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Autore: Hoel    17/01/2020    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il  06.09.2021

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Capitolo Sesto

4 – 5 settembre 1511

 

 

 

 

Cautamente e con lentezza estrema Hironimo si tamponò le piote, sibilando all’appiccicoso strappo del telo sulle piaghe aperte dei piedi, martoriati dall’inaspettata marcia notturna e peggiorati nonostante la completa inattività del giorno precedente. Lo stomaco gli gorgogliò altrettanto dolorante.

“Gh’aveu visto, patron? Mi veo gh’aveo dito de no schissar ee papule, ma vui no, teston pì d’un vecio musso!” (asino, ndr.)

In effetti, Thomà gli aveva suggerito di non bucare le vesciche, consiglio cui il giovane Miani s’era ribellato, già di suo innervosito per l'umiliazione d'andarsene in giro in camicia e scalzo, peggio dei villani. Ancora arrossiva ai volgari e derisori fischi d’apprezzamento della soldataglia, delle vivandiere e delle sgualdrine al loro arrivo all’accampamento di Montebelluna; perfino i prigionieri marciani – un misto tra civili, soldati e stradioti – avevano storto in disappunto la bocca, vendendolo così conciato, in mutande e con quel camicione bagnato ed aderente a causa dell’acquazzone sotto cui avevano marciato.

Unica consolazione fu però che la sua umiliazione coincideva all’unico lazzo che i franco-imperiali potevano permettersi: stando a frammenti di conversazione captati di qua e di là, nel campo incominciava a scarseggiare il pane e quel che c’era, scoprì Hironimo con suo disgusto, appariva nero come il carbone, immangiabile. Perfino Thomà, avvezzo a cibarie di fortuna, lo annusava sospettoso. Neppure battendo il territorio in continue perlustrazioni riuscivano i Collegati a scovare luoghi dove far adeguata provvista; i contadini avevano bruciato quasi tutto, inquinando i pozzi e portando gran parte del loro bestiame via con loro. Molto spesso boicottavano essi stessi i rifornimenti, assalendo le comitive nemiche nei punti più fitti del bosco e i soldati e saccomanni più fortunati rientravano al campo in camicia e mutande.

In aggiunta, l’arrivo di Mercurio Bua e della sua compagnia invece di rallegrare gli animi, li aveva ulteriormente depressi giacché il greco-albanese non solo non portava con sé bottino, ma neanche l’Imperatore Maximilian e le sue truppe come promesso. Il proclama dei Re dei Romani, poi, d’impedire ai francesi e agli stradioti d’attraversare la Piave e di fare rifornimento aveva incancrenito gli animati, sicché tra i due alleati serpeggiavano invidia e malcontento. Al che il maresciallo La Palice aveva rotto ogni indugio e inviato in gran fretta un corriere a Milano, onde premere su Gaston de Foix-Nemours acciocché anche il Re Louis si decidesse una buona volta sul da farsi ché ora più che mai le parole di Gian Giacomo Trivulzio risuonavo nella mente del francese veritiere e tremende come quelle della Sibilla Cumana.

Quanto al resto, c’era solo l’incognita dell’attesa. Intanto, si raccoglievano scale, gabbioni, barche e altro materiale bellico.

“Tasi, peocio” (pidocchio, ndr.), bofonchiò Hironimo, guardandosi infelice i piedi sanguinanti e provando a tamponarseli con un lembo della camicia. Com’era riuscito il bambino a camminare scalzo senza colpo ferire?

“Mi taso et ve saludo! Perhò no podé negar ché sembrate un San Roco …”

“Puoah, no xé vero gnente!”

Dietro di lui Thomà scosse il capo e riprese soffiargli sulle abrasioni là dove il cerchio al collo aveva sfregato inclemente. Adesso che avevano raggiunto l’accampamento, Hironimo non doveva più sopportare di reggere la palla di cannone ivi attaccata, tuttavia appoggiandola per terra significava rimanere o disteso o accovacciato col collo in avanti, i muscoli del trapezio fino ai reni indolenziti da quell’innaturale posizione, provocandogli inoltre crampi allo stomaco i quali s’andavano ad aggiungere a quelli dovuti alla fame.

Per lo meno non doveva più sopportare l’umidità, i topi e il perenne buio della cella o star dentro una gabbia improvvisata alla mercé degli elementi come gli altri prigionieri. Mercurio Bua l’aveva sistemato nella parte più retrostante del suo padiglione personale, piantando un palo dove aveva inchiodato le catene e pure brigando in modo da improvvisare una tenda separatoria con un lenzuolo, cosicché da nasconderlo in caso di visite. Lì dietro, in quello spazio limitatissimo, Hironimo poteva rilassarsi in quella poca riservatezza concessagli ma al contempo si sentiva soffocare, le orecchie tese in ascolto di un qualsiasi movimento esterno, corroso dall’ansia e i sensi di colpa a lui manifestatisi nel sonno con le facce dei suoi servitori e soldati trucidati a Castelnuovo. Più passava il tempo e più essi assumevano una sinistra nitidezza, alternandosi talvolta con altri volti e altri spiacevoli ricordi.

“Invece assomigli proprio a San Rocco!”, commentò sardonico Mercurio, intento a controllare le ultime mappe e correggendone qualche saltuaria imprecisione. “Sul serio, a volte mi sembri più delicato di una fanciulla! Forse saresti dovuto nascere femmina, gli spasimanti non ti sarebbero di certo mancati.”

Hironimo strinse gli occhi una linea sottile, bruciandogli nel petto una voglia matta di strappare a morsi il pomo d’Adamo del capitano di ventura.

Voltando sdegnoso il capo dall’altra parte, sentenziò insolente: “Non capisco, io non discorro coi Turchi”, e sogghignò all’udire l’incrinazione della penna sulla carta, nonché del profondo e scocciato sbuffo del greco-albanese.

“Perché il moccioso è ancora qui?”, abbandonò questi il tavolo, dirigendosi verso i due prigionieri. “Non mi pare d’aver detto che poteva tenerti compagnia” e puntò il bambino che pur non capendo intuì però trattarsi di lui e subito s’acquattò dietro Hironimo, fissando guardingo il capitano. “Ebbene?”

Il giovane Miani circondò protettivo Thomà con un braccio, cambiando idioma onde non agitarlo. “E me lo domandi, furbo? Visto che non mi posso neanche mettere in piedi, figurarsi muovermi, chi mi svuota sennò il pitale quando cago? Tu?”, lo sbeffeggiò ferocemente.

La bocca di Mercurio si piegò in una strana smorfia. “Io ti stacco quella linguaccia malefica e te la ficco su per il  …”, latrò e fece per allungare un braccio, sennonché, usando le catene a mo’ di frusta, Hironimo gliel’allontanò, strappando un gemito di sorpresa nell’uomo che, infuriato, lo ghermì per i capelli e …

“Capitano?”

Il luogotenente Zilio Madalo e Alessandro detto “Leka” Busicchio, altro capitano stradiota, rimasero per qualche istante lì comicamente imbambolati, temendo d’aver disturbato il loro compatriota in un momento assai intimo e delicato, ossia trasformare in baccalà  mantecato il suo prigioniero.

“Cosa c’è?”, a malincuore Mercurio abbandonò la sua presa dalla zazzera di Hironimo, che si vendicò elargendogli una gomitata allo stinco, rannicchiandosi subito dopo nell’angolo così da ergersi a scudo umano di Thomà.

“Il maresciallo e gli altri comandanti si stanno dirigendo qui. E stanno venendo con un trombetta del capitano Vitelli.”

Il Bua si voltò di scatto. “A far che?”

Zilio alzò le spalle, al che il suo capitano sbuffò snervato. Prima dell’arrivo del giovane Miani nel suo padiglione, non aveva mai avuto alcun problema ad ospitare chicchessia, dai generali alle puttane. Ora, però, non voleva nessuno, a malapena tollerava i suoi uomini. Ovunque in quel campo egli fiutava cupidigia e tradimento, sia da parte dei malcontenti francesi che degli infidi imperiali e non voleva correre il rischio che gli si rubasse quel suo prezioso bottino. Ancora non aveva digerito quell’editto di Maximilian, figurarsi se gli sottraevano ora l’ultima sua preda.

“Sta bene”, s’arrese e irritato afferrò la tenda, scostandola con malevola forza. “Sentiamo le loro signorie che han da riferirmi. E tu”, ammonì perentorio al patrizio, “vedi di comportarti saviamente.”

Da dietro il lenzuolo, Hironimo gli rispose col gesto della fica, guadagnandosi  di rimando un calcio sulla coscia.

 

***



 

Madona Maria Malipiero Gradenigo osserva nervosa il marito, mentre il suo valletto d’arme lo aiutava ad indossare l’armatura: quasi all’ultimo momento, infatti, sier Zuam Paulo Gradenigo aveva deciso, al posto del condottiero Alfonso del Mutolo, di recarsi assieme ai capitani Renzo di Ceri, Vitello Vitelli e Troilo Orsini a negoziare di persona con l’emissario del maresciallo La Palice, che il trombetta del Vitelli aveva promesso di portare con sé una volta terminata la sua ambasceria al campo nemico. E tutto ciò l’uomo l’aveva fatto annunciare con una tal fanfara che la patrizia veneziana non si sarebbe stupita, se perfino il Re di Francia lo fosse venuto a sapere.

Ora, la donna conosceva quanto il marito avesse sempre dato prova di grande coraggio, determinazione e sprezzo verso la fatica (nonché un pelino di superbia), combattendo ogni battaglia in prima fila al fianco dei suoi uomini; ma quella sua spavalderia la preoccupava, temendo che egli si fosse troppo montato la testa da non fiutare una potenziale trappola tesa dal nemico, smanioso com’era d’umiliare il La Palice dopo la rotta di Rovigo che aveva trascinato sier Zuam Paulo dinanzi al Senato, sotto processo e un anno intero senza alcun incarico. Maria gli aveva confidato la notte scorsa questi suoi dubbi, interrogandolo sulla bontà della sua scelta e tentando di persuaderlo a mandare incontro all’emissario francese qualcun altro e di poco conto in caso di cattura. Non mi fido di quei senzadio, gli aveva mormorato contro la schiena, con la scusa delle negoziazioni potrebbero imprigionarvi o uccidervi. Stranamente, Zuam Paulo non aveva contro-argomentato come sua abitudine, limitandosi a rassicurarla che conosceva bene i suoi ex-sottoposti e che non doveva angustiarsi per lui.

Poteva sul serio?, si tormentava la nobildonna, osservandogli la cicatrice bianca e ricordando come il marito l’avesse consolata a Cividale con le medesime parole, per poi ritornare semisvenuto in lettiga, con un panno scarlatto premuto al collo e versando tanto di quel sangue che ci si chiedeva come fosse riuscito a sopravvivere.

 “… si laora à le mura con solicitudine, ma non li è massa opere. El populo xé molto angarizato et le zente xé alozate a quartier, et i soldai fa di stranie cosse. Ma almancho ancuò (oggi, ndr.) se pol dir niuna baruffa”, informava il podestà sier Andrea Donado nel frattempo il provveditore delle ultime novità, intanto che sier Lunardo Zustignan prendeva velocemente nota onde informare il Senato.

“Il signor Lorenzo? Non l’ho visto da nessuna parte.”

“In letto tutto il giorno per via del malfrancese ch’affligge la sua gamba; la perdonanza, patrona”, si scusò il podestà con Maria, che liquidò la cosa con un irritato svolazzo della mano. “Stamattina s’è tuttavia rimesso e potrà accompagnarvi.”

“Come proseguono i lavori del Ponte de Pria?”

“Le fosse e la spianada sono quasi terminate, così come le chiuse a chiavica: all’occorrenza, possiamo ora deviare l’entrata dell’acqua o in città o verso le fosse. La Boteniga è stata completamente deviata per circondare completamente la città e per il Sile non mancherà molto.”

Corrispondeva quell’opera idraulica al fiore all’occhiello del piano difensivo, su progetto di Fra’ Giocondo da Verona: situato sul fronte nord delle mura, le sette poderose arcate del Ponte de Pria permettevano e regolavano l’ingresso in città alle acque del fiume Botteniga mentre un partidor, un ingegnoso sistema di arginature artificiali, permetteva la precisa suddivisione delle portate d’acqua necessarie ad alimentare i canali di Treviso, rifornire l’ingresso del Canale delle Convertite e riempire la fossa difensiva esterna. Il tutto all’ombra protettiva della mezzaluna del bastione di San Bartolomeo, posto sia difesa del fianco occidentale Porta San Tomaso sia, dalla parte opposta, a copertura del Ponte de Pria.

“Bon, cussì me garba”, approvò Gradenigo. “Di grazia, riferite ai capitani che a breve li raggiungerò. Ah”, si sovvenne all’ultimo, richiamando il collega, “che sia raddoppiata la guardia su tutto il fronte nord delle mura, da Porta San Tomaso fino al torrione di Santa Sofia.”

“Ma i nostri esploratori hanno detto che il la Peliza attaccherà a sud!”

“Sì, ma non oggi né domani”, replicò sibillino il provveditore.

Il podestà sier Andrea Donado annuì pur non comprendendo perché proprio a nord dovessero rafforzare la guardia visto che le spie riferivano le mura sud come piano strategico del maresciallo francese; tuttavia, confidando nell’esperienza militare del concittadino, s’affrettò assieme a sier Lunardo Zustignan di recarsi a fornire ai soldati le ultime istruzioni del provveditore.

Rimasto dunque solo con la moglie, sier Zuam Paulo cercò perplesso la spada, sussultando nel trovarla ben stretta dalle piccole e fini dita di madona Maria, che avvicinandosi a lui gli puntò contro gli occhi battagliera.

“Voi siete un gran testone, un orgoglioso, uno sventato.”

“Mo via, mojer, no credo che …”

Maria lo interruppe bruscamente. “Però siete anca un uomo di parola e di grandissimo cuore, sempre avete portato a termine gli obiettivi vostri e della Signoria”, gli rammentò e incorniciatogli il volto tra le mani, gli elargì un breve e deciso bacio. “Zuam Paulo, per i nostri figli, che non restino senza il loro sior Pare, giuratemi sì di farvi onore ma anche di tornar vivo e in un sol pezzo.”

Un poco commosso e un poco stralunato, il patrizio annuì piano, accarezzandole affettuoso i morbidi capelli sotto la cuffia di seta; all’improvviso, tenendola delicatamente per la nuca, ricambiò il gesto della moglie, baciandola col medesimo ardente trasporto di quando l’aveva posseduta alla loro prima notte di nozze trentadue anni addietro.

“Mojer”, le soffiò sulle labbra arrossate. “Non angustiatevi per me, bensì per quei disgraziati che s’avvicineranno troppo a Trevixo …”

Allora Maria Malipiero Gradenigo comprese.

 

***

 

 

“… così, su richiesta del governatore e Gran Maestro di Milano, l'illustrissimo messire duca Gastone di Foix-Nemours, la Signoria Nostra ha acconsentito di condurre questa guerra da buoni soldati; che in caso di cattura di saccomanni, famigli o fanti, sotto giusto pagamento del riscatto noi garantiamo che li si lascerà andare, senza muover alcun torto sulla loro personaSimilmente da voi vien richiesto medesimo cordiale e ragionevole atteggiamento.

Jacques de Chabannes de La Palice, Gran Maestro di Francia, terminava così di leggere la missiva del provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo e consegnatagli da un emissario della compagnia di Vitello Vitelli, tal Michele da Brisighella, appena giunto all’accampamento di Montebelluna.

“Sicché quando possiamo attenderci il ritorno dei nostri prigionieri?”

“Quando disporrete del danaro per il riscatto.”

“E quando possiamo attenderci il vostro, di danaro?”

“Quando vi deciderete di rilasciare i nostri, di prigionieri.”

Con la scusa di voltarsi a meditare, La Palice scoccò una velenosa occhiata a Mercurio Bua, che arcuò incurante un sopracciglio: nonostante fosse trascorsa ormai più di una settimana dalla caduta di Castelnuovo di Quero, ancora il greco-albanese si rifiutava di cedere l’ex-castellano e di nominare o una cifra per il suo riscatto o un nome per lo scambio. In aggiunta, a causa del crescente numero di prigionieri marciani catturati per merto o per caso, la prospettiva di diminuire le bocche da sfamare e pure incassare profitti non appariva malvagia, calmando gli animi irrequieti dei soldati, che scalpitavano d’attraversare la Piave per far razzie nella Patria del Friuli.

“Li avete visti fuori, nelle gabbie”, tergiversò cauto il francese. “Tutti coloro che abbiamo preso.”

Il trombetta abbozzò ad un sorriso furbo. “C’è un volto che ancora non ho intravisto e in parecchi a Treviso desidererebbero ottenere più dettagli sulla sua attuale condizione.”

Al che Mercurio s’intromise, inquisendo falsamente apprensivo: “E chi domanda di lui? La mogliera?”

“Il fratello”, rispose spassionatamente Michele da Brisighella, per poi rivolgersi al maresciallo: “La Signoria è al corrente di come molti dei vostri comandanti siano caduti suoi …”

“Il maresciallo monseigneur La Palice non può in alcun modo decidere della sorte del N.H. sier Miani”, l’interruppe bruscamente il Bua, non garbandogli la piega che stava prendendo quella conversazione, portandosi anzi davanti alla tenda alla stregua d’un feroce can da guardia. “Fui io a catturarlo e se si vuole negoziare della sua liberazione, che sia con me e me soltanto!”

In altre circostanze, una persona qualsiasi si sarebbe ingobbita sulla difensiva dinanzi a quella portentosa aggressività. Invece, il trombetta apparve sospettosamente compiaciuto di quello scatto di nervi.

“Indubbio. Per questo ed altre questioni, il magnifico provveditore generale di Treviso, il signor Gian Paolo Gradenigo mi ha incaricato di portare tramite emissario la vostra risposta, nonché la vostra adesione ai desideri del duca e governatore di Milano, l’illustrissimo Gastone di Foix-Nemours, nipote del Re di Francia.”

“Il provveditore desidera che tu ritorni assieme ad un nostro messo?”

“Corretto.”

“Chi ci assicura che non lo catturerete, magari torturandolo?”, s’informò invece assai scettico Artus Gouffier, signore de Boisy e duca di Roannez. “Sappiamo come chi finisce prigioniero a Trévise, da lì non ritorna se non in bara!”

“I magnifici messeri miei capitani ci verranno di persona incontro, a dieci miglia da Treviso in direzione Porta Altinia … sud”, si lasciò sfuggire Michele, mordendosi colpevole il labbro inferiore, proseguendo poi in fretta: “In questo modo il vostro uomo avrà ogni occasione di fuggire. Saranno portati lì anche i vostri soldati, se avrete i danari pronti per la taglia.”

“Questo quando?”

“Se riparto adesso, giungeremo anche oggi istesso a Treviso.”

“E il provveditore lo sa?”

“Sa tutto.”

Il maresciallo La Palice rilesse meditabondo la missiva di Gradenigo, cercando una falla in essa, un qualsivoglia indizio d’inganno. Il francese ben era al corrente dei recenti scrupoli del Foix-Nemours, specie dopo la rotta di Marostica, e in fin dei conti l’accordo sancito con la Serenissima non suonava insensato e svantaggioso. Senza contare che nelle stinche di Treviso languivano due suoi caposquadra che al maresciallo avrebbe fatto comodo riavere indietro, preferibilmente vivi.

“Sia”, acconsentì, ripiegando la lettera. “Segui i qui monseigneurs Jules de Saint-Séverin e Galéas Pallavicino: ti porteranno dal tuo compagno di viaggio. Quanto al provveditore e ai tuoi capitani”, aggiunse La Palice, scribacchiando e firmando un messaggio di risposta, “puoi confermare che siamo qui a compiere la volontà del nostro governatore e della vostra Signoria, ossia che questa guerra verrà condotta da gentiluomini.”

Michele da Brisighella abbozzò ad un inchino e pigliando la lettera uscì dal padiglione assieme a Giulio Sanseverino, fratellastro del Gran Scudiero, e al marchese di Busseto Galeazzo Pallavicino, non senza aver lanciato una fuggevole occhiata al lenzuolo steso davanti al quale ancora vigilava Mercurio Bua, le braccia conserte e arcigno in volto.

Un pesante silenzio calò nel padiglione.

“Cosa ne pensate?”, s’espresse per primo de Boisy. “Manterranno la parola?”

Soffrey Alleman, signore du Molard e barone d'Uriage, alzò a mo’ di resa le spalle. “Né loro né noi abbiamo scelta, così è stato accordato tra la Serenissima e il nostro duc de Foix-Nemours, a tutti noi non resta che obbedire.”

“Comunque sia, meglio non sbilanciarci coi riscatti: pagheremo solo quelli strettamente necessari, casomai proporremmo degli scambi -  di veneziani e stradioti ne abbiamo a sufficienza”, disse La Palice. “Ci sono questioni più pressanti cui pensare: l’artiglieria non può viaggiare in queste strade melmose, né attraversare i boschi pieni zeppi di contadini pronti a tagliarci la gola. Dell’Empereur Maximilien e dei rinforzi tanto promessi neppure l’ombra e malgrado abbia dato ordine d’impiccare chiunque attraversi la Piave, i tedeschi del capitano Jacob tuttora sfidano la mia autorità. Il pane scarseggia e se non fosse per i conti di Collalto, che ci riforniscono in gran segreto, a quest’ora ci sarebbe già stata una rivolta. Ah, e non scordiamo la più bella delle notizie: il provveditore generale André Grit parrebbe esser guarito dalla febbre e tosto rientrerà a Padue, onde riprendere l’ufficio e incontrare il nuovo governatore. Jean Gonzaga ancora non si decide a muoversi da Vicenza. Da Bayard a Ferrara ci giungono sempre meno missive e ci metterei la mano sul fuoco che dietro c’è lo zampino di quel satanasso di Frédéric Contarini. Ci stanno isolando e più indugiamo in questo pantano, meno chances avremo di vincere!”, concluse, battendo snervato il pugno sul tavolo.

Sia du Molard che de Boisy convennero gravemente.

Timeo Venetianos et dona ferentes”, sentenziò ad un tratto Mercurio Bua. “A forza di brigare in Levante, son divenuti infidi come i Turchi. Non conterei sulla costanza della loro parola, men che meno di quella di Zuam Paulo Gradenigo che non fa nulla senza un tornaconto personale.”

“Dite piuttosto, che ancora vi brucia l’esser stato pubblicamente da lui rampognato, quando egli era comandante degli stradioti e vostro superiore. Ah, e non scordatevi di Lorenzo Orsini degli Anguillara, che anche lui vi sconfisse sul campo!”, lo derise Teodoro Trivulzio, nipote di Gian Giacomo Trivulzio e antico compagno della famosa battaglia del Garigliano tra Spagnoli e Francesi, al che il greco-albanese gli elargì di rimando un sinistro sogghigno, per poi proseguire:

“Io propongo d’attaccare. Adesso che Gradenigo, Vitelli e i due Orsini sono fuori Treviso. Il trombetta ha detto che s’incontreranno in direzione sud, Porta Altinia? Perfetto, noi attaccheremmo da nord, a Porta San Tomaso!”

“E con che, sentiamo?”, puntualizzò scettico Soffrey du Molard, “non possiamo trasportare i cannoni per via della pioggia e del fango. Pensate d’arrampicarvi come scimmie sulle mura?”

“Restano pur sempre mura antiche …”, spezzò Artus de Boisy una lancia in favore del Bua. “Possono averle soltanto rinforzate, costruirne in poco tempo delle nuove è materialmente impossibile. Inoltre, bisogna considerare le abitazioni a ridosso delle mura scaligere e fuori città, così come i piccoli borghi limitrofi di Fiera, Melma, Santa Bona … Basterà occuparli, tagliare loro ogni via di comunicazione e da lì, via fiume, far arrivare l’artiglieria. Saranno loro, quelli isolati.”

Era stato quello il punto debole del Dominio di Terraferma: terminata la signoria delle famiglie locali e sotto la vigile egida di San Marco, le città venete non avevano per anni più avuto ragione di temere attacchi esterni, godendo di una pace impensabile rispetto agli Stati limitrofi e pertanto le loro difese si presentavano arcaiche e inadatte alla nuova guerra. Treviso non versava in una situazione tanto diversa, salvata solo dalla fortuna di trovarsi in una valle fluviale insidiosa ma per il resto, anche tentando disperatamente di modernizzarsi, non avrebbe mai e poi mai portato a termine un’impresa così titanica.

“Le mura ormai fungono da decorazione, la città si è espansa fuori di essa e non riusciranno in tempo ad evacuare gente e roba. E di certo non bombarderanno i civili. In questo modo, otteniamo alloggi, viveri e scudi umani”, terminò il greco-albanese, mostrando il tragitto a La Palice e gli altri comandanti. “Maresciallo, il vostro piano di attaccare a sud può tuttora considerarsi valido; ciononostante, se Gradenigo, Vitelli e Orsini hanno deciso di parlamentare proprio lì, significa che sospettano un nostro attacco e pertanto avranno raddoppiato la guardia, anche per evitare di venire a loro volta o catturati o uccisi.”

“Di conseguenza, il fronte nord rimarrebbe sguarnito e facilmente occupabile …”, concluse Teodoro Trivulzio. “E’ audace come piano, capitano Bua, ma avventato. Troppe incognite, non sappiamo neppure con precisione la morfologia attuale di Treviso. E se vi sbagliaste? Potreste finire catturato e noi non possiamo permetterci alcun passo falso, non ora che non abbiamo il supporto immediato né dell’Empereur né del Roi!”

Mercurio arricciò furbescamente l’angolo della bocca. “Ho il mio angelo custode in questo inferno, signor Teodoro. Mi scamperà lui dalla prigionia”, e rivolgendosi all’ancor dubbioso La Palice. “Quanto al pane, abbiamo i mulini di Castelfranco: mandate lì a macinare la farina. Ci vorrà più tempo, però quantomeno smetteremo una buona volta di addobbare di Tedeschi i rami degli alberi.”

Giulio Sanseverino e Galeazzo Pallavicino entrano nel padiglione. “Il trombetta sta per lasciare il campo col nostro emissario.”

“Gli sono stati dati i danari per il riscatto dei nostri caposquadra?”, s’accertò La Palice.

“Sì, certo.”

Il maresciallo serrò le labbra. “La vostra fama mi è nota dai tempi di Fornoue, capitaine Bua, e so che voi non elargite suggerimenti, bensì esponete decisioni già prese. Avete il mio permesso d’attaccare Trévise secondo il vostro piano, ma” e alzò la mano onde interrompere il greco-albanese, “con la vostra compagnia e nessun altro. Se fallirete, codesto fiasco sarà imputabile a voi e a voi solo. Perciò pregate che il vostro angelo custode valga abbastanza agli occhi della Serenissima per accordarvi la liberazione” e rivolto a du Molard e de Boisy: “Quanto a noi, alle prime luci dell’alba calcheremo ininterrottamente fino a Vicenza: poiché Jean Gonzaga non vuol venire con le artiglierie, saremo noi ad andar da lui a prendercele. Dovesse funzionare la strategia del capitano Bua, in meno di sette giorni saremo sotto le mura di Treviso.”

“Contro quelle bellezze ferraresi non avranno speranza alcuna di resistere all'assedio”, commentò sornione du Molard. “Due anni e mai conquistata. Sarà un piacere mettere Trévise al sacco …”

 

***

 

 

Etienne de Toulouse, il trombetta scelto dal maresciallo de La Palice, cavalcava dubbioso e guardingo assieme agli altri cinque suoi compagni, circondati da ogni lato dai laconici soldati marciani: pur non conoscendo bene il territorio, ad occhio e croce poteva affermare che non si trovavano a dieci miglia da Porta Altinia e che quel casolare dai muri ricoperti di fango fin quasi al secondo piano e in esso mezzo sprofondato di certo non era Treviso.

Michele da Brisighella arrestò la marcia della silenziosa comitiva, scendendo da cavallo. “Vieni”, invitò il francese a scendere tramite ampi gesti, affinché supplissero all’incomprensione di due idiomi simili ma non troppo. “Ah! E fai attenzione al …”

Un suono gutturale, che ricordava il suggere ingordo di un affamato intento a trangugiare una zuppa, interruppe il brisighellese e strappò contemporaneamente gridolini di sorpresa al tolosano e i suoi compari: non appena, infatti, essi avevano appoggiato i piedi nel terreno melmoso, ecco che affondarono fin quasi al ginocchio e per poco non ci lasciarono le scarpe e parte delle calze a causa di quella morsa fangosa.  

Etienne aprì sconvolto la bocca, cercando in Michele una risposta a quel fenomeno da palude marcia, non della terra fertile da Paese della Cuccagna descrittagli dai superiori. Il soldato del Vitelli, invece, si limitò a scrollare beffardo le spalle, conducendolo dentro il casolare là dove l’attendevano sier Zuam Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri, Troilo Orsini e Vitello Vitelli.

Immediatamente, Etienne li salutò con un complicato svolazzo alla francese, che provocò una scintilla di ilarità negli astanti.

“Meno male”, commentò ironico il provveditore ai condottieri, “stavolta ce ne hanno mandato uno di buone maniere!” Dopodiché istruì l’interprete di tradurre le dinamiche dell’accordo tra la Serenissima e il governatore di Milano, nonché di discutere le modalità di pagamento del riscatto dei prigionieri francesi.

“Soltanto due caposquadra?”, fece un poco deluso Renzo di Ceri. “Pensavo che il tirchio in questa guerra fosse Massimiliano, non il La Palissa.”

“Forse conta di liberarli da sé, gli altri prigionieri”, gli spiegò sottovoce Vitello Vitelli.

La bocca del laziale s’arricciò perfida.

Qu’est-ce que cela signifie, que ce soir on va dormir ici?”, esclamò  ad un certo punto un indignato Etienne all’interprete, il quale, serafico, gli aveva tradotto le disposizioni del Gradenigo ovvero che la liberazione dei due caposquadra sarebbe avvenuto l’indomani mattina: oramai la sera era calata e la strada troppo pericolosa per un francese a zonzo da solo per la Marca, non sia mai che il vostro maresciallo possa sospettarci di spergiuro, dovesse accadervi qualcosa di assai spiacevole …

Inoltre, che i signori qui stessero di buon animo: gli ottimi soldati del capitano Vitelli li avrebbero tenuto eccellente compagnia assieme all’interprete, così da divenire tutti amici e cicalare senza disturbo alcuno in quel casolare a mezzo miglio da Treviso.

Quoi?”, si voltò disorientato Etienne verso i suoi compagni altrettanto increduli. “Mezzo … miglio?”

Com’era possibile? Se erano in piena campagna, circondati dal nulla! Non potevano essere così vicini senza aver scorto neanche un villaggio o case e …!

A meno che …?

 

***

 

 

Appena giudicò esserci abbastanza luce da distinguere le forme davanti al proprio naso, Mercurio Bua scese dalla branda per prepararsi alla lunga cavalcata che l’attendeva, scegliendo accuratamente quale armatura indossare e quali armi portarsi appresso, il giusto equilibrio onde evitare sia di combattere troppo leggero e vulnerabile sia di perdere l’effetto sorpresa. Anche i padiglioni di La Palice, de Boisy e Giulio Sanseverino erano illuminati, segno che sarebbero partiti pure loro quello stesso giorno, ma diretti a Vicenza.

“Così te ne vai?”

“Ti dispiace?”

“Stimo nulla.”

In certe occasioni, quel veneziano inquietava il condottiere, non avendolo visto negli ultimi giorni né mangiare né dormire (contrariamente al puttino accanto a lui, una vera e propria bestiola facilmente accontentabile) preferendo piuttosto scrutare il greco-albanese pieno d’odio, gli occhiacci neri che assorbivano avidi ogni suo movimento. Fosse stato un uomo superstizioso, Mercurio avrebbe ipotizzato che gli stesse lanciando una fattura.

“Cuore di pietra! Sul serio non t’importa saper la tua città sotto assedio?”, gli chiese beffardo, girandosi acciocché il suo famiglio gli stringesse gli ultimi lacci del corsaletto. L’avventuriero si raccomandò inoltre a Zilio di far da buona guardia al padiglione fino al suo ritorno. “A proposito, vuoi che ti porti qualcosa da Treviso?”

“Qualche paio di mutande e una corda per andar a farti impiccare.”

Mercurio cacciò un sospiro profondo, imponendosi di non lasciarsi provocare di prima mattina dal giovane Miani – conserva le energie! - più tarmante di sua moglie nei suoi periodi peggiori e ce ne voleva! Il capitano scosse il capo, d’un tratto immalinconito: cosa non avrebbe dato per poter risentire la voce della sua diletta, quel mulo testardo dalla linguaccia lunga. “Ti lascio il moccoloso, così non ti sentirai solo”, gli concesse magnanimo, infilando i guanti di cuoio e allontanando dalla mente quel bizzarro paragone tra Caterina e Hironimo.

“Puoah, come se tu fossi di alcuna compagnia!”

“Beh, fra poco avrai quella di tuo fratello”, insinuò casualmente il greco-albanese, godendo del lieve sussulto apprensivo del patrizio veneziano -  oh! finalmente una reazione che gli conveniva al suo status di prigioniero ... “E chissà, anche del Gradenigo e degli altri tuoi concittadini. Anzi, no, quel bastardo lo ammazzo proprio!”, ridacchiò compiaciuto del proprio ambizioso progetto. “Immagina lo sconcerto di Treviso nel vedersi privata del suo provveditore generale! Del suo grande eroe!”

Hironimo emise a sua volta una risata gutturale. “Sei nato e cresciuto sotto l’ala di San Marco, eppure ancora non hai capito un’emerita cippa di noialtri. Uccidi pure Gradenigo, se ti va. La Signoria invierà un altro provveditore generale. E un altro. E un altro ancora”, sibilò feroce, puntandogli contro gli occhi nerissimi. “Non esiste da noi un eroe, non se inteso come singolo individuo. Ché da noi è la civitas l’eroe. Venezia stessa è l’eroe. Voi non state combattendo contro Gradenigo o il Serenissimo Principe, voi avete mosso guerra a tutti noi, dal contadino al Doge! E come un’Idra, più teste ci tagliate più ne spunteranno per divorarvi!”

Piccato da quella saccente ramanzina e genuinamente non avendo mai approfondito quell’aspetto della mentalità veneziana, Mercurio ribatté: “Dunque questo significa che anche tu ai fini della Signoria sei sostituibile?”

Hironimo abbassò il capo, il suo silenzio più eloquente di qualsiasi risposta. Naturale che fosse spendibile, se necessario a conseguire la vittoria ultima contro i nemici. Dinanzi alla mancata richiesta di un riscatto da parte dei suoi, nella mente sempre più sotto pressione del patrizio incominciava a prender forma una tremenda teoria e cioè che lui non valeva la pena il rischio di patteggi troppo svantaggiosi. Qualcosa impediva alla Signoria di rivolerlo indietro, qualcosa più importante di lui.

Se da una parte il giovane Miani soffriva orribilmente, sentendosi abbandonato e tradito, dall’altra comprendeva la necessità di quel sacrificio. Non era stato d’altronde allevato così, nell’atipica Venezia in cui l’individuo diventa anonimo e al contempo celebrato nella sua grandezza? Invano cercare fra calli, campielli e campi un monumento, una statua, un’iscrizione a gloria di un eroe. Venezia onora solo i nemici sconfitti: a Palazzo Ducale più che le gesta di chi l’ha resa grande sono esposte a macabro trofeo quelle di coloro che hanno tentato distruggerla, monito e sfida al mondo intero. Una società governata con la  medesima disciplina delle sue galee, dove tutti – patrizi, clero, cittadini e villani – devono remare al ritmo del suo tamburo e dove nessuno, neanche il Doge, è più importante della Signoria o al di sopra delle sue leggi.

Chi s’era creduto di essere lui, Hironimo Miani, per aver vagheggiato un diverso destino?

“Ripeterai questo tuo bel discorso davanti all’Imperatore a Treviso?”, l’incalzò il capitano di ventura onde punzecchiarlo e ottenere una reazione da parte del ragazzo, lo sguardo divenuto vago e lontano quasi più nulla lo tangesse. “O davanti al cadavere di tuo fratello? Ha anche per caso moglie e figli?”

Hironimo, a fatica, si pose allora in piedi e approfittando della vicinanza di Mercurio, anticipando ogni sua reazione gli ghermì il volto, baciandolo feroce e mordendogli le labbra fino a trar sangue.

“Nel Levante lo chiamano  ölüm öpücüğü (bacio della morte, ndr.) quando prima di un’impresa è il nemico a dartelo. Che ti possa portar ogni male, Mercurio Bua Spata, che ti possa condurre alla peggior morte.”

 

 

***

 

 

L’ozio è la fonte di ogni vizio e un accampamento in attesa ne è perfetto crogiolo.

Per i soldati franco-imperiali stanziati a Montebelluna si trattava quindi di naturale prassi se di tanto in tanto tra di loro deambulava qualche prostituta, squadrandoli affamata alla ricerca di chi possedeva sufficiente sostanza da saziarla di danaro. Nessuno lo giudicava inconsueto o riprovevole, men che meno a quell’ora ancora temprana del mattino; terminato il trambusto della concitata partenza del maresciallo e del capitano degli stradioti, il campo era ripiombato nella consueta indolenza tipica di chi ha lo stomaco vuoto e nulla d’importante da fare.

Una di queste peripatetiche, piuttosto seccherella e con in testa un buffo turbante alla turchesca, con le mani ai fianchi si destreggiava tra le varie tende dove dormicchiavano i soldati affamati e annoiati. Al contrario, ella appariva assai vispa e accorta, studiando bene ogni angolo del campo e similmente a lei subito erano divenuti svegli e attenti i prigionieri marciani, non appena la intravidero dalle loro gabbie improvvisate.

Toi, la gueuse, qu’est-ce que tu fais ici? Non è posto per te, questo! Vattene!”, le berciò dietro il soldato posto di guardia.

Sennonché la prostituta, invece di scoraggiarsi, prese ad ancheggiare sensuale, suggendosi lasciva l’indice e massaggiandosi il pube in uno spettacolo sempre più grottesco finché l’uomo, spazientito, non la spinse via di malo modo, allontanandola di molti passi.

“Ah”, fece lei connivente, strizzando l’occhio. “Dur … te plé dur … et mua, scie lé tre dur …”

Quoi?”

Il sorriso civettuolo della puttana cangiò in uno ferino, sollevandosi le sottane rattoppate e prima che il francese potesse gridare la sua sorpresa nell’apprendere ciò che sotto vi si celava, ecco che ricevette un doloroso calcio al petto, sbattendo malamente contro la gabbia dei prigionieri.

Dietro di lui sbucarono rapidissime due mani lerce e robuste, che gli s’aggrapparono alla sua fronte e mascella e mentre la prostituta s’inginocchiava a cercare le chiavi – ottima posizione promiscua per l’osservatore distratto - il suo complice da dietro le sbarre spezzava l’osso del collo della guardia, che s’afflosciò per terra. Tocco finale, la finta meretrice, trascinato via il cadavere davanti ad una poco distante tenda francese,  gli pose tra le mani un lembo di una sopravesta tedesca e gli rubò la saccoccia col denaro, onde simulare un furto con omicidio e dunque esacerbare la reciproca diffidenza già vigente tra i Collegati.

“Vio, te val gnente chome putana!”, scherzò sottovoce uno dei suoi compagni d’arme, intanto che il ragazzino armeggiava col lucchetto.

“Ma va’ in mona de toa mare, quea gran vaca”, replicò Vio indispettito e rosso in volto, forzando la serratura e, accertatosi di operare senza testimoni scomodi, aprì la gabbia. “Vestate ti da putana e po’ dime, caro ti, se te riesse mejo!”

Silenziosi e lesti come gatti, i prigionieri scivolarono via nella semioscurità in direzione della selva, là dove le loro spie li avevano comunicato attenderli gli uomini di Domenico da Modone, incaricati da sier Zuam Paulo Gradenigo di seguire e riferire ogni passo dei franco-imperiali. Già uno dei suoi corrieri stava cavalcando verso Treviso e Padova, avvisando i rispettivi provveditori generali della sortita del La Palice a Vicenza.

Purtroppo tutti non potevano liberare senza destare sospetti, dovendo apparire le fughe come casi isolati e frutto dell’iniziativa personale, un po’ alla volta, ora all’alba, ora al tramonto, ora tra gli spostamenti delle truppe. Come aveva giustamente affermato lo stesso maresciallo, neanche la Serenissima poteva permettersi ogni riscatto.

“Teodoro, razza di coglione, che fai?”, sussurrò irato uno stradiota marciano al suo conterraneo, che, strisciando quasi, si era portato vicino ai cavalli. Poi, intuendo subitaneamente le sue intenzioni, inquisì perplesso: “Ma non è il cavallo di tuo fratello Zilio?”

Teodoro Madalo, della compagnia del capitano stradiota Manoli Clada, annuì aspramente. “Esatto e se non ci avesse partoriti la stessa madre, altro che la sua cavalcatura prenderei a quello là …!” e detto questo, con moine e schiocchi della lingua, le quattro bestie lo seguirono docilmente tra gli alberi.

Sorse infine l’aurora e riprese a piovere a dirotto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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E così incominciamo ad entrar nel vivo dell’assedio: pur scervellandomi, sinceramente non sono riuscita a trovare un motivo logico di quell’attacco da parte dei franco-imperiali; onde evitare dunque di farli far la figura dei cretini, ho delineato una forma di strategia, anche tenendo in considerazione che non esistevano i droni all’epoca e quindi non potevano avere conoscenze esatte del territorio, senza averlo prima esplorato. E figurarsi se si potevano avvicinare facilmente.

Inoltre, siccome non mi piace tenere anonima la gente, ho voluto dare un nome agli emissari sia francesi che marciani.

Il prossimo capitolo, come già si è intuito, verterà sul primo attacco a Treviso. Come si concluderà? Bene? Male? Pari?

Alla prossima e strano ma vero, stavolta niente note finali! XD

 

 

 

  
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