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Autore: dispatia    09/01/2020    1 recensioni
[riscrittura della mia ff del 2015 "Un anno da incubo, ovvero: quando un fratello pestifero non è abbastanza" ; just for fun!]
Fin dove può arrivare l'odio di un essere umano per altri esseri umani? Quanto è profondo il baratro della follia, quando ci cadi dentro per brama di vendetta?
Quanto può distorcersi la visione del mondo, prima di spezzarsi?
Amaaris pensava di averlo capito quando per la prima volta si era affacciata sull'enorme mare della guerra. Dopo più di una vita passata col fratello, legati da un'alleanza violenta e immorale nei secoli, credeva finalmente di aver trovato la pace, di essersi guadagnata la sua vita normale. Ma doveva ancora capire come la realtà trovasse sempre un modo di rigirarsi, ferire, e complicare le cose; come la ruota girasse così in fretta da farla passare in una settimana da una normale studentessa liceale a membro di un corpo speciale, in una disperata corsa contro il tempo per salvare tutto ciò che le rimaneva, per non ritrovarsi ancora una volta con un pugno di cenere in mano…
(MOMENTANEAMENTE IN PAUSA)
Genere: Angst, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bekuta/Vector, Nuovo personaggio, Yuma/Yuma
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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stage 2: cambiamento

 
Se mio fratello era stato un pessimo bariano che si era inimicato tutti gli altri imperatori io ero riuscita a rimanere perlomeno neutrale, fuori dai suoi geniali giochi di potere. Ad essere totalmente sinceri non era andata così, ma il concetto di base rimaneva quello. Gli altri sei imperatori non mi vedevano con gli stessi occhi con cui scrutavano Vector, ancora sospettosi e guardigni - anche se avevo l'impressione che Merag e Dumon avessero opinioni conflittuali, data la nostra storica rivalità di regni e un piccolo incidente di percorso di cui non credo sia adeguato parlare adesso -, ma come una sorta di sorella minore.
Non mi sarei spinta a dire che eravamo davvero una famiglia, ma poco ci mancava. Quando si combatte una guerra fianco a fianco, per quanto l'impresa suoni disperata e per quanti compagni si vedano cadere, è inevitabile si finisca a legare a un livello che qualcuno che non ha passato le stesse esperienze non può comprendere. Non sentivo di meritarmi il perdono degli esseri umani, ma il loro... forse sì.
Tutto questo discorso, essenzialmente, è per giustificare il fatto che quella mattina fossi ferma davanti casa di Alito, senza ledere troppo il mio orgoglio ammettendo che dopo la discussione - e l'incubo - del giorno prima avevo bisogno di quella specie di fratello maggiore che mi era stato ingiustamente negato.
Avevamo un bel rapporto, noi due. Non avrei saputo davvero spiegare perché, o quando l'avessimo instaurato, dato il burrascoso trascorso di entrambi, ma era sempre la prima persona con cui sentivo il bisogno di parlare quando qualcosa andava male.
O quando non ne potevo più di sopportare mio fratello.
Suonai il campanello per la terza volta, cercando di non innervosirmi per la sua incapacità di essere puntuale. Era per quello che andava così tanto d'accordo con Yuma? Perché avevano in comune ogni singolo difetto?
Finalmente la porta si aprì, e non sembrò minimamente sorpreso del fatto che fossi io. Aveva già la divisa addosso, la cartella in mano, e le chiavi sulla toppa per richiudere, facendomi intuire che Girag era già uscito.
Strano. Di solito erano inseparabili. Ma decisi di evitare domande.
« Andiamo? », chiesi, cercando di reprimere l'impulso di lamentarmi per il suo ritardo nonostante non lo avessi avvisato che sarei passata. Ero cresciuta come una principessa, in fondo; certe abitudini viziate erano dure a morire, come quell'ossessione di mio fratello per il darmi ordini, o il mio problema con l'accettare di dovermi rimettere a posto la camera da sola. Già imparare a cucinare pranzo e cena era stato complicato per entrambi.
Annuì, cominciando a camminare per la solita strada.
In tutta sincerità eravamo comunque in anticipo. La strada era sgombra, il cielo ancora pallidissimo d'alba, e l'aria talmente fredda e pulita da ferirmi la gola. Insomma, la mia atmosfera preferita, tanto che il cattivo umore scemò in fretta.
Non avevamo bisogno di parlare per capirci, ma sapevo che si aspettava comunque che gli dicessi qualcosa. Non ero così opportunista da cercarlo solo quando avevo bisogno di parlare, ma neanche così amichevole e gentile da svegliarmi presto solo per vederlo.
Sospirai, gettando le braccia dietro la testa per stirarmi e cercando di capire da dove partire, senza venirne a capo. Non volevo accusarlo di nulla, ma un dubbio iniziava a crescermi dentro, ingiustificato, ma che necessitava risposte. Decisi di non partire in quinta, e di tastare il terreno prima.
« Come vanno le cose con Kotori? »
Eccolo che partiva. Gli si illuminarono gli occhi, si aprì in un sorriso, forse iniziò pure a brillare di luce propria, non ne ero sicura. Dirgli "Kotori" era come benedirlo.
« Ieri sono riuscito a vincere un appuntamento. »
« Eh?! »
Ok, questo non me lo aspettavo. Lo guardai con un'espressione idiota, le labbra socchiuse e gli occhi sgranati, per poi scuotere la testa con una risata.
« Mi stai prendendo in giro. Andiamo Alito non è carino- »
« Sono serissimo. »
Lo era. Era serissimo.
Rimasi inebetita per un altro paio di secondi, per poi sorridere, di cuore. Ero felice per lui. Pensavo lei avesse ancora quall'antica cotta per Yuma, ma forse le cose erano cambiate. Forse aveva capito che non sarebbe mai stata ricambiata o qualcosa del genere.
Perlomeno speravo non fosse così meschina da usare Alito come strumento per tentare di ingelosire Yuma, perché altrimenti se la sarebbe vista con me. Anche se l'idea non suonava particolarmente spaventosa, detta da una che non toccava il metro e sessanta neanche sulle punte, in effetti.
« Cavolo amico. Grande. Vedi di vincere, uhm, il suo cuore. Hai già comprato i mazzi di fiori? Scritto la poesia? »
Speravo capisse che stavo scherzando ma mi prese estremamente sul serio. Quando ci si metteva mi faceva paura, con quell'emotività così esplosiva e quell'amore così passionale.
« Farò di tutto vedrai. Ti andrebbe di darmi una mano? Come mi dovrei vestire? »
« Credo tu stia benissimo così. »
« Con la divisa? »
« Saresti figo anche con un sacco di patate addosso Alito. », sorrisi, dandogli un pugnetto sulla spalla « Andrai alla grande. »
Poi esitai, ricordandomi la domanda che gli volevo fare all'inizio del nostro discorso.
« Senti posso farti una domanda? »
« Certo, dimmi pure. »
Cercai i suoi occhi, cercando di suonare smaliziata e cristallina. Sapevo che non mi avrebbe mai mentito, non era il tipo, eppure temevo comunque la risposta.
« Sta succedendo qualcosa in cui gli altri imperatori sono coinvolti ed io no? »
Si fece serio, e il mio stomaco fece una capriola. Aprì bocca per rispondermi, ma eravamo di fronte a scuola, e questo lo salvò da una risposta estremamente scomoda.
« Scusa ma devo andare in classe, ho un compito. Ne parliamo più tardi ok? »
Suonava genuino, mentre scappava via, ma io sentivo comunque un brutto presentimento scivolarmi sopra il collo come un'ascia pronta all'esecuzione.

 
« Io sono Luna, molto piacere. »
La nuova arrivata aveva i capelli scuri, legati in due spesse treccie a spina di pesce, e lo sguardo serio, accentuato dall'iride di un azzurro innaturale dell'unico occhio visibile. Aveva qualcosa che mi metteva i brividi, e non si trattava unicamente del fatto che avesse quella voce così monodica e metallica o l'occhio destro coperto da una benda. Non avrei saputo collocare cosa in lei mi disturbasse, ma mi si erano drizzati i peli sulle braccia, e ogni singolo muscolo del mio corpo si era irrigidito in maniera irragionevole.
La professoressa sembrò un po' titubante a quella presentazione così breve, e si affrettò ad aggiungere un paio di dettagli - che era cagionevole di salute e per questo non si era presentata prima, era un'ottima studentessa, sperava avremmo legato adeguatamente, bla bla bla -, ma io ero troppo presa a capire se quelle sensazioni fossero ricollegate al presentimento che mi aveva sfiorato quando Alito se n'era andato senza rispondermi.
« Ha qualcosa di strano. », sentii Yuma mormorare accanto a me, « Come se... non so. Forse se duellassi con lei capirei il problema. »
Mi voltai, inarcando un sopracciglio.
« Credi basti un duello a capire qualcuno? »
Si strinse nelle spalle.
« Con Shark e Kaito ha funzionato »
Touché.
Tornai a voltarmi verso di lei, ormai seduta al proprio posto al fianco di Kotori, e appoggiai il viso sulla mano, nervosa. Non mi piaceva per nulla la situazione che si stava tessendo intorno a me, ma non sapevo cosa fare per evitarla.

 
Alla pausa pranzo finii per vagare alla cieca per i corridoi, non sentendomi particolarmente interessata all'idea di assistere al duello fra Yuma e Luna, se ci fosse stato. Avevo paura di vedere realmente la sua forza, ma questo non potevo ammetterlo a me stessa; guardando la cosa con la consapevolezza della rapida serie di eventi in discesa che partì da quella scelta non so ancora se sia stata una buona o una cattiva idea. Solo una scelta necessaria all'andamento di una trama che non mi era dato conoscere, e che di conseguenza non trattavo con il dovuto timore.
Avrei avuto tutto il tempo di pentirmene.
Le mie gambe mi avevano portata di fronte alla classe di Vector, e stavo soppesando l'idea di entrare e dargli fastidio per il puro gusto di farlo - cose da fratelli, tutto nella norma - quando sentii distintamente la voce di Nash, seria come se stesse leggendo una condanna a morte. Bastò a suscitare il mio interesse: mi appoggai al muro, di fianco alla porta, e trattenni il respiro per riuscire a sentire di cosa stessero parlando.
Lo so, lo so. Origliare è sbagliato. Ma quando due accerrimi nemici si parlano senza sbranarsi vuol dire che c'è qualcosa di grosso in corso, e non volevo perdermelo.
« Ti stai comportando come uno stupido. Vuoi davvero che venga presa di sorpresa? Credi seriamente che riusciremo a contenere tutto questo? Stando a quello che dice Christopher- »
« Non verrà presa di sorpresa da nulla. Nash, tu non la conosci come la conosco io. Non ha la forza di sopportare neanche un maledetto horror splatter senza avere un attacco di panico e tu credi potrebbe farcela in una situazione simile? Morirebbe. »
« Preferisci davvero venga aggredita e lo scopra in quel modo? »
Silenzio, teso, e il mio cervello che ronzava. Mi sembrava tutto attutito, confuso. Di che diavolo stavano parlando?
« Non verrà aggredita finché ci sarò io. » sputò fuori alla fine la voce di mio fratello, colma di stizza. « Ascolta, se fosse stata una brava duellante avrei considerato lasciare che entrasse a far parte della squadra. Ma non lo è. E non metterò a rischio la sua vita per nulla. »
« Quando smetterai di trattarla come un'incapace Vector? »
« Quando smetterà di esserlo. »
E poi non sentii più nulla perché capii che stavano per uscire e fui costretta a scappare via, accellerando quando sentii qualcuno chiamare il mio nome, certa che se fosse stato mio fratello che mi aveva vista origliare non sarei tornata a casa viva.

 
Uscii dall'edificio con la testa piena di pensieri, e un gran caos di ipotesi e orgoglio ferito nel cervello. Un'incapace. Mi credeva un'incapace e una pessima duellante. Se avessi potuto l'avrei sfidato a duello per dimostrargli chi era il fratello migliore - io - ma non avevo il deck dietro.
E l'ultima volta che l'avevo sfidato mi aveva usato come straccio per i pavimenti, ma questo era un altro discorso.
Mi misi a vagare distrattamente per il cortile, mettendomi il duel gazer per godermi la marea di mostri che infestava la zona all'ora di pranzo. Era bello vedere quanto ardore genuino ci mettessero gli studenti in quel gioco, forse influenzati anche dal fatto che non l'avevano mai visto come altro - quando ci si ritrova a duellare per la propria vita si fa un po' di fatica a divertirsi tanto, ecco -, e riuscì a dissipare un poco i miei desideri omicida verso Vector.
Notai Kotori da una parte, appoggiata al muro. Sembrava persa nei suoi pensieri e, cosa allarmante, non c'era traccia di Yuma intorno, facendomi venire in mente il discorso che avevo avuto con Alito quella mattina. Era davvero riuscito a conquistarla? Facevo ancora fatica a crederci.
Mi avvicinai, aggiustandomi un poco l'acconciatura che quella mattina per la fretta di uscire non avevo fissato a sufficienza, cercando di tirare su un sorriso dalla mia solita faccia distante. Era un'altra di quelle cose che avevo di differente da mio fratello: lui sembrava sempre tranquillo, io sempre arrabbiata o triste, eppure le nostre personalità erano esattamente contrarie ai volti.
Ironico.
Rispose al mio sorriso, con tutta la gentilezza che riuscì a tirare fuori, nonostante, lo sapevo, provasse una certa ritrosìa nei miei confronti. Se non le interessava più Yuma non era gelosa del rapporto che iniziava ad instaurarsi fra noi, ma questo non cancellava tutte le volte che l'aveva visto sull'orlo della morte a causa dei bariani.
Era una faccenda delicata, e io cercavo di rispettare i suoi spazi senza sembrare antipatica. O almeno speravo di dare quest'impressione.
« Ehi », la salutai, appoggiandomi accanto a lei, « va tutto bene? »
Si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo, e iniziò a lisciarsi la gonna. Non era molto incoraggiante come inizio, pensai, ma aspettai che parlasse senza metterle fretta.
« Sì... diciamo di sì. Ecco, non so se sto facendo la scelta giusta. »
Soffocai una smorfia. Bene, era arrivato il mio momento di fare la brava amica con Alito e dare una spintarella anche a lei nella sua direzione.
« Se vuoi parlarmene sono felice di ascoltarti. So che non siamo ancora molto vicine, o amiche, ma credo di essere brava a dare consigli. »
Si scostò una ciocca dietro l'orecchio, annuendo. Era facile guadagnarsi la sua fiducia, proprio come con Yuma, ed io lo trovavo affascinante. Mi sarebbe piaciuto essere così tranquilla con gli altri, mettergli il cuore in mano senza pensarci due volte.
Ma una vita con Vector mi aveva insegnato a fare altrimenti.
« Vedi, io e Alito... », oh, ecco che arrivava. Era arrossita, a dire il suo nome, e lo presi come un buon segno. « Domani dovremmo uscire. A me è piaciuto Yuma per tantissimo tempo, anni ormai, e ancora non riesco ad andare avanti anche se vorrei. A questo punto la parte razionale di me si è arresa, però... Amaaris, hai mai avuto una cotta del genere? Dove sai che devi andare avanti, e hai la perfetta possibilità di farlo, ma ti senti bloccata sul posto? »
Esitai. Un paio di occhi mi passarono per il cervello, e poi scomparvero, facendomi aggrottare le sopracciglia. Tecnicamente la memoria mi sarebbe dovuta essere tornata integralmente, eppure sentivo che mancava qualcosa, qualcosa che includeva la risposta a quella domanda. Alla fine mi strinsi nelle spalle e mi girai a guardarla.
« No », decisi di essere sincera « ma capisco cosa provi. E se vuoi un consiglio, non ne vale la pena. Conosco Alito da un sacco - insomma, un po' di tempo -, ed è un ragazzo d'oro. Non che Yuma non lo sia, solo... se vuoi un'opinione esterna ti vedrei meglio col primo che col secondo. Ti meriti qualcuno che ti metta sopra ogni altra cosa e... me lo permetti? Che abbia la maturità di capirti. »
Oddio, suonavo come un giornaletto rosa scadente, ma mi guardava con una certa luce negli occhi che speravo fosse adorazione e non desiderio di uccidermi per aver velatamente insultato il suo migliore amico.
Alla fine accennò ad una risatina, distogliendo lo sguardo per guardare il cielo, e sentii di aver schivato un proiettile.
« Forse hai ragione. Quindi... posso farti una domanda, a questo punto? »
Annuii.
« A te piace Yuma? »
Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva.
« Scusami? », riuscii a boccheggiare, guardandola come se mi avesse tirato uno schiaffo. Si tirò indietro, mettendo le mani avanti, con l'espressione un po' più imbarazzata.
« È che mi sembrate così vicini... certo vi conoscete da pochissimo tempo però io credevo che, ecco, insomma... »
Scossi il capo con più veemenza del voluto.
« Nonono. Sei fuori strada. Non mi piace Yuma. Mai piaciuto Yuma. Neanche quando si è messo a piangere quando sono morta. No. »
« Ma non si è messo a piangere... »
Suonò la campanella della fine del pranzo. Grandioso. Non avevo mangiato, non avevo dato risposta a nessuno dei miei dubbi, e ne avevo anche aggiunti altri. Però, per qualche motivo, parlare un po' con lei mi aveva rilassato i nervi, abbastanza da farmi sfuggire una risata che doveva scappare da fin troppo tempo.

 
« Bentornato! » Strillai dalla cucina, cercando di sovrastare lo sfrigolìo della padella e la televisione accesa « Togliti la giacca, ho acceso il riscaldamento. »
« Lo sai quanto costa? Lo spengo. »
« Azzardati e... »
Sembrava una normale scena quotidiana, come tutte le altre. La luce soffusa della cucina mi era stata di grande compagnia mentre rimuginavo su cosa dovevo dire a mio fratello, come, e sul se avvelenargli la cena. Alla fine avevo optato per far finta di niente, se avesse fatto lo stesso, e sul lasciarlo in pace a costo del mio orgoglio - non per gentilezza ma perché avevo l'assoluta certezza che se avessi tirato troppo la corda alla fine si sarebbe spezzata nel peggiore dei modi.
Vector apparve sulla porta - senza la giacca, a segnalare che avevo vinto -, appoggiato allo stipite, e iniziò a fissarmi in un modo che mi diceva avesse voglia di parlare; per qualche motivo m'irritò, e decisi di non dargliela vinta, non come voleva lui.
Mi aveva rifiutato risposte fino a quel momento, e adesso pretendeva qualcosa da me? La sua sorellina inetta? Non se ne parlava proprio.
« Ti dispiace apparecchiare? »
« Ris oggi- »
« Prendi i piatti bassi, ho fatto le salsiccie, non perdere tempo a ringraziarmi, so di essere la sorella migliore del mondo. »
Fece una smorfia e obbedì alla mia richiesta senza aggiungere altro. Dentro faceva caldo, eppure sentivo freddo.
Io e lui ci eravamo promessi di non mentirci più quando per l'ultima volta eravamo stati reincarnati come esseri umani da Astral, grazie al codice numeron. Avevamo avuto un bel po' di tempo per parlarci, per capirci, per colmare il vuoto che si era creato, decisi a fare le cose per bene, questa volta.
Ma adesso tutto sembrava essersi annullato. Non mi sarei stupita a vederlo tornare alla sua forma bariana, a ridere come uno psicopatico o a trascinarmi in missioni disperate alla ricerca della distruzione del mondo astrale. La situazione non era così estrema, ma poco ci mancava.
Non ero mai stata brava a smettere di fidarmi di lui, anche se ogni volta tornava indietro come un boomerang in pieno volto.
« Amaaris? »
Aveva addolcito la voce, ma non mi sentivo per nulla propensa a cedere. Tirai via la padella dal fuoco, dopo averci messo sale e pepe, e gli feci cenno di portarmi i piatti, senza aprir bocca.
« Guardami. »
Stessi occhi, menti simili, sangue dello stesso sangue crudele, mani di assassini e peccati capitali impressi a stormi sottopelle in mille ghirigori. Forse non riuscivamo ad incastrarci come volevamo perché eravamo pezzi troppo simili del puzzle, anche se l'idea mi rivoltava lo stomaco.
Amavo mio fratello, e per questo volevo fosse la cosa più differente da me sulla faccia della terra.
Eppure, eravamo lì. Tornavamo sempre lì.
« Oggi hai sentito la mia conversazione con Nash, vero? » Parlava piano, senza abbassare lo sguardo dal mio. Era faticoso sostenerlo, ma non sarei stata la prima a perdere anche quella volta. « Quanto hai sentito? »
« Oh, le solite cose. Che mi ritieni un'incapace e che vuoi tenermi fuori da questa storia. Non preoccuparti, non so nulla che tu non vuoi io sappia. »
Sputavo veleno, e non riuscivo a smettere. Non mutò espressione, ma riuscivo a leggere un'emozione infelice dietro l'indifferenza.
« Io voglio solo proteggerti. »
« Come quando volevi proteggermi da Don Thousand? No aspetta, come quando mi hai inglobata per le tue manie di onnipotenza di diventare un Dio? Quando hai fallito per l'ennesima volta, ma non ti sei risparmiato dal trascinarmi nel tuo stesso baratro? »
Distolse lo sguardo. Bene.
« Vuoi proteggermi come quando mi hai uccisa, Vector? »
« È proprio per questo che voglio tenertene fuori Amaaris! »
Esitai. Non mi guardava, ma mi resi conto che era perché stava cercando di controllare la rabbia.
Ed io volevo sentirlo urlarmi addosso, per sentirmi giustificata di quello che provavo, perché essere infantile era l'unica strada che riuscivo a prendere, come sempre.
« Tutte le volte in cui ho sbagliato mettendoti in mezzo mi hanno fatto capire che non sopporto questo circolo vizioso di perderti ancora e ancora e ancora. Non ne posso più di trascinarti con le mie stesse mani nella tomba. »
Ecco, quello fece male, come un diretto pugno allo stomaco. Mi stava manipolando per l'ennesima volta, e comunque sentirlo dire quelle parole mi aveva fatto salire le lacrime agli occhi.
Lo odiavo, lo amavo, lo odiavo.
Abbassai lo sguardo per non fargli vedere gli occhi lucidi mentre tentavo di contrattaccare, e lui prese quel lasso di tempo per insistere.
« In passato ho commesso così tanti errori che non mi basterebbe un'altra vita intera per redimermi. Ma lascia che almeno questa volta faccia le cose per bene. Quello in cui ti vuole trascinare Nash è un lavoro pericoloso, dal quale non torneresti intera, o nel corpo o nell'anima. Perché è così difficile per te accettare di essere debole? »
Stavo per arrendermi, per dargli ragione, ma quelle ultime parole tornarono a farmi bruciare di rabbia. Ecco dove voleva arrivare, come tutte le volte, al solito discorso per sminuirmi e ridurre la stima di me stessa in cenere pur di usarmi al meglio.
Ero stanca di fidarmi.
« Non accetto di essere debole perché non lo sono. » sibilai « E te lo dimostrerò. »
Non gli diedi il tempo di rispondere; scappai via dalla cucina, presi la sua giacca dall'appendiabiti e sparii in strada.

 
Le vie di Heartland erano buie, nonostante la luce dei lampioni tentasse di bucare l'oscurità con qualche esitante lampo giallastro, ma per me sarebbe stato lo stesso se ci fosse stato il sole. Mi stringevo nella giacca di mio fratello, combattendo in qualche modo il freddo che faceva a quell'ora, e ignoravo ogni macchina e persona che incrociava la mia strada.
Mi sentivo a pezzi, come mai prima. Continuavo a mettere il mio cuore in mano a Vector solo per vederlo ridotto a brandelli alla prima occasione buona. Ero patetica a lamentarmene, mi ci cacciavo da sola in queste situazioni, ma non riuscivo a pentirmene fino in fondo: era un circolo vizioso che si ripeteva uguale in ogni vita, e ogni volta mi portava alla morte.
Le gambe mi portarono dove volevano, assecondando la mente che vagava tra il tentare di credere alla compassione di mio fratello e il rigettarla, e mi resi conto troppo tardi di essermi persa nei vicoli di uno dei quartieri malfamati.
Vorrei tanto dire che a quel punto la paura mi fece fare la giusta decisione di prendere il telefono, chiamare qualcuno e farmi venire a prendere, o che perlomeno mi convinse ad uscire di lì, ma avevo il cervello talmente annebbiato da sentimenti contrastanti che registrai l'informazione con l'indifferenza con la quale constatavo se c'era il sole o pioveva. E fu per questa combinazione di cose che assistetti ad una scena che al contempo riaprì un baratro antico e ne spalancò uno nuovo ancora peggiore.
Stavo camminando ormai da mezz'ora, sempre più stanca e demoralizzata, quando un suono attirò la mia attenzione. Un suono orribile, metallo stridulo contro metallo, accompagnato da gorgoglii doloranti.
Feci la scelta sbagliata, e mi affacciai all'angolo del vicolo dal quale provenivano i rumori.
In un secondo vidi mille cose, e una sola. Vidi Luna, qualcosa che sembrava sangue, e sopratutto la lama di un coltello che entrava inequivocabilmente nella gola di un corpo tenuto fermo al muro dalle sue mani. Non seppi distinguere altro, perché in un attimo ogni ricordo, ogni secondo del mio peccato, mi sgorgò dalla mente riempiendomi gli occhi.
Ecco, le mie mani grondanti di sangue innocente. Ecco, i condannati che m'imploravano, chiedendo una giustizia che non esisteva. Ecco, la guerra. Ecco... ecco... c'era la voce di mio fratello che rimbombava da qualche parte di una scena talmente vista e rivista da essersi consumata in colori sbiaditi e suoni soffocati, coperti da un rombo che doveva essere la mia sanità mentale che collassava su se stessa ogni volta.
« Amaaris, tieni tu il regno finché io sono via. »
Forse gridai, forse no. Qualcosa uscì dalla mia gola, ma suonò come un singhiozzo, una supplica, ti prego fallo smettere, non sono io quella, non volevo, abbi pietà...
L'unica cosa che seppi era che stavo correndo, che quei ricordi non mi uscivano da dentro per quanto lo desiderassi, e che dovevo vomitare.
La notte era calma, il cielo sereno. Io avevo gli occhi appannati di lacrime ed ero certa stesse per piovere, doveva piovere, per forza, sennò perché avevo le guancie bagnate? Non sentivo nulla, non provavo nulla che non fosse orrore e paura, non di Luna, ma di me stessa.
« Segui la mia filosofia. Nessuna pietà. Nessun processo. Nessuna salvezza. »
« Posso uccidere io personalmente? »
« Non è molto da principessa ma... »
Qualcuno mi afferrò il braccio, facendomi gridare.
« Lasciami! »
« Calmati! »
Una voce maschile, familiare. Qualcosa dentro di me reagì, fermandomi nel mezzo dei tentativi di colpirlo per liberarmi, e quello bastò perché lentamente, in quella paralisi, il mondo tornasse ad avere dei contorni non macchiati di sangue.
La prima cosa che realizzai furono due occhi blu come il mare. La seconda, che pensavo di aver corso per ore, ma ero a malapena all'ingresso del quartiere. La terza, che dovevo ancora vomitare.
Mi voltai, scansandolo con una spinta, sentendomi ancora più debole di prima dopo essermi liberata del nulla che avevo mangiato quel giorno. Ancora un po' e sarei svenuta davanti a lui; non esattamente il mio sogno proibito.
Odiavo dare ragione a mio fratello. Odiavo essere debole.
Mi girai di nuovo, ancora confusa e bruciante d'imbarazzo, e indietreggiai fino ad arrivare al muro, scivolando a terra. Mi girava la testa così tanto, in fondo, che stare in piedi era solo un prolungare l'agonia.
Nash s'inginocchiò davanti a me, con uno sguardo che avevo imparato a riconoscere moltissimo tempo prima. Quello sguardo che era stato il primo e l'ultimo, alfa e omega della mia umanità.
Odiavo anche lui, in quel momento.
« Lasciami stare. » riuscii a mormorare, tirando fuori la voce da neanche io so dove. Mi resi conto che stavo stringendo la giacca di mio fratello come un'ancora di salvezza e allentai la presa, vagamente disgustata dall'idea. Vector era stato tutto nella mia vita meno che una salvezza.
Si limitò a fissarmi, per una manciata di secondi, e mi sentii in dovere di continuare a parlare anche se sembrava una tortura.
« Sto bene. »
Mi sembrava la frase giusta da dirgli per farlo andare via e lasciarmi nel mio angolo a piangere, ma non funzionò. Scosse il capo, guardando per un attimo dietro di sé come se stesse controllando qualcosa di invisibile, e poi mi prese il braccio - con più delicatezza -, tirandomi in piedi anche se barcollavo tanto che se non ci fosse stato lui sarei caduta di faccia in terra.
« Questo non è un posto dove una come te può girare a quest'ora. E non mi sembri neanche nelle condizioni di tornare a casa. »
Ecco, ancora il solito discorso, "sei debole, stai al tuo posto". Avrei voluto protestare, ma aveva perfettamente ragione, e rimasi in silenzio a fissare a terra, sentendomi una bambina capricciosa che veniva salvata per l'ennesima volta dagli adulti.
« Chiuditi la giacca. Ti porto io. »
Obbedii, realizzando mentre cercavo di chiudere la zip che stavo ancora tremando.
« Che pena. », mormorai fra me, senza farmi sentire da lui. Se fossi stata più calma gli avrei chiesto un paio di cose, tipo perché lui era lì a quell'ora, se aveva visto Luna, se non sentisse anche lui il peso della morte sulle spalle. Ma non ero calma, e misi il pilota automatico per tutto il tragitto in moto da lì a casa mia - e dire che avevo sempre desiderato salirci -, senza neanche domandarmi come sapesse l'indirizzo dopo che mio fratello aveva sottolineato che non l'avrebbe dato a nessuno perché non voleva scocciature esterne.
« Vector è a casa. »
Non era una domanda, ma mi strinsi comunque nelle spalle. Probabilmente dormiva. Non gli era mai interessato di me così tanto da preoccuparsi.
Ci guardammo ancora per una manciata di secondi, e ancora una volta quel familiare miscuglio di dolore e pace mi afferrò la gola. Era strano, come se ci fosse qualcos'altro tra me e lui, come un fondamentale pezzo mancante del puzzle.
Come se avessimo mancato una battuta, molto, molto tempo fa.
« Vedi di non infilarti più in situazioni del genere. Questa volta dovevo ripagarti un favore, non ti affidare all'idea che ce ne sarà una prossima. », disse alla fine, prima di tirarsi giù il casco e partire.
Un favore.
Quello era la parte mancante.
Guardai la porta di casa mia, nel momento esatto in cui si spalancò sul viso pallidissimo di mio fratello, e poi tutto divenne nero.

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note dell'autrice

B
uonasera! Ho una passione per aggiornare a pessimi orari sì.
Ma non m'importa, non ho la forza mentale di aspettare fino a domani. Se rileggesi tutto questo capitolo solo un'altra volta impazzirei.
Quindi, ecco quello che sono sicura sarà in assoluto il capitolo più lungo - o forse no, dipende quanto impazzisco.
Spero di non aver messo troppa carne al fuoco in un capitolo solo, ma avevo necessità di buttare giù tutte le premesse che per pigrizia ho evitato nel primo capitolo. Tranquilli che Yuma torna presto, volevo solo sviluppare anche le sue relazioni con altri personaggi per dopo.
E nulla! Unica cosa, probabilmente nel prossimo capitolo ci sarà un duello tra Amaaris e qualcun'altro, quindi metto le mani avanti; in questa fanfiction gli imperatori hanno ancora i loro numeri, per una serie di motivi chiamati "non ho voglia di creare numero 108 per poi non usarlo mai"- no, ok, per motivi che spiegherò meglio nei capitoli a venire. Anche la carta "Alzarango magico il settimo", divenuta per forza di cose "Alzarango magico l'ottavo", sarà presente.
Quanti duelli ho intenzione di scrivere? Spero pochi perché sono noiosi e prendono un sacco di spazio, per quanto siano belli da immaginare.
Infine, spero che questo capitolo sia chiaro dove doveva essere chiaro. Mi sembra di star camminando su un pavimento di cristallo tra la trama che voglio creare e il commettere errori logici con la storia originaria.
Quindi, sperando davvero di non star aggiornando troppo ultimamente - mi è tornata la vena creativa per Yu gi oh ZeXal, non è colpa mia -, sparisco di nuovo.
Bye <3


 
   
 
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