Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ackerbitch    13/12/2019    1 recensioni
COMPLETA
ModernAU - MiniLong /// EreRi-RiRen
"Credo che tutti siamo bersaglio di una componente di sistemi infinitamente più grande di noi, che non siamo altro che piccoli e insignificanti ammassi di carbonio organico agli occhi dell'Universo. Siamo sottoposti alle sue leggi e invischiati nei suoi meccanismi, vittime della ruota della sua casualità, spaventosa e ingiusta. E lo sa cosa rende questa cosa ancora più spaventosa? Il fatto che siamo esonerati da niente, anche se tendiamo a conferirci una sorta di immunità di fronte alle eventualità negative che sappiamo esistere, ma che non associamo mai a noi e alla nostra vita. Forse lo facciamo per rendere l'esistenza un po' più sopportabile, o forse perché l'animo umano è animato da un disgustoso senso dell'ottimismo e tende a lasciare fuori dal proprio campo visivo e dalla propria concezione stessa tutto ciò che non è oggettivamente considerabile come positivo. Quello che voglio dire, è che non sappiamo mai come la ruota girerà. Adesso ci sei, fra cinque minuti non si sa. Ora stai bene, ma fra tre giorni potresti essere in un letto d'ospedale e combattere fra la vita e la morte [...]"
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren Jaeger, Hanji Zoe, Isabel Magnolia, Kuchel Ackerman, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Legge tre – Causa-effetto

Eren era stato una palla al piede per le due settimane a seguire. Molesto oltre i limiti dell'immaginabile, caotico come la sua imprevedibilità e sfrontato; una zavorra dagli occhi verdi che aveva impedito a Levi di vivere il suo silenzio e la sua solitudine come si ostinava a fare da anni.

Il moccioso aveva colpito la sua routine come un fulmine a ciel sereno e l'aveva frantumata, sconvolta, trasformata e rielaborata secondo le sue esigenze. Esigenze che lo vedevano costantemente alle calcagna del corvino, ad ammorbarlo con discorsi che neanche le sue cuffiette riuscivano ad ovattare e ad illuminare il suo volto pallido -perennemente scurito da un'amarezza che pareva insita nella sua persona- con quel sorriso sulle labbra belle e piene. Dio, se Levi glielo avrebbe voluto far sparire dalla faccia a suon di sberle!

Era giunto alla conclusione che Eren dovesse davvero essere incorruttibile. Gli aveva gettato addosso insulti velenosi e indicibili, alternati a momenti di un'indifferenza talmente caustica che sarebbe stata in grado di corrodere chiunque; tutti, ma non lui. Non Eren e i suoi begli occhi verdi, ridenti e luminosi, non lui che altro non era che l'ennesima beffa che l'Universo si faceva di Levi.

Odio chiama odio, gli aveva insegnato Kuchel sin da bambino, e Levi aveva fatto sua quella consapevolezza, custodendola in petto e maturandola con l'età. Eppure, anche in quello, Eren pareva essere un'eccezione. Qualcosa di talmente imprevedibile da dargli il sangue al cervello e da sconvolgere la sua quotidianità, disorientandolo in una maniera che lo annientava e gli toglieva il fiato, stringendogli la gola. 

Lui e il suo maledetto sorriso a piegare perennemente le labbra rosee, parevano urlare non curanza alla legge del karma. Un insulto non si tramutava odio seguendo la classica dialettica, non gli deformava il bel volto di risentimento, ma lo illuminava col sorriso. L'indifferenza non lo allontanava, ma sembrava avere lo stesso potenziale ipnotico che una fiammella nel buio aveva per una falena. E Levi proprio non riusciva a spiegarselo.

Passava tempo a maledire sé stesso, urlava mentalmente oscenità conto Eren, rivolgeva tutta la propria ira contro il Cosmo senza mai venire ascoltato. In fondo, non era sempre stato così? Quel moccioso sfrontato sembrava essere diventato una specie di castigo divino, al pari di un memento dalle sembianze umane.

Ti vedo, non puoi sfuggirmi. Illuso...! Non riuscirai a nasconderti, non ci sei mai riuscito.

L'Universo stava giocando una sorta di perversa e malata partita a scacchi con lui. Lo aveva annientato, gettando la chiave della stessa gabbia dorata che Levi si era eretto attorno, facendosi una grassa risata alla vista della sua inettitudine; era ancor meno di un misero insetto per quelle dinamiche, e tale sarebbe rimasto. Non lo infastidiva che la sua esistenza fosse inutile ai fini del perpetuarsi del mondo, ma il panico lo attanagliava nella sua morsa viscida e torbida al pensiero che non avrebbe mai saputo quando sarebbe stato schiacciato. 

Eren invece sembrava completamente svincolato da tutte quelle dialettiche che Levi cercava di evitare. Un'entità a parte, composta della stessa oscura materia dell'Universo e modellata in forma umana, capace di assaporare la vita istante per istante e di guardarla negli occhi per tentare di comprenderne i segreti; sembrava che quella vita stessa gli scorresse nelle vene. E allora Levi si chiese quanto dovesse essere stato fortunato per permettersi la speranza che l'esistenza non fosse altro che un fardello dal peso troppo grande, un meccanismo arrugginito troppo complesso da comprendere e far funzionare a regime. 

Era magnetico, tutto pareva gravitargli attorno; attraeva qualunque cosa. Era bersaglio delle occhiate curiose dei loro compagni di corso, protagonista dei pettegolezzi sul perché si ostinasse a stare tanto appiccicato a quel musone scontroso di Levi Ackerman, preda perfetta per gli occhi languidi e civettuoli di qualche ragazza. Perché che Eren fosse bello, non si poteva negare.

Gli stava appiccicato come un satellite, gettandogli addosso la sua ombra a ogni ora del giorno – e che fosse dannato, pure quella pareva emanare luce propria! – e immergendo le sue giornate in un fluido nevrotico e paranoico, che le ovattava con una consistenza irreale e irritante. Il corvino in quei giorni aveva sentito i morsi della disperazione farsi più insistenti sulla propria anima e l'insofferenza scorrergli nelle vene fino a fargli formicolare le mani. 

E quando non c'era il castano a tediare la sua quotidianità e ad attentare alla sua già precaria salute mentale, il compito passava a quella mentecatta di Hanji Zöe. Non che Levi non le volesse bene – nutriva un affetto spropositato per la castana, anche se non lo avrebbe mai ammesso a voce alta – ma lo infastidiva la sua invadenza. Comprendeva la preoccupazione nei suoi confronti che l'amica palesava ogni giorno, ma mal tollerava tutte le pressioni che gli faceva. A tratti, sembrava quasi che fosse in combutta con sua madre. Le due non facevano che ripetergli di tornare in terapia fino a svuotare quelle frasi d'incoraggiamento di qualsiasi senso compiuto e farle perdere nell'aria per tante, troppe volte. Lui non aveva bisogno di persone, di aiuto, di comprensione, di vivere; tutto ciò che gli interessava era rimanere invisibile e mischiarsi alle ombre.

Le sue giornate nelle ultime due settimane erano andate avanti per forza d'inerzia in quella maniera, fra tentativi vani di mascherare la propria esistenza all'Universo - col suono della voce melliflua di Eren colato ed appiccicato addosso - e l'insistenza delle due donne a tormentarlo in quei pochi istanti in cui avrebbe avuto bisogno di pace. Per quello sbottava, alzava la voce, stringeva i pugni e serrava la mascella fino a sentire le fibre muscolari gridare d'agonia sul punto della lacerazione; non c'era un momento in cui fosse realmente solo, in compagnia soltanto dei suoi stessi torbidi pensieri. Era strana, asettica, quell'assenza di rumori nella sua testa.

Hanji non sapeva di Eren, Levi era stato bravo a nascondere la sua esistenza e a liberarsi sempre del castano in un modo o nell'altro prima di raggiungere l'amica nel cortile dell'università o di incrociarla a metà strada per quei corridoi fitti di aule e frenetici di studenti. L'ultima cosa che desiderasse al mondo era che la quattr'occhi venisse a conoscenza del fatto che avesse avuto delle interazioni umane. Non richieste e mai ricambiate, -se non per esasperazione, certo - ma pur sempre interazioni rimanevano; Hanji non lo doveva scoprire neanche per sbaglio. 

Così, ai numerosi impegni quotidiani, – che ormai da due settimane non rispettavano più le scadenze e i tempi imposti nero su bianco sulla sua agenda – si aggiungeva anche quello di cercare di tenere l'uragano che era Eren il più lontano possibile dalla sua vita. Ne era stato investito con una forza impetuosa, risucchiato dal verde dei suoi occhi e dai suoi modi di fare che tanto gli facevano ribollire il sangue. Eppure, nonostante l'apparente calma, il corvino aveva paura. Una paura viscerale e atavica, subdola.

Non riusciva a scollarsi di dosso il presagio che Eren avrebbe fatto capitombolare tutte le sue certezze da un momento all'altro, investendolo nuovamente e con più intensità di prima. Non riusciva a scucire dalla propria pelle la sensazione – o meglio, la consapevolezza - di trovarsi nell'effimera quiete dell'occhio del ciclone. E Levi non poteva fare altro che esserne terrorizzato e tremare in silenzio.

Aveva addirittura pensato di non andare a lezione pur di non incontralo e di sostenere l'esame di Dinamiche dei Sistemi Stellari da non frequentante. Ipotesi ghiotta e che avrebbe trovato una soluzione - seppur considerabile solo come un blando palliativo - ai suoi problemi, e sarebbe stata in grado di arginare gli imprevisti derivati da tutta l'imprevedibilità che gli gettava addosso Eren Yeager. E se solo le dispense del professore fossero state qualcosa di anche lontanamente utile – e lui invece, non fosse stato troppo asociale per chiedere appunti o registrazioni a qualche compagno di corso - lo avrebbe fatto senza ripensamenti. Sarebbe tornato a scandire metodicamente ogni minuto della sua vita, ad organizzarla a tavolino e a rintanarsi nel silenzio e nella solitudine, ma teneva davvero a passare quell'esame con un'ottima votazione. La sua carriera universitaria – così come la sfilza impeccabile di trenta con lode sul libretto – erano più importanti di uno stupido moccioso dagli occhi verdi e animato da una voglia di vivere ingiustificabile e disgustosa.

Iniziava così il suo lunedì mattina, con tanti pensieri per la testa, una mano stretta attorno al sudicio palo della metropolitana piena per impedirsi di perdere l'equilibrio, la rassegnazione degli occhi e l'esistenza a gravargli sulle spalle, che aveva improvvisamente acquisito lo stesso peso dei libri universitari che portava nello zaino.

________

"Izzy!"

Levi era scattato in piedi dalla sedia come una molla quando la sorella era caduta a terra a peso morto sul pavimento del salotto; teneva la matita con cui aveva sottolineato pigramente il libro di storia ancora stretta fra le mani. Gli occhi erano riversi appena a mostrare il bianco della sclera, il corpo minuto scosso da fremiti.

"Mamma! Mamma!"

Aveva urlato fino a raschiarsi la gola, le aveva scostato i capelli rossi dal viso e aveva cercato di calmare i tremori che le scuotevano gli arti massaggiandoli piano. La schiena era terribilmente contratta, così come i lineamenti del volto gentile, sfigurati da un'espressione di sofferenza. Il panico gli annodò lo stomaco, il terrore di non sapere cosa stesse succedendo o investì rompendo la sua compostezza e inondandogli le iridi cristalline.

Kuchel era accorsa velocemente nella stanza, fiondandosi sul telefono per comporre il numero dell'ambulanza con gli occhi assaltati dalle lacrime e l'ansia a scavarle un buco nel petto.

"Izzy, mi senti? Izzy, ti prego..."

Levi non si era neanche accorto delle calde gocce salate che avevano iniziato a solcargli il volto e a disegnargli sentieri bagnati sui suoi zigomi, intervallate a singhiozzi smorzati. Isabel non si era ripresa finché non erano arrivati i paramedici e l'avevano caricata sull'ambulanza. Crisi epilettica, avevano detto durante la corsa verso l'ospedale. 

Levi e Kuchel vennero sommersi di domande mentre la minore venne affidata alle cure dei medici. Gli venne chiesto se avesse mai avuto episodi del genere prima di allora, se soffrisse di qualche patologia, se prendesse dei farmaci e addirittura se fosse sotto l'influenza di qualche droga, trascrivendo accuratamente ogni preziosa informazione su un vecchio pc dall'aspetto piuttosto dimesso. Quell'interrogatorio clinico non fece altro che gettare benzina sul fuoco della loro ansia. 

Ansia che si gonfiò a dismisura, assumendo l'aspetto di un mostro troppo grande. Ansia che li divorò vivi e li masticò fra le sue fauci, sputandoli dopo aver lacerato le loro carni con le lame del panico come fossero polvere insignificante e non esseri umani.

Tutto quello che Levi provò fu terrore, rabbia cieca. Intuiva dalle facce scure dei dottori che Isabel stava male, male davvero.

Insulti, insulti ai medici, al mondo, alla vita, a sé stesso, a tutto. Insulti urlati con voce raschiata e spezzati da singhiozzi, calde lacrime che gli sgorgavano dagli occhi. E poi piano piano quelle due emozioni mutarono forma, evolvendosi in qualcosa di più pericoloso e subdolo, viscerale.

Disperazione.

Abbattimento.

Sconforto.

E poi vuoto.

Quel mix letale di emozioni lo scosse talmente forte da farlo gridare un istante prima e da togliergli il fiato e l'istinto stesso di vivere il momento successivo. Le urla cessarono, le lacrime si asciugarono, il battito forsennato del suo cuore rallentò; l'anima di fece piccola e insignificante di fronte al referto di quella TAC. Una parola sola, undici lettere che sconvolsero la sua esistenza e la fecero tremare, distruggendola: glioblastoma.

Abbracciò sua madre e lasciò che piangesse sulla sua spalla, che gli artigliasse la schiena, che consumasse la propria voce, mentre lui si faceva divorare dal vuoto. Ed era disgustosa, quella fiammella di speranza che tentava di monopolizzare i suoi pensieri e di incanalarli verso altre direzioni meno distruttive e oscure come quel senso di disorientamento ed estraneità dal mondo tanto forte da dargli la nausea.

Dov'è l'errore? Hanno scambiato una cartella clinica. Omonimia, potrebbe essere: Isabel è un nome piuttosto comune. No, i medici hanno sicuramente interpretato male i risultati. Errare è umano...?

Non era possibile avere un tumore a sedici anni, eppure Isabel giaceva attaccata ad una flebo fra le coperte immacolate dello Shiganhina Hospital nel reparto di oncologia pediatrica. Muri colorati, cartelloni e disegni appesi su quelle pareti arlecchino creavano un contrasto disumano con la crudezza che raccoglievano e che tentavano di celare. Bambini e adolescenti con le teste rasate incontravano gli occhi vacui e spenti dei genitori, persi nel nulla come quelli di Kuchel. Corpi emaciati e deboli, pallidi; mascherine sui visi smunti e dagli zigomi troppo pronunciati, fili e aghi sulle braccia magre e gli sguardi dilanianti. Il presagio di morte era così denso in quel posto che a Levi parve di poterlo respirare. 

Isabel aveva le lacrime agli occhi e la determinazione riflessa nelle iridi verdi e annacquate. "Scusatemi", aveva detto, come se Levi e sua madre avessero potuto fargli una colpa di quella malattia che voleva strapparla al mondo. La strinsero forte, piansero insieme, e Levi maledisse tutto ancora e ancora, nei momenti in cui un'ira febbrile si alternava all'arido e gelido vuoto che governava la sua anima. 

Sua sorella non avrebbe fatto le chemio, almeno non per il momento; la notizia era arrivata proprio durante quell'abbraccio disperato. La massa tumorale era solida, grande ma operabile, non metastatica. Non aveva intaccato altri organi del suo corpo, e la chirurgia sarebbe stata l'approccio migliore prima di iniziare a sottoporla a qualunque tipo di terapia per estirparle da dentro quel male che chissà da quanto tempo albergava in lei e cercava di sottrarle con una ferocia disumana la vita che tanto amava.

Isabel aveva pianto di gioia quando aveva saputo che poteva essere operata, come se finire sotto ai ferri dei chirurgi per sette ore e farsi aprire in due la calotta cranica fosse la migliore prospettiva auspicabile. Ma Levi comprese il suo attaccamento alla vita, la sua voglia di combattere e di superare quell'ostacolo più grande di lei; la lesse la profonda sofferenza nei suoi occhi, così come vide la lama sottile della falce della morte lambigli la gola. 

La teneva in pugno, e avrebbe potuto recidere il filo che la teneva ancorata debolmente all'esistenza e che le donava calore da un momento all'altro; sua sorella l'avrebbe affrontata col sorriso, non permettendole di portarsi via la sua vita e tutti i suoi colori tanto facilmente. L'intervento era stato programmato per una settimana dopo, ed Isabel avrebbe combattuto a testa alta e con lo sguardo fiero. Fragile e minuta, ma forte e bellissima anche in quel letto d'ospedale.

Poteva solo immaginare quanto fosse caotico per lei anche solo respirare in quel momento, mentre lui rifletteva sulla vulnerabilità degli esseri umani e sulla loro irrilevanza per il mondo intero con un vuoto nel petto e una rabbia cieca e febbrile nell'anima, che niente sarebbe stato in grado di colmare...

"Ehi Levi, mi spieghi quella cosa sulla nucleosintesi? Perché non sono sicuro di aver capito bene... A dire la verità, credo di essermi perso un paio di passaggi. Ad esempio, quando il professore ha parlato dell'idrogen-"

Quella voce di miele, stridente come lunghi e affilati artigli su pietra, si interruppe a metà frase. A Levi piacque pensare che Eren si fosse zittito perché in cuor suo già conosceva la risposta –categoricamente negativa – al suo quesito, ma per quanto allettante, il suo buonsenso scartò subito quell'opzione.

Doveva averla vista, la sua maschera che si incrinava, cadeva e si rompeva in mille pezzi. Doveva averla percepita, la vulnerabilità della sua anima. 

In fondo, al corvino bastava davvero poco perché la sua esistenza si facesse ancora più fragile e i ricordi tentassero di divorarla. Era più che sufficiente una lezione noiosa su un argomento affrontato in più materie e di cui la sua mente era già satura, a maggior ragione se la voce del professore pareva un misto fra una nenia lancinante e una cantilena.

Era per quello se si ritrovò a tentare di placare il ritmo del suo respiro con il cuore che gli martellava prepotente nella cassa toracica; i palmi sudati erano stretti a pugno ed incisi da una serie di mezzelune rossastre, mentre lo sguardo vagava perso sul cursore del suo pc, che lampeggiava ad intermittenza su una pagina di appunti lasciata semivuota. 

E la sua espressione, quella com'era? Forse li vide riflessi negli occhi impossibili di Eren i suoi capelli spettinati e le labbra arrossate e martoriate dai morsi, così come le iridi sgranate, scure di terrore. Forse, invece, tentò egli stesso di dare un'immagine alla turbolenza di emozioni che sentiva nascergli dentro e che gli veniva scagliata contro come un macigno, pervadendolo di brividi ed un profondo senso di nausea.

Si impose di rispondere ad Eren per puro orgoglio, per mantenere almeno una parvenza di dignità davanti a quel ragazzo che sembrava immune a tutto. In quel momento, Levi desiderò essere come lui. Bramò con un desiderio mai provato prima di allora di non soccombere al passato, di essere capace di rivivere quei ricordi con una sensazione dolceamara nell'animo che gli avrebbe fatto spuntare un mezzo sorriso nostalgico e triste sulle labbra. Perché per lui pensare ad Isabel era sempre stato paragonabile ad un dolore atroce all'altezza del petto, allo strazio della sua povera anima scura e già ridotta in brandelli laceri. Quella voglia ardente di poterla ricordare serenamente quasi lo soffocò col suo calore, quando si costrinse a parlare. 

"N-Non se ne parla proprio, scordatelo. Non ho la più minima intenzione di perdere il mio tempo con te."

Trattenne a stento qualche insulto verso sé stesso e si morse la lingua al tremolio traditore della sua voce, fino a sentite il sapore metallico del sangue infestargli la bocca e pungergli il palato. Iniziò ad infilare il suo portatile nello zaino, non curandosi di dare importanza ad Eren voltandosi nella sua direzione; era già stato abbastanza scorgere il cipiglio confuso che adombrava il suo bel viso, misto a curiosità, dolore e a qualcos'altro che Levi non fu in grado di cogliere. 

Attorno a loro l'aula era semi-deserta, e i pochi studenti che erano ancora rimasti fra quelle quattro mura impregnate di sapere si accingevano a recuperare i loro giubbotti dagli attaccapanni sulle pareti. Il castano se ne sarebbe potuto andare, eppure era rimasto a vederlo struggersi dall'interno, a veder crollare come fosse cartapesta la spessa cinta di mura con cui aveva circondato il suo cuore e il suo animo e di cui aveva posato la prima pietra quel fatidico due di ottobre di quattro anni prima. 

Mattoni su mattoni tenuti insieme da un calcestruzzo impastato di odio, rancore, paura, solitudine, esasperazione, dolore nella sua accezione più pura e lancinante. Un muro che era ormai diventato invalicabile, inespugnabile se non nei brevi momenti in cui i ricordi riuscivano a fare breccia, unici nemici capaci di perforarlo precisi e letali come enormi spilli.

Erano momenti delicati come sottilissimo vetro, in cui il suo animo veniva gettato in una quiete malsana intervallata ad un tumulto emotivo che lo lasciava quasi sempre con gli occhi umidi e lucidi. Ed era subdolo, il ricordare in maniera così vivida. Gli si insinuava nella mente all'improvviso come un dardo scagliato ad una velocità troppo elevata per essere evitato e non gli lasciava una via di scampo, assoggettandolo al susseguirsi di quelle immagini dolorose che dentro lo facevano urlare di disperazione. 

"Levi..."

Il suo nome gli giunse mormorato in un sussurro fioco e preoccupato, e il corvino raccattò velocemente le sue cose riponendole frettolosamente nello zaino. Le dita, il corpo e l'anima gli tremavano per la smania febbrile che aveva di lasciarsi l'aula alle spalle, di lasciarsi Eren alle spalle e rifugiarsi nell'amicizia della propria solitudine. Non sopportava più il fuoco che pareva propagarsi appena al di sotto della sua pelle diafana, irradiato direttamente da quegli smeraldi preziosissimi.

Si alzò nervosamente, non curandosi di fare troppo rumore e di attirare lo sguardo curioso di qualche collega che si era fermato a chiacchierare sulla soglia della grossa porta tagliafuoco all'ingresso dell'aula; la raggiunse a passo veloce e oltrepassò i ragazzi quasi correndo, scivolando a testa bassa fra di loro come il fantasma che pretendeva di essere ogni giorno.

Levi era esausto, così esausto che sarebbe potuto crollare su sé stesso da un momento all'altro e soccombere sotto le macerie del proprio muro in frantumi. Si sentiva prosciugato di ogni energia fisica, privato di qualsivoglia stato d'animo che fosse anche lontanamente classificabile come positivo. 

Solo paura, disperazione, esasperazione e una voglia di urlare fino a lacerarsi le corde vocali e farsi collassare i polmoni. Una voglia incurabile di solitudine, di silenzio; un desiderio malato di venir tagliato fuori da tutto e da tutti, di escludersi volontariamente dalla vita. In fondo, lui proprio non se lo meritava di vivere.

"Levi! Levi, ehi!"

La zazzera mogano di Hanji gli si parò davanti, l'acconciatura più disordinata del solito e le iridi castane intrise di preoccupazione. Le scoccò un'occhiataccia e la evitò con una spallata continuando a dirigersi verso l'uscita, saturo dell'aria carica di tensione all'interno dell'edificio che gli inondava i polmoni e gli chiudeva la gola. Aveva bisogno di respirare, di solitudine, di lasciarsi alle spalle tutto fino a farlo svanire nel buio della sua camera. Anche se dubitava che l'oscurità sarebbe bastata a contrastare la brillantezza di quegli occhi verdi.

"A-Aspettami! Dove vai?"

"Via da questo posto, Hanji. Lasciami in pace, voglio stare da solo."

Aveva bisogno di stare solo, di stare in silenzio e di urlare dentro fino a dilaniarsi l'anima, di lasciare che le sue emozioni facessero un casino assordante e lo pervadessero nella quiete; non una parola, non un lamento avrebbe lasciato le sue labbra. Ne aveva un bisogno malato e viscerale, della solitudine; sentiva che sarebbe potuto impazzire da un momento all'altro, completamente sopraffatto dai ricordi e dai modi di fare di quel ragazzo che prosciugava tutte le sue energie e se ne cibava come una sorta di sanguisuga emotiva.

Per tutta risposta, l'amica lo bloccò per le spalle e catturò la tempesta dei suoi occhi con i propri, bloccandolo sul posto. 

"No, Levi, non ti lascio in pace. Non quando sono due settimane che stai peggio del solito e che rifiuti qualunque forma di aiuto e contatto, anche da parte mia. Che succede? Ti prego, parlami... Sono preoccupata per te."
 

Il petto gli fece male quando si specchiò nel velo umido che ricopriva le iridi dell'amica, e il cuore gli tremò appena; Hanji non si meritava quel trattamento; lui era dannatamente incapace di esprimere qualunque forma d'affetto provasse nei suoi confronti. Si fece piccolo davanti a quello sguardo, sentendo la propria esistenza diventare insignificante ed effimera, di troppo. I suoi modi di fare così bruschi e ruvidi riuscivano perfino a spegnere l'esuberanza di Hanji e a trasformarla in rassegnazione. 

Era come se Levi irradiasse una sorta di tossico veleno mortale, capace di spegnere tutto e di uccidere con un solo flebile tocco o sguardo ghiacciato. Si vergognò di sé stesso così tanto da fare male.

"Levi, eccoti! Sei scappato, che-"

Quella voce di miele colato che aveva odiato fin dal principio s'infranse non appena gli smeraldi preziosissimi di Eren trovarono la figura di Hanji, esaminandola da capo a piedi. Levi tremò, tremò per davvero.

Ogni singola fibra del suo corpo parve flettersi spasmodicamente fino a sfiorare il punto di rottura per poi rilasciarsi all'improvviso e colpirlo con un doloroso colpo di frusta, che gli lasciò addosso la stessa sensazione bruciante di quegli occhi verdissimi sulla sua pelle pallida. 

La zazzera castana disordinata incorniciava il bel viso appena arrossato; teneva il suo squallido bloc-notes rovinato sotto braccio, lo zaino era semi-aperto e la solita penna dal cappuccio disgustosamente mordicchiato infilata dietro l'orecchio nella foga di raggiungere il compagno. Il suo respiro era leggermente accelerato.

Lo sguardo di Hanji si fece interrogativo, grande di sorpresa e improvvisamente colmo di felicità ed interesse. Lasciò andare le spalle del corvino per rivolgere tutte le sue attenzioni ad Eren, le iridi brillanti. Quanto tempo era che Levi non lasciava nessuno avvicinarsi a lui, che si chiudeva dentro sé stesso in una stanza fin troppo piccola e buia e di cui aveva gettato la chiave? Eppure, quel ragazzo che non aveva mai visto prima di allora, aveva appena pronunciato il suo nome con una naturalezza che l'aveva lasciata spiazzata. Non riuscì a dare un nome al tumulto di emozioni che scosse la sua anima e che gli ricacciò le lacrime indietro.

Quel ragazzo sembrava vederlo davvero, essere in grado di raggiungere il vero Levi ovunque si trovasse con la sola forza di uno sguardo. Tremavano le sue dita, quando le porse al castano per stringergli la mano, ma qualcosa dentro di lei parve tornare al proprio posto, trovando un incastro perfetto come il tassello di un rompicapo. La sua voce tradì l'emozione e l'aspettativa.

"Oh, tu devi essere un collega di Levi! Piacere, Sono Hanji Zöe."

"Eren Yeager, il piacere è tutto mio."

E allora il corvino volle scappare, fuggire lontano, fingere di non essere mai esistito e nascondersi in eterno; fece un fracasso assordante la sua anima quando Levi gli passò un braccio attorno alle spalle e lo strinse a sé, e quelle iridi assurde furono nuovamente puntate nelle sue, indagatorie e preoccupate, impossibili. Levi pensò che il suono del nome della sua condanna a morte fosse disgustosamente dolce, mentre lasciava che i due conversassero animatamente. Non era più nell'occhio del ciclone, e non era sicuro di quanto sarebbe riuscito a resistere. Ma la cosa peggiore era che tutto di Eren pareva urlargli una sola cosa, dal modo in cui lo guardava ai suoi atteggiamenti.

Non riuscirai a sfuggirmi.

Fu forse proprio in quel momento che anche l'ultima fiammella di speranza si spense per lasciare posto ad una consapevolezza dilaniante che straziò la sua anima; aveva vinto, l'Universo aveva vinto davvero, ed aveva l'aspetto di un bellissimo ragazzo dagli occhi assurdi. 

Scacco matto, Levi Ackerman.

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SPAZIO AUTRICE

Ce l'ho fattaa!🎊🎉🎊🎉 Mi dispiace sempre farci aspettare per gli aggiornamenti, ma come vi ho già detto tengo molto a questa storia e non riesco a scriverla sempre. È parecchio difficile da buttare giù. Spero però che l'attesa sia valsa la pena e che il capitolo vi sia piaciuto. 

Alla prossima!❤️✨

   
 
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