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Autore: yonoi    13/11/2019    8 recensioni
Un'antica villa abbandonata, attorno a cui ruotano inquietanti leggende.
Una campagna avvolta, per molti mesi all'anno, da una fitta coltre di nebbia.
Un pomeriggio d'estate e tre ragazzini in cerca di emozioni forti.
Un agente immobiliare alle prese con un difficile incarico: concludere la vendita della Cà D'Anime e affrontare i propri incubi del passato.
Prima classificata al contest "Tattoo Studio" indetto da Wurags e valutato da Juriaka sul Forum di EFP. Terza classificata al contest "Siglaaa..." indetto da Milla4 sempre sul Forum di EFP.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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"Parevami di muovere in un mondo di fantasmi
e di sentir me stesso l’ombra di un sogno.”
(Alfred Tennyson)

 
 
3. Fantèsmi e buratèn

 
La facciata della villa mostrava le finestre contornate di rosso con le persiane in tinta tutte ugualmente chiuse, anche all’ultimo piano. Le assi inchiodate per ordine del Comune erano al loro posto e almeno in quel momento nessun occhio maligno faceva capolino dagli scuri. Il Passerini cavò dalla tasca la foto che aveva esaminato la sera prima: la prima finestra in alto era effettivamente priva di sbarramenti, ma la bolla di luce in cui gli era sembrato di scorgere un volto non era niente di più di un semplice riverbero, catturato per caso dalla macchina fotografica. Forse una goccia d’acqua o un semplice raggio di sole avevano creato quell’effetto curioso. Ci voleva davvero parecchia fantasia per vederci una vecchia.
Eppure io la foto l’ho guardata più volte, persino con la lente d’ingrandimento.
La breccia nella grata del piano terra c’era ancora. Stavolta, però, il Ninèn disponeva della chiave e poteva entrare a curiosare nella Cà D’Anime senza correre il rischio di finire allo spiedo.
Non sapeva neppure da dove aveva tirato fuori il coraggio, fatto sta che il programma della giornata era degno del miglior cuor di leone: sopralluogo alla villa e sul luogo dell’incidente, a seguire appuntamento in serata col conte Filippetto al paese vicino, dove sarebbe andato in scena lo spettacolo Fasulèn e musica di viùlen, folklore bolognese e leggende delle campagne. 
Di fȏl di fantèsmi il signor conte doveva conoscerne parecchie, a cominciare da quelle di casa sua. Per una volta che era riuscito a racimolare un po’ di fegato, Massimo Passerini era fermamente intenzionato ad approfittarne. Voleva sapere tutto, a cominciare dalla vecchia sul ballatoio per finire con quel binario resuscitato dal nulla, appena in tempo per far transitare qualcosa che aveva spalmato la maga Gisella come se fosse Nutella su una fetta di pane.
Munito di registratore con cassetta, che risaliva ai tempi dei suoi quattordici anni trascorsi a inseguire le hit parade alla radio, torcia rubata al don durante i campi scout e macchina fotografica, il Passerini perlustrò il piano terra in cerca di qualche indizio della presenza dei fantèsmi.  
L’atmosfera della villa era più squallida che sinistra, coi mucchi di calcinacci spazzati ai piedi dei muri in una parvenza d’ordine e il pavimento chiazzato di erbacce e di muffa. L’odore del fiume arrivava fin là e appiccicava addosso un tanfo dolciastro.
Nella sala affrescata, la ninfa campestre era regolarmente voltata di profilo ma accanto alla testa di capro c’era un altro scarabocchio realizzato con lo spray, anzi ce n’erano due: una figura più larga che lunga montata sui tacchi a spillo e una più smilza, con una testa di ricci così fulminati che neanche a infilare due dita in una presa sarebbero usciti uguale. Entrambe erano state cancellate con una croce.
Più sotto, c’era una scritta: Gambe in spalla e vola via.
Prima che le ginocchia cominciassero a sciogliersi, il Passerini si ricordò che doveva essere professionale: fotografò lo schizzo da tutte le angolazioni e si sforzò di cavar fuori da chissà dove una spiegazione logica. Senza voler tirare in ballo i fantèsmi, era evidente che qualcun altro aveva accesso alla villa. Qualcuno che durante la visita della maga Gisella ce l’aveva messa tutta per provare a spaventarli.
Però le voci dell’Anguilla e del Secchio erano proprio quelle e le ho sentite soltanto io.  
Di più: quel graffito realizzato con un’inquietante dovizia di dettagli era l’esatto resoconto dei fatti accaduti la sera prima, nei campi attorno alla villa.
Anche la frase gli ricordava qualcosa, ma sul momento il Ninèn era troppo impegnato a mantenere l’autocontrollo – ossia a evitare di farsela sotto – per ragionarci su.
Forse nella campagna si aggirava un maniaco, qualche pazzo furioso. Ecco cosa succede a non leggere mai i giornali: magari al paese c’è un killer a piede libero e tu, come capita ai fessi nei film dell’orrore, gli arrivi giusto in casa senza rendertene conto.
 Ormai era in ballo e quello scampolo di coraggio che si sentiva addosso non sarebbe tornato a fargli visita tanto presto. Fu così che il Ninèn decise di recitare la parte del fessacchiotto da film horror fino in fondo e prese la via delle scale, senza pensare che il suo personaggio era quello che di solito incappa in una morte orrenda subito al primo tempo.
La scala si presentava identica all’ultima volta che era stato lì: saliva lungo i muri di una sorta di pozzo scuro, con un corrimano tenuto su da festoni di ragnatele e di polvere. Il primo passo fu accompagnato da uno scricchiolio, ma di lì in poi il Passerini riuscì a salire senza intoppi. Per quanto scalcinati i gradini erano di pietra, roba solida come si faceva una volta.
Giunto a metà della rampa, guardò in su.
Dalle brecce del tetto scendevano fasci di luce cinerea. Tutt’intorno un silenzio che forse era rassicurante e forse invece no.
Vè ragaz, l’è turnè il Ninèn!” squittì a un certo punto una voce.
Soccia, è ingrassato ancora.” Ed ecco la seconda, puntuale come un’eco.
“Am pèr una murtadela.”[1]
Seguì il solito scroscio impertinente di risate.
Solo per un pelo il Ninèn resistette all’impulso di afferrare il corrimano e procurarsi un volo di almeno tre metri in quel pozzo di cui, a guardar giù, non si vedeva il fondo.  
“Qui è proprietà privata!” ruggì all’indirizzo dell’anonimo occupante abusivo della villa, maniaco, serial killer o semplice buontempone. “C’è divieto di accesso, chiamo i carabinieri!”
“E dai, Ninèn, non riconosci i vecchi amici? Siamo sempre noi, il Secchio e l’Anguilla…”  
Tenendosi aggrappato a una sporgenza del muro, il Passerini si voltò verso la direzione da cui provenivano le voci, senza naturalmente vedere un bel niente. “Dove diavolo siete?”
Mo siamo qua con te a farti compagnia. T’è brisa cuntènt?”[2]
Il Passerini decise di stare al gioco. Sedette su un gradino, provò ad azionare il registratore che s’ingarbugliò subito, si stropicciò le mani com’era solito fare quando aveva di fronte qualche cliente particolarmente rognoso.
“Bene, ràgaz. Facciamo pure due chiacchiere come ai bei vecchi tempi.”
Forse sono ancora nel mio letto e sto sognando. Quelle due pizze di ieri devono essermi rimaste sullo stomaco.
“Solo due pizze per cena?” rise l’Anguilla. “Cos’è, ti sei messo a dieta?”
“Anzitutto vorrei sapere cosa ci fate qui e soprattutto cosa significa quel disegno che ho trovato di sotto,” riprese il Ninèn, andando subito al punto.
Vorrei anche sapere perché soltanto io riesco a sentirvi, ma questo potrà dirmelo senz’altro uno bravo.
“Ormai nessuno ci crede più, ai fantèsmi. Te invece ci credi, è per questo che ci senti,” disse il Semprini e sia che si trattasse di un’allucinazione o di un incubo da cattiva digestione, al Ninèn parve di cogliere una punta di tristezza nella sua voce.
“Anche la maga Gisella ci credeva, se è per questo.”
A tal dègg!”[3] intervenne l’Anguilla. “Quella pensava solo ai baiuc ed era convinta di farne a pacchi portando qui il pubblico e la televisiàn per le sue sedute spiritiche. Ma la villa non è un teàter e noi non siamo mica dei buratèn.”
“Ma in quanti siete, qua?” chiese il Ninèn, circospetto.
“Eh, una volta di fantasmi ce n’erano tanti. Poi la gente ha smesso di crederci e molti sono scomparsi. Anche gli spettri muoiono, se non lo sai. Se ne vanno quando non c’è più nessuno che li ricorda, così adès siamo rimasti in quattro gatti.” Pareva quasi di vedere l’Anguilla contare sulle dita. “È rimasta la Fonsa, la vecchia burlona che tu conosci bene. Il violinista è un pezzo che non si sente più. E poi ci siamo noi.” 
“Ci sarebbe anche il Punghèn, quello del busso,” aggiunse il Secchio. “Ma lui preferisce andarsene in giro col camion a far scherzi alla gente che non gli piace. Quella roba sul muro l’ha fatta lui, eh? Io avevo nove in disegno.”
“Noi con quella faccenda non c’entriamo,” ci tenne a dire l’Anguilla. “Noi siamo tuoi amici.”
Il Ninèn accese due sigarette di seguito, di cui la prima dalla parte del filtro. L’odore di bruciaticcio restò a lungo sospeso in quell’atmosfera immobile e fuori dal tempo.  
“Andiamo, ràgaz, mi spiace ma la Cà D’Anime è in vendita e il sottoscritto ha una mucchia di bollette da pagare, oltre all’affitto. Là fuori il mondo va avanti e mica posso campare d’aria come voialtri.”
 “Mo dove vuoi che vadano dei poveri fantèsmi senza un tetto sulla testa? Noi siamo morti qua e qua vogliamo restare.”
“I morti dovrebbero starsene a cuccia nel camposanto, mica andarsene in giro a spaventare i cristiani. E poi provate un poco a mettervi nei miei panni: sono almeno sei mesi che non concludo un affare, giro per i quartieri cercando case da vendere e accompagno i clienti, ma finché non si va a contratto io non becco una lira. Insomma, da buoni amici potreste ben darmi una mano.”
Non ci posso credere. Sto parlando di lavoro con degli spettri, ovvero con qualcosa che in teoria non esiste. Ed è persino più difficile che trattare con la buonanima dell’Adalgisa Buganè.   
“A noi quella specie di maga non piaceva per gnente. Dico bene, Secchio?”
“Io dico che il Ninèn può vendere se gli servono i baiuc, l’importante è che venda a qualcuno che ci sta bene. Altrimenti noi lo diciamo al Punghèn e poi ci pensa lui.”
“Ma dove lo trovo, io, uno che vi va bene? Ma vi rendete conto…”
“Hey, lassù! C’è nessuno?”
Una voce dal basso, vigorosa e decisa. Un rumore di passi talmente pesanti da far temere che il Punghèn fosse entrato con tutto il suo carico di orologi a cucù.
“Chi è, laggiù?” Il Passerini si sforzò di fare la voce grossa, riuscendo a cavar fuori solamente un acuto da topo spaventato. “Qui solo i clienti hanno diritto di entrare e solo accompagnati dal sottoscritto! Chiamo i carabinieri!”
“Chi ha detto che chiama?” ridacchiò il Secchio dal suo angolo di penombra. “Di’ su, Ninèn, perché non la comperi te, la villa? Tu che ne dici, Angui? Non è una buona idea?”
Soccia, sarebbe il massimo!”
Il parlottio dei fantasmi fu superato dalla voce dell’intruso: “Massimo Passerini è lei? La sua collega in ufficio mi ha riferito che potevo trovarla qui.”
Come uscito dall’interferenza sulla linea Phuket – Casalecchio, al pianterreno c’era il secondo papabile acquirente della Cà D’Anime contattato da Strazzamaroni in persona.
In men che non si dica il Ninèn recuperò torcia e registratore, borsa da ufficio e macchina fotografica. Svelto come la Fonsa sul ballatoio scese dallo scalone, rassettando giacca e cravatta e cercando di mettere insieme una faccia adatta alla circostanza.  
“Ero occupato a eseguire dei rilievi,” si giustificò con quella specie di armadio che si trovò di fronte appena girato l’angolo.  
“Non ce n’era bisogno,” tagliò corto due ante, stringendogli la mano con una morsa da scavatrice in funzione. “Come le avrà anticipato il Gianni, io sono interessato solo all’area edificabile. È mia intenzione buttare giù tutto e ricostruire dalle fondamenta. Palestra, centro massaggi e spa.”
Che ha detto?” Alle spalle del Ninèn si udì un bisbiglio da foglia secca che trema prima di cadere dall’albero.
“So che c’è un altro potenziale acquirente,” tirò dritto l’armadio, “ma io offro cinquantamila in contanti. Ho già provveduto a sottoscrivere la proposta, la troverà in ufficio sulla sua scrivania. Faccia presente alla proprietà che per quel che mi riguarda possiamo passare subito al rogito.”
Di ban so, Mastro Lindo, starai scherzando...” Questa volta a tremare era la voce del Secchio. “Ninèn, digli qualcosa. Digli che non si può.”
Potere, si poteva. A quanto risultava dalle visure allegate al dossier, il terreno era classificato come edificabile senza via di scampo. Lungo tutto il perimetro della Cà D’Anime, cipressi e palpastrèl compresi, si sarebbe potuto tirar su un grattacielo col beneplacito del Comune e fatti salvi i relativi permessi.  
Le ginocchia del Passerini cominciarono a vacillare come se gli si fossero materializzati davanti la vecchia senza gambe, un topo alla guida di un camion e la maga Gisella ridotta a sottiletta. In realtà, il motivo era un altro e per una volta tanto c’entrava poco o niente con la paura.
Cinquantamila in contanti significavano una provvigione da mille e una notte.
D’un tratto un vecchio sogno, quello di comperarsi un piccolo podere e vivere di quello che gli offriva la terra, era di nuovo là. Non ci aveva più pensato dai tempi dell’incidente ma quello era stato il suo sogno di ragazzo, quando aiutava il nonno a rompere le zolle nei giorni della semina e il vapore usciva dai solchi come se fosse il respiro del mondo.
“Un giorno, tutto questo sarà tuo,” gli ripeteva il vecchio Eleuterio, chino nell’orto a controllare i radicchi, a seminare a uno a uno i girasoli che a giugno diventavano più alti di lui. Nel frutteto, il Ninèn lo aiutava a mettere a dimora le piante giovani, i ciliegi che a novembre, nei giorni dei Morti, parevano stecchiti e poi ad aprile fiorivano in tutti i poderi, distese di petali rosa a perdita d’occhio.  
Per anni aveva vissuto al ritmo delle stagioni finché l’incidente non lo aveva catapultato in città, il paese era divenuto il luogo dei cattivi ricordi e il casolare del nonno era stato venduto. “Per una pipa di tabacco,” aveva ripetuto fino all’ultimo giorno suo padre, morto di nostalgia pochi anni dopo. La madre del Passerini aveva tenuto duro finché suo figlio aveva trovato uno straccio di lavoro. Dopo di che, aveva seguito il marito in un paradiso che, molto probabilmente, aveva le stesse forme e gli odori della campagna.
“Ohi Ninèn ma che fai, dormi in piedi?” Da dietro, gli arrivò addirittura una spinta.
“Hai sentito che ha detto Braccio di Ferro, qui? Questo vuole buttare giù tutto con la ruspa. Digli qualcosa, no?” 
“Direi che si può fare,” riprese il Passerini quando riuscì a recuperare l’uso della parola, per di più con un piglio di cui fu il primo a stupirsi. “Stasera devo giusto incontrare il conte D’Anime e sarò lieto di sottoporgli la sua offerta.” Offrì una sigaretta all’armadio a due ante e accese la propria, stavolta con mano ferma.
“Ma questa è casa nostra! Noi siamo tuoi amici, andiamo, Ninèn!”
“Non sai che quando muore qualcuno agli altri spetta di vivere anche per lui?”
Di nuovo la voce dell’armadio a due ante surclassò il cicaleccio dei fantèsmi: “Non mi sono ancora presentato: Gianluigi Balotti della Fitness e benessere. Lei conoscerà sicuramente i nostri centri dedicati alle discipline del corpo.”
“Naturalmente,” mentì il Ninèn, accompagnando prudentemente due ante verso l’uscita.
Di fatto, l’unica palestra che avesse mai frequentato, peraltro con risultati discutibili, era quella della scuola media del paese. Alle superiori, quando pesava già più di novanta chili, era riuscito a farsi esonerare per via dell’incidente. Come dire che era scampato alla gogna delle flessioni a terra e delle gare di corsa grazie alle ancor più discutibili capacità di guidatore del Punghèn. Forse qualcosa ai fantèsmi la doveva davvero.
“Ninèn, perché non ci ascolti? Che c’è, ti sei ismito?”
“Allora conto su di lei, Passerini. Quanto all’altro acquirente, immagino siate ancora in fase di trattative…”
“Comprala te, Ninèn!”
“Di questo non deve preoccuparsi, signor Balotti,” assicurò il Passerini, chiudendosi alle spalle la porta che separava il mondo della Cà D’Anime da quello di fuori e bloccandola col lucchetto. “Il tempo di espletare le pratiche necessarie e la Cà D’Anime sarà sua.”

 
******

 
“L’avventura più strana del mondo, cari bambini e cari adulteri, è quella a cui assisterete proprio adès qui al teàter di buratèn, dove io, Fasulèn, squattrinato e senza un baiùc” – al Passerini venne subito in mente qualcuno – “andrò alla Casa delle Anime armato come si conviene,” e qui il burattino menò due colpi in aria col suo inseparabile bastone, per poi abbassare la voce fino quasi a un sussurro. “Là i fantèsmi suonano musica di viùlèn e fanno festa tutta la notte. Voi ci credete ai fantèsmi?”
Dal pubblico accalcato sulla piazzetta si levarono gridolini entusiasti: “No che non ci crediamo!” strillò una bimbetta con un gigantesco pompon sulla cuffia.
“I fantasmi non esistono!” saltò su un altro cinno. Era così piccino che dalla seggiola non arrivava a toccare terra.  
“E invece, in questa storia i fantèsmi ci sono eccome,” replicò Fasulèn con aria misteriosa, mentre le luci si abbassavano per creare la giusta atmosfera. “E ora, signore e signori, seguitemi: attraverseremo insieme il Bosco degli Spaventi!”
Detto questo, il nostro prese a dirigersi su un sentiero decorato di muschio come quello dei presepi, sopra al quale fluttuavano palpastrèl di pannolenci. Più in alto, un fascio di luce illuminò una casa con le cornici rosse, che assomigliava in tutto e per tutto alla Cà D’Anime. Seduto sotto all’insegna Cesira pasta fresca, accanto a nonni e nipoti stretti come allo stadio quando gioca il Bologna, il Passerini allungò il collo: di nuovo catturato dai segreti di quella villa che non aveva mai smesso di affascinarlo, da quando era anche lui un cinno che scorrazzava in bicicletta per la campagna.   
In un certo senso, ci aveva azzeccato: il conte Filippetto, che da dietro alle quinte tirava le file dell’intero spettacolo, era un pozzo di scienza in materia di fȏl di fantèsmi. Sulla fama sinistra della Cà D’Anime aveva costruito l’intera messinscena, sicché il Ninèn si vide sfilare davanti al naso, uno dopo l’altro, tutti i protagonisti della sua infanzia: c’era la Fonsa, che accolse Fasulèn volando a mezz’aria e beccandosi in cambio una sonora bastonata sulla groppa. C’era il conte violinista, che volteggiava col suo strumento e una corda al collo, la cui estremità si perdeva tra i drappeggi del sipario. C’era la ninfa prigioniera dell’affresco, e quando Fasulèn riuscì a liberarla pronunciando la parola magica tajadèl, in scena apparve una tavolata di tagliatelle come se nelle sale della Cà D’Anime fossero all’opera decine di sfogline. Le nozze tra il violinista e la ninfa furono celebrate con gran pompa, musica di viulèn e pastasciutta per tutti. Dopo di che il sipario calò cigolando.
Questa non la sapevo, si disse il Ninèn, preso in contropiede dai magici poteri delle tagliatelle al ragù ma soprattutto dalla storia d’amore tra la ninfa e il conte impiccato.
“Come mai ha deciso di vendere?” chiese più tardi al maestro buratinèr, che dopo lo spettacolo lo accolse nel furgoncino che fungeva da teatro, laboratorio e casa viaggiante di Filippetto D’Anime.
L’interno era interamente tappezzato da scaffali che ospitavano marionette di ogni genere, dalle dame in crinolina e guance di porcellana ai più semplici pupazzi di cartapesta. C’era il dutaur Balanzàn[4] con la sua toga nera e le scarpe con la fibbia, un grosso libro e la penna d’oca incollata alla mano di cartapesta. C’erano Fasulèn e poco più in là il violinista e la Fonsa, col grembiule che scendeva su gambe che non c’erano e un naso a punteruolo che al Passerini ricordò immediatamente la collega Granella.  
Sul tavolo da lavoro, attrezzi da falegname e barattoli di vernici, pennelli e una caffettiera che borbottava su un fornelletto.
“Vendere mi dispiace,” ammise il conte, frugando in uno scatolone e cavando fuori un paio di tazze spaiate. “Ma i baiuc per tenere in piedi la villa io proprio non li ho. Il tempo passa, così mi ritrovo nella necessità di affidarla a qualcuno.”
All’altro capo del tavolo, mentre il caffè sfrigolava più che venir su, Filippetto D’Anime si lasciò sprofondare su una sdraio con la scritta Bagno Marisa e un’aria così afflitta che al confronto il suo bisavolo impiccato pareva morto dal ridere.
Aspetta che ti dica che stai per incassare cinquantamila tondi, si disse il Passerini, e vedrai come cambi faccia.
“Sono tempi difficili anche per i buratèn, “riprese il conte D’Anime. “Gente che viene agli spettacoli ce n’è sempre meno. Al giorno d’oggi c’è il cinema, c’è la televisiàn. Io mi accontento di campare sulle antiche leggende che circondano la Cà D’Anime da quando è stata costruita. Posso solo sperare che chi comprerà la villa la tratterà con il riguardo che merita.”
Hai voglia, pensò il Ninèn e solo in quel momento gli prese al cuore una stretta. Come se Gianluigi Balotti detto due ante non gli avesse già detto che intendeva tirare giù tutto e il destino della Cà D’Anime gli apparisse dinanzi agli occhi soltanto allora.
Per un attimo sperò che il conte Filippetto non accettasse quella proposta che solo un matto da manicomio poteva rifiutare. Di ban so, ragazzuolo. Vuoi il tuo campicello o preferisci lavorare per Strazzamaroni e per gente come l’Adalgisa Buganè fino alla pensione?
Il ricordo della maga Gisella fece scattare un’improvvisa scintilla nella mente a dir poco confusa di Massimo Passerini, detto il Ninèn.
“Senta un po’, signor conte…”
“Mi chiami ben Filippetto,” lo interruppe il maestro.  
“Bene, signor Filippetto,” riprese il Passerini, un po’ disorientato da quel nome da marionetta in carne e ossa. “Noi l’altra settimana avevamo un appuntamento in agenzia. Lei aveva accettato la proposta di una nostra cliente e io l’attendevo per la firma del compromesso.” Solo per un istante, il Ninèn si guardò alle spalle. Aveva l’impressione che, dall’alto dei loro scaffali, i buratèn allungassero le orecchie in ascolto. La Fonsa e il violinista erano quelli che le allungavano più di tutti.
Filippetto D’Anime sgranò gli occhi e pareva anche lui uno dei suoi pupazzi.
“Ho aspettato per ore,” continuò il Passerini, sentendo crescere l’inquietudine. “Ma lei non si è fatto vivo.” E neppure l’Adalgisa Buganè, se è per questo.   
“Ci avrò ripensato,” rispose il maestro. Affondò nella sdraio e nell’ombra che iniziava ad avvolgere il furgone. Fuori già cominciava a calare la nebbia e i contorni della piazzetta sfumavano in un’atmosfera irreale.
“C’è dell’altro,” riprese il Passerini. “La sua acquirente, signora Buganè, è morta proprio quel pomeriggio, nei pressi della villa. Ne hanno parlato tutti i giornali.”
“Sicché all’appuntamento è mancata anche lei,” osservò il conte D’Anime, dal suo cono di tenebra. I burattini parvero annuire dai loro scaffali, la caffettiera lanciò un fischio da treno in corsa.
“È mancata, precisamente.”
“Che dire, giovanotto? Probabilmente, a loro la signora Busoni non andava granché a genio.”
Ormai il Passerini ne aveva sentite tante che non fece neppure finta di sbalordirsi.
“Buganè, signor conte. Adalgisa Buganè, quella che leggeva le carte in tivù.”
“Io non ho la tivù e non leggo i giornali.”
Trascorse un lungo attimo di silenzio, poi il Passerini riprese: “Comunque, ci sarebbe un altro cliente interessato all’affare. Gianluigi Balotti della catena Fitness e benessere è disposto a pagare cinquantamila euro per la Cà D’Anime. Ha già sottoscritto la proposta e vorrebbe andare al rogito il prima possibile.”
Il vecchio burattinaio si limitò a servire il caffè senza battere ciglio.
“Tenga però presente,” continuò il Passerini, “che il cliente in questione intende demolire l’intera struttura compreso il viale d’accesso, per costruire un centro massaggi e una palestra.”
Loro non saranno affatto contenti,” rispose il conte, scuotendo la testa.
“Direi che loro dovranno farsene una ragione. Cinquantamila euro, signor Filippetto, non uno di meno,” insistette il Passerini. Si palpò le tasche in cerca di accendino e pacchetto.
“Le dispiace se fumo?”
“Non se ne parla proprio.”
“Capisco, è un brutto vizio.”
“Intendevo l’affare,” riprese il buratinèr cavando fuori dall’ombra un cipiglio di roccia. “Dica pure al suo cliente che la Cà D’Anime non si tocca, neppure per tutto l’oro del mondo.”
Ecco la tua provvigione che prende il volo insieme al campicello. Bravo Ninèn!
Stavolta però, bravo non se l’era detto da solo: con la coda dell’occhio, gli era parso di vedere almeno due figurine fare una capriola. Si trovavano su uno scaffale che fino a quel momento non aveva notato e avevano le sembianze dell’Acciuga e del Secchio, uguali prezìs com’erano ai tempi spensierati dei loro quattordici anni. Forse da qualche parte c’era anche una terza marionetta in bicicletta che indossava una giacca rossa e blu del Bologna.
“Bene, io devo andare,” annunciò il Passerini con una gamba già fuori dal tavolo e il bisogno impellente di filar via di corsa. “Grazie per il caffè, signor Filippetto. Pensi alla mia proposta e mi faccia sapere.”
D’un tratto si ricordò di un particolare che l’aveva colpito durante lo spettacolo.
“Sa una cosa? Conoscevo la storia del violinista fantasma, ma non sapevo che ci fosse un legame con la donna ritratta giù al piano terra. Pensavo si trattasse di una semplice decorazione.”
“La pòvra Agostinella,” scosse il capo il maestro, levandosi con un cigolio dalla sdraio. “Era figlia dei contadini che curavano i campi attorno alla villa. Quando i padroni di allora scoprirono l’intrigo la fecero murare viva nella parete, o almeno così si dice. Forse, semplicemente, la cacciarono via. Secondo la leggenda, fu il mio bisavolo a dipingere la sua immagine su quel muro che li ormai li divideva per sempre. Dopo di che, il primo Filippo D’Anime diede di matto: suonava giorno e notte – e pare che suoni ancora – finché non s’impiccò al ballatoio dell’ultimo piano. Lo trovò l’Ildefonsa, la vecchia cameriera che se l’era cresciuto da quando era un cinno.”   
“Pensa te,” disse il Ninèn, scrutando la nebbia di fuori. “Con tutto il rispetto, signor conte: non sarebbe stato più logico tirare giù il muro invece di affrescarlo? Per liberare l’infelice donzella, voglio dire.”
“Sono fȏl di fantèsmi,” replicò il buratinèr, sibillino. “Storie di altri tempi che vanno e vengono come il vento, e ognuno le racconta un po’ come gli pare.”
Il Passerini si rinchiuse dentro al paltò, la sciarpa sopra le orecchie per affrontare l’umido che, non appena scese il gradino del furgone, lo avvolse con una pioggerella d’aghi che s’infilavano dappertutto. Il fiato usciva a sbuffi, poca luce baluginava dai lampioni e poi, naturalmente, non si vedeva a un metro.
Non aveva neppure superato quel metro, le gambe in spalla più per il freddo che per il turbamento, quando lo raggiunse la voce del conte:
Ragazuòl, mi sembri uno a posto. Perché la mia villa non te la pigli te?” 
“Perché io lavoro per l’agenzia. E forse di baiuc ne ho meno di lei,” rispose il Passerini a caso nella nebbia, le gambe bene in spalla e senza voltarsi indietro. A quel punto prese ad andare di corsa, prima che al conte D’Anime venisse in mente di offrirgli la casa dei fantèsmi, dei palpastrèl e degli amici a prezzo stracciato o addirittura gratis.  
 
******
 

[1] “Sembra una mortadella.”
[2] “Non sei contento?”
[3] “Te lo dico”, qui da intendersi nel senso di “come no!”
[4] Il dottor Balanzone, maschera tipica di Bologna.
  
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