Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
Segui la storia  |       
Autore: Vitani    08/11/2019    0 recensioni
Dopo la sconfitta di Gargoyle, i superstiti del Nuovo Nautilus cercano lentamente di far tornare alla normalità le proprie esistenze. Non è semplice, quando si è vissuta un'avventura come la loro.
Electra ha visto morire l'uomo che amava e si trova da sola con un bambino da crescere. Nadia non riesce a smettere di guardare al passato nonostante abbia ormai la vita che desidera.
Presto, troppo presto, l'incubo di Atlantide torna ad addensarsi sul futuro.
E, stavolta, sembra esigere la vita dei suoi Figli.
Basteranno a salvarli l'abnegazione di una madre, il legame di una sorella e di un fratello?
Basterà il comandamento di un padre, "vivi"?
Basterà l'amore?
"Nadia, noi non siamo obbligati a dare o ricevere amore. Noi siamo amore."
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Medina Ra Lugensius, Nadia Ra Arwol, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

QUANDO SEI FIGLIO DI TUA MADRE

 

 
 
Tangeri, primavera 1900
 
 
«Andiamo a vederla l’Esposizione Universale?»
Etienne non parlava d’altro da settimane. Doveva assolutamente riuscire ad andarci. La prospettiva di tutte le innovazioni e la conoscenza di un secolo raccolte in un unico luogo lo elettrizzava oltre ogni dire.
«Durerà fino a novembre, Etí, certo che ci andremo.»
«Ma presto, vero?»
Praticamente viveva saltellando per casa e si era fatto mandare da Jean, che lo assecondava volentieri, cartoline, libri e opuscoli sull’argomento. Philippe stava bene, diceva nelle lettere, e a tre anni già preferiva giocare con le chiavi inglesi piuttosto che con i trenini. Jean, per far contenta Nadia che temeva continuamente per l’incolumità di Philippe, gli aveva costruito un trenino che si muoveva davvero… con la supervisione del bambino, che aveva riempito di piccole rotaie tutta la casa.
C’era quindi, tra Etienne e Jean, uno scambio di pacchi e lettere assiduo. Jean mandava a Etienne gli schizzi dei progetti a cui stava lavorando e materiale sull’Esposizione, Etienne mandava regalini a Philippe e pupazzetti per riempire il famoso trenino. Electra, dal canto suo, intratteneva la sua corrispondenza con Nadia e si faceva aggiornare sulla salute di Marie e di tutti gli altri. Icolina viveva ancora a Marsiglia e aveva dato alla luce una bella bambina di ormai cinque anni.
A dieci anni, Etienne passava molto del suo tempo nella biblioteca del padre.
Ogni tanto andava da Electra e le chiedeva di leggergli qualche libro scritto nell’antica lingua di Atlantide, che poi era la lingua scritta rimasta in uso a Tartesso. Lui non era come Nadia, la parlava ma non riusciva a leggerla, mentre la sorella era in grado di interpretarne i segni intuitivamente, senza averla mai davvero studiata.
Electra lo capiva. Per chiunque avesse un minimo di curiosità circa le scienze e il funzionamento del mondo, la biblioteca di Nemo era un tesoro. Conteneva, oltre ai testi di biologia e medicina su cui lui aveva studiato, un buon numero di volumi scientifici e tutto ciò che Nemo era riuscito a salvare da Tartesso. Aveva continuato a commissionare l’acquisto di nuovi libri fino a poco prima della sua morte, ed era un miracolo che ci fosse riuscito visto il tipo di vita che aveva condotto.  
Lei stava continuando l’opera, ordinandone di nuovi ogni volta che usciva qualcosa di interessante.
Comprava anche romanzi francesi per Etienne, che amava la fantascienza e i libri d’avventura.
«Non vedo l’ora di andare al cinematografo!»
«Ora pensa a fare i compiti, non al cinematografo.»
Etienne sbuffò, seduto a uno dei tavoli della biblioteca, mentre Electra alzava lo sguardo e si toglieva gli occhiali, chiudendo il libro che stava leggendo.
«Ti resta ancora matematica, no?»
Etienne se la stava prendendo comoda, perché impiegava sempre poco tempo a fare matematica e la maggior parte delle volte si trattava di esercizi per lui così stupidi che non ne capiva il senso.
«Voglio vedere il Palazzo dell’Elettricità all’Esposizione.»
«E lo vedrai, ma ora finisci quei compiti.»
Etienne emise un gemito, ma si chinò sui suoi quaderni e non fece commenti.
Si trattava di operazioni in colonna e piccole equazioni che riusciva a risolvere a mente senza problemi, e in capo a un quarto d’ora aveva già terminato. Electra non avrebbe dovuto stupirsi, era stata lei a insegnargli come risolvere certi esercizi in breve tempo e il bambino s’era sempre dimostrato straordinariamente attento e portato.
«Posso stare a casa domani?» le chiese Etienne.
«Perché dovresti stare a casa?»
Un’alzatina di spalle fu la sola risposta che ottenne.
 
 
Etienne frequentava una scuola francese, insieme coi rampolli degli alti dignitari di Tangeri.
L’aveva iniziata piuttosto tardi, recuperando comunque con facilità gli anni persi, soprattutto per volere della madre che desiderava per lui la compagnia di ragazzi della sua età.
L’idea non era andata a genio a Etienne, che a dirla tutta studiava già piuttosto bene a casa, ma Electra era stata irremovibile ed era meglio non farla arrabbiare.
S’era confidato con Raoul, però, un pomeriggio che erano andati al mercato.
«Io non ci voglio andare a scuola.»
«Perché?»
«Non mi serve.»
Era facile capire il perché.
«Mi odiano tutti.»
«Che dici, Etienne?»
Etienne, gli occhi blu incupiti dal fastidio, era rimasto in silenzio.
Anche in quel momento, seduto al suo banco, guardava torvo la lavagna.
Omar, un ragazzino poco più grande di lui, stava cercando di risolvere una delle equazioni che avevano per compito e stava fallendo miseramente. Etienne iniziava a non poterne più di quella scena pietosa.
«Non lì», disse a un certo punto «Quella cifra la devi sottrarre, non aggiungere.»
Il resto della classe rise, Omar abbassò la testa, umiliato.
«Arwol.»
La voce del maestro, ferma.
«Non vi è stato chiesto di intervenire.»
«Main ise aur nahin le sakata», borbottò Etienne.
Non ce la faceva più, e quando non ce la faceva più gli scappava la lingua di Tartesso, senza volere.
«Come punizione vi assegnerò degli ulteriori esercizi che svolgerete qui in classe al termine delle normali lezioni. Esercizi dal mio libro di testo, per il prossimo ciclo di studi.»
Che gli desse pure quanti esercizi voleva, li avrebbe svolti al massimo in un’ora.
Scrivendone tre versioni, risolte con tre metodi diversi.
Così imparava.
Così avrebbero imparato tutti quanti.
 
 
«Orfano!»
Se li trovò davanti quando uscì da scuola, nel primo pomeriggio.
Tese le labbra in una smorfia e tirò dritto. Si trattava di Omar, probabilmente tornato a vendicarsi dell’onta subita, e della sua banda di amici.
«Tanto lo sappiamo che non hai il padre!»
Etienne inghiottì a vuoto.
«Torna a casa da mamma, orfanello!»
Si fermò.
Lentamente si voltò, li squadrò da capo a piedi.
«Primo, non provate a offendere mia madre. Secondo, non è colpa mia se in matematica sei un somaro. Terzo, io ce l’ho un padre.»
Omar rise, imitato dai suoi amici.
«E dov’è ora?»
Etienne, di nuovo, inghiottì e strinse i pugni. Gli costava doverlo dire.
«È morto in battaglia.»
Lo sapeva il cielo, quanto gli costava.
«In quale guerra? L’ultima qui è finita nel 1844, lo dovresti sapere.»
«Dieci anni fa. Le astronavi su Parigi.»
Risero. Semplicemente risero.
Etienne chiuse gli occhi.
«Era un re, mio padre. Era più grande di quanto i vostri saranno mai. Ed era il capitano di un sottomarino.»
«Sì, e poi? Che altro era, sentiamo? Lo scopritore dell’America?»
Se ne sarebbe potuto andare, come aveva già fatto altre volte. Semplicemente passare in mezzo a quel gruppetto di stupidi, a testa alta, e fare finta che non avessero parlato. A fermarlo, a inchiodarlo sul posto furono le lacrime agli occhi, che lo trattenevano più dei sassi che quei ragazzini tenevano in mano. Che lo colpissero, se volevano. Non aveva importanza. Le lacrime, però, quello erano macigni. Provava rabbia, ma verso chi fosse diretta non riusciva a capirlo. Era questo a lasciarlo immobile, a sfinirlo.
«Vi porto le prove», disse infine «Domani ve le porto. Se non vi andranno bene pestatemi o quello che vi pare. Non me ne importa.»
Corse via, finalmente.
Se li lasciò alle spalle, si infilò nel dedalo confuso di stradine di Tangeri e si perse fra la folla.
 
 
Dovrebbe aver paura, Nadia.
Dovrebbe tremare per suo fratello.
Invece è tranquilla.
«Non c’è pericolo», dice «Vedrai. Corre come una lepre.»
Etienne, dabbasso, fra la polvere, sembra sentirla.
Non si gira ma sorride, alza appena gli angoli delle labbra.
Scatta in avanti.
 
 
Rientrò a casa un’ora dopo e la trovò deserta.
Sua madre gli aveva lasciato il pranzo e un appunto in cui scriveva che era uscita con Raoul per delle commissioni. Meglio così. Almeno Etienne non avrebbe più avuto gli occhi rossi al suo ritorno.
Mangiò, poi si disse che era il caso di cercare delle prove.
Prove, sì, ma di che tipo?
Ci ragionò su.
«Ci sono!»
Le foto del Nautilus e dell’equipaggio. Electra le aveva conservate, bastava cercarle.
«Devono essere nello studio di papà.»
Salì al piano di sopra, sperando che sua madre non tornasse all’improvviso e lo cogliesse in flagrante. Non avrebbe saputo cosa raccontarle ed Electra sapeva riconoscere una bugia.
Aprì la porta dello studio del padre trattenendo il respiro. Era un posto silenzioso, c’erano quell’imponente scrivania e la sedia su cui un tempo s’era seduto Nemo, i suoi libri, le sue cose che nessuno aveva più toccato da quando era stato varato il Nautilus. A Etienne metteva soggezione, anche se aveva libero accesso.
Inspirò profondamente, si avvicinò alla scrivania, aprì i cassetti uno dopo l’altro.
Si sentiva in colpa nel farlo, era come violare qualcosa di sacro, ma non aveva scelta: doveva trovare quelle foto. Niente, nei cassetti non c’erano.
Osservò i libri. Magari erano infilate lì in mezzo o c’era qualche album nascosto fra i volumi.
Era pieno di testi di oceanografia, di medicina e di biologia marina. Etienne li scorse uno dopo l’altro, rapidamente. Si trattava di una biblioteca pregiata, che pochi avrebbero potuto permettersi di avere in casa, ma non erano quei testi a interessargli. Passò le mani sulle costole, si soffermò su un paio di tomi il cui titolo era scritto in strani ideogrammi. Sua madre gli aveva spiegato che quella era l’antica lingua di Tartesso. Lei sapeva leggerla, lui non aveva mai imparato. Prima o poi l’avrebbe fatto. Ne prese uno in mano. Non somigliava a nessun alfabeto, ideografico o meno, che avesse mai visto. Il titolo sembrava emanare una lieve luminescenza azzurra, appena percettibile. Strano, era certo che sua madre l’avesse tenuto in mano e non gli sembrava di ricordare di averlo visto brillare.
Lo ripose nello scaffale e spinse a fondo.
Click.
Il rumore di un meccanismo che si attivava.
Etienne, stupefatto, fece qualche passo indietro e restò a guardare.
Parte degli scaffali della biblioteca scorsero in avanti e poi di lato, rivelando quella che sembrava essere una scala. Scendeva, notò Etienne, ed era buia. Era il caso di andare a prendere una lampada?
Provò ad affacciarsi nel cunicolo, incerto sul da farsi.
Trasalì.
Uno dopo l’altro s’accesero dei piccoli fari sul soffitto del cunicolo, illuminandolo a giorno.
Ormai non aveva scelta, ed era curioso di sapere dove conducesse la scala.
Scese, non senza un briciolo di paura all’idea di essere scoperto.
La scala, a chiocciola, sembrava non avere fine. Etienne capì di essere sceso ben oltre il piano terra quando le pareti attorno a lui iniziarono a farsi fredde e umide. Aveva il cuore in gola e contava i respiri, sempre più terrorizzato. Sua madre non gli aveva mai detto niente riguardo a una cantina segreta, e non riusciva a immaginare cosa vi avrebbe trovato. Magari niente, ma in quel caso perché tenergliene nascosta l’esistenza?
La scala ebbe fine all’improvviso, chiusa da una porta di metallo.
Etienne provò a spingere e constatò che non era chiusa a chiave. Si fece coraggio ed entrò.
L’ambiente, una stanza rettangolare non troppo grande e priva di aperture, non era illuminato. Etienne capì che era completamente rivestito dello stesso metallo della porta solo quando, pestandolo, ne sentì il clangore sotto i piedi.
Fece un passo, poi un altro, a tentoni.
Urtò contro lo spigolo di un mobile.
«Ahia!»
Non ebbe neppure il tempo di chiedersi che cos’avesse colpito. Udì un sonoro “bip” e si accesero tre monitor, proprio accanto a lui. Erano simili a quelli che erano all’interno del Nautilus, stando a ciò che Electra gli aveva spiegato della struttura del sottomarino. Provò a leggerne i dati, se non altro per capire a cosa servissero, ma non riuscì. Uno solo dava segni di vita, mostrava una specie di sbarretta che schizzava verso l’alto a intermittenza, ma interpretarne il significato era troppo per Etienne.
Era meglio che tornasse di sopra, sua madre poteva rientrare da un momento all’altro e in più non aveva ancora trovato le foto.
Proprio mentre si girava per andarsene, però, venne attratto da un armadio.
Stava addossato sul fondo più buio e lontano della cantina, visibile soltanto per via delle ante illuminate dagli schermi.
Oh, be’, già che c’era poteva dare uno sguardo anche lì. Magari avrebbe trovato qualcosa di interessante.
Quando aprì una delle ante, però, non si trovò davanti quello che si aspettava. Niente cianfrusaglie o vecchie carte, nessuna fotografia. C’erano pistole. Pistole e fucili. Una decina almeno, di vario calibro, e a vedersi erano così lucidi da dover essere stati puliti da poco.
Non osò chiedersi che cosa ci facessero degli oggetti simili in casa sua.
Non osò chiedersi se fossero di sua madre.
Magari no, magari erano stati di suo padre. O di Raoul, addirittura. E allora perché nasconderli?
Doveva tornare su, immediatamente. Far scorrere di nuovo la porta della libreria, tornare nella sua stanza e mettersi a fare i compiti.
Doveva.
Senza neppure pensarci prese una pistola in mano.
Era pesante.
Corse via, portandosela dietro, su per le scale come un forsennato. Non aveva neppure guardato se fosse carica.
Ansimando, chiuse dietro di sé il passaggio appena scoperto e osservò la pistola.
Sapeva cosa doveva fare.
 
 
«Omar!»
Era andato dritto verso casa del suo compagno di classe, nascondendo la pistola in un sacchetto, e ora stava aspettando una risposta.
«Omar!» lo chiamò di nuovo «Devo farti vedere una cosa, scendi!»
Il ragazzino s’affacciò poco dopo, scostando i tendaggi bianchi che sventolavano oltre una bifora ornata da colonne.
«Ma chi si vede, l’orfanello. Che vuoi? Fare a botte?»
«Scendi.»
Omar rise.
«Va bene, come vuoi.»
Era chiaro dal suo tono che stava prendendo Etienne in giro. Era più grande di lui, più alto, più forte. Contro un bimbo di neanche dieci anni non ci sarebbe stata storia. Per questo scese in cortile e poi oltre il cancello di casa sua, che affacciava su una piazzetta circondata da grandi case bianche e azzurre. Era un quartiere tranquillo, residenziale, non distante dalla loro scuola.
Non notò lo sguardo di Etienne, non notò la rabbia nei begli occhi blu.
Si trovò solo una pistola puntata contro.
Ammutolito, non riuscì a urlare né a muoversi.
«È vera», disse Etienne «e tu devi lasciarmi in pace o ti colpisco.»
Il vento smosse ancora le tende, nel perfetto silenzio che era calato.
Sul tetto di una bella casa in stile coloniale francese, un galletto segnavento cigolava.
 
 
Electra non riuscì mai di preciso a capire per merito di quale intuito andò dritta nello studio di Nemo prima ancora di passare dalla sua stanza.
Forse era stato per via di Raoul, che aveva chiamato Etienne e aveva ricevuto per sola risposta il silenzio. Electra doveva aver pensato in cuor suo che fosse andato là per nascondersi o per chissà che motivo e non avesse sentito. La stanza era la più lontana dall’ingresso.
Appena entrata, perfino nella penombra che filtrava dalle tende, capì che qualcosa non andava.
Si guardò intorno. Uno dei tappeti era stato smosso, qualche carta sulla scrivania di Nemo spostata. Etienne era di sicuro stato lì.
«Etí?»
Era chiaro che lì dentro non ci fosse anima viva, ma provò comunque a chiamarlo.
Che cosa poteva essere venuto a fare lì dentro?
Fu allora che notò la libreria, quella particolare zona della libreria, e s’accorse che era stata richiusa alla bell’e meglio.
«No…»
Corse di sotto, giù per la scala a chiocciola. Non era possibile, era ancora troppo piccolo. Non poteva essersi accorto di quella stanza. Chissà, magari era stato qualcun altro. Un ladro o simili. L’avrebbe preferito.
La prima cosa che vide furono i monitor ancora accesi. Uno solo di loro mostrava una reazione. S’avvicinò per leggere i dati. C’era stata una forte oscillazione nel livello di quella cosa. Lo strumento di rilevazione, ora calmo, aveva registrato anche la data e l’ora della variazione.
Non c’era possibilità d’errore. Etienne era stato là sotto.
Oh, si disse, se anche fosse, cosa potrebbe avere fatto? Non aveva idea di come funzionassero quegli strumenti, né di quale fosse il loro scopo.
Alzò gli occhi verso l’armadio. Le pistole!
Non ebbe neppure bisogno di contarle, s’accorse immediatamente che ne mancava una.
«Maledizione», mormorò.
Avrebbe dovuto stare più attenta.
Corse di nuovo nello studio, richiuse la libreria avendo cura di cambiare il codice d’accesso. Era uno scrupolo inutile, lo sapeva. Etienne, codice o non codice, sarebbe riuscito in ogni caso a forzare l’apertura e gliel’aveva dimostrato proprio quel pomeriggio.
Ora la cosa importante era andare a cercarlo.
Disse a Raoul di restare in casa, nel caso Etienne avesse desistito dai suoi intenti e fosse rientrato.
Una volta in strada si fermò, trasse un ciondolo dalla tasca della djellaba che indossava e ne aprì il coperchio. Dentro c’erano un ritratto di Nemo e una ciocca dei suoi capelli. Le venne da piangere, per la prima volta dopo molto tempo.
«Tuo figlio ha già dieci anni», sussurrò stringendo il ciondolo «Che cosa vuoi che io faccia?»
Doveva trovarlo, intanto.
 
 
Etienne puntava ancora la pistola.
Omar, terrorizzato, tremava. Una foglia nel vento caldo di quel giorno.
Su, in alto, il galletto segnavento cigolò e girò su se stesso.
«E ora lasciami in pace.»
Etienne sparò.
 
Electra udì lo sparo, sperò che non fosse troppo tardi.
Corse.
 
La canna della pistola fumava ancora.
Etienne inspirò a fondo e abbassò il braccio. Omar si era istintivamente gettato a terra e ancora tremava, ma era illeso. Poco distante, il galletto segnavento giaceva distrutto, centrato di netto dal colpo e poi caduto poco distante da loro.
«Ti lascio in pace», balbettò Omar «Puoi giurarci che ti lascio in pace.»
La gente, intanto, s’affacciava alle finestre.
Cos’è stato, chiedevano, sembrava uno sparo.
Etienne non pensò nemmeno a nascondere la pistola, non pensò ad andarsene, era troppo stordito per badare a quel che gli accadeva intorno. Omar trovò la forza di alzarsi, di correre in casa urlando. Avrebbe avvertito i suoi genitori, di sicuro. Avrebbero parlato.
«Etienne!»
La voce di sua madre.
Era salvo.
Forse…
Electra lo schiaffeggiò, tanto forte da fargli sbalzare la pistola di mano. Lo prese per un polso, raccolse la pistola, lo trascinò via.
«Andiamocene.»
 «Mamma…»
Lei non disse una parola. Corse solo verso casa, tenendolo per quel polso con una forza che Etienne non avrebbe mai creduto possibile.
Una volta al sicuro lo condusse in camera sua, incurante dello sguardo rammaricato di Raoul che era rimasto ad aspettarli.
«Sei un incosciente.»
Non urlò. Non urlava mai, Electra. S’arrabbiava in un modo silenzioso, furente, e quanto più era intenso il silenzio tanto più scavava in Etienne il peso della colpa.
Aveva già due lacrime agli angoli degli occhi e l’espressione spaurita, sconvolta.
«Non gli ho fatto del male», provò a giustificarsi «ho colpito il galletto segnavento, ho…»
«Lo so cos’hai colpito. Ma il tuo proiettile avrebbe comunque potuto far del male a qualcuno.»
«Te lo giuro non lo volevo uccidere.»
«Lo so. Ma questo non ti autorizza a rubare una pistola e a curiosare dove non dovresti.»
Etienne si mordeva il labbro inferiore, trattenendo le lacrime a stento.
«Scusami.»
«Resterai in camera tua fino a domani, per schiarirti le idee su quello che hai fatto. Poi vedremo quale sarà il tuo destino.»
Il bambino, con le spalle che tremavano, ebbe la forza di annuire.
Lo sguardo di Electra, mentre lo osservava, era gelido. Non mostrava segni di pietà.
 
 
«Fu dopo quell’avvenimento che mamma decise di ritirarmi da scuola. Col senno di poi ho capito che lei, in realtà, era quella più in pena di tutti. Tende sempre a nascondere quando soffre.»
 
 
La porta si chiuse alle spalle di lei, Etienne si trovò solo, spaesato perfino dentro quelle quattro mura che conosceva così bene. Solo allora pianse, dopo che si fu steso sul letto e raggomitolato dentro una coperta.
«Papà…» sussurrò.
Chiuse gli occhi, morse il cuscino per strozzare i singhiozzi in gola.
Era spaventato, nemmeno lui sapeva quale istinto l’avesse spinto a prendere quella pistola, cosa gli avesse guidato la mano, perché avesse deciso di sparare al galletto segnavento. Non voleva uccidere nessuno, era più che vero. Serrò le palpebre. Non voleva ripensare a quei momenti, né riviverli.
«Papà, dove sei?»
A lungo chiamò suo padre, fra le lacrime.
Sapeva che non gli avrebbe mai risposto, ma desiderava soltanto che fosse lì, che lo abbracciasse, che gli dicesse che andava tutto bene.
 
 
«Mamma ha dovuto farmi anche da padre, per ventisei anni. Non è stato facile.»
 
 
Mezz’ora dopo, sfinito dalle lacrime, Etienne crollò addormentato.
 
 
Il bambino, nemmeno dieci anni, si sveglia nel mezzo di un sogno e capisce di non essere solo.
Non ricorda di essersi addormentato, ma sa che stava piangendo.
Il vuoto di suo padre gli mangia il petto.
Riconosce le colonne, Tartesso, il palazzo.
Poco male, si dice, perché non è la prima volta che si sveglia lì.
«Chi sei?»
Sobbalza.
C’è una presenza, sì, ma è talmente simile a quella di Nadia che Etienne se ne accorge davvero solo quando è troppo tardi.
Capisce di aver commesso un errore madornale.
Poco prima di addormentarsi stava pensando a suo padre, Elusys, al desiderio di averlo accanto.
Ecco perché è a palazzo.
Per arrivargli il più vicino possibile.
Ma è la voce di un bambino quella che ha sentito.
«Chi sei?» chiede di nuovo.
Si gira.
Un bambino apparentemente di cinque o sei anni.
Capelli di un nero bluastro, come quelli di Nadia.
Occhi verdissimi, come quelli di Nadia.
E i lineamenti del viso, il tono di scuro della pelle.
Sa perfettamente chi sia quel bambino, che non sembra spaventato ma solo incuriosito dalla sua presenza.
«Come ti chiami? E che cosa fai qui?»
Etienne inghiotte a vuoto.
Il bambino è Vinusis, suo fratello.
Etienne si sforza di mantenere la calma.
«Mi chiamo…»
Ha un’esitazione. Vorrebbe in parte rivelargli il suo vero nome. Ma no. Non può.
«… Etienne», esala infine.
Vinusis sorride, non gli chiede cosa ci faccia lì. Non sembra nemmeno sorpreso, ma non è possibile che l’abbia riconosciuto. Etienne è certo di non essersi mai rivelato a Vinusis prima, anche se l’ha visto più volte da lontano.
Forse Vinusis non è sorpreso perché capisce che non si tratta di una reale minaccia.
Etienne sa bene come deve apparirgli: una figura azzurrognola, traslucida, poco più che un ologramma.
Se Vinusis tentasse di toccarlo, gli passerebbe attraverso.
È già tanto che riesca a vederlo.
Sua madre bambina, che Etienne ha incontrato diverse volte in quei sogni, non è mai riuscita a scorgerlo.
Neanche una volta.
Vinusis continua a sorridergli. Sembra un bambino dolce, benevolo. Somiglia molto alla madre, la regina Sana’a, così come la descrive Electra. Un sorriso gentile, lo sguardo pacato e limpido.
Somiglia a Nadia solo nell’aspetto, in effetti, e a quel pensiero Etienne quasi ride.
Poi Vinusis si volta, sentendo delle voci lungo il corridoio.
«Andiamo», dice «Sono mio padre e il primo ministro, Nemesis. È meglio che non ti vedano.»
Etienne trattiene il respiro. È la prima volta che sente la voce di suo padre.
Segue Vinusis, però. Ha ragione. È meglio che non lo vedano.
Il bambino lo conduce in camera sua, una bella stanza ampia dal soffitto a cassettoni con una balconata che affaccia sul cortile interno e un letto a baldacchino. Vinusis si siede, gli fa segno di accomodarsi accanto a lui.
«Da dove vieni? Non è qui il tuo corpo.»
Etienne non sa bene cosa rispondergli. Annuisce.
«Ogni tanto, quando mi addormento, sogno di trovarmi in posti diversi. Credo sia la prima volta che qualcuno riesce a vedermi. Non so perché mi succede. Però vengo dal Marocco.»
Questo può dirglielo.
«Forte!»
«È anche la prima volta che qualcuno riesce a vedermi.»
Ed era la prima volta che incontrava suo fratello.
Che parlava con suo fratello.
Tirò su col naso, poi sorrise.
«Riesci a fermarti? Già che sei qui, ti va di giocare?»
«Non riesco a toccare le cose.»
Vinusis sembrò sorpreso.
«Sicuro?»
Etienne annuisce.
«Pazienza, inventeremo qualcos’altro.»
Etienne non sa per quanto tempo riuscirà a rimanere. Non è qualcosa che controlla. Dipende da quand’è che si sveglierà nel mondo di là. Spera il più tardi possibile.
Giocano davvero.
Quasi tutto il pomeriggio, o almeno così sembra in quel palazzo di Tartesso.
A un certo punto sentono il pianto di un neonato, giù in cortile.
Etienne non riesce a trattenersi, si affaccia quel tanto che basta da vedere quel che sta succedendo.
C’è la piccola Nadia in braccio a sua madre. È bellissima, Sana’a.
A guardarla Etienne pensa che forse, se fosse stata ancora viva e lui fosse nato comunque, lei gli avrebbe voluto bene lo stesso. Sembra quel tipo di persona che riesce ad amare incondizionatamente.
Ma no.
Quella è sua madre, Medina.
Electra.
Lei ha amato sempre, e ama ancora, a dispetto di tutto.
A dispetto anche della morte.
C’è suo padre che si avvicina alle due, accarezza piano la bambina che piange.
Etienne, col cuore in gola, trattiene le lacrime.
Non gli manca Elusys in senso stretto, perché non l’ha mai conosciuto.
Eppure, da che ha memoria, l’ha sempre cercato.
Il vuoto della sua assenza è incolmabile.
Invidia un po’ Nadia, in quel momento, perché lei, almeno, l’ha incontrato.
Guarda la sorella e sorride. Le vuole bene, le ha sempre voluto bene.
Percepisce che si sta svegliando, appena prima che le lacrime scendano.
Sorride a Vinusis.
«Devo andare.»
Il fratello lo osserva, sembra che stia per dire qualcosa, poi si blocca.
«Torni?» chiede.
«Non so.»
C’è un’ultima cosa che Etienne deve domandare.
«Per favore, non dire che mi hai visto. A tuo padre soprattutto.»
 
 
Le cose iniziarono a cambiare dopo quella settimana. La gente parlò a lungo dell’incidente. Etienne tornò a scuola solo per essere guardato in modo strano, additato da lontano come quello la cui madre, che non aveva un marito, nascondeva in casa chissà quante armi.
Etienne non si scusò per quanto aveva fatto, cosa che rafforzò la sua fama di ragazzino intelligente ma difficile, cresciuto senza un padre che lo mettesse in riga.
A Electra non importava ciò che dicevano di lei, ma temeva che la situazione diventasse troppo pesante per Etienne. Del resto, non doveva farne una colpa a suo figlio. Era lei, se mai, a doversi prendere delle responsabilità. Etienne si era comportato molto male, ma era Electra ad aver tentato di farlo vivere come un bambino normale quando, be’, non era un bambino normale.
Lei avrebbe dovuto saperlo.
Era stata un’ingenua, invece. Aveva sperato che lui si facesse degli amici, che vivesse una vita come tutti gli altri. Si stava rivelando impossibile. Etienne aveva ereditato il sangue di Atlantide dal padre. Aveva la capacità di sognare il passato, e già questo era spaventoso abbastanza. Etienne non conosceva quei suoi poteri e ne era spaventato, questo Electra lo capiva bene e sapeva il cielo se avrebbe avuto bisogno di Elusys accanto. Lui avrebbe saputo cosa fare. Avrebbe saputo guidare il figlio attraverso se stesso. Lei, invece, da umana non poteva fare tanto. Però, si disse, Elusys era morto con la certezza di aver lasciato il suo bambino nelle mani più sicure possibili.
Elusys aveva guidato lei. Le aveva insegnato ogni cosa.
Lei era un essere umano, ma era la persona che conosceva Atlantide meglio di tutti.
In quel momento, seduta nel cortile interno della loro palazzina, decise.
«Raoul», disse «vai a chiamarmi Etienne.»
Raoul, con cui aveva parlato a lungo dei suoi dubbi, concordava che fosse l’unica cosa da fare.
 
Era una giornata limpidissima, soleggiata, il vento spazzava la costa come se avesse voluto tirarla a lucido. Electra aveva portato Etienne in una spiaggetta nascosta poco fuori Tangeri.
Non aveva detto nulla a Etienne riguardo alle sue intenzioni, c’era una cosa di cui doveva prima accertarsi.
«Tieni», gli disse, e gli mise in mano la stessa pistola con cui aveva sparato quel giorno.
Etienne sgranò gli occhi.
«Cosa…»
Osservò Electra, che prese una bottiglia da una borsa che aveva con sé e la sistemò a qualche metro di distanza.
«Dovrai provare a colpire queste. Te le metterò a diverse distanze.»
«Perché?»
«Hai rischiato di fare del male a un ragazzo, se proprio vuoi sparare sarà meglio che impari a farlo.»
«Ma io non…»
«Silenzio.»
Etienne sospirò. Se sua madre aveva deciso così, c’era poco da fare. Era meglio che si desse da fare. Impugnò la pistola ed Electra gli corresse la presa.
«Non stringere il calcio così forte. Devi essere saldo ma rilassato.»
Etienne cercò il bersaglio con gli occhi, mirò, premette il grilletto.
Il colpo andò a vuoto, anche se per poco.
«Dai a me», disse Electra «e guarda bene come faccio, soprattutto la postura del corpo.»
Fece tre centri, uno dopo l’altro.
Etienne, di nuovo, restò senza parole. Che cosa…
«Ho dovuto imparare», disse Electra «per sopravvivere.»
«Sopravvivere?»
«Tuo padre, Etienne, era il re di Tartesso e un biologo marino. Questo lo sai. Ciò che non sai è che il Nautilus non era un sottomarino nato per studiare i fondali oceanici. Non soltanto, almeno.»
Etienne ricordò le esplosioni. Qualcosa che, di tanto in tanto, gli attraversava i sogni.
«Il Nautilus era un mezzo nato per dare la caccia ai Garfish, le unità sottomarine nemiche. Ti racconterò tutto tra poco, te lo prometto. Ora però spara a quelle bottiglie.»
Etienne annuì.
Bang!
Era la prima volta nella sua vita che si sentiva così.
Bang!
Elettrizzato, felice. Forse, finalmente, i quesiti che si portava dentro da quando era nato avrebbero trovato risposta. I suoi sogni, quegli sprazzi di urla e dolore che udiva nel sonno così distintamente, Nadia che piangeva e gettava una pietra azzurra giù dal ponte del Nautilus durante una tempesta…
Immagini, frazioni di secondo.
Bang!
Centrò quasi tutte le bottiglie.
Electra pareva soddisfatta. Era bella, vestita di bianco e coi capelli biondi e lunghi che sferzavano il vento.
«Bene. Pare che tu abbia ereditato la mia mira.»
Etienne la guardò, con gli occhi blu spalancati.
«Per questo ci sono tutte quelle armi in cantina?»
Electra, per la prima volta dopo tanti giorni, rise. Sedette su una roccia che affiorava dalla sabbia e invitò Etienne a sederle in grembo. Lo strinse forte.
«Così mi soffochi.»
Continuò a ridere, Electra, e gli baciò i capelli scuri. Il suo bambino. Il suo adorato bambino. Lo abbracciava e, per la prima volta da tempo, si sentiva felice. Forse non sarebbe stato semplice ma ormai era certa che, qualsiasi cosa fosse accaduta, lei ed Etienne insieme ce l’avrebbero fatta.
Avrebbe protetto sempre il suo piccolino, che amava più di se stessa.
«Sai, Etienne», cominciò «tu sei un figlio di Atlantide. E io sono qui per rispondere alle tue domande. Tutte quelle che vorrai.»
 
 
«Mi raccontò tutto. Cos’era Atlantide, da dove venivano gli uomini, la guerra contro Gargoyle. Mi raccontò cose che avevo visto nei sogni, di Nadia, di te. Poi mi insegnò la storia, la scienza, integrò tutto quello che già conoscevo. Io assorbii tutto, senza limiti, divorai il sapere come si divora un pasto succulento. Era ciò che avevo sempre conosciuto in cuor mio e che non riuscivo a spiegarmi, era la mia stessa natura. Poiché ero un principe di Tartesso, trascorse i mesi e gli anni successivi a educarmi come tale. Prima che le mie domande, quesiti di cui intuivo la risposta ma non conoscevo la ragione, divorassero me. Lei, che aveva tentato con tutte le sue forze di garantirmi una vita normale, da ragazzo umano, fece tutto questo dopo aver capito che io non ero né sarei mai stato un normale ragazzo umano. Sarei stato condannato alla follia, altrimenti, tormentato dalle domande e dalla rabbia di non avere risposte certe e dall’impossibilità di ottenerle né di sapere chi ero.»
Etienne, in piedi contro la balaustra in rovina, li osserva entrambi.
Luccicano d’affetto, i begli occhi blu, e di determinazione.
«Così, invece, mi trovo esattamente nel luogo in cui devo essere e sono pronto a fare quel che va fatto.»
Lei è in lacrime, gli si avvicina, lo stringe.
«Perché?»
Lui non vacilla, sorride.
«Vi amo.»
 
 
 
 
- continua -
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra / Vai alla pagina dell'autore: Vitani