Deo
Juvante
1297.
«Ci
sono dei monaci alle porte, mio Signore.»
Diamante
tenne gli occhi a terra e rimase vicina al camino. Strinse le mani
sulla
tunica, cercando di scaldarle. Inutile. Era un gennaio troppo freddo.
«Monaci?»
«Francescani,
mio Signore.»
Lei
sollevò appena lo sguardo, giusto il tempo di cogliere
l’espressione annoiata
del suo Signore, inviato da Genova.
Vide
il tramonto dall’apertura, il rosso che scivolava lento sul
giaciglio.
«Chiedono
un riparo per la notte» aggiunse l’uomo.
Stavolta
Diamante lo guardò davvero: il suo Signore alto e grasso,
investito di un feudo
che in realtà apparteneva alla Repubblica. Non riusciva a
immaginarlo stringere
un ramoscello d’ulivo. Figuriamoci una donna.
«E
sia.» Agitò una mano nell’aria, poi si
avvicinò a lei. «Aprite le porte.
Lasciateli entrare.»
Poi
le sollevò il viso con le mani. Diamante cercò di
nascondere il ribrezzo.
«Vai
anche tu, Mante. Sarai i miei occhi nel castello. Poi torna a
riferire.» Le
accarezzò languidamente la guancia, tanto che Diamante
dovette stringere i
denti per non urlare.
«Non
metterci troppo.»
Lei
uscì in fretta, coprendosi la bocca con le mani.
«Mante»
la chiamò qualcuno nel corridoio buio. «Stai
bene?»
«Sì»
rispose, non riuscendo a riconoscere la voce.
Poi
vide un’altra serva del castello venirle incontro. Era Ricca.
«Dovresti
tornare a casa. Se rimani, prima o poi…»
«Lo
so.»
Era
dal suo arrivo che sentiva quelle parole. Da quando aveva sanguinato la
prima
volta e suo padre l’aveva mandata a servire alla Rocca.
«E
allora tornaci, bambina.»
«Non
è sicuro come qui, Ricca.» Abbassò la
voce. «Questa fortezza ha mura alte, invalicabili.
Mentre a casa…»
Ricca
le prese le mani. «Temi che possa accadere
qualcosa?»
Lei
si guardò in giro prima di rispondere.
«Sì.»
«Anche
i tuoi genitori hanno coltivato la terra della Turbia?»
Diamante
annuì. Non avrebbe dovuto parlarne, non lì. Ma
era così tanto che mancava da
casa…
«Non
vogliono pagare?»
Tributi
e imposte. Genova e la Turbia. Ma come diceva suo padre: loro erano
sudditi di
Genova. Non era giusto pagare i Signori della Turbia.
Abbassò
gli occhi, e dovette essere una risposta sufficiente per Ricca,
perché le
lasciò le mani.
«Ora
va’, bambina. Cosa ti ha chiesto di fare?»
Scrollò
le spalle. «Sono arrivati dei francescani. Devo solo
osservare e riferire.»
Ricca
le parlò all’orecchio. «Cerca di
metterci del tempo. Io corro a riempirgli il boccale.»
«Dormirà?»
«Sai
quanto ami il vino… Resta lontana per un po’, e
quando tornerai non ti darà
nessun fastidio.»
Diamante
si allungò a darle un bacio sulla guancia.
«Grazie.»
Poi
si allontanò. Raggiunse le scale e si godette la vista del
sole che moriva sul
mare. Monaco aveva una tinta purpurea, quasi violenta, tanto che
dovette
distogliere lo sguardo.
Arrivò
all’entrata nello stesso istante in cui le porte venivano
aperte.
Guardò
i monaci entrare scortati da due guardie, poi notò un
rosario a terra.
Lo
raccolse e sfiorò la spalla di chi l’aveva perso,
facendolo voltare.
«È
caduto.»
Le
sembrava così strano che un monaco potesse perderlo! Come un
sacrilegio. Ma
forse per loro era diverso. Forse loro non avevano bisogno di chiedere
perdono.
Il
francescano sembrò sorridere sotto la folta barba.
Diamante
sentì il rossore salirle fino alle orecchie quando
incontrò i suoi occhi.
L’ombra
del saio non riusciva a spegnere quel fuoco che vi leggeva dentro. Mai,
senza
quell’abito, avrebbe detto che era un monaco.
«Grazie.»
Lei
chinò la testa.
Lui
fece per andarsene, poi si voltò ancora. «Il tuo
nome?»
«Mante.»
Li
guardò allontanarsi, poi decise di seguire il consiglio di
Ricca. Tenersi
lontana dal suo Signore non sarebbe stato un problema, se fosse
riuscita a
evitare le guardie.
Vagò
per i corridoi, nascondendosi nell’ombra ogni volta che
passava qualche membro
della guarnigione.
Stava
camminando verso le cucine quando sentì un rumore. Come di
un uovo che cadeva a
terra, ma molto più forte.
Tanto
da farle battere il cuore.
Riconobbe
delle voci, l’accento genovese del suo Signore.
Scivolò
lungo il muro, restando nel buio. Trattenne il respiro quando si
affacciò a un
altro corridoio.
Vide
i monaci in piedi, intenti a parlottare tra loro.
«I
Del Carretto ci sosterranno?»
«Aurelia
pensa di sì.»
Vide
qualcosa scintillare alla luce delle torce, ma non riuscì a
capire cosa fosse.
Poi
vide le guardie. A terra, in una pozza di sangue.
Si
coprì la bocca con le mani per trattenere un grido.
Aderì
al muro con la schiena, temendo che potessero udire il suo cuore
battere
all’impazzata.
L’avrebbero
uccisa. Avrebbero ucciso tutti, nel castello. Lo sapeva.
Doveva
avvertirli, correre ad avvisare la guarnigione, dire a Ricca di
scappare. Anche
lei sarebbe dovuta fuggire.
Ma
le gambe non rispondevano ai suoi comandi. Era paralizzata
lì, con la paura che
la teneva inchiodata alla parete.
Ora
non aveva più freddo. Sentiva l’odore acre del
sudore attraverso i vestiti.
Il
suono dell’acciaio che accarezzava la pietra
riuscì a ridestarla. Diede
un’altra occhiata, incapace di evitarlo.
«Ti
chiameranno Malizia per questo, lo sai?»
Il
monaco che aveva perso il rosario abbassò il cappuccio
ridendo.
Diamante
vide le spade scivolare di nuovo sotto al saio, e notò gli
stivali da cavalieri.
Quelli
non erano francescani. Che fossero inviati dai Signori della Turbia?
Che stesse
scoppiando una guerra?
E
se davvero erano loro uomini, le case dei contadini erano
già state attaccate?
E quelle dei pescatori di Monaco?
Aveva
il terrore che fosse accaduto qualcosa ai suoi genitori. E il pensiero
di
morire lì, così lontano da casa, la stava
uccidendo.
«Pensiamo
ai bastioni, adesso?»
«No,
Ranieri» rispose Malizia. «Prima la guarnigione. E
che qualcuno vada alla
postierla.»
«Vuoi
farli entrare adesso?»
«Con
il buio. A che servono uomini armati nascosti nei boschi?»
«Ci
hanno raggiunti da Genova…»
«Appunto.
Avranno bisogno di un motivo per aver camminato tanto a
lungo.»
«Una
nuova casa non è sufficiente?» ribatté
Ranieri.
Diamante
sentì la testa scoppiare. Non capiva. Non capiva proprio
niente. Cercò di
muoversi lungo il muro, senza perdere il contatto con la pietra fredda
della
fortezza.
Avrebbe
voluto correre, ma non era sicura di riuscirci. E loro avrebbero potuto
sentirla… avrebbero potuto ucciderla.
Si
mosse piano, nell’oscurità, cercando di non
vomitare.
Adesso
sì che avrebbe desiderato incontrare una guardia. Una
qualunque, che potesse
correre ad avvertire il castello.
Ma
se quello che avevano detto era vero, aveva ancora tempo.
Se
davvero era loro intenzione aspettare la notte, c’era ancora
speranza.
Vide
l’entrata da lontano, la luce rossa che si stava pian piano
spegnendo.
Per
un istante che le parve lunghissimo, ebbe la tentazione di fuggire.
Cosa
importava del castello e dei suoi abitanti? Cosa importava delle
guardie se in
cambio avrebbe avuto salva la vita…
Fece
alcuni passi lungo il corridoio.
Prese
dei lunghi respiri.
Si
sentiva come un topo braccato dai gatti.
Poi,
l’immagine di casa le riempì la visuale.
Immaginò il pagliericcio, l’odore del
fieno e degli animali. Si accarezzò un braccio, pensando
alla coperta ruvida che
sua madre aveva cucito per lei.
Bastò
quello. Il suo sorriso. La sua mano calda che le accarezzava i capelli.
Il
corridoio era lungo, ma la salvezza era proprio lì in fondo.
Camminò
più in fretta, seguendo il ritmo forsennato del suo cuore.
Raddrizzò le spalle concentrandosi
sull’immagine dell’erba bagnata dalla rugiada e
sull’odore della terra.
Non
sentì pizzicare le narici, e forse fu questo a farla
rallentare. Forse il fatto
di vedere nero, marrone e rosso invece dell’azzurro del
cielo, del verde dei
campi.
Sollevò
la veste e cominciò a correre.
Se
l’immagine fosse svanita dalla sua mente, si sarebbe fermata,
lo sapeva.
Allora
addio a casa, ai campi e ai suoi genitori. Addio alla schiuma del mare
e ai
suoi animali.
«Mante!»
Sentì
piccole scariche attraversarle le gambe. Non rallentò.
«Mante,
fermati!»
Fu
una guardia a intercettarla, afferrandola per le braccia e facendola
voltare.
Vide
un cavaliere della guarnigione camminarle incontro. Lo conosceva:
affiancava
spesso il suo Signore. E a volte era lui a dirle cosa fare.
Cercò
di urlare, di chiedergli di lasciarla fuggire via, di prepararsi a
combattere.
Nessun
suono lasciò le sue labbra.
In
fondo al corridoio, armati solo di un rosario, c’erano i
monaci.
«Mante,
dove stavi andando? Non dovresti tornare nelle sue
stanze?» chiese il
cavaliere.
Lei
sgranò gli occhi dal terrore. Salire in cima alla fortezza
era un suicidio.
Presto sarebbero morti tutti. Tutti.
Guardò
alle sue spalle, l’uscita che avrebbe già dovuto
varcare. La salvezza.
«Fatemi
prendere un po’ d’aria, vi prego.»
«Quando
avrai finito i tuoi doveri. Se non sarà già
calato il buio.»
Avrebbe
dovuto dirgli di estrarre la spada, di dare l’allarme.
Avrebbe dovuto fare
tante cose, ma gli occhi del monaco si inchiodarono ai suoi e lei non
riuscì
più a dire nulla.
Lo
sapeva. Sapeva che stava per tradirlo, per tradirli tutti.
L’avrebbe uccisa per
prima se avesse parlato.
«Posso
accompagnarla io fuori» disse Malizia.
Lei
si accasciò al suolo, pregando il cavaliere con uno sguardo.
Dite
di no, vi scongiuro. Rifiutate. Mi ucciderà. Mi
ucciderà non appena saremo
fuori. Io lo so.
Il
cavaliere sospirò. «Fate presto.» Poi si
voltò e sparì nell’oscurità
del
corridoio.
Diamante
vide la sua ultima speranza svanire con lui.
Il
monaco la aiutò a rimettersi in piedi e le fece segno di
seguirlo.
Lei
obbedì. Che altra scelta aveva?
Era
così che si sentivano i condannati a morte?
Malizia
aveva una spada, Diamante solo la sua voce.
«Dimmi,
Mante» le chiese lui, quando furono all’aperto.
L’aria gelida la avvolse come
uno scudo. «Conosci bene la fortezza?»
Lei
annuì, tenendo gli occhi fissi sul mare sempre
più scuro.
«Hai
un posto dove pregare da sola?»
Di
nuovo, i loro occhi si incontrarono. «No.»
«No?»
«No,
Ser.»
Non
riuscì a fermarsi, e quella parola scivolò fuori
dalla sua bocca, dandole la
nausea.
Capì
dal suo sguardo di essersi sbagliata: lui non aveva voluto ucciderla
prima di
quel momento, né sapeva di cos’era a conoscenza.
Sentì
lo stomaco stringersi in una morsa.
«Cammina
con me.»
Malizia
la afferrò per un braccio, lanciando uno sguardo di sbieco
alle torri.
«Mi
ucciderete?»
Lui
non rispose subito. «Non hai parlato.»
«Non
parlerò, ve lo giuro. Lasciatemi fuggire.»
«Da
cosa l’hai capito?»
Stavano
camminando verso la postierla, e Diamante aveva il terrore di
incontrare i
soldati.
«Che
cosa?»
«Mi
hai chiamato Ser. Perché?»
«Vi
ho… visti.» Si accorse di tremare.
«Lasciatemi andare, vi prego.»
Iniziava
a essere buio. E con la notte sarebbe arrivata la sua fine. Doveva
convincerlo
a lasciarla andare prima che le ultime luci si spegnessero.
«Non
posso.» Aumentò la presa sul suo braccio.
«Non posso rischiare.»
«Non
uccidetemi, vi scongiuro.»
Faticò
a leggere l’incertezza sul suo volto. Era quasi
notte…
«Conosco
il castello» tentò ancora. «So dove
dorme l’inviato da Genova.»
«Non
mi serve… una volta che avrò conquistato la
Rocca, lui sarà morto comunque.»
Come
me.
«Siete
anche voi genovese. Perché lo fate?»
«I
ghibellini ci hanno cacciato dalla città. Questa
diventerà la nostra nuova
casa.»
«Bene.
Prendetela, dunque. Ma non uccidete noi che siamo qui per
servirvi.»
Lo
vide sorridere. «Trova dove nasconderti. Ma bada: se
avvertirai le guardie, non
ci sarà futuro per te.»
Diamante
si ritrovò libera dalla sua presa. Si voltò
indietro e tornò al castello.
Raggiunse
l’apertura che dava sulla postierla e si affacciò
a guardare. Era notte ormai.
Non riusciva a vedere niente. Eppure, sapeva che erano lì,
appostati e pronti a
uccidere.
Doveva
trovare Ricca e gli altri. Avvertirli.
Ma
se lo faccio… lui mi ucciderà.
Cosa
le aveva detto? Di nascondersi.
Ma
dove poteva andare? Dov’è che non
l’avrebbero cercata? Non ne aveva idea.
Riprese
a vagare per i corridoi, evitando le guardie. Cercando di farsi venire
in mente
qualcosa.
Passò
del tempo. Vide le stelle farsi sempre più luminose, la luna
nascondersi.
Anche
lei doveva trovare un nascondiglio.
Poi
lo sentì.
E
fu come ricevere una cascata d’acqua gelida in testa, durante
il pieno inverno.
Sentì
le budella torcersi dentro di sé.
Grida.
L’acciaio che strideva contro altro acciaio. E
l’odore della morte, il suo
colore che stava tingendo l’intero castello.
Poi
lo sentì davvero, l’odore della morte, quella vera.
Trovò
delle guardie sgozzate, la puzza dei loro escrementi mischiata a quella
del
sangue.
Stavolta
non riuscì a trattenersi e vomitò lì
vicino.
Non
smise mai di muoversi, cercando sempre di allontanarsi dal suono della
battaglia. Vide il cavaliere che serviva il suo Signore soffocare nel
suo
stesso sangue, ma non ebbe il coraggio di avvicinarsi.
Le
girava la testa.
Pregò
di non svenire, di non farsi uccidere. Pregò di trovare
Ricca e nascondersi con
lei.
E
Ricca la trovò davvero… La morte
l’aveva sorpresa con le sue stesse budella tra
le mani.
Anche
lei doveva essere stata colta di sorpresa, come l’intero
castello.
È
colpa mia.
Se
solo avesse parlato… se solo li avesse avvertiti! Ora
sarebbero stati ancora
vivi.
Le
guardie non si sarebbero fatte cogliere impreparate e la
servitù si sarebbe
nascosta, spostata, o avrebbe vissuto nel buio, come stava facendo lei.
Trovò
un piccolo passaggio tra due muri, dove un tempo doveva esserci stata
una
feritoia. Si infilò lì, stringendosi le ginocchia
al petto, la testa tra le
gambe. Cercò di tapparsi le orecchie, ma udì
comunque il suo Signore strillare.
«No!»
Capì
che era morto solo quando udì il silenzio. Passarono ore
prima che trovasse il
coraggio di uscire. Ore prima di riprendere a vagare per il castello.
Non
si fece trovare da nessuno: gli uomini che avevano attaccato sembravano
scomparsi.
Li
trovò tutti nella grande sala dove il suo Signore teneva i
banchetti.
Forse
ora che erano distratti poteva fuggire. Raggiungere le porte e tornare
a casa.
Si
stava muovendo verso l’ingresso quando lo vide.
Malizia
era appoggiato alla parete davanti alla sala, e ascoltava i suoi uomini.
Gli
occhi di Diamante guizzarono tra lui e le porte. Le porte! Erano chiuse.
Si
chiese se fosse una sciocchezza avvicinarsi. Poi smise di pensare e si
lasciò
guidare dall’istinto.
«Mio
Signore.»
Lui
si voltò di scatto, e sul suo viso Diamante lesse
l’incredulità di trovarla
ancora viva.
«Mi
avete detto di nascondermi.»
«E
tu l’hai fatto.»
«Non
vi compiace?»
Lui
sembrò pensarci bene prima di rispondere.
«Sì, mi compiace. Puoi festeggiare
con noi.»
Diamante
non riuscì a trattenere le lacrime. Abbassò le
palpebre per nascondere il
pianto. Ricca era morta… erano tutti morti.
«Grazie…
mio Signore.»
«Il
tuo silenzio ti ha salvata. Non io.»
«Perdonatemi,
mio Signore, ma… chi siete?»
Senza
saio era così diverso…
«Francesco
Grimaldi, ragazza. E questa è la mia casa adesso.»
Sapevo
che non era un monaco… lo sapevo.
N.d.A.:
Questo
racconto è romanzato, ma l’astuzia di Malizia
è storia. Tanto che i monaci
armati sono sullo stemma monegasco (il titolo è il motto
racchiuso nel
cartiglio).
Dopo
la sconfitta dei guelfi e la loro cacciata dalla città,
Francesco Grimaldi e
Ranieri conquistano la Rocca, trasformando il paese in quello che ora
è il
Principato di Monaco.
Ne
approfitto per lasciarvi il link di un’altra storia
– Alba Cosacca –
a
cui tengo in modo particolare. Vi prego, vi
prego, vi prego: leggetela.
Grazie
a chiunque sia arrivato fin qui!
Celtica
Storia
scritta per la WordWar indetta dal
gruppo facebook Il
Giardino di Efp.
La sfida è stata lanciata da Subutai
Khan
(con Elgul1).