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Autore: _aivy_demi_    09/11/2019    41 recensioni
Una ragazza sbadata, disordinata e senza alcun pelo sulla lingua.
Un ragazzo famoso, allontanatosi dalla propria città in cerca di qualcosa.
Si incontrano, si detestano fin da subito.
Una simpatica commedia romantica het piena di malintesi, incontri fortuiti (e non), umorismo e una punta di ironia che non guasta mai.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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12 -  It’s better that you go



«Cazzo, non ricordo dove l’ho messo.» Åsli cercava il posacenere con noncuranza passando nervosamente da una parte all’altra della stanza, optando per uscire dal retro e lanciare il mozzicone consumato che stringeva ancora tra le dita; Raon lo seguì stringendosi nella felpa ed alzando il cappuccio sulla testa a coprire le orecchie, mentre il ragazzo se ne stava a suo agio con la maglietta leggera a scoprire la pelle chiara ed il fisico leggermente definito. Lei cercava di distogliere lo sguardo e concentrarsi su qualsiasi cosa ma dopo ciò che era appena successo non era in grado di pensare ad altro: non capiva il motivo, non ne usciva. Perché quella sera? Perché in uno stato simile? Forse appunto per colpa dell’ebbrezza data dall’alcool.
«Ne vuoi una?» La domanda di rito la risvegliò dal mondo in cui s’era chiusa da un paio di minuti, richiamata al presente con una semplicità tale da spiazzarla.
«No, grazie, non fumo. Odio quella robaccia. E poi scusa, non canti tu?»
«Certo, e questo che vorrebbe dire?»
«Non ti rovinano la voce queste schifezze?»
«Anche se fosse? Che me ne frega.»
«Guarda che lo dicevo per te, sai? Razza di…»
«Cretino? Stupido? Alcolizzato?»
«Perché no?» Raon si appoggiò al parapetto che dall’esterno dava al giardino posteriore della piccola abitazione. Si strinse maggiormente nella maglia felpata che stava indossando, nel tentativo di ritrovare un minimo di calore in più; l’ora tarda non aiutava certo con la temperatura sempre più bassa.
Åsli sparì un attimo all’interno per poi tornare con una coperta di pile stretta sotto al braccio. Senza aggiungere nulla la poggiò sulle sue spalle per poi tornare alla bellezza anonima di quella piccola città ricoperta dal velo scuro della nottata.
Lei arrossì d’impulso sussurrando un semplice grazie a fior di labbra.
«Guarda che non mi sembra faccia tanto freddo, sei troppo delicata. Arrossire così per un po’ d’aria, mah.»
Aria, certo. Il freddo ad arrossarle le guance, perché no… poteva essere una motivazione valida, certo la più semplice da gestire a livello emotivo.
Meglio glissare sulla faccenda. Meglio, decisamente, perché l’umore di Raon si stava destabilizzando nuovamente minuto dopo minuto, e la cosa non le stava piacendo affatto. «Allora, ancora non mi hai detto cosa sia successo di tanto brutto.»
La guardò con aria contrariata sbuffando sonoramente. Il suo atteggiamento non era affatto migliorato, anzi. «Non riesci proprio a stare zitta per più di un paio di minuti?»
«Ringrazia che sia venuta qui e che non abbia silenziato il telefono.» Acida, tanto acida, tanto da sentire pizzicare la lingua in bocca. «Spara.»
«Potrebbe volerci un po’.»
La risata di Raon attirò l’attenzione di un cane che cominciò ad abbaiare furioso interrompendo di fatto il silenzio tra le abitazioni. Un’imprecazione proveniente dall’altro lato della strada la fece ridere di nuovo. «Non sono più una bambina, guarda che non ho il coprifuoco.»
«Mah, sembrava, da come ti eri comportata l’altra volta.»
L’aveva zittita di nuovo e l’aveva pure vista avvampare. Un motivo futile, una scusa, sufficiente a sviare l’attenzione dal rimescolamento di stomaco di lei. Åsli aspirò dal filtro dell’ennesima sigaretta della sera, trattenendo il fumo a lungo sentendolo espandersi acre nel petto. Avrebbe potuto impiegarci un minuto come mezza nottata, una volta cominciato, ma poco importava: ormai s’era avviato nella parte più spinosa della conversazione. «Kisha. È sempre stata colpa sua. Quando Josh, quello stronzo, è passato di qui per una bevuta, mi ha costretto a parlare con lei.» Quasi si soffocò con l’ennesimo tiro dalla paglia, lacrimando forse per la tosse, forse no. La scaraventò ancora accesa senza curarsi di controllare dove sarebbe atterrata. «Continuavo a sentirla nelle orecchie, e ancora adesso è così. Non riesco a levarmela dalla testa, cazzo, anche se sono stato io a decidere di andarmene. Per quanto questa casa possa essere bella, calda, ariosa, non sarà mai come vivere ancora con qualcuno.» Battè rumorosamente i palmi sul parapetto scaricando parte della rabbia accumulata, fomentata dal liquore ingerito e dall’instabilità che alternava il cinismo alla palese sofferenza.
«Ecco, lo immaginavo: ti senti sol-»
«Ti ho detto di non interrompermi, ma è più forte di te. Lo sapevo.» Non tentava nemmeno di velare l’aria spazientita. «Però hai ragione, una ragione fottuta. Mi sento solo, e tanto da fare schifo. Mi sento solo tanto da essere tentato di tornare indietro e riprendere come niente fosse.»
Tornare indietro: due parole che erano entrate prepotenti nella testa di Raon scatenando una reazione di fastidio: la rabbia stava montando, quella stessa rabbia che stava cercando invano di trattenere dal momento in cui s’era resa conto di non essere particolarmente gradita. La voleva lì, la chiamava, l’aveva pure baciata, per poi tornare ad essere il solito irritante deficiente che giocava a fare il bambino, questo sentiva lei addosso e dentro. Doveva parlare, doveva dire quello che pensava veramente, ne andava della sanità del suo stomaco grazie alla bile venefica che s’era accumulata.
Parlare o esplodere, meglio la prima.
«Aspetta, aspetta un attimo. Allora, prima che ti pigli a schiaffi, chiariscimi bene la faccenda che magari ho capito male io. Hai mollato tutto, hai preso le tue cose e te ne sei andato convinto, e adesso te ne esci con una cosa del genere del tipo chi se ne frega? Sei serio?» Un tono acuto, stridulo. Non ci stava ancora capendo molto, ma aver a che fare con un rinunciatario le aveva sempre dato fastidio; aveva a che fare con un doppio rinunciatario, ed era ancora peggio. «Credi di poter tornare lì con il tuo borsone pieno di niente?»
Åsli la guardò con un’espressione a metà tra lo stupore e la stanchezza che stava avanzando di pari passo con l’irritazione data da certe espressioni chiare, gettate in faccia con una certa leggerezza: Raon non smetteva mai di stupirlo, non sempre in positivo, non s’aspettava certo un trattamento simile proprio in quello stato d’animo. Carezze o parole dolci non rientravano nel suo stile, ma un ipotetico calcio alle costole come quello che lei gli assestava continuamente non se l’aspettava. Erano lì, qualcosa era successo, accantonato subito come se avesse avuto minima importanza. Ne aveva? Poca o molta non era la questione fondamentale; lei voleva saperne di più, voleva conoscere tutto chissà per quale desiderio sadico di vederlo rivangare il passato, ma forse una simile strigliata pure se la meritava. Inspirò cercando di fare mente locale in quei neuroni annebbiati e confusi, cercando di rimettere insieme un discorso che s’era creato e ricreato centinaia di volte in quegli ultimi giorni.
«Kisha era la ragazza di mio fratello. L’ho conosciuta durante uno dei set fotografici di Erik. Lei era lì, bellissima, provocante. Era fuoco puro, non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso in nessuna maniera.» Prese una breve pausa ingoiando a forza un lieve nodo alla gola; le nocche erano bianche, tanto forte le dita si stringevano tra loro. Sospirò spostando gli occhi al cielo e si perse ad osservare le stelle che a sprazzi brillavano in quel cielo nero blu variabile: piccoli gioielli incastonati, brillanti, lontani. «Una voce particolare, unica, credimi. Canta, lo sai?»
Cosa poteva saperne lei? Stava scoprendo cosa stesse marcendo all’interno del ragazzo, un poco alla volta, ma qualcosa stava macinando all’interno della tua testa; quelle parole rivolte a quella figura che stava ancora perseguitando Åsli nei ricordi erano intrise di malinconia, e stavano in qualche modo ledendo Raon. Impossibile ancora capire se dentro al cuore o vicino al fegato, ma il fastidio era palese: il broncio dipinto inconsapevolmente sul suo viso parlava chiaro.
«Ha cominciato a seguire Erik alle prove della mia band, fino a diventare un’abitudine comune. Spesso si univa a noi durante le cover, finché non ha cominciato a venire da sola. Mi sono fatto coraggio, spinto non so ancora da che cazzo di motivo, e le ho chiesto di uscire.»
Silenzio.
Silenzio prolungato, silenzio che non ne voleva sapere di interrompersi in nessuna maniera. Innaturale, irritante, insoddisfacente. Raon tentò di spezzarlo per riuscire a scappare da quell’improvviso imbarazzo che continuava a tormentarla. «Tutto qui? E poi?» Curiosa, affamata di nuove informazioni, in bilico tra il voler sapere tutto e il non voler conoscere nulla di più; le dava fastidio sentir pronunciare il nome di Kisha, non c’era nulla da fare. Gli occhi di lui si tinsero di rosso, le pupille liquide s’erano dilatate nel tentativo di mettere a fuoco l’immagine della ragazza in quel buio spezzato dalla luce dei lampioni nel viale.
«Poi ci sono andato a letto.»


Un gran bel pezzo di bastardo.
Questo fu il primo pensiero di Raon a quella rivelazione: ecco perché tergiversava, ecco perché aveva preso il racconto tanto alla larga e nel modo più distante possibile. Digrignò i denti per il fastidio e la fatica nel trattenere le parole che violente volevano uscire dalle labbra.
Finché non scoppiò. «Ti sei permesso di fotterti la ragazza di tuo fratello e hai pure il coraggio di sentirti dalla parte della ragione? Cristo santo, che schifo. E io credevo fossi migliore di così. Odio queste cose, odio chi fa così, e soprattutto…» tratteneva a stento le lacrime di rabbia che stavano gridando dentro di lei per poter uscire, «odio chi tradisce i familiari.»
Lo aveva zittito con gli occhi bagnati, non con le parole.
Åsli non riusciva a guardarla, stava cercando un modo di evadere da quelle sensazioni così dirette e fisiche osservando un punto fisso, casuale: stava scappando di nuovo dal passato che era tornato ancora una volta a ferirlo, e dal volto complesso e contrariato di una ragazza.
Raon non sopportava quello stesso silenzio che aveva ricreato, ne era spaventata; credeva fermamente potesse nascondere un significato intrinseco.
Esattamente com’era solita fare la madre con lei.
Il disagio si impossessò delle sue mani umide: tremavano dell’impulso di prendere a schiaffi quel volto sofferente, risvegliare in qualche modo la mente ebbra e far ragionare i neuroni malsani e colpevoli dell’altro. Le prudevano le dita di desiderio, il desiderio di colpire il volto pallido e contratto. Si fermò respirando a fondo.
No, non avrebbe perso il controllo, non lei. Non quella sera.
Un sussurro la richiamò al presente ed alla realtà.
«Più volte ho pensato di andarmene.» Uno sbuffo verso la notte, un’altra interruzione dell’innaturale assenza di suoni. Il ragazzo rovistò frenetico alla ricerca dell’ennesima paglia da consumare avidamente, ma fu bloccato da Raon che gli strappò letteralmente di mano il pacchetto infilandoselo in tasca; gli fece cenno di continuare con un gesto rapido della mano fingendo disinteresse. In realtà una parte di lei – abbondante, morbosa – avvertiva il bisogno di continuare, perfettamente in contrasto con la razionale ragazza che era cresciuta a pane e disinteresse familiare da parte di chi s’era accollato il titolo di „mamma“ solo per il semplice fatto d’averla messa al mondo. Quella porzione più piccola ma più forte insisteva sul rammentarle la direzione della porta, cercando di darle una via d’uscita da quelle scemenze, dalle rivelazioni scomode e da quel bacio rifilato con fame e bisogno, agli occhi sperduti in cerca di sostegno che lei non era neppure certa di riuscire a dare.
«Allora?» Aveva optato per restare, sperando di non pentirsene poi.
Lui la guardò amaramente un’ultima volta prima di afferrarle il polso trascinandola in casa: nel volto di Åsli il bisogno di dimenticare, la fatica di rivelare un ultimo, fondamentale dettaglio. Quello più doloroso, quello che non lo lasciava mai in pace.
«Si è fatto tardi, ti accompagno alla porta.» Il bipolarismo alcolico di cui lui era capace era una novità, e non sapeva come gestirla.
«No, aspetta, ehi… ehi aspetta un attimo, cosa stavi per dire prima?»
«Ciao Raon, ci sentiamo domani. Te lo chiedo per favore, vai e fa attenzione.»
No, non ci stava.
Non dopo quello che era accaduto, non dopo ciò che aveva scoperto. Era contrariata, tremendamente incazzata, confusa, ma voleva sapere, sapere ancora. «Non me ne vado.»
«Fino a prova contraria questa è casa mia, e tu sei solo un’ospite. Buonanotte.»
Le sorrise. Uno dei sorrisi più amari mai visti in vita sua.
Raon decise in quel momento di smettere di insistere: lui era uno stronzo, certo, aveva avuto a che fare con la ragazza di suo fratello per poi lasciarla assieme agli impegni lavorativi , scappando in un’altra città. Non contento aveva pure ripreso lei direttamente più e più volte, sarcastico e indelicato su più fronti. Allora perché non riusciva ad abbassare quella benedetta maniglia? Un gesto semplice, stupidissimo, elementare.
Non era stata in grado di farlo.
Åsli lo fece per lei. Le sfiorò il volto con le dita mostrandole una smorfia dolceamara fissandola intensamente. L’altra mano spalancò rapida la porta alle loro spalle costringendola ad uscire.
Lei battè più volte il pugno sulla superficie dura, chiamandolo ad alta voce: nessuna risposta, nessuna reazione.
Un ultimo „per favore“ sussurrato al legno freddo, prima di incamminarsi verso casa infervorata ed affranta allo stesso tempo.
Il ragazzo si maledì d’averla trattata così, d’averla spinta fuori malamente, senza volerla allontanare davvero: ricordava ancora con famelica pretesa di possessione il calore della sua bocca e la stretta spasmodica delle sue dita sottili tra i capelli. Ricordava chiaramente, e con rammarico poggiò la testa contro quella stessa barriera che aveva posto tra loro.
Come avrebbe potuto dirle della gravidanza di Kisha, dopo le sue parole?








Note dell’autrice. (Sono tornata… sono tornata? Davvero?! Sì!)
Eccomi qui, prima pubblicazione post Writober – mannaggia, ci ho impiegato quasi 10 giorni a ripigliarmi da quell’iniziativa infernale. E come riprendere, se non direttamente da Singing? Ferma da due mesi, m’era dispiaciuto, e parecchio pure. Oltretutto voi forse non sapete, ma Raon e Åsli si sono incontrati davvero a ottobre, e tutto questo mi ha dato una carica ed un’ispirazione tale che non potete neppure immaginare! Una gioia enorme, che condivido con voi dedicando questo capitolo al loro incontro nella real life.
Approfitto di ringraziare la mia patata compagna di scleri Bloody Wolf, a cui finalmente ho chiesto di creare la grafica per questa storia: tesoro, è davvero bellissima, sono loro! Ti ringrazio di nuovo, come ringrazio anche voi tutti lettori e lettrici che passate, leggete, recensite e dite la vostra. Siete la mia benzina, siete la bistecca di maiale nel mio piatto, la coperta di pile del mio novembre freddoloso: insomma, per chi mi conosce ha compreso che rappresentate davvero tanto, tantissimo per me e le mie storie.
Alla prossima cari, buona vita, buoni sorrisi e buona ispirazione!
-Stefy-


 
   
 
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