attenzione per poi persuaderlo di essere armato di pessime intenzioni? Lei non aveva affermato nulla di illogico, partendo dalla raccomandazione che aveva ricevuto.
Forse, lui non era semplicemente appagato da ciò che aveva udito e stava ponderando un altro sistema per ottenere soddisfazione.
Si sbagliava.
Il principe aprì la seconda porta e rimase immobile, attendendo che lei si avvicinasse.
“Non ci sono precipizi” disse, sarcastico.
La sala da bagno era circondata da vetrate alabastrine e inondata da una luce lattea quasi abbagliante, totalmente invisibile dall’esterno e addirittura impensabile per quell’ambiente scarno, in quella torre tetra.
Al centro era incastonata una grande vasca di roccia, dalla quale traspirava un sottile vapore, segno che l’acqua lì contenuta era bollente. Nessuna fonte di calore visibile.
Adara osservò meravigliata il fenomeno, pensando che fosse dovuto alla magia.
“C’è ancora un livello sopra questo, ma senza di me non potete accedere” precisò il reggente “È la vera Leu-Mòr, il fulcro di ciò che io rappresento”.
“Non me lo mostrate?”.
“Non ora. Per oggi quanto avete visto è sufficiente. Il viaggio è stato lungo, riposatevi. Ho mandato a chiamare la vostra dama di compagnia, provvederà alle vostre esigenze finché non la congederete”.
“Temete che io possa carpire il vostro segreto?” saettò la principessa, riferendosi alla mancata visita alla guglia della Torre, che invece la incuriosiva.
“Non lo temo. Lo spero” rise lui, algido e attraente.
“Allora mettetemi nelle condizioni di farlo, spogliandovi delle vostre reticenze”.
Gli occhi chiari di Anthos luccicarono, imperscrutabili. Sospirò, divertito.
“Mi avete fatto ben sperare per un attimo. Vi pregherei di usare il verbo spogliare con più cautela, soprattutto qui…”.
La ragazza arrossì all’allusione e uscì dalla stanza, evitando ulteriori volute spudoratezze da parte sua. Lui la seguì.
“Ditemi che cosa vi turba, a parte la prospettiva di diventare mia” proseguì, ironico.
“La vostra reazione quando vi ho domandato come mai abbiate salvato Narsas”.
Il reggente si sedette sul letto, slacciandosi il mantello e sganciando la spada dall’anello argentato che gli pendeva dal fianco. Sulla pelle indossava solo una serica camicia azzurra, che metteva in risalto l’incarnato e il fisico asciutto e armonioso. Trasse dalla fascia blu che gli ornava la vita il contenitore della Profezia e lo posò sul baule lì accanto, appoggiandosi poi placidamente sui gomiti. Il Medaglione rispedì al soffitto i riflessi delle fiamme in tre differenti gradazioni.
Adara pregò che non optasse per togliersi anche gli altri vestiti. In fondo, quella era camera sua e aveva appena detto…
“Non sopporto le strade sbarrate” affermò improvvisamente lui, sollevando il viso nella sua direzione “Le costrizioni comminate dall’alto. Gli Anskelisia hanno arbitrariamente deliberato che il vostro amico dovesse languire per il resto del suo tempo. Non m’importa se è un assassino come penso io o se, come sostenete voi, è innocente. Avrebbero dovuto ucciderlo immediatamente oppure concedergli la possibilità di discolparsi. Prescrivere un cammino è arrogantemente presuntuoso, inopportunamente frustrante, sospende ma condanna, impone ma pospone… chi prende una decisione del genere dovrebbe essere punito con pari ammenda”.
La principessa ascoltò quella breve riflessione con una sensazione di familiarità.
“E’ per questa ragione che disprezzate la Profezia? Perché si rivela a noi mortali come una via già tracciata e priva di alternative?”
Anthos si raddrizzò a sedere, fissandola intensamente. Le iridi d’ambra scintillarono feroci e tristi. Non c’era più bisogno che rispondesse.
“Se vogliamo” replicò, invece “Ma non è l’unico motivo”.
“Vorrei continuare ad ascoltarvi” asserì lei franca.
Il reggente scosse la testa con disillusione, prima di recuperare interamente la propria inossidabile disinvoltura.
“Il mio fine principale non è quello di annoiarvi, quando mi trovo in vostra compagnia” sferzò, sagace e tranciante.
“Oh credetemi, Anthos, se è solo per quello non correte assolutamente il rischio!” esclamò Adara, allargando le braccia con una sincerità disarmante.
Le labbra di lui si piegarono quasi inconsciamente verso l’alto alla pronta risposta e la ragazza fissò, folgorata, quello che doveva essere il suo vero sorriso. Diverso, completamente opposto a quello che era solito esibire, privo di crudeltà e di scherno. Una luce che gli inondò i tratti e la lasciò senza fiato, schiarendo ciò che lo rendeva spaventoso e algido. Svanì in un soffio, come un miraggio del suo deserto lontano, ma le rimase impresso a fuoco nel cuore.
 
Màrsali esitò, profondamente raccolta in se stessa, prima di bussare con timore alla porta opalescente e leggendaria di Leu-Mòr.
Trovarsi su quella soglia era differente rispetto a tutte le volte in cui lo aveva immaginato, anche se erano trascorsi molti giorni per prepararsi all’evento.
Si avvolse lo scialle di lana bianca sulle spalle e si ravviò i lunghi capelli color miele, raccolti in un ordinato chignon. Le sue dita sottili vennero a contatto con la sottigliezza metallica dello spillone che le ornava le chiome.
Kesthar.
 
Il batticuore che l’aveva frastornata quando lui aveva gettato fuori da sé la sua inaspettata dichiarazione d’amore, palesandole con rabbia istintiva e prostrata i suoi sentimenti tenuti a freno, tornò a scuoterla con vigore.
Non era riuscita a rispondergli. Tutte le parole le si erano bloccate in gola come un intralcio soffocante, mescolandosi alle lacrime che già impregnavano la sua voce, impedendole di reagire come avrebbe desiderato. E lui non era certo rimasto fermo ad attenderla. Si era alzato in piedi, raccattando la cappa dalla sedia, senza sollevare lo sguardo, intenzionato ad andarsene.
Solo in quel momento Màrsali aveva avvertito ancora nel pugno lo stiletto decorato, lo aveva stretto fino a farsi male e si era sentita inondare da una determinazione che in lei non si era mai manifestata prima di allora. Non così risoluta, non così potente.
No.
Le era stato sufficiente pronunciare quel breve monosillabo e il guardiano delle prigioni si era arrestato, con la mano contratta sulla maniglia ferrosa della porta. La veggente aveva fatto un passo verso di lui, con il pulsare rombante del sangue distribuito in ogni fibra del corpo.
No.
Lo aveva ripetuto con angoscia, ma quel semplice suono era vibrato come un ordine e lui aveva abbassato il braccio, ammorbidendo la contrazione che gli irrigidiva le spalle, quasi afflosciandosi. Il suo sguardo era rimasto rivolto a terra e Màrsali si era avvicinata ancora di qualche centimetro, pur rispettando il suo spazio.
No!
Kesthar si era girato verso di lei e l’aveva finalmente fissata in volto, faticando a controllare la velocità del respiro affannoso che gli sollevava ritmicamente il petto. Perso e furioso con se stesso, incapace di fuggire e parimenti di restare in quella stanza, che era diventata incredibilmente stretta dopo essere stata riempita dalle sue parole schiette e disperate.
No
Ancora una volta, così aveva pregato la veggente, abbandonando ogni indugio e forzando le sue resistenze, strappandogli di mano la palandrana nera e scaraventandola a terra, arrotolandosi lo stiletto tra i capelli sciolti lungo la schiena. Lo aveva afferrato per il panciotto di pelle, là dove le sue mani di giovane donna erano riuscite a raggiungerlo per la grande differenza di altezza che c’era tra loro. Lei minuta ed esile, lui possente e robusto.
Gli occhi scuri di Kesthar si erano soffermati su Màrsali, sorpresi, intrisi di vergogna e pentimento. Ma non aveva accennato a evitare quel faccia a faccia.
Non voglio che tu vada…
La voce le era uscita dalle labbra quasi combattiva, abbandonando quella tonalità emotiva che le aveva impedito di parlare prima. Lui aveva stretto le palpebre, celando la luminosità viscerale che si specchiava nelle sue iridi blu cianite, in un’espressione granitica e corrucciata di difesa estrema.
“Non avrei mai dovuto dirlo…” aveva poi mormorato, contrito.
“Ripetilo, invece!” aveva esalato lei, quasi sovrapponendosi alle sue amareggiate scuse, infastidita con se stessa per aver consentito che si alzasse e che arrivasse quasi a spalancare quell’uscio che li avrebbe separati.
Il carceriere era rimasto impietrito, ma la commozione era filtrata attraverso la sua scorza dura e la sua riservatezza innata, sciogliendosi in un tremito leggero.
“Màrsali, ho già imperdonabilmente mancato una volta…”.
“Ti prego, Kesthar!”.
Il suo sguardo su di lei si era mitigato nell’esitazione e nel dubbio, smarrito.
“Ti amo” aveva sussurrato poi, come rassegnato a quel supplizio.
“Anch’io ti amo” aveva però risposto lei, con la prontezza di chi ha il terrore di perdere ciò che è importante e irripetibile “Così tanto che non sono riuscita ad esprimerlo subito. Devi scusarmi, non l’ho mai detto a nessuno…”.
Lui l’aveva fissata, come stordito, come se lei non fosse reale. Aveva sollevato un braccio e le aveva accarezzato la guancia con delicatezza, annuendo come per convincersi della veridicità di quella situazione.
La ragazza aveva risposto a quel contatto discreto, ponendo la mano sulla sua e assorbendone la forza, appoggiandosi al suo cuore martellante.
“Che gli dei mi perdonino…” aveva sospirato il guardiano, cingendola a sé.
“Non c’è nulla da perdonare, Kesthar…” aveva asserito lei, scaldandosi nella sincerità del suo abbraccio.
“Come lo sai?” aveva domandato lui, immobile.
“Non esiste nulla di proibito nell’amore vero. È ciò per cui nasciamo”.
“Io… io non posso toccarti. Non ardisco nemmeno stringerti con più vigore. Non mi consentirò neppure di pensare di andare oltre a questo!”.
Aveva sfiorato i dehalbh azzurri che le decoravano la pelle candida del polso, quelli che ne indicavano lo stato di veggente in possesso delle sue piene doti.
“È una menzogna” aveva mormorato lei, seguendo il percorso del suo dito lungo i segni mistici “Diffusa per salvaguardare le donne dai desideri perversi degli uomini”.
“C-cosa? Impossibile! E se anche fosse, non sono disposto a rischiare, non oserò…”.
“Baciami, Kesthar…”.
“C-che… che cosa mi stai chiedendo, bambina?” era trasecolato lui, avvampando sotto la barba incolta “Sai che non lo farò. Non mi permetterò mai di desiderare te come…”.
“Non sono una bambina, anche se tra noi passano circa quindici anni e può forse sembrarti. Sono tua moglie e non potrei essere più felice”.
Il demone delle carceri aveva cessato di resistere e l’aveva sollevata come un fuscello. Aveva compiuto quanto gli aveva chiesto, posando la bocca su quella di lei, impossessandosi delle sue labbra, imprimendosi a fuoco su colei che amava in un bacio che non aveva mostrato più nulla di contenuto o di ingenuo.
Màrsali aveva ricambiato il gesto passionale di suo marito, ruvido come il suo volto segnato dalla cicatrice e dolce come il suo animo nascosto, allacciandosi al suo collo massiccio, lasciando che smettesse e riprendesse per un tempo infinito.
Erano rimasti in piedi, abbracciati come in una sfida a quella soglia oltre la quale esistevano solo dolore e male.
Poi la visione era giunta.
Leu-Mòr e la presenza di una fanciulla dai capelli bruni, che irradiava luce e speranza… la luna crescente colorata di sangue… il principe del Nord con la spada bilanciata tra le dita… e l’ombra, l’oscurità più forte che mai.
“Kesthar…” aveva esalato allora in un tremito.
“Perdonami, mi sono lasciato trasportare” si era scusato lui, rammaricato.
“Non dire assurdità” aveva sorriso lei “Ho prove aggiuntive volte a confutare le tue incertezze. Ho avuto una visione. Ora, tra le tue braccia virili”.
“Che cosa?!”.
“Mi chiameranno presto. La principessa è vicina a Jarlath, così come la fine incombe crudele su di noi. Abbiamo bisogno di lei, è l’unica possibilità”.
Lui aveva sfiorato i fiori celesti dello stiletto che le aveva regalato con un cenno di impensierita approvazione.
 
Màrsali bussò alla porta di legno chiaro e questa si aprì da sola, per poi richiudersi senza rumore alle sue spalle.
L’aura verde della Torre la lambì, provocandole un forte disagio, ma prese ugualmente a salire la scala a chiocciola fino alle stanze del principe.
Si inchinò davanti a lui e alla donna in abiti maschili elestoryani che gli stava difronte senza apparente timore. Anche senza ornamenti e con le vesti pesanti da viaggio a celarne la femminilità, era incantevole.
Adara osservò la ragazza giovanissima appena giunta e qualcosa in lei le rammentò Dionissa. Forse il riflesso del suo sguardo pulito, la pelle nivea o l’atteggiamento dimesso, la serenità intrinseca nonostante l’evidente paura del reggente.
“Vieni avanti, veggente di Odhran” ordinò Anthos beffardo, senza alzarsi dalla comoda posizione assunta “La principessa Adara di Elestorya. È tuo compito assisterla in quanto ti chiederà”.
“Sì, altezza” rispose lei con un nuovo ossequio, senza quasi sollevare lo sguardo.
“Porti ancora i dehalbh?” domandò lui, severo e sottilmente minaccioso.
Màrsali avvertì una fitta al petto e si diede dell’irresponsabile per non aver nascosto adeguatamente le mani tinte d’azzurro alla sua fulminea attenzione.
“Spero non vi offendano, mio signore, sono solo un ricordo”.
“Ricorda anche quanto ti ho chiarito e non avrai problemi” ribatté lui, torvo.
Semi sdraiato sul letto, privo del mantello e della spada, con il riverbero del fuoco a scaldargli i capelli biondi e l’aria assorta, il principe sembrava molto più giovane di quello che era. Quasi umano si sorprese a pensare la veggente, mentre effettuava un’ulteriore riverenza.
“Odhran?” ripeté Adara, richiamando alla memoria il resoconto particolareggiato che Anthos le aveva raccontato durante il tête-à-tête sulla Xiomar.
“Esattamente” sottolineò lui “Màrsali era la veggente. Sapevo che mi sarebbe tornato utile risparmiarla. Sempre che non stia tramando qualcosa”.
Veggente. Ecco perché le rammentava Dionissa, pensò la principessa.
“Ci risiamo!” borbottò invece, seccata “Continuate a vedere cospirazioni e perfidie ovunque. Mi viene da pensare che il motivo sia perché specchiate la vita degli altri sul modello della vostra!”.
Anthos si alzò di scatto, sogghignando. Màrsali osservò la scena, aspettandosi un’immediata prova di potere, atto che incredibilmente non avvenne.
Il principe non raccolse la provocazione.
“Ah, mi toccherà proteggervi dalla vostra eccessiva ingenuità” si lamentò in modo studiatamente teatrale, fronteggiando Adara “Non fate stupidaggini intanto che siete sola… o dovrò ristabilirmi qui prima del previsto!”.
Poi radunò le proprie cose e lasciò la stanza. I suoi passi si persero verso la sommità misteriosa di Leu-Mòr. Il contenitore della Profezia rimase sul baule.
 
Màrsali si appoggiò una mano sul cuore e trasse un sospiro, rilassandosi visibilmente all’uscita di scena del reggente.
“Sedetevi e tranquillizzatevi, sembra che dobbiate svenire da un momento all’altro” mormorò Adara, avvicinandosi e prendendola sottobraccio “Conosco la vostra storia. Mi dispiace…”.
La veggente si lasciò guidare verso una delle sedie e si accomodò accanto alla principessa con le dita intrecciate in grembo.
“Scusatemi, altezza, sono io che dovrei prendermi cura di voi, invece…”.
“Faremo a turno, credetemi…” ribatté la principessa gentile, dirigendosi al tavolino “Vediamo che cosa c’è da bere in questo posto assurdo!”.
Màrsali spalancò gli occhi azzurri come topazi, vedendo che la ragazza armeggiava con una sorta di teiera come se fosse completamente a suo agio nella reclusione della Torre. Si fece animo e alzò con un fruscio del lungo abito acquamarina e la raggiunse per evitare di essere servita. Versò il chae bollente e attese con cortesia che Adara assaggiasse prima il suo.
“Io… noi vi attendevamo, mia signora” dichiarò poi timidamente “Ma non avremmo mai pensato di ricevervi a Jarlath come prigioniera. Sono costernata”.
Adara sollevò il viso dalla tazza fumante e la veggente scorse la lieve somiglianza con Dionissa nel suo sorriso e nella trasparenza del suo sguardo.
“Non avete colpe, non scusatevi, ve ne prego… e poi potete rivolgervi a me usando il mio nome. Preferirei avere un’amica qui, non una compagna vincolata dall’obbligo o dalla paura” affermò la principessa con garbo “Avverto la desolazione di questo luogo anche se non possiedo il Kalah, perciò immagino come vi possiate sentire voi. Sono venuta al Nord a mio rischio, per scongiurare ciò che immaginate… e gli dei sanno quanto io abbia bisogno di un appoggio sincero. Spero di trovarlo in voi. I vostri occhi sono sinceri”.
Màrsali arrossì lievemente al complimento e le sue rade lentiggini si fecero più evidenti. Avrebbe voluto ricambiare con la certezza che le derivava dal dono.
“Io non possiedo più la visione” sussurrò invece, forzando se stessa a mentire per difendersi da quelle mura incombenti, che parevano ascoltare ogni verbo “Ma fino all’ultimo giorno in cui ho conservato mio ruolo ho sperato che il principe non giungesse a tanto. Che almeno desiderasse ascoltarvi, che cambiasse i propri propositi… non che vi rinchiudesse a Leu-Mòr!”.
Adara la guardò con intensa partecipazione, figurandosi quanto dovesse essere stato straziante per lei, poco più che un’adolescente, perdere una parte innata di sé in quel modo bestiale. Inevitabilmente pensò a ciò che le sarebbe spettato di lì a tre giorni e rabbrividì. Il cilindro con la Profezia entrò nell’ambito del suo sguardo turbato, luccicando alle fiamme alte del camino e ravvivando le sue speranze.
“Non posso garantirvi che Anthos mi darà retta, ma di certo sarà costretto ad ascoltarmi. Ha assicurato che prenderà in esame i Testi Sacri che ho portato dal Sud e che lo farà insieme con me. Starà ai patti, fosse anche solo per curiosità o ripicca”.
Lo sguardo chiaro di Màrsali si illuminò. Avrebbe voluto aggiungere ciò che aveva interpretato del suo sogno ricorrente, ma la costrizione magica che il reggente le aveva imposto iniziò a mandare i suoi segnali funesti.
“È strano sentirvi così fiduciosa, ma ne sono felice” disse invece, lasciando che il dolore insorgente scemasse “Prima, quando avete risposto in quel modo al principe, ho tremato per voi, invece… Forse riuscirete davvero a farvi intendere da lui”.
“Magari fosse così” sospirò tristemente Adara “Si è tenuto a freno perché vede in me un’opportunità, nient’altro. Fra poche ore diventerò sua moglie e fino a quel momento non mi farà del male”.
Il rumore della tazza di metallo che cadeva a terra risuonò di schianto. La principessa osservò turbata il viso impaurito di Màrsali e le sue mani tremanti poste davanti alla bocca. Un’espressione di puro terrore.
Tutto rimase come appeso nel vuoto per alcuni istanti.
“S-scusatemi…” riuscì a balbettare la giovane, raccogliendo il recipiente dal pavimento e affrettandosi ad asciugare il liquido versato.
Lei, nella circostanza quasi analoga che le era toccata in sorte, aveva incontrato Kesthar. Era stata curata e protetta. Lui l’aveva persino sposata per difenderla da quel luogo mostruoso e, alla fine, si erano dichiarati amore reciproco. Ma non aveva dimenticato il terrore che l’aveva attanagliata prima di capire che il custode delle prigioni era il suo amico d’infanzia. Il senso d’impotenza, di offesa, di umiliazione.
“N-non… non potete permettere che lui…” farfugliò, sconvolta.
“Un no è impensabile” rispose la principessa “Sterminerebbe tutti. Non ho scelta”.
 
 
Anshar sollevò il telo color zafferano del padiglione centrale e passò con sicurezza all’interno dei tendaggi, strizzando le palpebre al chiarore improvviso delle lucerne.
Varsya avanzò verso di lui e i due si strinsero il polso destro, secondo la tradizione nomade. Un saluto alla pari, segno che il capotribù Aethalas aveva riconosciuto il ruolo di successore del nuovo bailye dei Rhevia.
Poi fu la volta di Zheule, ma il giovane aggiunse anche un rispettoso cenno con la testa, per onorare l’anzianità del portavoce dei Thaisa.
Il ragazzo, che aveva da poco superata la ventina, portava addosso i segni della battaglia e della fuga a rotta di collo attraverso le dune.
La pelle liscia e olivastra del volto era imbrattata di fuliggine e la lunga tunica del colore della terra, slacciata sul davanti e serrata in vita da una fascia scarlatta, presentava numerose bruciature. I pantaloni tinta sabbia, chiusi sotto il ginocchio da lacci di cuoio, erano macchiati di sangue, gli stivali intrecciati erano schiariti dalla polvere, così come i capelli castano caramello, raccolti in un’alta coda che gli scendeva lunga su una spalla e sul petto nudo.
Appena scorse Stelio e le insegne reali sulla sua fronte, si inginocchiò prontamente sul prezioso tappeto, facendo tintinnare gli orecchini che portava ai lobi e i vari giri di bracciali che gli ornavano l’avambraccio sinistro.
“Alzati, Anshar” ordinò questi affabile “Non farci attendere oltre, ti prego”.
Il giovane guardò il reggente del Sud con ammirata riconoscenza e aspettativa. Strinse i pugni lungo i fianchi, in una posa rabbiosa e rassegnata.
“Gli Angeli del deserto” disse poi con un sospiro “Ci hanno assaliti tre notti fa all’oasi di Sotir, senza motivo apparente, nel pieno del riposo: le sentinelle non hanno neppure fatto in tempo a lanciare l’allarme che ci erano già addosso. I Rhevia sono una tribù poco numerosa, non abbiamo avuto scampo!”.
Gli occhi nocciola striati di verde giada gli si riempirono di lacrime, ma fece del suo meglio per mantenere il contegno davanti agli altri, riprendendo il racconto.
“Mio padre è uscito per parlamentare, intenzionato a consegnare tutto ciò che avevamo pur di mandarli via, ma non l’hanno neppure lasciato parlare… l’hanno assassinato, in sfregio alle regole della civiltà! Non siamo guerrieri, i pochi che impugnavano le armi si sono arresi, ma gli Anskelisia hanno continuato a ucciderci come se non fossimo altro che merce destinata alle dimore di Reshkigal!”.
“Che Amathira li sprofondi!” imprecò Zheule, furibondo e dimentico dell’etichetta “Come hai fatto a fuggire, ragazzo?”
Anshar abbassò la testa, come se per lui l’essersi messo in salvo costituisse una vergogna immensa e intollerabile.
“Mia madre mi ha categoricamente imposto di portare via la gente che era riuscita momentaneamente a nascondersi oltre lo spiazzo dell’accampamento. Mi ha consegnato il sigillo di mio padre e mi ha ripetuto di scappare da lì senza voltarmi indietro, non ha accettato compromessi. Poi ha radunato le danzatrici tyala e sono uscite allo scoperto, cantando e ballando per distogliere da noi l’attenzione degli attaccanti…”.
Il giovane interruppe il resoconto, faticando a mantenere fermo il tono della voce. Stelio gli posò la mano sulla spalla e la strinse, comprensivo: nei suoi occhi verdi, tuttavia, ribolliva una collera incontenibile.
“Non ho potuto guardare, non ho potuto!” sussurrò Anshar “Hanno ucciso gli uomini e hanno preso le donne… le mie due sorelle, tutte loro, si sono frapposte fra noi e gli Angeli, sapendo che cosa sarebbe accaduto…”.
Varsya sbiancò brutalmente a quelle parole.
“Pensavo fosse finita, ma al sorgere dell’alba abbiamo realizzato che ci stavano ancora dietro. Erano molti meno della sera precedente, ma erano comunque lanciati al nostro inseguimento. Siamo vivi per miracolo, perché gli dei hanno voluto che iniziasse a piovere e il vapore che si è sollevato dalla sabbia rovente ha celato la nostra fuga e le nostre tracce. Penso che la rena infangata abbia impaludato i loro cavalli o che qualcuno dei Superiori abbia semplicemente avuto pietà di noi. Non ci siamo fermati finché non siamo giunti in vista delle vostre tende…”.
“Un’azione così drastica e ingiustificata è inspiegabile anche se si tratta di quei maledetti Anskelisia!” ringhiò il reggente “Che tu sappia, tuo padre Issidar in che rapporti era con essi? Si era forse scontrato con uno del loro capi?”.
“No, maestà” rispose il ragazzo con certezza “Da quando ho compiuto i sedici anni ho seguito il bailye in ogni occasione, ufficiale o mondana. Non c’è mai stato attrito tra i Rhevia e gli Angeli… non per nostra sottomissione, ma perché non ci siamo praticamente mai incontrati”.
“Bisognerebbe domandare agli anziani, forse si tratta di qualche vecchia ruggine” ipotizzò Zheule, lisciandosi la barba brizzolata “In quanti siete là fuori?”.
“Non più di cinquanta” mormorò Anshar, addolorato.
“Cinquanta!?” ripeté Varsya, frastornato.
Superstiti. Ecco che cos’erano davvero. Ultime tracce di una tribù praticamente estinta. Stelio guardò il neo eletto portavoce con pena estrema e pari stima. Era più giovane dei suoi figli, più giovane di quando lui stesso si era trovato coinvolto per la prima volta in uno scontro armato, eppure aveva salvato la sua gente a caro prezzo.
“Hai il mio rispetto, Anshar, bailye dei Rhevia” pronunciò con solennità, contornato dall’approvazione degli altri due capitribù “Accompagnami dai tuoi”.
Il ragazzo trattenne il respiro, emozionato in mezzo allo sconvolgimento di cui era ancora preda, e si inchinò con gratitudine.
I quattro uomini uscirono dal padiglione, sullo spiazzo principale, dove le tende bianche degli Aethalas e quelle tortora e ocra dei Thaisa si aprivano davanti al falò.
I fuggitivi erano raccolti intorno alle fiamme, uno contro l’altro, come se cercassero conforto tra le braccia di ciò che di loro restava, con ancora la paura e il dolore negli occhi e nei volti. Avevano ricevuto cibo, acqua e coperte, ma nessuno di loro aveva osato bere o mangiare, nonostante la consolazione fornita da chi li aveva accolti come fratelli. Qualche ragazzino si era addormentato, stremato, rannicchiandosi nel telo morbido con ancora i segni del fumo e delle lacrime sulle guance.
Gli adulti fecero per alzarsi alla vista del loro portavoce e alcuni si inginocchiarono, riconoscendo nell’uomo attraente dai capelli castano ramati il sovrano di Elestorya, ma questi fece loro segno di non eccedere nell’omaggio.
Varsya ripeté loro la supposizione congetturata da Zheule, ma i Rhevia confermarono quanto sostenuto da Anshar: nessuno, per quanto ne sapessero, aveva mai sentito parlare di un contrasto né lieve né serio con gli Anskelisia.
“Sono costretto a chiedervi di ricordare” asserì Stelio, grave “So che sono stati momenti terribili e non desidero aggiungere altro peso alle vostre anime sofferenti, ma ho bisogno di sapere se qualcuno di voi ha notato qualche particolare, anche banale, che può aiutarci a comprendere i motivi di un tale atto”.
Uomini e donne si guardarono a vicenda, parlottando sottovoce, e dalla loro gestualità il reggente dedusse che avevano subito quel massacro ignari del suo vero perché. Non erano persone ricche, non possedevano nulla di prezioso o di accattivante e, se si fosse trattato di una semplice razzia, non sarebbero stati decimati, bensì catturati per essere venduti.
All’improvviso, un uomo sulla sessantina domandò il permesso di parlare, avanzando timidamente al cospetto del reggente.
“Ho avuto occasione di vedere gli Angeli all’opera in passato” affermò rispettoso “Bande composte da pochi elementi, che raramente si riuniscono per evitare che il bottino venga spartito tra eccessivi contendenti. È raro che si mettano insieme anche solo per fare festa, invece… invece quando ci hanno assaliti erano numerosissimi, forse l’intera masnada al completo. Lo dico con certezza perché, a mente fredda, ho constatato che non avrei mai immaginato che fossero così tanti”.
Varsya aggrottò la fronte: anche il gruppo che aveva rapito Phylana non era molto folto, nonostante si trattasse degli uomini di Laras in persona.
“Un’osservazione acuta e veritiera” commentò Zheule, ringraziando l’anziano.
“Mi domando se, mettendo anche insieme forzatamente tutti quei delinquenti, si riesca a raggiungere un numero tanto considerevole di predoni…” ragionò Stelio.
“Non ho avuto tempo di contare” intervenne Anshar “Ma se gli occhi non mi hanno ingannato erano almeno un centinaio quella notte”.
“Cosa!?” sbottò il reggente, stupefatto.
“Se ciò corrisponde al vero” sospirò il bailye Thaisa “Significa che sono molti di più. E che dunque alla banda si sono aggiunte nuove forze. A meno che una delle nostre tribù non si sia convertita completamente alla loro causa”.
“Impossibile! esclamò Anshar, scandalizzato “Le genti del deserto sono raccolte in sette clan. Qualcuno dice otto perché conta erroneamente anche quei briganti, ma nessuno di noi compirebbe una nefandezza tanto orrenda!”.
“Allora significa che vengono da fuori” dedusse il re, preoccupato “Varsya, devi inviare immediatamente cinque strik con queste informazioni”.
Il portavoce Aethalas contò rapidamente i destinatari, escludendo ovviamente gli Angeli del deserto e accigliandosi: Melayr, Antherion, Haltaki, Iohro…
“Eccetto noi presenti, ne restano quattro” constatò, perplesso.
“Uno partirà per Erinna” replicò Stelio, risoluto “E’ necessario avvisare Eudiya. Io non ho intenzione di muovermi da qui”.
   
 
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