Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 06.09.2021
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Capitolo
Sesto
4 – 5
settembre 1511
Cautamente
e con lentezza estrema Hironimo si tamponò le piote,
sibilando all’appiccicoso strappo del telo sulle piaghe
aperte dei piedi,
martoriati dall’inaspettata marcia notturna e peggiorati
nonostante la completa
inattività del giorno precedente. Lo stomaco gli
gorgogliò altrettanto
dolorante.
“Gh’aveu
visto, patron? Mi veo gh’aveo dito de no schissar ee
papule, ma vui no, teston pì d’un vecio
musso!” (asino, ndr.)
In
effetti, Thomà gli aveva suggerito di non bucare le
vesciche,
consiglio cui il giovane Miani s’era ribellato,
già di suo innervosito per
l'umiliazione d'andarsene in giro in camicia e scalzo, peggio dei
villani.
Ancora arrossiva ai volgari e derisori fischi d’apprezzamento
della
soldataglia, delle vivandiere e delle sgualdrine al loro arrivo
all’accampamento di Montebelluna; perfino i prigionieri
marciani – un misto tra
civili, soldati e stradioti – avevano storto in disappunto la
bocca, vendendolo
così conciato, in mutande e con quel camicione bagnato ed
aderente a causa
dell’acquazzone sotto cui avevano marciato.
Unica
consolazione fu però che la sua umiliazione coincideva
all’unico lazzo che i franco-imperiali potevano permettersi:
stando a frammenti
di conversazione captati di qua e di là, nel campo
incominciava a scarseggiare
il pane e quel che c’era, scoprì Hironimo con suo
disgusto, appariva nero come
il carbone, immangiabile. Perfino Thomà, avvezzo a cibarie
di fortuna, lo
annusava sospettoso. Neppure battendo il territorio in continue
perlustrazioni
riuscivano i Collegati a scovare luoghi dove far adeguata provvista; i
contadini avevano bruciato quasi tutto, inquinando i pozzi e portando
gran
parte del loro bestiame via con loro. Molto spesso boicottavano essi
stessi i
rifornimenti, assalendo le comitive nemiche nei punti più
fitti del bosco e i
soldati e saccomanni più fortunati rientravano al campo in
camicia e mutande.
In
aggiunta, l’arrivo di Mercurio Bua e della sua compagnia
invece
di rallegrare gli animi, li aveva ulteriormente depressi
giacché il
greco-albanese non solo non portava con sé bottino, ma
neanche l’Imperatore
Maximilian e le sue truppe come promesso. Il proclama dei Re dei
Romani, poi,
d’impedire ai francesi e agli stradioti
d’attraversare la Piave e di fare
rifornimento aveva incancrenito gli animati, sicché tra i
due alleati
serpeggiavano invidia e malcontento. Al che il maresciallo La Palice
aveva rotto
ogni indugio e inviato in gran fretta un corriere a Milano, onde
premere su
Gaston de Foix-Nemours acciocché anche il Re Louis si
decidesse una buona volta
sul da farsi ché ora più che mai le parole di
Gian Giacomo Trivulzio risuonavo
nella mente del francese veritiere e tremende come quelle della Sibilla
Cumana.
Quanto al
resto, c’era solo l’incognita
dell’attesa. Intanto, si
raccoglievano scale, gabbioni, barche e altro materiale bellico.
“Tasi,
peocio” (pidocchio, ndr.), bofonchiò Hironimo,
guardandosi
infelice i piedi sanguinanti e provando a tamponarseli con un lembo
della
camicia. Com’era riuscito il bambino a camminare scalzo senza
colpo ferire?
“Mi
taso et ve saludo! Perhò no podé negar
ché sembrate un San
Roco …”
“Puoah,
no xé vero gnente!”
Dietro di
lui Thomà scosse il capo e riprese soffiargli sulle
abrasioni là dove il cerchio al collo aveva sfregato
inclemente. Adesso che
avevano raggiunto l’accampamento, Hironimo non doveva
più sopportare di reggere
la palla di cannone ivi attaccata, tuttavia appoggiandola per terra
significava
rimanere o disteso o accovacciato col collo in avanti, i muscoli del
trapezio
fino ai reni indolenziti da quell’innaturale posizione,
provocandogli inoltre
crampi allo stomaco i quali s’andavano ad aggiungere a quelli
dovuti alla fame.
Per lo
meno non doveva più sopportare
l’umidità, i topi e il
perenne buio della cella o star dentro una gabbia improvvisata alla
mercé degli
elementi come gli altri prigionieri. Mercurio Bua l’aveva
sistemato nella parte
più retrostante del suo padiglione personale, piantando un
palo dove aveva
inchiodato le catene e pure brigando in modo da improvvisare una tenda
separatoria con un lenzuolo, cosicché da nasconderlo in caso
di visite. Lì
dietro, in quello spazio limitatissimo, Hironimo poteva rilassarsi in
quella
poca riservatezza concessagli ma al contempo si sentiva soffocare, le
orecchie
tese in ascolto di un qualsiasi movimento esterno, corroso
dall’ansia e i sensi
di colpa a lui manifestatisi nel sonno con le facce dei suoi servitori
e soldati
trucidati a Castelnuovo. Più passava il tempo e
più essi assumevano una
sinistra nitidezza, alternandosi talvolta con altri volti e altri
spiacevoli
ricordi.
“Invece
assomigli proprio a San Rocco!”, commentò
sardonico
Mercurio, intento a controllare le ultime mappe e correggendone qualche
saltuaria imprecisione. “Sul serio, a volte mi sembri
più delicato di una
fanciulla! Forse saresti dovuto nascere femmina, gli spasimanti non ti
sarebbero di certo mancati.”
Hironimo
strinse gli occhi una linea sottile, bruciandogli nel
petto una voglia matta di strappare a morsi il pomo d’Adamo
del capitano di
ventura.
Voltando
sdegnoso il capo dall’altra parte, sentenziò
insolente:
“Non capisco, io non discorro coi Turchi”, e
sogghignò all’udire l’incrinazione
della penna sulla carta, nonché del profondo e scocciato
sbuffo del
greco-albanese.
“Perché
il moccioso è ancora qui?”, abbandonò
questi il tavolo,
dirigendosi verso i due prigionieri. “Non mi pare
d’aver detto che poteva
tenerti compagnia” e puntò il bambino che pur non
capendo intuì però trattarsi
di lui e subito s’acquattò dietro Hironimo,
fissando guardingo il capitano.
“Ebbene?”
Il
giovane Miani circondò protettivo Thomà con un
braccio,
cambiando idioma onde non agitarlo. “E me lo domandi, furbo?
Visto che non mi
posso neanche mettere in piedi, figurarsi muovermi, chi mi svuota
sennò il
pitale quando cago? Tu?”, lo sbeffeggiò
ferocemente.
La bocca
di Mercurio si piegò in una strana smorfia. “Io ti
stacco
quella linguaccia malefica e te la ficco su per
il …”, latrò e fece
per allungare un braccio, sennonché, usando le catene a
mo’ di frusta, Hironimo
gliel’allontanò, strappando un gemito di sorpresa
nell’uomo che, infuriato, lo
ghermì per i capelli e …
“Capitano?”
Il
luogotenente Zilio Madalo e Alessandro detto “Leka”
Busicchio,
altro capitano stradiota, rimasero per qualche istante lì
comicamente
imbambolati, temendo d’aver disturbato il loro compatriota in
un momento assai
intimo e delicato, ossia trasformare in
baccalà mantecato il suo
prigioniero.
“Cosa
c’è?”, a malincuore Mercurio
abbandonò la sua presa dalla
zazzera di Hironimo, che si vendicò elargendogli una
gomitata allo stinco,
rannicchiandosi subito dopo nell’angolo così da
ergersi a scudo umano di Thomà.
“Il
maresciallo e gli altri comandanti si stanno dirigendo qui. E
stanno venendo con un trombetta del capitano Vitelli.”
Il Bua si
voltò di scatto. “A far che?”
Zilio
alzò le spalle, al che il suo capitano sbuffò
snervato.
Prima dell’arrivo del giovane Miani nel suo padiglione, non
aveva mai avuto alcun
problema ad ospitare chicchessia, dai generali alle puttane. Ora,
però, non
voleva nessuno, a malapena tollerava i suoi uomini. Ovunque in quel
campo egli
fiutava cupidigia e tradimento, sia da parte dei malcontenti francesi
che degli
infidi imperiali e non voleva correre il rischio che gli si rubasse
quel suo
prezioso bottino. Ancora non aveva digerito quell’editto di
Maximilian,
figurarsi se gli sottraevano ora l’ultima sua preda.
“Sta
bene”, s’arrese e irritato afferrò la
tenda, scostandola con
malevola forza. “Sentiamo le loro signorie che han da
riferirmi. E tu”, ammonì
perentorio al patrizio, “vedi di comportarti
saviamente.”
Da dietro
il lenzuolo, Hironimo gli rispose col gesto della fica,
guadagnandosi di rimando un calcio sulla coscia.
***
Madona
Maria Malipiero Gradenigo osserva nervosa il marito, mentre
il suo valletto d’arme lo aiutava ad indossare
l’armatura: quasi all’ultimo
momento, infatti, sier Zuam Paulo Gradenigo aveva deciso, al posto del
condottiero Alfonso del Mutolo, di recarsi assieme ai capitani Renzo di
Ceri,
Vitello Vitelli e Troilo Orsini a negoziare di persona con
l’emissario del
maresciallo La Palice, che il trombetta del Vitelli aveva promesso di
portare
con sé una volta terminata la sua ambasceria al campo
nemico. E tutto ciò
l’uomo l’aveva fatto annunciare con una tal fanfara
che la patrizia veneziana
non si sarebbe stupita, se perfino il Re di Francia lo fosse venuto a
sapere.
Ora, la
donna conosceva quanto il marito avesse sempre dato prova
di grande coraggio, determinazione e sprezzo verso la fatica
(nonché un pelino
di superbia), combattendo ogni battaglia in prima fila al fianco dei
suoi
uomini; ma quella sua spavalderia la preoccupava, temendo che egli si
fosse
troppo montato la testa da non fiutare una potenziale trappola tesa dal
nemico,
smanioso com’era d’umiliare il La Palice dopo la
rotta di Rovigo che aveva
trascinato sier Zuam Paulo dinanzi al Senato, sotto processo e un anno
intero
senza alcun incarico. Maria gli aveva confidato la notte scorsa questi
suoi
dubbi, interrogandolo sulla bontà della sua scelta e
tentando di persuaderlo a
mandare incontro all’emissario francese qualcun altro e di
poco conto in caso
di cattura. Non mi fido di quei senzadio,
gli aveva mormorato
contro la schiena, con la scusa delle negoziazioni
potrebbero
imprigionarvi o uccidervi. Stranamente, Zuam Paulo non aveva
contro-argomentato come sua abitudine, limitandosi a rassicurarla che
conosceva
bene i suoi ex-sottoposti e che non doveva angustiarsi per lui.
Poteva
sul serio?, si tormentava la nobildonna, osservandogli la
cicatrice bianca e ricordando come il marito l’avesse
consolata a Cividale con
le medesime parole, per poi ritornare semisvenuto in lettiga, con un
panno
scarlatto premuto al collo e versando tanto di quel sangue che ci si
chiedeva
come fosse riuscito a sopravvivere.
“…
si laora à le mura con solicitudine, ma non li è
massa
opere. El populo xé molto angarizato et le zente
xé alozate a quartier, et i
soldai fa di stranie cosse. Ma almancho ancuò (oggi, ndr.)
se pol dir niuna
baruffa”, informava il podestà sier Andrea Donado
nel frattempo il provveditore
delle ultime novità, intanto che sier Lunardo Zustignan
prendeva velocemente nota
onde informare il Senato.
“Il
signor Lorenzo? Non l’ho visto da nessuna parte.”
“In
letto tutto il giorno per via del malfrancese ch’affligge la
sua gamba; la perdonanza, patrona”, si scusò il
podestà con Maria, che liquidò
la cosa con un irritato svolazzo della mano. “Stamattina
s’è tuttavia rimesso e
potrà accompagnarvi.”
“Come
proseguono i lavori del Ponte de Pria?”
“Le
fosse e la spianada sono quasi terminate, così come le
chiuse
a chiavica: all’occorrenza, possiamo ora deviare
l’entrata dell’acqua o in
città o verso le fosse. La Boteniga è stata
completamente deviata per
circondare completamente la città e per il Sile non
mancherà molto.”
Corrispondeva
quell’opera idraulica al fiore all’occhiello del
piano difensivo, su progetto di Fra’ Giocondo da Verona:
situato sul fronte
nord delle mura, le sette poderose arcate del Ponte de Pria
permettevano e
regolavano l’ingresso in città alle acque del
fiume Botteniga mentre un
partidor, un ingegnoso sistema di arginature artificiali, permetteva la
precisa
suddivisione delle portate d’acqua necessarie ad alimentare i
canali di
Treviso, rifornire l’ingresso del Canale delle Convertite e
riempire la fossa
difensiva esterna. Il tutto all’ombra protettiva della
mezzaluna del bastione
di San Bartolomeo, posto sia difesa del fianco occidentale Porta San
Tomaso
sia, dalla parte opposta, a copertura del Ponte de Pria.
“Bon,
cussì me garba”, approvò Gradenigo.
“Di grazia, riferite ai
capitani che a breve li raggiungerò. Ah”, si
sovvenne all’ultimo, richiamando
il collega, “che sia raddoppiata la guardia su tutto il
fronte nord delle mura,
da Porta San Tomaso fino al torrione di Santa Sofia.”
“Ma
i nostri esploratori hanno detto che il la Peliza attaccherà
a
sud!”
“Sì,
ma non oggi né domani”, replicò
sibillino il provveditore.
Il
podestà sier Andrea Donado annuì pur non
comprendendo perché
proprio a nord dovessero rafforzare la guardia visto che le spie
riferivano le
mura sud come piano strategico del maresciallo francese; tuttavia,
confidando
nell’esperienza militare del concittadino,
s’affrettò assieme a sier Lunardo
Zustignan di recarsi a fornire ai soldati le ultime istruzioni del
provveditore.
Rimasto
dunque solo con la moglie, sier Zuam Paulo cercò perplesso
la spada, sussultando nel trovarla ben stretta dalle piccole e fini
dita di
madona Maria, che avvicinandosi a lui gli puntò contro gli
occhi battagliera.
“Voi
siete un gran testone, un orgoglioso, uno sventato.”
“Mo
via, mojer, no credo che …”
Maria lo
interruppe bruscamente. “Però siete anca un uomo
di
parola e di grandissimo cuore, sempre avete portato a termine gli
obiettivi
vostri e della Signoria”, gli rammentò e
incorniciatogli il volto tra le mani,
gli elargì un breve e deciso bacio. “Zuam Paulo,
per i nostri figli, che non
restino senza il loro sior Pare, giuratemi sì di farvi onore
ma anche di tornar
vivo e in un sol pezzo.”
Un poco
commosso e un poco stralunato, il patrizio annuì piano,
accarezzandole affettuoso i morbidi capelli sotto la cuffia di seta;
all’improvviso, tenendola delicatamente per la nuca,
ricambiò il gesto della
moglie, baciandola col medesimo ardente trasporto di quando
l’aveva posseduta
alla loro prima notte di nozze trentadue anni addietro.
“Mojer”,
le soffiò sulle labbra arrossate. “Non
angustiatevi per
me, bensì per quei disgraziati che s’avvicineranno
troppo a Trevixo …”
Allora
Maria Malipiero Gradenigo comprese.
***
“…
così, su richiesta del governatore e Gran Maestro di Milano,
l'illustrissimo
messire duca Gastone di Foix-Nemours, la Signoria Nostra ha
acconsentito di
condurre questa guerra da buoni soldati; che in caso di cattura di
saccomanni,
famigli o fanti, sotto giusto pagamento del riscatto noi garantiamo che
li si
lascerà andare, senza muover alcun torto sulla loro persona. Similmente
da voi vien richiesto medesimo cordiale e ragionevole atteggiamento.”
Jacques
de Chabannes de La Palice, Gran Maestro di Francia, terminava così di leggere la
missiva del provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo e consegnatagli da
un
emissario della compagnia di Vitello Vitelli, tal Michele da
Brisighella,
appena giunto all’accampamento di Montebelluna.
“Sicché
quando possiamo attenderci il ritorno dei nostri
prigionieri?”
“Quando
disporrete del danaro per il riscatto.”
“E
quando possiamo attenderci il vostro, di
danaro?”
“Quando
vi deciderete di rilasciare i nostri, di
prigionieri.”
Con la
scusa di voltarsi a meditare, La Palice scoccò una velenosa
occhiata a Mercurio Bua, che arcuò incurante un
sopracciglio: nonostante fosse
trascorsa ormai più di una settimana dalla caduta di
Castelnuovo di Quero,
ancora il greco-albanese si rifiutava di cedere
l’ex-castellano e di nominare o
una cifra per il suo riscatto o un nome per lo scambio. In aggiunta, a
causa
del crescente numero di prigionieri marciani catturati per merto o per
caso, la
prospettiva di diminuire le bocche da sfamare e pure incassare profitti
non
appariva malvagia, calmando gli animi irrequieti dei soldati, che
scalpitavano
d’attraversare la Piave per far razzie nella Patria del
Friuli.
“Li
avete visti fuori, nelle gabbie”, tergiversò cauto
il
francese. “Tutti coloro che abbiamo preso.”
Il
trombetta abbozzò ad un sorriso furbo.
“C’è un volto che ancora
non ho intravisto e in parecchi a Treviso desidererebbero ottenere
più dettagli
sulla sua attuale condizione.”
Al che
Mercurio s’intromise, inquisendo falsamente apprensivo:
“E
chi domanda di lui? La mogliera?”
“Il
fratello”, rispose spassionatamente Michele da Brisighella,
per poi rivolgersi al maresciallo: “La Signoria è
al corrente di come molti dei
vostri comandanti siano caduti suoi …”
“Il
maresciallo monseigneur La Palice non può in alcun modo
decidere della sorte del N.H. sier Miani”,
l’interruppe bruscamente
il Bua, non garbandogli la piega che stava prendendo quella
conversazione,
portandosi anzi davanti alla tenda alla stregua d’un feroce
can da guardia.
“Fui io a catturarlo e se si vuole negoziare della sua
liberazione, che sia con
me e me soltanto!”
In altre
circostanze, una persona qualsiasi si sarebbe ingobbita
sulla difensiva dinanzi a quella portentosa aggressività.
Invece, il trombetta
apparve sospettosamente compiaciuto di quello scatto di nervi.
“Indubbio.
Per questo ed altre questioni, il magnifico
provveditore generale di Treviso, il signor Gian Paolo Gradenigo mi ha
incaricato di portare tramite emissario la vostra risposta,
nonché la vostra
adesione ai desideri del duca e governatore di Milano,
l’illustrissimo Gastone
di Foix-Nemours, nipote del Re di Francia.”
“Il
provveditore desidera che tu ritorni assieme ad un nostro
messo?”
“Corretto.”
“Chi
ci assicura che non lo catturerete, magari torturandolo?”,
s’informò invece assai scettico Artus Gouffier,
signore de Boisy e duca di Roannez. “Sappiamo come chi finisce prigioniero a
Trévise, da lì non
ritorna se non in bara!”
“I
magnifici messeri miei capitani ci verranno di persona
incontro, a dieci miglia da Treviso in direzione Porta Altinia
… sud”, si
lasciò sfuggire Michele, mordendosi colpevole il labbro
inferiore, proseguendo
poi in fretta: “In questo modo il vostro uomo avrà
ogni occasione di fuggire.
Saranno portati lì anche i vostri soldati, se avrete i
danari pronti per la
taglia.”
“Questo
quando?”
“Se
riparto adesso, giungeremo anche oggi istesso a Treviso.”
“E
il provveditore lo sa?”
“Sa
tutto.”
Il
maresciallo La Palice rilesse meditabondo la missiva di
Gradenigo, cercando una falla in essa, un qualsivoglia indizio
d’inganno. Il
francese ben era al corrente dei recenti scrupoli del Foix-Nemours,
specie dopo
la rotta di Marostica, e in fin dei conti l’accordo sancito
con la Serenissima
non suonava insensato e svantaggioso. Senza contare che nelle stinche
di
Treviso languivano due suoi caposquadra che al maresciallo avrebbe
fatto comodo
riavere indietro, preferibilmente vivi.
“Sia”,
acconsentì, ripiegando la lettera. “Segui i qui
monseigneurs Jules de Saint-Séverin e Galéas
Pallavicino: ti porteranno dal tuo
compagno di viaggio. Quanto al provveditore e ai tuoi
capitani”, aggiunse La
Palice, scribacchiando e firmando un messaggio di risposta,
“puoi confermare
che siamo qui a compiere la volontà del nostro governatore e
della vostra
Signoria, ossia che questa guerra verrà condotta da
gentiluomini.”
Michele
da Brisighella abbozzò ad un inchino e pigliando la
lettera uscì dal padiglione assieme a Giulio Sanseverino, fratellastro del Gran Scudiero, e
al marchese di Busseto Galeazzo
Pallavicino, non senza aver lanciato una fuggevole occhiata al lenzuolo
steso
davanti al quale ancora vigilava Mercurio Bua, le braccia conserte e
arcigno in
volto.
Un
pesante silenzio calò nel padiglione.
“Cosa
ne pensate?”, s’espresse per primo de Boisy.
“Manterranno la
parola?”
Soffrey Alleman, signore
du Molard e barone d'Uriage, alzò a mo’ di resa le spalle.
“Né loro né
noi abbiamo scelta, così è stato accordato tra la
Serenissima e il nostro duc
de Foix-Nemours, a tutti noi non resta che obbedire.”
“Comunque
sia, meglio non sbilanciarci coi riscatti: pagheremo
solo quelli strettamente necessari, casomai proporremmo degli scambi
- di veneziani e stradioti ne abbiamo a
sufficienza”, disse La
Palice. “Ci sono questioni più pressanti cui
pensare: l’artiglieria non può
viaggiare in queste strade melmose, né attraversare i boschi
pieni zeppi di
contadini pronti a tagliarci la gola. Dell’Empereur
Maximilien e dei rinforzi
tanto promessi neppure l’ombra e malgrado abbia dato ordine
d’impiccare
chiunque attraversi la Piave, i tedeschi del capitano Jacob tuttora
sfidano la
mia autorità. Il pane scarseggia e se non fosse per i conti
di Collalto, che ci
riforniscono in gran segreto, a quest’ora ci sarebbe
già stata una rivolta. Ah,
e non scordiamo la più bella delle notizie: il provveditore
generale André Grit
parrebbe esser guarito dalla febbre e tosto rientrerà a
Padue, onde riprendere
l’ufficio e incontrare il nuovo governatore. Jean Gonzaga
ancora non si decide
a muoversi da Vicenza. Da Bayard a Ferrara ci giungono sempre meno
missive e ci
metterei la mano sul fuoco che dietro c’è lo
zampino di quel satanasso di
Frédéric Contarini. Ci stanno isolando e
più indugiamo in questo pantano, meno
chances avremo di vincere!”, concluse, battendo snervato il
pugno sul tavolo.
Sia du
Molard che de Boisy convennero gravemente.
“Timeo
Venetianos et dona ferentes”, sentenziò
ad un tratto
Mercurio Bua. “A forza di brigare in Levante, son divenuti
infidi come i
Turchi. Non conterei sulla costanza della loro parola, men che meno di
quella
di Zuam Paulo Gradenigo che non fa nulla senza un tornaconto
personale.”
“Dite
piuttosto, che ancora vi brucia l’esser stato pubblicamente
da lui rampognato, quando egli era comandante degli stradioti e vostro
superiore. Ah, e non scordatevi di Lorenzo Orsini degli Anguillara, che
anche
lui vi sconfisse sul campo!”, lo derise Teodoro Trivulzio,
nipote di Gian
Giacomo Trivulzio e antico compagno della famosa battaglia del
Garigliano tra
Spagnoli e Francesi, al che il greco-albanese gli elargì di
rimando un sinistro
sogghigno, per poi proseguire:
“Io
propongo d’attaccare. Adesso che Gradenigo, Vitelli e i due
Orsini sono fuori Treviso. Il trombetta ha detto che
s’incontreranno in
direzione sud, Porta Altinia? Perfetto, noi attaccheremmo da nord, a
Porta San
Tomaso!”
“E
con che, sentiamo?”, puntualizzò scettico Soffrey du
Molard, “non
possiamo trasportare i cannoni per via della pioggia e del fango.
Pensate
d’arrampicarvi come scimmie sulle mura?”
“Restano
pur sempre mura antiche …”, spezzò
Artus de Boisy una
lancia in favore del Bua. “Possono averle soltanto
rinforzate, costruirne in
poco tempo delle nuove è materialmente impossibile. Inoltre,
bisogna
considerare le abitazioni a ridosso delle mura scaligere e fuori
città, così
come i piccoli borghi limitrofi di Fiera, Melma, Santa Bona
… Basterà
occuparli, tagliare loro ogni via di comunicazione e da lì,
via fiume, far
arrivare l’artiglieria. Saranno loro, quelli
isolati.”
Era stato
quello il punto debole del Dominio di Terraferma:
terminata la signoria delle famiglie locali e sotto la vigile egida di
San
Marco, le città venete non avevano per anni più
avuto ragione di temere
attacchi esterni, godendo di una pace impensabile rispetto agli Stati
limitrofi
e pertanto le loro difese si presentavano arcaiche e inadatte alla
nuova
guerra. Treviso non versava in una situazione tanto diversa, salvata
solo dalla
fortuna di trovarsi in una valle fluviale insidiosa ma per il resto,
anche
tentando disperatamente di modernizzarsi, non avrebbe mai e poi mai
portato a
termine un’impresa così titanica.
“Le
mura ormai fungono da decorazione, la città si è
espansa fuori
di essa e non riusciranno in tempo ad evacuare gente e roba. E di certo
non
bombarderanno i civili. In questo modo, otteniamo alloggi, viveri e
scudi
umani”, terminò il greco-albanese, mostrando il
tragitto a La Palice e gli
altri comandanti. “Maresciallo, il vostro piano di attaccare
a sud può tuttora
considerarsi valido; ciononostante, se Gradenigo, Vitelli e Orsini
hanno deciso
di parlamentare proprio lì, significa che sospettano un
nostro attacco e
pertanto avranno raddoppiato la guardia, anche per evitare di venire a
loro
volta o catturati o uccisi.”
“Di
conseguenza, il fronte nord rimarrebbe sguarnito e facilmente
occupabile …”, concluse Teodoro Trivulzio.
“E’ audace come piano, capitano Bua,
ma avventato. Troppe incognite, non sappiamo neppure con precisione la
morfologia attuale di Treviso. E se vi sbagliaste? Potreste finire
catturato e
noi non possiamo permetterci alcun passo falso, non ora che non abbiamo
il
supporto immediato né dell’Empereur né
del Roi!”
Mercurio
arricciò furbescamente l’angolo della bocca.
“Ho il mio
angelo custode in questo inferno, signor Teodoro.
Mi
scamperà lui dalla prigionia”, e rivolgendosi
all’ancor dubbioso La Palice.
“Quanto al pane, abbiamo i mulini di Castelfranco: mandate
lì a macinare la
farina. Ci vorrà più tempo, però
quantomeno smetteremo una buona volta di
addobbare di Tedeschi i rami degli alberi.”
Giulio
Sanseverino e Galeazzo Pallavicino entrano nel padiglione.
“Il trombetta sta per lasciare il campo col nostro
emissario.”
“Gli
sono stati dati i danari per il riscatto dei nostri
caposquadra?”, s’accertò La Palice.
“Sì,
certo.”
Il
maresciallo serrò le labbra. “La vostra fama mi
è nota dai
tempi di Fornoue, capitaine Bua, e so che voi non elargite
suggerimenti, bensì
esponete decisioni già prese. Avete il mio permesso
d’attaccare Trévise secondo
il vostro piano, ma” e alzò la mano onde
interrompere il greco-albanese, “con
la vostra compagnia e nessun altro. Se fallirete, codesto fiasco
sarà
imputabile a voi e a voi solo. Perciò pregate che il
vostro angelo
custode valga abbastanza agli occhi della
Serenissima per accordarvi
la liberazione” e rivolto a du Molard e de Boisy:
“Quanto a noi, alle prime
luci dell’alba calcheremo ininterrottamente fino a Vicenza:
poiché Jean Gonzaga
non vuol venire con le artiglierie, saremo noi ad andar da lui a
prendercele.
Dovesse funzionare la strategia del capitano Bua, in meno di sette
giorni
saremo sotto le mura di Treviso.”
“Contro
quelle bellezze ferraresi non avranno speranza alcuna di
resistere all'assedio”, commentò sornione du
Molard. “Due anni e mai
conquistata. Sarà un piacere mettere Trévise al
sacco …”
***
Etienne
de Toulouse, il trombetta scelto dal maresciallo de La
Palice, cavalcava dubbioso e guardingo assieme agli altri cinque suoi
compagni,
circondati da ogni lato dai laconici soldati marciani: pur non
conoscendo bene
il territorio, ad occhio e croce poteva affermare che non si trovavano
a dieci
miglia da Porta Altinia e che quel casolare dai muri ricoperti di fango
fin
quasi al secondo piano e in esso mezzo sprofondato di certo non era
Treviso.
Michele
da Brisighella arrestò la marcia della silenziosa
comitiva, scendendo da cavallo. “Vieni”,
invitò il francese a scendere tramite
ampi gesti, affinché supplissero
all’incomprensione di due idiomi simili ma non
troppo. “Ah! E fai attenzione al …”
Un suono
gutturale, che ricordava il suggere ingordo di un
affamato intento a trangugiare una zuppa, interruppe il brisighellese e
strappò
contemporaneamente gridolini di sorpresa al tolosano e i suoi compari:
non
appena, infatti, essi avevano appoggiato i piedi nel terreno melmoso,
ecco che
affondarono fin quasi al ginocchio e per poco non ci lasciarono le
scarpe e
parte delle calze a causa di quella morsa fangosa.
Etienne
aprì sconvolto la bocca, cercando in Michele una risposta
a quel fenomeno da palude marcia, non della terra fertile da Paese
della
Cuccagna descrittagli dai superiori. Il soldato del Vitelli, invece, si
limitò
a scrollare beffardo le spalle, conducendolo dentro il casolare
là dove l’attendevano
sier Zuam Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri, Troilo Orsini e
Vitello
Vitelli.
Immediatamente,
Etienne li salutò con un complicato svolazzo alla
francese, che provocò una scintilla di ilarità
negli astanti.
“Meno
male”, commentò ironico il provveditore ai
condottieri,
“stavolta ce ne hanno mandato uno di buone
maniere!” Dopodiché istruì
l’interprete di tradurre le dinamiche dell’accordo
tra la Serenissima e il
governatore di Milano, nonché di discutere le
modalità di pagamento del
riscatto dei prigionieri francesi.
“Soltanto
due caposquadra?”, fece un poco deluso Renzo di Ceri.
“Pensavo che il tirchio in questa guerra fosse Massimiliano,
non il La
Palissa.”
“Forse
conta di liberarli da sé, gli altri prigionieri”,
gli
spiegò sottovoce Vitello Vitelli.
La bocca
del laziale s’arricciò perfida.
“Qu’est-ce
que cela signifie, que ce soir on va dormir
ici?”, esclamò ad
un certo punto un indignato Etienne
all’interprete, il quale, serafico, gli aveva tradotto le
disposizioni del
Gradenigo ovvero che la liberazione dei due caposquadra sarebbe
avvenuto
l’indomani mattina: oramai la sera era calata e la strada
troppo pericolosa per
un francese a zonzo da solo per la Marca, non sia mai che il vostro
maresciallo
possa sospettarci di spergiuro, dovesse accadervi qualcosa di assai
spiacevole
…
Inoltre,
che i signori qui stessero di buon animo: gli ottimi
soldati del capitano Vitelli li avrebbero tenuto eccellente compagnia
assieme
all’interprete, così da divenire tutti amici e
cicalare senza disturbo alcuno
in quel casolare a mezzo miglio da Treviso.
“Quoi?”,
si voltò disorientato Etienne verso i suoi
compagni altrettanto increduli. “Mezzo …
miglio?”
Com’era
possibile? Se erano in piena campagna, circondati dal
nulla! Non potevano essere così vicini senza aver scorto
neanche un villaggio o
case e …!
A meno
che …?
***
Appena
giudicò esserci abbastanza luce da distinguere le forme
davanti al proprio naso, Mercurio Bua scese dalla branda per prepararsi
alla
lunga cavalcata che l’attendeva, scegliendo accuratamente
quale armatura
indossare e quali armi portarsi appresso, il giusto equilibrio onde
evitare sia
di combattere troppo leggero e vulnerabile sia di perdere
l’effetto sorpresa.
Anche i padiglioni di La Palice, de Boisy e Giulio Sanseverino erano
illuminati, segno che sarebbero partiti pure loro quello stesso giorno,
ma
diretti a Vicenza.
“Così
te ne vai?”
“Ti
dispiace?”
“Stimo
nulla.”
In certe
occasioni, quel veneziano inquietava il condottiere, non
avendolo visto negli ultimi giorni né mangiare né
dormire (contrariamente al
puttino accanto a lui, una vera e propria bestiola facilmente
accontentabile)
preferendo piuttosto scrutare il greco-albanese pieno d’odio,
gli occhiacci
neri che assorbivano avidi ogni suo movimento. Fosse stato un uomo
superstizioso, Mercurio avrebbe ipotizzato che gli stesse lanciando una
fattura.
“Cuore
di pietra! Sul serio non t’importa saper la tua
città sotto
assedio?”, gli chiese beffardo, girandosi
acciocché il suo famiglio gli
stringesse gli ultimi lacci del corsaletto. L’avventuriero si
raccomandò
inoltre a Zilio di far da buona guardia al padiglione fino al suo
ritorno. “A
proposito, vuoi che ti porti qualcosa da Treviso?”
“Qualche
paio di mutande e una corda per andar a farti impiccare.”
Mercurio
cacciò un sospiro profondo, imponendosi di non lasciarsi
provocare di prima mattina dal giovane Miani – conserva
le energie! -
più tarmante di sua moglie nei suoi periodi peggiori e ce ne
voleva! Il
capitano scosse il capo, d’un tratto immalinconito: cosa non
avrebbe dato per
poter risentire la voce della sua diletta, quel mulo testardo dalla
linguaccia
lunga. “Ti lascio il moccoloso, così non ti
sentirai solo”, gli concesse
magnanimo, infilando i guanti di cuoio e allontanando dalla mente quel
bizzarro
paragone tra Caterina e Hironimo.
“Puoah,
come se tu fossi di alcuna compagnia!”
“Beh,
fra poco avrai quella di tuo fratello”, insinuò
casualmente
il greco-albanese, godendo del lieve sussulto apprensivo del patrizio
veneziano
- oh! finalmente una reazione che gli conveniva al
suo status di
prigioniero ... “E chissà, anche del Gradenigo e
degli altri tuoi concittadini.
Anzi, no, quel bastardo lo ammazzo proprio!”,
ridacchiò compiaciuto del proprio
ambizioso progetto. “Immagina lo sconcerto di Treviso nel
vedersi privata del
suo provveditore generale! Del suo grande eroe!”
Hironimo
emise a sua volta una risata gutturale. “Sei nato e
cresciuto sotto l’ala di San Marco, eppure ancora non hai
capito un’emerita
cippa di noialtri. Uccidi pure Gradenigo, se ti va. La Signoria
invierà un
altro provveditore generale. E un altro. E un altro ancora”,
sibilò feroce,
puntandogli contro gli occhi nerissimi. “Non esiste da noi
un eroe,
non se inteso come singolo individuo. Ché da noi
è la civitas l’eroe. Venezia
stessa è l’eroe. Voi non state combattendo contro
Gradenigo o il Serenissimo
Principe, voi avete mosso guerra a tutti noi, dal contadino al Doge! E
come
un’Idra, più teste ci tagliate più ne
spunteranno per divorarvi!”
Piccato
da quella saccente ramanzina e genuinamente non avendo mai
approfondito quell’aspetto della mentalità
veneziana, Mercurio ribatté: “Dunque
questo significa che anche tu ai fini della Signoria sei
sostituibile?”
Hironimo
abbassò il capo, il suo silenzio più eloquente di
qualsiasi risposta. Naturale che fosse spendibile, se necessario a
conseguire
la vittoria ultima contro i nemici. Dinanzi alla mancata richiesta di
un
riscatto da parte dei suoi, nella mente sempre più sotto
pressione del patrizio
incominciava a prender forma una tremenda teoria e cioè che
lui non valeva la
pena il rischio di patteggi troppo svantaggiosi. Qualcosa impediva alla
Signoria di rivolerlo indietro, qualcosa più importante di
lui.
Se da una
parte il giovane Miani soffriva orribilmente, sentendosi
abbandonato e tradito, dall’altra comprendeva la
necessità di quel sacrificio.
Non era stato d’altronde allevato così,
nell’atipica Venezia in cui l’individuo
diventa anonimo e al contempo celebrato nella sua grandezza? Invano
cercare fra
calli, campielli e campi un monumento, una statua,
un’iscrizione a gloria di un
eroe. Venezia onora solo i nemici sconfitti: a Palazzo Ducale
più che le gesta
di chi l’ha resa grande sono esposte a macabro trofeo quelle
di coloro che
hanno tentato distruggerla, monito e sfida al mondo intero. Una
società
governata con la medesima disciplina delle sue
galee, dove tutti –
patrizi, clero, cittadini e villani – devono remare al ritmo
del suo tamburo e
dove nessuno, neanche il Doge, è più importante
della Signoria o al di sopra
delle sue leggi.
Chi
s’era creduto di essere lui, Hironimo Miani, per aver
vagheggiato un diverso destino?
“Ripeterai
questo tuo bel discorso davanti all’Imperatore a
Treviso?”, l’incalzò il capitano di
ventura onde punzecchiarlo e ottenere una
reazione da parte del ragazzo, lo sguardo divenuto vago e lontano quasi
più
nulla lo tangesse. “O davanti al cadavere di tuo fratello? Ha
anche per caso
moglie e figli?”
Hironimo,
a fatica, si pose allora in piedi e approfittando della
vicinanza di Mercurio, anticipando ogni sua reazione gli
ghermì il volto,
baciandolo feroce e mordendogli le labbra fino a trar sangue.
“Nel
Levante lo chiamano ölüm
öpücüğü (bacio
della morte, ndr.) quando prima di un’impresa è il
nemico a dartelo. Che ti
possa portar ogni male, Mercurio Bua Spata, che ti possa
condurre alla
peggior morte.”
***
L’ozio
è la fonte di ogni vizio e un accampamento in attesa ne
è
perfetto crogiolo.
Per i
soldati franco-imperiali stanziati a Montebelluna si
trattava quindi di naturale prassi se di tanto in tanto tra di loro
deambulava
qualche prostituta, squadrandoli affamata alla ricerca di chi possedeva
sufficiente sostanza da saziarla di danaro. Nessuno lo giudicava
inconsueto o riprovevole,
men che meno a quell’ora ancora temprana del mattino;
terminato il trambusto
della concitata partenza del maresciallo e del capitano degli
stradioti, il
campo era ripiombato nella consueta indolenza tipica di chi ha lo
stomaco vuoto
e nulla d’importante da fare.
Una di
queste peripatetiche, piuttosto seccherella e con in testa
un buffo turbante alla turchesca, con le mani ai fianchi si
destreggiava tra le
varie tende dove dormicchiavano i soldati affamati e annoiati. Al
contrario,
ella appariva assai vispa e accorta, studiando bene ogni angolo del
campo e
similmente a lei subito erano divenuti svegli e attenti i prigionieri
marciani,
non appena la intravidero dalle loro gabbie improvvisate.
“Toi,
la gueuse,
qu’est-ce que tu fais ici? Non è posto per te, questo!
Vattene!”,
le berciò dietro il soldato posto di guardia.
Sennonché
la prostituta, invece di scoraggiarsi, prese ad
ancheggiare sensuale, suggendosi lasciva l’indice e
massaggiandosi il pube in
uno spettacolo sempre più grottesco finché
l’uomo, spazientito, non la spinse
via di malo modo, allontanandola di molti passi.
“Ah”,
fece lei connivente, strizzando l’occhio. “Dur … te
plé dur … et mua, scie lé tre dur
…”
“Quoi?”
Il
sorriso civettuolo della puttana cangiò in uno ferino,
sollevandosi le sottane rattoppate e prima che il francese potesse
gridare la
sua sorpresa nell’apprendere ciò che sotto vi si
celava, ecco che ricevette un
doloroso calcio al petto, sbattendo malamente contro la gabbia dei
prigionieri.
Dietro di
lui sbucarono rapidissime due mani lerce e robuste, che
gli s’aggrapparono alla sua fronte e mascella e mentre la
prostituta
s’inginocchiava a cercare le chiavi – ottima
posizione promiscua per
l’osservatore distratto - il suo complice da dietro le sbarre
spezzava l’osso
del collo della guardia, che s’afflosciò per
terra. Tocco finale, la finta
meretrice, trascinato via il cadavere davanti ad una poco distante
tenda
francese, gli pose tra le mani un lembo di una
sopravesta tedesca e
gli rubò la saccoccia col denaro, onde simulare un furto con
omicidio e dunque
esacerbare la reciproca diffidenza già vigente tra i
Collegati.
“Vio,
te val gnente chome putana!”, scherzò sottovoce
uno dei suoi
compagni d’arme, intanto che il ragazzino armeggiava col
lucchetto.
“Ma
va’ in mona de toa mare, quea gran vaca”,
replicò Vio
indispettito e rosso in volto, forzando la serratura e, accertatosi di
operare
senza testimoni scomodi, aprì la gabbia. “Vestate
ti da putana e po’ dime, caro
ti, se te riesse mejo!”
Silenziosi
e lesti come gatti, i prigionieri scivolarono via nella
semioscurità in direzione della selva, là dove le
loro spie li avevano
comunicato attenderli gli uomini di Domenico da Modone, incaricati da
sier Zuam
Paulo Gradenigo di seguire e riferire ogni passo dei franco-imperiali.
Già uno dei
suoi corrieri stava cavalcando verso Treviso e Padova, avvisando i
rispettivi
provveditori generali della sortita del La Palice a Vicenza.
Purtroppo
tutti non potevano liberare senza destare sospetti,
dovendo apparire le fughe come casi isolati e frutto
dell’iniziativa personale,
un po’ alla volta, ora all’alba, ora al tramonto,
ora tra gli spostamenti delle
truppe. Come aveva giustamente affermato lo stesso maresciallo, neanche
la
Serenissima poteva permettersi ogni riscatto.
“Teodoro,
razza di coglione, che fai?”, sussurrò irato uno
stradiota marciano al suo conterraneo, che, strisciando quasi, si era
portato
vicino ai cavalli. Poi, intuendo subitaneamente le sue intenzioni,
inquisì
perplesso: “Ma non è il cavallo di tuo fratello
Zilio?”
Teodoro
Madalo, della compagnia del capitano stradiota Manoli
Clada, annuì aspramente. “Esatto e se non ci
avesse partoriti la stessa madre,
altro che la sua cavalcatura prenderei a quello là
…!” e detto questo, con
moine e schiocchi della lingua, le quattro bestie lo seguirono
docilmente tra
gli alberi.
Sorse
infine l’aurora e riprese a piovere a dirotto.
Continua
…
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E
così incominciamo ad entrar nel vivo dell’assedio:
pur
scervellandomi, sinceramente non sono riuscita a trovare un motivo
logico di
quell’attacco da parte dei franco-imperiali; onde evitare
dunque di farli far
la figura dei cretini, ho delineato una forma di strategia, anche
tenendo in
considerazione che non esistevano i droni all’epoca e quindi
non potevano avere
conoscenze esatte del territorio, senza averlo prima esplorato. E
figurarsi se
si potevano avvicinare facilmente.
Inoltre,
siccome non mi piace tenere anonima la gente, ho voluto
dare un nome agli emissari sia francesi che marciani.
Il
prossimo capitolo, come già si è intuito,
verterà sul primo
attacco a Treviso. Come si concluderà? Bene? Male? Pari?
Alla
prossima e strano ma vero, stavolta niente note finali! XD