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Autore: Saelde_und_Ehre    08/11/2019    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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XV.
Der Mann aus Eisen

 

Mühlenberg, tenuta estiva del conte von Kleist, luglio 1939

Le fiammelle tremolavano, stuzzicate dalla leggera brezza che agitava le chiome dei faggi e delle querce. Lontano dalle luci artificiali e dal caos della città, il cielo estivo era privo di nubi e le stelle sembravano diamanti luminosi su una tavola di un blu perfetto; le colline in lontananza erano sagome nere rischiarate dalla luce della luna. Il silenzio era animato dal fruscio delle fronde e dal frinire di mille insetti.
Il tenente von Kleist e il capitano Bühler, seduti su due sedie a dondolo nella veranda, sorseggiavano birra fresca e contemplavano la campagna del Brandeburgo che ondeggiava al vento, un momento di agognata pace dopo la giornata afosa e le fatiche del giorno, mentre Hubert, divenuto ormai un possente bracco dal pelo così lucido da sembrare argentato, sonnecchiava sdraiato sugli scalini, godendosi la frescura.
Hans si alzò e andò ad appoggiarsi al parapetto di marmo, lasciando che una folata di vento gli scompigliasse i capelli. “Non riesco quasi a credere che tra poco più di un mese partiremo per il fronte.”
“Nemmeno io,” rispose il tenente. “È per questo che ti ho proposto di passare qui i nostri ultimi giorni di licenza.”
Era una tradizione che portavano avanti da ormai due anni: quando il caldo torrido non lasciava tregua, abbandonavano la città e si rifugiavano nell’oasi tranquilla della sua tenuta di campagna, trascorrendo le vacanze tra escursioni e cavalcate in mezzo alla natura.
“Ci voleva,” disse l’altro, lo sguardo perso in un punto indefinito nell’oscurità. “Mi è sempre piaciuto venire qui: non c’è nessuno a disturbarci e le regole le dettiamo noi.”
“È sempre stato uno dei miei posti preferiti, e adesso è a nostra completa disposizione.” Friedrich finì la birra, posò il boccale e lo raggiunse. “Tu invece continui a parlarmi delle foreste delle tue parti, ma sto ancora aspettando il giorno in cui mi proporrai di andarci.”
Il capitano si strinse nelle spalle. “Chissà, forse dopo la guerra…”
“Ricorda che l’hai detto.”
“Io mantengo sempre le promesse, Preuße.”

Entrarono nella loro stanza preferita, quella che avevano eletto a loro provvisoria dimora: situata all’ultimo piano di una torretta laterale, quasi in disparte, era piccola e modesta in confronto alle altre, ma si affacciava sui giardini ornamentali, che in quella stagione straripavano di fontane gorgoglianti e fiori dai colori vivaci, e al mattino, dalle ampie vetrate, riceveva la luce naturale dell’alba.
Hans aprì la finestra per lasciar trapelare all’interno la tiepida brezza notturna e si tolse la giacca, appoggiandola su una delle due poltroncine.
Friedrich si sedette sulla sponda del letto a baldacchino, come in attesa che il compagno si unisse a lui. “Domattina, se ci alziamo presto, ti va di andare al lago?”
Il capitano, che si stava ancora sbottonando la camicia, gli rivolse un’occhiata sarcastica. “A forza di dormire due o tre ore a notte, più che una vacanza sembrerà un campo d’addestramento.”
“Vorrà dire che quando arriveremo in Polonia saremo già sufficientemente temprati”, replicò il tenente, beffardo. “E poi sei tu quello che mi tiene sveglio fino a notte fonda.”
“Se vuoi, stanotte mi giro dall’altra parte e mi metto a dormire…” replicò Hans, sullo stesso tono.
“Tu sei l’uomo di ferro, no? Non dovresti avere problemi di resistenza.”
“Se scopro chi è che mi ha affibbiato quel nomignolo, giuro che…”
Gli occhi di Friedrich furono attraversati da un guizzo impertinente mentre si alzava e gli si avvicinava, levando il viso per fronteggiarlo faccia a faccia. “A me non dispiace: ti si addice.”
L’altro sollevò un sopracciglio. “Perché?”
Sornione, il tenente ghignò. “Indovina un po’, Schwabe, non è così difficile.” Gli sfiorò il petto con le punte delle dita e gli fece scivolare la camicia aperta giù dalle spalle, lasciando che cadesse sul tappeto con un leggero fruscio.
Per tutta risposta, Hans gli afferrò le spalle con un gesto repentino e lo spinse sul letto ancora intatto, facendolo finire con la schiena contro il materasso. “Non ti conviene fare l’insolente con me, Preuße,” soffiò, in tono di finta minaccia. “Sai poi cosa succede…” Si piegò su di lui per armeggiare coi bottoni della sua camicia e l’ultima allusione sfumò in un lungo bacio, come un preludio atteso da entrambi.
Friedrich rabbrividì sentendo il corpo del compagno che gli gravava addosso, così vicino da poter percepire quanto entrambi fossero coinvolti. Gli avvolse le braccia intorno al collo, intrecciando le dita tra i suoi capelli. “Guarda che a me piace quando ti comporti da lanzichenecco, capitano”, sussurrò contro le sue labbra.

La gradevole brezza che proveniva dalla finestra aperta mitigava appena la calura, facendo ondeggiare le tende che nella luce lunare sembravano trasparenti. Coperto da un solo lenzuolo, Friedrich dormiva rannicchiato contro il fianco di Hans, la testa appoggiata sul suo petto e un braccio a cingergli il torace. Il capitano gli passava distrattamente le dita tra i capelli, lasciando vagare i pensieri mentre ascoltava il suo respiro regolare.
Gli piaceva per quello, il cavaliere prussiano, perché non si mostrava mai remissivo e sapeva tenergli testa alla pari, sia nella vita militare che nell’intimità. Se normalmente avrebbe cercato di disciplinare un sottoposto come lui, da Friedrich gli bastava la garanzia che lo avrebbe rispettato entro i limiti del regolamento, per poi rimanere fedele alla sua natura quando si trovavano da soli.
Non poté fare a meno di chiedersi che cosa sarebbe successo in guerra, come si sarebbero comportati loro due che non l’avevano mai conosciuta, se non per via teorica durante le simulazioni e attraverso i resoconti degli ufficiali più anziani. Anche se il pensiero di poterla affrontare insieme rendeva quel salto nel vuoto più tollerabile, quasi come un’avventura o una sfida avvincente, tuttavia, si sentiva in dovere di proteggerlo, non solo come suo comandante, ma anche come suo compagno.
Quando la fedeltà degli altri viene meno, noi rimaniamo fedeli.
Fedeli come le querce tedesche, come la luna e la luce del sole.
Col bagliore lunare che vegliava su di loro, si abbandonò al sonno, esausto dopo la lunga giornata.

Nei pressi di Varsavia, settembre 1939

La notte, che aveva inghiottito il tempo nel suo nero abisso, era rischiarata dai bagliori delle esplosioni e dalla fosforescenza intermittente dei lampi che baluginavano all’orizzonte, senza apparente tregua. La terra ribolliva di bombe e il cielo di tuoni – la potenza distruttrice dell’uomo e la furia degli elementi.
Friedrich von Kleist quasi sperava in un contrattacco polacco, perché ogni ora che lo separava dall’alba esacerbava la sua angoscia e gliela rendeva intollerabile. Non faceva quasi più caso al ticchettio delle lancette, che riecheggiava in bilico tra la dissoluzione e l’eterno ritorno dell’uguale: solo a lui spettava l’onere di modificare quel ciclo, reindirizzandone il corso. Anche se l’idea di qualche ora prima gli sembrava il prodotto delle farneticazioni di un pazzo, di tanto in tanto le punte delle sue dita tornavano ad accarezzare il grilletto della pistola con la segreta voluttà di chi si approccia a misteri proibiti. Un brivido gli percorse le membra quando realizzò di non sentire alcun bisogno di rimettere la sicura: il pensiero di puntarsela alla tempia e fare fuoco continuava a stuzzicarlo, ma il disgusto che ne sarebbe derivato lo metteva in guardia dal considerare seriamente quella risoluzione.
Di certo non ho scelto la via più semplice.
Ripensò al sottotenente Kühn e a ciò che gli aveva detto quella sera: i suoi uomini, ignari delle implicazioni, lo elogiavano per l’azione tempestiva e a nessuno di loro sarebbe mai venuto in mente di incolparlo per il fallimento.
Che cosa ne sarebbe stato di lui e della sua compagnia, se avesse deciso di sfuggire all’infausta sentenza ponendo fine alla sua vita con un proiettile fatale?
Era partito sentendosi come un cavaliere teutonico alla conquista delle terre slave, ma ben presto si era ritrovato investito di una gloria effimera, che non lo scagionava in alcun modo dalle responsabilità che gli gravavano addosso. Anzi: lo costringeva a rimanere stoicamente al suo posto, a non abbandonare la compagnia in una situazione così delicata, e soprattutto lo poneva dinanzi a una prova che non sapeva se sarebbe mai riuscito a superare indenne.
Tuttavia, non voleva chinare il capo lasciando che tutto ciò che aveva faticosamente conquistato finisse nel fango come uno stendardo calpestato.
Era quella la battaglia più ardua, molto più ardua di quella che si combatteva là fuori, uniti contro un nemico di cui tutto sommato si conosceva la reale pericolosità.
E doveva affrontarla da solo.

Per l’ennesima volta, il maggiore Bühler si mise in ascolto, ma gli unici rumori che colse all’interno della caserma addormentata furono il lento e monotono gocciolio del rubinetto del bagno e il fischio cupo del vento che s’insinuava tra gli spifferi della finestra nel corridoio.
Le vibrazioni che scuotevano l’aria gli giungevano attutite dai vetri chiusi, ma non erano quelle a disturbare il suo sonno: non aveva neanche guardato il letto, ancora intatto nell’angolo più raccolto, né si era tolto gli stivali e il cinturone della pistola, e il berretto continuava a tenerlo sotto il braccio come se fosse già pronto a riprendere il servizio da un momento all’altro.
Si avvicinò alla finestra e, anziché soffermarsi a guardare il piazzale vuoto, levò lo sguardo verso il cielo, dove la stella del mattino reclamava il suo dominio sulle tenebre notturne, rendendo la luna un pallido spettro fluttuante a forma di falce.
Si lasciò scappare un sospiro. Non aveva mai creduto nell’esistenza di un fato riparatore o di una qualche misericordia proveniente dall’alto: a ogni azione corrispondeva necessariamente una reazione uguale e contraria, e a lui spettava il compito di ripristinare l’ordine nel suo battaglione. Era tutto così semplice, lineare, quando i soldati eseguivano gli ordini e si affidavano alla competenza dei superiori, ma sarebbe stato ipocrita negare che Friedrich gli piacesse proprio perché, tra tutti coloro che gli riservavano sguardi carichi di soggezione, era l’unico che non si era mai lasciato mettere in riga. Lui non aveva mai chinato lo sguardo, non aveva mai addotto scuse o giustificazioni per le sue velate insolenze, ma in compenso era sempre stato chiaro e cristallino.
Non si era mai fatto problemi a riprendere i suoi subalterni se sbagliavano: non l’aveva fatto con Schultz, per un rischio soltanto sfiorato, e non l’avrebbe fatto nemmeno con Friedrich, se fosse stato certo della sua colpevolezza. Aveva insistito fin da subito affinché i loro legami personali non influenzassero i rapporti militari e si era sempre mostrato intransigente a riguardo.
Al tempo stesso, però, non avrebbe esitato a difendere a spada tratta un soldato calunniato o accusato ingiustamente: sottrarsi a quel compito sarebbe stata una gravissima mancanza, un insulto al suo grado e al suo ruolo. E com’era possibile la purezza delle intenzioni di von Kleist lo avesse macchiato di una colpa così grave, tanto da risultare quasi indifendibile?
In quel caso, l’idea di non poter avere il pieno controllo della situazione – di trovarsi impreparato, di non sapere come muoversi – lo disturbava più della sensazione di rabbia impotente che aveva provato quando si era trovato di fronte al fatto compiuto, più del fatto di essersi inconsapevolmente lasciato cogliere in un momento di incertezza.
Per l’ennesima volta si chiese se esistesse un modo per evitare a Friedrich il processo e preservare intatto l’onore di entrambi: l’unico modo era cercare di sondare le sue intenzioni e, solo dopo, avrebbe potuto agire di conseguenza.
Sospirò ancora una volta, appoggiando la fronte al vetro freddo. Aveva trovato una risposta ai suoi dilemmi, ma la soluzione gli rimaneva ancora ignota.

L’alba li colse ancora svegli, Friedrich seduto sul letto a fissare l’infinito e Hans alla finestra a contemplare l’orizzonte che s’infiammava.
Forse già sapendo di aver vegliato entrambi tutta la notte, sostarono per un istante dinanzi alle porte delle rispettive stanze, esitanti e trepidanti al tempo stesso.
Poi, quasi nello stesso momento, le spalancarono, trovandosi l’uno di fronte all’altro nel corridoio illuminato soltanto da alcune fioche lampade a muro.
Friedrich aveva l’aria di non aver chiuso occhio per tutta la notte, ma l’uniforme sembrava come stirata subito prima d’indossarla e il volto liscio era sbarbato di fresco. Appena fu ai tre regolari passi di distanza da lui, scattò sull’attenti e salutò militarmente, saettando verso di lui una muta occhiata ammonitrice.
“Comodo, von Kleist,” disse Hans, in un tono che gli fece capire che aveva colto e deliberatamente ignorato quel segnale.
“Signor maggiore.”
Il capitano tese l’orecchio, come se volesse accertarsi che nessun altro fosse in ascolto: poteva sentire i passi di qualche ufficiale che si era già svegliato e il sommesso chiacchiericcio di due furieri che si scambiavano le consegne, poi tornò a fissare Hans, che in viso doveva avere la sua stessa espressione – stupito di vederlo lì e al contempo sollevato, come se già se lo aspettasse.
“Tra un quarto d’ora tutti i comandanti di plotone e di compagnia a rapporto da me, per fare il punto sulla situazione tattica”, disse il maggiore, indicando con un cenno del capo la stanzetta, attigua alla camera da letto, che usava come ufficio.
“Signorsì, signore.” Friedrich salutò, girò i tacchi e si allontanò senza volgersi indietro.
Per quanto l’uomo di ferro si premurasse di apparire sempre imperturbabile, con lui quella strategia difensiva non funzionava più da tempo: gli era bastato uno sguardo per vedere e capire, e le allusioni che il giovane aveva fatto un paio di sere prima acquisivano maggior senso.
Adesso le sorti si sono ribaltate, ma lui non vuole accettarlo.
Strinse i denti reprimendo un moto di frustrazione: non era disposto a tollerare l’idea che Hans potesse esporsi per aiutarlo a risolvere un problema che non aveva creato. Doveva parlargli e ribadire che non voleva che nessuno, neanche lui, si frapponesse tra lui e la sua risoluzione.

Nella quiete apparente di metà mattinata, l’aria ribolliva di mille vibrazioni. Il cielo era di un azzurro sbiadito, privo di nubi, le foglie erano immobili nell’assenza di vento. Un lontano ronzio di motori ed eliche si udiva come un indistinto sottofondo alle voci dei soldati che attendevano gli ordini dei loro comandanti, seguito dai boati sordi delle esplosioni.
Il capitano Greifenberg, dall’alto della torretta di un Panzer III, abbassò il binocolo e si passò una mano sulla manica dell’uniforme nera per ripulirla dalla polvere sollevata dai mezzi blindati. “Ancora niente,” annunciò. “Calma piatta.”
Il capitano Bentheim, che teneva la mappa del fronte spiegata sulla protezione dei cingoli, alzò lo sguardo su di lui con un’espressione vagamente scettica. “Nulla?”
“Non è difficile da credere,” disse Reinhardt, continuando a scrutare un punto indefinito di fronte a sé. “Non credo che se la sentano di ingaggiare uno scontro in campo aperto contro di noi, dopo le sconfitte degli ultimi giorni. D’ora in poi l’avanzata sarà relativamente semplice, visto che le loro truppe hanno subito gravi perdite e il grosso dell’esercito lo stanno impiegando per difendere Varsavia: ecco perché saremo noi ad andargli incontro con un intervento congiunto.”
Konrad parve riflettere brevemente, quindi aggiunse: “E se le mie ipotesi sono giuste,” – accompagnò quella premessa indicando con la punta della stilografica un segno tracciato in precedenza sulla cartina – “ci aspettano proprio qui, al varco, dove sanno di poter contare su un minimo di vantaggio.”
“Ed è proprio lì che andremo.”
“Con una piccola variazione di percorso…”
“Precisamente.” Reinhardt scese dal veicolo con un balzo agile e lo raggiunse, appoggiandosi alla corazzatura frontale. “Hai sentito le ultime notizie alla radio, Konrad?”
L’altro ripiegò la mappa e la ripose nel portadocumenti. “Parli dell’invasione sovietica?”
Egli rispose con un cenno d’assenso. “A quanto pare li incontreremo a metà strada.”
A quelle parole, rimasero entrambi per qualche istante in silenzio a osservare la campagna che si estendeva sconfinata di fronte a loro, punteggiata da sparute casupole, qualche steccato e alberi scuri che interrompevano la monotonia del verde e dell’arancio.
Al di là di essa c’era Varsavia, la tanto agognata meta che da quasi una settimana continuavano a inseguire senza riuscire a vederla.
“Sento che questa guerra finirà presto,” disse Reinhardt, in tono assorto. Una semplice constatazione, quasi un dato di fatto: più che una speranza a cui aggrapparsi, la vittoria sembrava un percorso già tracciato. Si voltò verso Konrad e gli rivolse un sorriso impercettibile, poggiandogli una mano sulla spalla. “E dopo di essa torneremo di nuovo a casa.”
L’altro ricambiò il sorriso, controllò l’orario e recuperò la sua consueta risolutezza. “Adesso direi che possiamo riprendere la marcia. Siamo d’accordo per l’assalto congiunto?”
“Direi di sì,” rispose Reinhardt, rinnovando l’entusiasmo. “E se dovessimo perderci di vista durante le manovre, ci ritroveremo di nuovo stasera, a battaglia finita.”
“Sicuramente.”
Si scambiarono un rapido saluto militare e ognuno tornò al proprio reparto.

Di nuovo da solo, Reinhardt trasmise le proprie disposizioni a tutta la compagnia e raggiunse i membri del suo equipaggio, che erano già riuniti ad attenderlo.
“Herr Hauptsturmführer!” esclamò prontamente Richter, il marconista e addetto alla mitragliatrice. “Pronti a partire.”
Gli altri tre si misero sull’attenti – una pura formalità che non intaccava il rapporto familiare instauratosi durante quelle settimane a stretto contatto – e il capitano li salutò con un cenno della mano guantata, ordinando il riposo. “Meno chiacchiere e più fatti, Lothar. Forza, ragazzi, a bordo!” li esortò, in tono sbrigativo ma bonario. “Se vi comportate bene, stasera offrirò una birra a quello che centrerà più bersagli.”
“Non bevevo così tanto dall’Oktoberfest dell’anno scorso!” scherzò il caporale Keller, il cannoniere.
“E sarebbe anche il periodo giusto, se non ci fosse la guerra,” asserì il servente del cannone, Lange, con un sospiro nostalgico.
“Un motivo in più per onorare le tradizioni. Non è così, signore?” ribadì Keller, volgendosi verso il suo comandante in cerca di complicità.
Reinhardt se li immaginò coi Lederhosen e una piuma sul cappello, a cantare canzoni goliardiche mentre lanciavano sguardi ammiccanti alle ragazze in Dirndl, e non poté trattenere una breve risata. “Se l’uomo deve essere addestrato alla guerra, una bella birra fresca è proprio quello che ci vuole al momento del riposo del guerriero.” Subito dopo, tuttavia, indossò le cuffie e si sforzò di tornare serio. “Ma che siano bersagli validi, altrimenti li sottrarrò dal conteggio.”
Il rossore sulle guance del graduato non si spense neanche di fronte a quella precisazione. “Certo, signor capitano!”
“Ricevuto, signore!” ripeté l’altro.
L’unico che rimase in silenzio fu il pilota, Hirschel, un ragazzo con l’aria da adolescente, timido e taciturno, mentre il marconista sorrideva con indulgenza: in quell’equipaggio, l’unico ad aver varcato la soglia dei venticinque anni era il comandante, ed era proprio Richter il più anziano dopo di lui. Reinhardt li osservava con gli occhi di un padre che, pur essendo attento alle personali inclinazioni dei suoi figli, non abbassava mai la guardia per assicurarsi che rispettassero le regole, e al tempo stesso cercava di spronarli a fare del proprio meglio.
“Su, andiamo,” comandò, esortando il servente Lange con una leggera spinta. “I nemici sono già lì che ci aspettano, non vorrete mica tardare all’appuntamento?”
“Nossignore!”
Come ogni volta prima di prendere posto, Richter scambiò un’occhiata d’intesa col pilota, il cannoniere e il suo aiutante, e tutti e quattro iniziarono a intonare un canto.

Ob’s stürmt oder schneit,
Ob die Sonne uns lacht,
Der Tag glühend heiß
Oder eiskalt die Nacht.
1

Qualche istante dopo, anche la voce del capitano si unì alle loro, mentre con un cenno della mano impartiva l’ordine della partenza.

Bestaubt sind die Gesichter,
Doch froh ist unser Sinn,
Ja, unser Sinn;
Es braust unser Panzer
Im Sturmwind dahin!
2

L’obiettivo era un agglomerato di casupole grigie, distrutte da molteplici colpi d’artiglieria. Il maggiore Bühler diede l’alt e scese dalla Kübelwagen mentre la colonna interrompeva la marcia nell’unico punto che consentisse loro una relativa copertura. Pareva non esserci nessuno in circolazione – né lungo la strada che li separava dal villaggio, né nei campi che ondeggiavano pigramente nel vento di settembre, dai quali non si sollevava nemmeno il frinire di un insetto.
Aggrottò le sopracciglia: l’esperienza maturata in quei pochi giorni gli aveva insegnato che, in presenza di una quiete così persistente, maggiori erano i rischi di un’imboscata. Sollevò il binocolo e con esso scandagliò ogni angolo dello scenario che gli si profilava di fronte, aspettandosi di individuare qualche nemico appostato in trincee nascoste tra le pieghe dei campi o tra le rovine.
“Signore.” La voce del sottotenente Kühn lo fece trasalire e, prima ancora che egli potesse terminare la sua ispezione, il giovane ufficiale scattò sull’attenti e annunciò: “Signor maggiore, uno degli osservatori ha segnalato la presenza di un contingente nemico nel villaggio!”
“Come immaginavo,” borbottò il maggiore. Diresse le lenti verso il punto indicato dal sottotenente: anche se a prima vista il luogo sembrava deserto, ogni tanto un’ombra più scura si muoveva furtiva, scivolava rapida tra le rovine e poi scompariva senza lasciar traccia di sé, come un fugace miraggio. “Mi mandi a chiamare il capitano von Kleist.”

Friedrich comparve dopo poco, limitandosi a un saluto schietto e formale. “Vuole che chieda un intervento da parte della Luftwaffe, signore?”
Bühler allacciò le mani dietro la schiena e annuì senza guardarlo. “Sì, è troppo pericoloso arrischiarci in campo aperto: saranno gli Stuka ad aprirci la strada.”
Ancora una volta, il capitano acconsentì con un cenno del capo e mandò un portaordini a trasmettere il messaggio. Hans lo scrutò di sottecchi mentre guardava fisso di fronte a sé, evitando il suo sguardo, in viso un’espressione assorta e un cipiglio torvo. Gli venne da chiedersi cosa stesse pensando, ma una voce nella sua testa lo ammonì severamente: sapeva benissimo quello che stava pensando, ed era qualcosa che lui non poteva e non voleva accettare.
A interrompere quelle elucubrazioni fu l’arrivo tempestivo degli Junkers 87: i bombardieri sorvolarono i campi e passarono oltre con un ronzio che parve scuotere aria e terra, coprendo ogni altra voce. Uno dopo l’altro, in perfetta sincronia, rovesciarono d’ala e piombarono al suolo in una picchiata quasi verticale, come rapaci lanciati sulla preda.
Qualche istante dopo, il silenzio era saturo del gemito delle sirene e dell’eco delle esplosioni.
Alcuni soldati si erano accucciati con le mani premute ai lati della testa, come a coprire il rumore assordante. Passò un tempo inquantificabile, durante il quale i due ufficiali rimasero immobili a fissare il cielo ribollente di fiamme, senza osare proferir parola.
Poi, dai cumuli di macerie emersero alcune timide presenze che avanzarono barcollando verso i tedeschi. Uno di essi sollevò una bandiera bianca e la sventolò in bella vista. Alcuni, tra cui due tenenti lievemente feriti, gettarono le armi e si consegnarono senza opporre resistenza, altri furono caricati sui camion e affidati alle cure dei medici.
Il capitano von Kleist, che tra gli effettivi del battaglione era uno dei pochi a comprendere e parlare il polacco, interrogò i prigionieri e riferì che nelle vicinanze c’erano altre due compagnie in attesa di dare battaglia.
“Adesso sanno sicuramente che ci troviamo qui,” osservò Bühler. “Dobbiamo andare a intercettarli prima che intercettino noi, senza perdere altro tempo.”
“Mi offro volontario, signor maggiore”, propose Friedrich in tono secco.
Hans notò che dal suo contegno non trapelava alcuna incertezza, come se avesse già deciso senza consultarlo. Corrugò la fronte, ponderando attentamente le sue parole: si era sempre fidato di lui, fin dal giorno di tre anni prima in cui si era proposto per andare a recuperare la bandiera, ma qualcosa gli suggeriva che quella volta fossero ben altre le motivazioni a guidarlo. Era ancora un presentimento vago, come un’immagine indistinta, ma così vasta da occupare tutto lo sfondo; tuttavia, si guardò bene dall’esprimere i propri dubbi ad alta voce.
“Mantenga la copertura fino al momento convenuto, capitano”, si raccomandò comunque, in modo che solo lui potesse sentirlo, “e mi riferisca ogni movimento sospetto.”
“Sissignore,” si limitò a dire l’altro con impersonale distacco, senza smettere di fissarlo negli occhi.
L’espressione di Hans si indurì, mentre il soverchiante presentimento di poco prima si faceva sempre più nitido: anche se quell’operazione non comportava particolari rischi, la sua indole gli imponeva di tenersi pronto a ogni evenienza.

Seduto al posto del passeggero sulla Kübelwagen, il capitano von Kleist cercava di ripercorrere mentalmente le tappe della strategia mentre la vettura sobbalzava sul sentiero sterrato.
Stanco di quelle ruminazioni, si volse indietro e scorse sul sedile posteriore il sottotenente Kühn, che guardava fuori dallo sportello con l’espressione svagata e la guancia appoggiata al palmo della mano, assorto in chissà quali pensieri. Friedrich aveva parlato poco con lui, ma lo aveva subito conosciuto come un ragazzo spontaneo, entusiasta, genuino, sempre pronto a dare il massimo per se stesso e per gli altri.
Ricordava ancora quando, durante la fuga dal villaggio polacco, Kühn lo aveva raccolto di peso e trascinato fuori da quella buca mentre zoppicava, quando si era caricato in spalla il capitano Fromm ferito, portandolo di persona al posto di medicazione, e quando si era offerto volontario per andare a liberare il maggiore.
Forse, pensò, si sarebbe potuto concedere una punta d’orgoglio al pensiero di essere stato proprio lui a istruirlo prima che il ragazzo prendesse il suo posto al comando del plotone.
Forse. Kühn era così istintivo da non riconoscere i rischi delle mosse che azzardava in buona fede, e di sicuro avrebbe dovuto imparare a tenere a freno la propria esuberanza onde evitare situazioni spiacevoli come quella in cui lui, nonostante tutte le precauzioni, si era trovato impantanato.
Come se avessi avuto alternative…
“Possiamo fermarci qui,” disse all’autiere, in un tono che gli suonò sgradevolmente duro.

Alcuni edifici diroccati offrivano alle truppe una relativa copertura, e le aperture affacciate sulla campagna consentivano un ampio margine di visibilità. Il casolare che Friedrich aveva eletto come quartier generale non aveva più un tetto, ma tra quelli rimasti sembrava il più solido e l’unico in grado di ospitare i due plotoni che aveva preso con sé.
Come postazione di comando scelse un tavolino traballante vicino alla finestra, su cui fece sistemare la radio da campo, le mappe e i documenti, poi diede ordine di posizionare le mitragliatrici pesanti alle finestre del primo piano e gli obici di guardia agli angoli delle strade.
Mentre supervisionava il tutto con occhio attento, vide il caporale Hanke e il soldato Schreiber che trascinavano una vecchia MG 34 su per le scale, per poi montarla sul treppiede, a protezione della finestra centrale. “Su, Peter, aiutami a lucidarla.” Hanke trasse dal suo zaino uno straccio e iniziò a passarlo sulla canna della mitragliatrice. “La cara Erika fa meglio il suo lavoro se la trattiamo bene.”
“Erika?” domandò stranito il ragazzo.
“Certo, Erika. Mentre noi siamo qui a fare la guerra, nella brughiera i fiori continuano a crescere e le ragazze ci aspettano a casa, sperando di rivederci vivi.” 3 Sospirò e abbassò lo sguardo, come se stesse indugiando in qualche ricordo malinconico. “È un bel pensiero, fa bene al cuore.”
Dal piano di sotto giungevano le rampogne del maresciallo Eichmann, che si era messo a sgridare due reclute che aveva beccato in flagrante mentre frugavano nella dispensa.
Reprimendo un sospiro, Friedrich si affacciò alla finestra e si perse a contemplare l’orizzonte, mentre le voci dei suoi commilitoni continuavano a riecheggiare per la stanza. Nella vita di tutti i giorni non aveva niente in comune con quegli uomini, di cui conosceva a malapena volto, nome e grado, ma nel suo animo permaneva il magone che lo aveva assalito quando aveva dovuto seppellire altri soldati come loro: quasi anonimi sotto l’elmetto, ma non meno umani.
All’apparenza, era un piano così semplice da non suscitare alcun dubbio sulla sua esecuzione: intercettare il nemico e impegnarlo in uno scontro per lasciare agli altri la possibilità di avanzare. Ciò che lo rendeva meno semplice era il furore dei nemici, ormai di fatto sconfitti ma determinati a combattere, se possibile, fino all’ultimo uomo. Friedrich non avrebbe mai potuto fargliene una colpa, ma non poteva neanche illudersi che la vittoria non avrebbe avuto alcun prezzo: dopotutto, ne aveva già avuto la prova a Łowicz, con la lama del boia che da giorni continuava a oscillare sul suo capo in attesa che egli scoprisse il collo mostrandosi vulnerabile.
Un solo errore, un solo passo falso e si sarebbe giocato la sua carriera di ufficiale, la stima di tutti i suoi uomini e, colpito a morte dalla vergogna, anche il suo rapporto con Hans.
“E adesso, signor capitano?” chiese il sottotenente Kühn, distogliendolo da quei pensieri.
“Adesso dobbiamo soltanto rimanere pronti e vigili, e aspettare.”

Alla fine della giornata, entrambe le operazioni si erano concluse con successo e gli uomini del maggiore li avevano raggiunti in quell’edificio diroccato. La compagnia di Bentheim, invece, era acquartierata in uno dei villaggi vicini, insieme al capitano Greifenberg delle Waffen-SS. Questo era tutto ciò che Erich aveva appreso dal capitano von Kleist, mentre i soldati bivaccavano sfruttando il breve turno di riposo, si muovevano qua e là per trasmettere comunicazioni o rimanevano alle postazioni in attesa di una qualche mossa dei nemici.
Poco distante da lui, un soldato suonava la fisarmonica e cantava Ade Polenland con una sigaretta che gli pendeva da un angolo della bocca, traducendo in musica il desiderio di molti soldati di lasciarsi alle spalle le sponde della Vistola per tornare finalmente a casa.
Il ragazzo chiamò a sé il pastore tedesco e andò a sedersi sulle scale con la schiena contro il muro, lasciando che Otto gli poggiasse la testa e le zampe anteriori sulle gambe. Mentre una mano lo grattava tra le orecchie, l’altra trasse dalla tasca dell’uniforme un pacco di lettere e le sfogliò: sua madre, Uschi, sua madre, ancora sua madre e poi di nuovo Uschi. Sua madre gli scriveva parole accorate quasi ogni giorno, e non sempre lui aveva il tempo di risponderle, ma sapeva che non sarebbe riuscito a placare le sue apprensioni neanche se le avesse scritto due intere pagine in cui parlava con entusiasmo dei camerati e delle vittorie quotidiane. Uschi invece apprezzava gli aneddoti dal fronte, che ricambiava con altre notizie degli amici comuni che erano rimasti in Germania.
Quell’ultimo pensiero gli fece tornare in mente i tempi della Hitlerjugend, le lunghe marce sotto il sole d’estate, i tamburi e le bandiere, le esercitazioni militari e le escursioni nei boschi. Indugiò nei ricordi, rigirandosi tra le mani il distintivo rosso e bianco, a forma di rombo, che portava sempre con sé. Si domandò in quali reparti fossero stati inviati i ragazzi con cui aveva condiviso anni di fatiche e soddisfazioni, e quanti di loro avrebbero fatto ritorno a casa a guerra finita, mantenendo la promessa di ritrovarsi tutti insieme al Tiergarten.
“Signor sottotenente!” udì chiamare la voce di Krause. Il cane drizzò le orecchie e alzò la testa. “Signor sottotenente, venga a giocare a Skat con noi!”

Schreiber, Krause e Hanke erano seduti per terra intorno a un tavolino da salotto dove, intorno alle carte sparpagliate alla rinfusa, erano posati una bottiglia di Schnaps piena per metà, dei bicchieri e una fiasca su cui era incollata un’etichetta sbiadita con su scritto Piwo.
“Vieni, Bismarck,” disse il caporale Hanke, picchiettando per terra per far accomodare il cane. Era un uomo biondo sulla trentina, col viso lungo come quello di un cavallo e il naso storto, che parlava poco ma sorrideva praticamente sempre.
Erich si sedette accanto a lui, e Krause gli versò un po’ di birra polacca in un bicchiere, riempiendolo per metà. “Per lei e Peter niente Schnaps, signore,” spiegò con un sorrisetto, “siete ancora troppo giovani. Non è vero, Hanke?”
L’altro non rispose: stava guardando un punto dritto di fronte a sé.
“Julius?”
“Non è strano che il Vecchio non stia insieme a von Kleist?” chiese l’altro, per tutta risposta.
Krause si limitò a radunare le carte per rimescolarle. “Perché, non è con lui?”
“No, il capitano è su con la Erika e il vecchio gufo, a controllare non so che scartoffie… e l’uomo di ferro è qui, da solo,” disse Hanke, indicando un punto della stanza con un impercettibile cenno del capo.
Gli altri tre si voltarono quasi in simultanea: Bühler in effetti era in piedi in fondo alla scalinata, con le braccia dietro la schiena e la visiera del berretto calata sugli occhi. Sembrava che stesse cercando qualcuno, ma probabilmente era sceso soltanto per accertarsi che tutto fosse sotto controllo.
Il soldato scelto Krause aspettò che l’ufficiale si volgesse verso di loro, poi sollevò la bottiglia di Schnaps e alzò la voce. “Signor maggiore!”
Bühler aggrottò le sopracciglia meravigliato, tuttavia si avvicinò al tavolino e accarezzò la testa del cane, che lo aveva raggiunto scodinzolando. “A cosa devo questa improvvisa chiamata, Krause?”
“Vuole concederci l’onore di un brindisi, signore?” Prima che l’ufficiale potesse replicare, Krause gli aveva già messo in mano un bicchierino di liquore e Hanke aveva preso il commilitone per un braccio, avvicinandogli il proprio. “A noi, al signor maggiore e a tutti i camerati!” esclamarono, facendo tintinnare il vetro. “E al capitano von Kleist!”
“Prosit,” ripeté sobriamente Bühler, senza sorridere.
Quando il maggiore se ne fu andato, tra gli astanti piombò di nuovo un meditabondo silenzio.
Hanke si versò un altro goccio di Schnaps, senza staccargli gli occhi di dosso fino a quando non fu scomparso su per le scale. “Mi consente di parlare liberamente, signor sottotenente?” domandò poi.
Kühn annuì e lo fissò incuriosito, pur non sapendo cosa aspettarsi.
“Bühler e von Kleist sono amici da anni”, disse il caporale, abbassando la voce. “Non so come facciano due come loro a trovarsi così bene insieme, ma le assicuro che non mi sono meravigliato per nulla quando il capitano si è offerto per andarlo a liberare di persona. E le dirò di più: penso che nessun altro avrebbe potuto farlo, perché lui è l’unica persona di cui l’uomo di ferro si fidi davvero. Però… so che il maggiore gli ha fatto il cicchetto. Così, in amicizia, ma pare che questa iniziativa non gli sia piaciuta per niente.”
Il ragazzo sgranò gli occhi. “No? Perché?”
Hanke fece spallucce. “Vallo a sapere… cose da ufficiali.”
“Ah, io invece lo so.” Krause assunse un tono da cospiratore e si accostò al suo orecchio. “Bühler vede questa cosa come un suo fallimento personale, mentre il capitano è convinto che non si potesse fare altrimenti. Non so cosa deciderà di fare, né cosa farà von Kleist, ma mi permetta di dirlo, signore: non ho un buon presentimento.”
Erich avrebbe voluto tanto chiedergli di quale presentimento parlasse, ma la voce allarmata del capitano li richiamò alle postazioni difensive.


  1. Che ci sia neve o tempesta, / Che il sole ci rida in faccia, / Che il giorno sia rovente / E la notte gelata;↩︎

  2. Le nostre facce sono sporche di polvere / Ma il nostro animo è felice. / Sì, è felice! / Il nostro Panzer ruggisce / Nel vento della tempesta.↩︎

  3. il nome e le parole del caporale sono tratti dalla canzone “Erika”, celebre tra i soldati della Wehrmacht. Il titolo allude sia all’erica, come fiore della brughiera (a cui è dedicata l’intera strofa iniziale), sia al nome di una ragazza, Erika (che in questo caso simboleggia genericamente le ragazze che i soldati hanno lasciato in patria), alla quale vengono dedicati versi carichi di dolcezza e nostalgia.↩︎

  
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