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Autore: Melanto    20/01/2020    4 recensioni
[Midquel di 'Malerba']
Gli elementi principali dell'ikebana sono tre, chiamati in modi differenti e sintetizzabili in: Paradiso, Uomo e Terra.
Preso nel mezzo, tra ciò a cui appartiene e la fede da ritrovare, l'Uomo si curva e dibatte alla ricerca di un equilibrio ideale. Ma la ricerca può essere guerra, e se dopo tante sconfitte c'è chi riesce ad assaporare la pace delle prime vittorie, allo stesso modo c'è chi, dopo aver passato una vita intera a dominare, inizia a soccombere sotto il peso delle sconfitte nascoste.
Questa raccolta è fatta di vittorie e disfatte diluite nel Tempo, ma senza dimenticare...
...che non è il tempo a perdersi, siamo noi a perderci nel tempo.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Jikan - #9

Note Iniziali: e un altro Dicembre è arrivato :D Sono passati esattamente due mesi dalla shot precedente, e 1 anno e sette mesi dall’uscita di Shuzo di prigione.

 

Buona lettura! :D

 

 

 

 

 

 

- #9: La buona strada -

 

 

 

«Forse sarebbe meglio se non venissi.»

Yumeko evitò di alzare gli occhi al cielo, ma il sospiro profondo e rassegnato non lo trattenne.

Era da almeno una settimana che quella frase rispuntava a caso nelle loro conversazioni. E anche ora che il giorno era arrivato e lei gli stava sistemando il nodo alla cravatta, Akio la tirò fuori, accompagnandola sempre con la stessa espressione che voleva dissimulare fermezza, ma era carica di incertezze: labbra tese e sopracciglio inarcato che formava un solco profondo sulla fronte.

Suo marito così indeciso non lo era mai stato da che lo conosceva, ma la strada aveva cambiato il corso da quando Shuzo era tornato nelle loro vite in maniera inaspettata. Akio aveva preso il coraggio di abbandonare la via dritta di sempre per addentrarsi lungo la traversa più tortuosa, dove non era possibile scorgere più in là di ogni curva. Aveva paura, tanta, di commettere un passo falso e cadere di sotto, portando con sé le speranze di riuscire a trovare un dialogo con suo figlio.

Ora erano in grado di stare insieme nella stessa stanza e riuscire a scambiare due parole smozzicate. Un risultato enorme e insperato, a prima vista, che faceva desiderare di più. Faceva sperare potesse esserci un ‘di più’.

Lei ci credeva, Akio ne era terrorizzato anche se non lo diceva.

«Ne abbiamo discusso ogni giorno e ormai non puoi tirarti indietro.» Yumeko diede una lisciata al colletto della camicia, dopo averne ripiegato gli angoli. «Sei suo padre, e questa è la prima cena che riusciamo a fare tutti insieme da almeno sedici anni. Ci hanno invitato i genitori di Mamoru, non dimenticarlo; non presentarsi all’ultimo momento sarebbe maleducazione.»

Fu allora Akio a sospirare, mentre si allontanava di qualche passo e allentava ancora il nodo alla cravatta, quasi gli mancasse l’aria. Yumeko sbuffò: era da almeno una mezz’ora che non faceva altro che sistemarglielo.

«Shuzo preferirebbe che non ci fossi.»

«I figli preferirebbero un sacco di cose comode che non gli possiamo concedere perché almeno noi dobbiamo essere lungimiranti. Non potrai evitare per sempre questo discorso. È l’occasione buona per fargli capire che sai più di quello che crede e dargli il tuo supporto.»

«Oh, certo, magari tra il dolce e un bicchiere di vino posso dirgli ‘bella giornata, vuoi una sigaretta? Tua madre mi ha detto che sei gay’. Dovrò prepararmi a un altro pugno in faccia.»

Yumeko nascose una risatina nella mano. «Non ci saranno pugni in faccia.»

«Sei troppo sicura che le cose possano andare bene e dimentichi che stiamo parlando di Shuzo e di me. Se c’è una cosa che ho imparato in tutto questo è che, quando si tratta di noi due, le cose non potranno mai andare né bene, né lisce, né civilmente.»

Yumeko rimase a osservare la schiena di suo marito. Le spalle ampie e l’altezza imponente che l’avevano reso sequoia accanto a lei. Una solidità che pareva inaffondabile e che ora invece sembrava nascondere un cuore di truciolato. Provò tenerezza per quelle incertezze che, se solo fossero emerse prima, avrebbero potuto cambiare le cose fin dal principio o prima che precipitassero.

«Sono quasi due anni che riuscite a stare nella stessa stanza e a parlarvi senza che avvenga nulla di disastroso. Dovresti avere anche tu un po’ più di fiducia nei tuoi mezzi e in quelli di tuo figlio. Se non ti ha più rifiutato un motivo ci sarà. Sai che avrebbe fatto di tutto pur di non avere contatti con te, se davvero avesse voluto.»

Arrivò a toccare quella schiena che per molto tempo aveva pensato non meritasse il suo supporto né la benedizione d’aver avuto due figli meravigliosi. Con le dita lisciò il cotone della giacca, da un lato e dall’altro, nel desiderio di livellare ogni differenza ancora presente sulla strada della sua famiglia.

«Shuzo ci sarà, stasera. Devi esserci anche tu, perché i genitori fanno anche questo: afferrano le più piccole concessioni e le trasformano in opportunità.»

 

«Senti e se mi dessi malato?»

In quel preciso momento, Mamoru desiderò prendere il volante a testate. Sarebbe stato di sicuro più edificante che rispondere – per l’ennesima volta – alla domanda di Shuzo seduto al suo fianco, con il viso sprofondato nel palmo della mano e quasi tutto addossato al finestrino. Scomposto, com’era di natura.

«Ancora con questa storia?! Ma quanti anni hai?»

«Non è quanti anni ho, okay?»

«Io direi proprio di sì, perché ti stai comportando come un bambino che fa i capricci e non vuole andare dal dentista!» agitò una mano ed effettuò una curva in maniera troppo decisa per le strade di Nankatsu. «E poi siamo quasi arrivati.»

«Allora ferma; torno indietro con un taxi!»

«Merda, Shuzo! Piantala! Ne abbiamo parlato fino allo sfinimento, non ricominciare.»

«Il fatto è che tu non puoi capire.»

Quando non sapeva che rispondere, ecco che Malerba s’impuntava con la solita frase preconfezionata del ‘tu non puoi capire’. L’aveva sentita talmente tante volte che fu tentato di girarsi e tirargli un pugno dritto in faccia.

«Ah, no? Non posso?! Anche io ho avuto problemi con mio padre.»

«Sì, ma è differente. Tuo padre ha un cervello che funziona.»

«Anche il tuo, non sottovalutarlo. Siete riusciti a non darvi contro per quanto? Un anno e mezzo? Due? Vedi di non rovinare tutto stasera e di non metterti sulla difensiva.»

«E perché dovrei essere io quello che rovina le cose?! Di sicuro sarà lui!»

«Se parti così allora finirà una merda.»

«Sì, sì…»

Mamoru lanciò un’occhiata veloce, giusto in tempo per vedere Shuzo che alzava gli occhi cielo sull’ultima risposta piena di accondiscendenza. Gli dava il contentino per chiudere una discussione che adesso gli risultava fastidiosa, perché non si stava svolgendo come voleva lui.

Molto maturo, pensò stringendo gli occhi.

E adesso, ecco che Malerba guardava fuori. Finiva sempre così quando non voleva più affrontare gli argomenti scomodi: girava lo sguardo, lo teneva distante. Credeva che in tutto quel tempo non l’avesse ancora capito? E invece sapeva esattamente cosa gli passasse per la testa; ogni cosa aveva un significato e spesso corrispondeva a un’emozione in particolare.

«Ammettilo, sei solo spaventato a morte.»

Shuzo saltò dal seggiolino.

«Cosa?! Chi?! Io?! Ti droghi, gioia?! Spaventato da chi e per cosa?! Fammi il piacere.»

«Sei sulla difensiva da duro: significa che sei nervoso.»

«Vaffanculo, Mamoru. Un’altra cazzata e ti faccio fermare sul serio.»

Mamoru storse le labbra, divertito dalle sue minacce di cartapesta, non erano quelle dette per fare paura e, forse, non c’era più alcuna minaccia che temesse davvero da lui.

«Tu non vai da nessuna parte, perché comando io.»

«Stocazzo!»

«E affronterai tuo padre come avresti dovuto fare già da un po’.»

«Oh, andiamo! Perché avrei dovuto? Cos’è, devo chiedergli il permesso? Io non gli devo nessuna spiegazione! Se sto con te sono solo cazzi miei e tuoi.»

«Non si tratta di chiedergli il permesso, ma di metterlo al corrente della nostra relazione, dopo quasi quattro anni. Tutto qua.»

«Sì, tutto qua.» Lo scimmiottò Malerba. «Se avessi una vaga idea di chi sono davvero i Morisaki non è quello che diresti.» Scosse il capo, sprofondando nello schienale del seggiolino con le braccia conserte; sembrava il buttafuori scoglionato di una discoteca. «Gesù, sento già l’odore della figura di merda che mi farà fare davanti ai tuoi genitori.»

«Non ti farà fare nessuna figura. Dovresti fidarti di più di tuo padre.»

«Fidarmi ‘cosa’?! Ti prego sto per soffocare dalle risate. Fidarsi di lui… Questa è grossa.»

Mamoru lo guardò storto. «Ti ha più fatto scenate?»

«Ma che c’entra?»

«Rispondimi, te ne ha più fatte o no?»

«Solo perché è un cacasotto! Ha paura di prenderle di nuovo!»

«Non fare il gradasso, tanto non gliene tireresti mai un altro e lo sappiamo tutti e due. E anche se fosse, non ne avrebbe paura, sai anche questo. Quindi, rispondi alla domanda.»

«No…» Un masticare di parole a mezza bocca per cui non provò pietà.

«Ti ha più detto cose per cui mandarlo a quel paese?»

«No.»

«Allora, magari, dovresti concederglielo quel pochiiino di fiducia in più e dirgli che stiamo insieme. È la prima cena ufficiale che facciamo con i miei e i tuoi, facciamola funzionale. Okay, gioia

«…’kay.»

Una conclusione altrettanto masticata alla sua arringa, ma bastò a Mamoru per chiudere la discussione.

Trattenne un sorriso nel vederlo imbronciato e con lo sguardo ancora rivolto all’esterno. Anche lui era un po’ preoccupato, ma ammetterlo non avrebbe fatto altro che legittimare la fuga del suo compagno. E Mamoru sapeva di non poterlo permettere, perché era questo che facevano i figli: lasciavano in giro piccole concessioni nella speranza che i genitori potessero trasformarle in opportunità.

 

Vedere l’auto di suo padre parcheggiata nel cortile di casa Izawa gli fece serrare la mascella tanto da sentire un leggero dolore nei denti e poi il sapore del sangue. Lo buttò giù e sbuffò.

«Smetterai di fare la ciminiera?» chiese Mamoru entrando nella proprietà dopo aver lasciato l’auto nella stradina di casa. Aveva aperto con le chiavi.

«Non posso nemmeno sbuffare? Vorrai stare a sottolineare tutto quello che faccio?»

Mamoru non gliene stava facendo passare una; lo riprendeva di continuo e lui soffriva sempre meno quella situazione.

Quando i genitori di Mamoru l’avevano invitato a cena, lì per lì non ci aveva visto nulla di male, capitava spesso, così aveva accettato senza neppure pensarci. La seconda parte della faccenda era arrivata dopo e a quel punto non si era potuto tirare indietro, anche perché Mamoru aveva subito detto che era un’ottima idea per parlare anche con sua madre e Akio. Soprattutto con Akio.

Di tutti, suo padre era l’unico a non sapere ancora come stavano le cose. Non aveva neppure idea se si fosse mai posto qualche domanda, ma dopotutto non gli era fregato più di tanto: Akio e la sua cricca Morisaki potevano pensare un po’ quello che volevano, tanto non erano affari loro.

A quanto pareva, invece, stavano per diventarlo.

Forse avrebbe dovuto infierire, dirgli che anche Yuzo era gay. Dèi, gli avrebbe fatto venire un infarto secco, ne era certo, ma sarebbe stata una grande rivincita, quasi una consolazione… se non fosse stato che non c’era nulla per cui consolarsi.

Glielo avrebbe detto e allora? Che sarebbe cambiato? Suo fratello era morto, ormai, e Akio l’avrebbe disprezzato ugualmente. Le tregue che avevano tacitamente firmato sarebbero andate a gambe all’aria, la civiltà che erano riusciti a mantenere sarebbe crollata, Akio avrebbe dimostrato che il suo era solo un atteggiamento di facciata e tutto sarebbe tornato a com’era stato prima che uscisse di prigione. O addirittura a prima che vi entrasse.

A prima che gli dicesse ‘cacciami pure, tornerò’, a prima che gli dicesse ‘sono qui’.

Tanto era stata solo questione di tempo e per questo non si era aspettato nient’altro se non di vedere la tregua sparire. Una strada, quella volta, cui non si sarebbe più tornati indietro.

«Kanna! Shuzo-san!»

Pooja, la governante indiana di casa Izawa, li accolse con un largo sorriso e la braccia aperte non appena misero piede in cucina: tappa fondamentale ad ogni loro arrivo.

Fin dalla prima volta che c’era stato, la signora Pooja gli aveva fatto sentire tutta l’accoglienza della civiltà cui apparteneva, dove l’ospitalità era importantissima e legata al cibo e al tè: gli ospiti che mettevano piede in casa dovevano mangiare e bere, non c’era verso che se ne andassero a stomaco vuoto. E lei aveva addosso l’odore delle spezie e dell’incenso, impregnato nei colori sgargianti dei saree che indossava sempre. Anche quella sera ne aveva uno, molto elegante e di colore blu notte, dai bordi d’oro. Lo teneva appuntato in modo che non le desse fastidio, con la stoffa fermata sulla spalla da delle spille da balia.

Era così diversa dalla governante di casa Morisaki dei suoi ricordi: una donna tipicamente giapponese nei modi, negli abbigliamenti e nelle tradizioni, minuta e silenziosa, a volte impercettibile. Sua madre gli aveva detto che, dopo la morte di Yuzo, l’aveva fatta tornare in Hokkaido dalla famiglia, e lui non aveva faticato a immaginare la casa in cui era nato e in parte cresciuto sprofondare ancora di più nel silenzio e nelle distanze tra chi la abitava.

A casa Izawa, invece, c’era tutt’altra musica e aveva l’armonia dei sitar e il ritmo dei dholl.

«Auntie, ti ho sempre detto di non usare il ‘san’ con me. Non ce n’è bisogno.»

«È per rispetto. Lo dice la signora e ormai l’ho imparato anch’io.»

Shuzo le fece una smorfia, mentre Mamoru l’abbracciava in maniera molto informale. Lui, con quella donna, ci era cresciuto fino a che non era andato via di casa, era più di una semplice domestica agli occhi del suo compagno.

«E cosa hai preparato di buono? Sento un profumino…»

«Tutto quello che auntie prepara è buono», intervenne lui con solennità, porgendole un bel bouquet in cui spuntava un enorme Hyppaestrum bianco con una sfumatura rossa nel cuore che sembrava spruzzata con l’aerografo, e delle fresie profumatissime. «E deve essere omaggiata per il suo duro lavoro.»

«Oooh, chellam!»

Alla donna brillarono gli occhi nell’accettare il dono e guardarlo con meraviglia. Inspirò l’odore delle fresie e poi gli sorrise, portando una mano vicino alla sua tempia. La prima volta, Shuzo aveva creduto volesse fargli una carezza e invece col palmo aperto aveva afferrato l’aria e quello stesso pugno chiuso l’aveva poi portato alla propria tempia. Pooja gli aveva spiegato che era un gesto d’affetto, scaramantico: serviva ad allontanare il malocchio dalle persone cui si voleva bene.

«Abbiamo portato anche i dolci, auntie

«Lasciate tutto a me, ci penso io a servirli a fine pasto.»

«D’accordo, allora il vino lo portiamo di là.»

«Sì, e non perdete tempo: gli ospiti sono già arrivati.» Strizzando l’occhio, Pooja gli diede di gomito. «Shuzo-san, non avevi detto di somigliare così tanto a tuo padre.»

«Mai nessuno che mi dica che assomiglio alla mamma.»

«Somigli anche a lei. Vedi gli occhi.» La governante gli pizzicò il mento tra indice e pollice. «Belli come i suoi. E ora andate, svelti. C’è un po’ di aperitivo che vi aspetta.»

Shuzo e Mamoru abbandonarono la cucina per dirigersi in salotto, anche se lui, improvvisamente, non aveva più tanta voglia di fare conversazione, figurarsi trascorrere un’intera cena.

«Ruffiano.» Mamoru aveva le mani nelle tasche e un accenno di sorriso sulle labbra. «Ogni volta te la ingrazi con in fiori. So che lo fai di proposito.»

«Sì! Adoro quando mi fa quel gesto con la mano!» Shuzo lo imitò in maniera rozza nei confronti di Mamoru che rise e gli diede una spinta. Poi aprì la porta del salotto senza neppure chiedergli se fosse pronto; e avrebbe dovuto? Non aveva davanti degli sconosciuti, ma i suoi genitori e quelli di Mamoru; per cosa avrebbe dovuto prepararsi?

La sua vocina interiore aveva sempre quell’arroganza urticante che il cannibale rilasciava in sbuffi pesanti, tra un sonnellino e l’altro: ascoltava, ma non interveniva, non ce n’era bisogno e allora sbuffava perché era seccato.

Solo che quando la sala gli apparve davanti agli occhi, con il caminetto già acceso e tutti e quattro che ridevano e dialogavano per poi interrompersi al loro ingresso, ebbe la sensazione di aver infranto qualcosa di sereno per portare tensione, anche se non aveva neppure detto niente. Doveva essere proprio la sua presenza, il problema. La sua esistenza.

«Oh, ce l’avete fatta!» esclamò Hisoka battendo l’indice sull’orologio.

«Scusate il ritardo, ma c’era traffico. Ricordate che veniamo da Obuchi.»

«Devi sempre avere la risposta pronta.» Hisoka mollò una pacca sulla spalla di Mamoru e abbozzò un inchino verso di lui. «Scommetto che lo fa anche con te.»

«Ci prova, ma non sempre gli riesce. Io ce le ho più pronte delle sue.»

«Ah, andiamo bene! Quella povera ragazza di Kumi si trasformerà in una bambinaia!»

Rina accorse per abbracciare suo figlio. «Che cosa hai portato, tesoro?»

«Vino.» Mamoru sollevò le due bottiglie di Kuromori che teneva per il ventre. «E dei dolcetti, li abbiamo lasciati ad auntie

«Perfetto. Ma vieni a salutare i Morisaki.» Rina invitò Mamoru ad avanzare con una spintarella, poi prese lui sottobraccio. Gli rivolse un’occhiata maliziosa, cui Shuzo rispose con uno sguardo sottile di intesa e sfida. Poteva immaginare cosa stesse frullando nella testa di quella donna, con la quale aveva legato proprio bene e in maniera inaspettata. Non aveva creduto a Mamoru quando gli aveva detto che avrebbe solo dovuto darle un pizzico di confidenza e sarebbe stato accolto subito, e invece era accaduto proprio questo: una battuta al momento giusto, ricevuta e servita, e avevano rotto ogni indugio. E con quell’espressione divertita e sorniona, di sicuro la signora Rina non aspettava altro che il momento in cui il grande discorso della serata sarebbe stato affrontato. Che pettegola!

«Shuzo, caro, con tua madre stavamo parlando della scuola di ikebana. Ma davvero hai trovato la sorella della tua prima maestra?»

«Sì. È lei la mia sensei, adesso.»

«Oh! E com’è?»

«Meno acida della vecchia.»

«Shuzo, non si dice», lo rimproverò sua madre.

«Oh, dai, è vero.» Non cercò di difendersi, mentre Rina rideva e scioglieva la presa dopo averlo praticamente scortato fino ai suoi genitori. Della serie: figurati se ti lascio scappare ora che sei qui. In quello riconobbe così tanto di Mamoru che, quando distrattamente aveva alzato lo sguardo incrociando il suo, l’aveva visto accennare un sorriso soddisfatto. Diavolo, era circondato.

Yumeko si sollevò sulle punte per dargli un bacio in segno di saluto, ma quando lui si trovò faccia a faccia con suo padre, tutto quello che fu in grado di dire e fare fu accennare col capo e farsi uscire uno strozzato ‘ciao’ che ottenne una risposta speculare, anche nell’imbarazzo.

«Be’, noi abbiamo già dato fondo a un po’ di bollicine, vi unite?» propose Hisoka e Shuzo non se lo fece ripetere: nell’alcool aveva appena visto la via più facile per affogare quella serata.

 

«Questo biryani di pollo è fantastico.»

Shuzo era seduto proprio di fronte ad Akio, attorno al tavolo rettangolare. Alla propria destra, a capotavola, c’era il signor Izawa e alla sua sinistra Mamoru. Di fronte a Mamoru era seduta sua madre e l’altra estremità del tavolo era occupata dalla signora Rina.

La serata stava procedendo meglio del previsto e senza particolari uscite. Per fortuna i signori Izawa sapevano mantenere viva la conversazione, e anche Mamoru, perché fosse dipeso da lui si sarebbe mangiato e basta in totale silenzio. Non si sentiva particolarmente a suo agio nell’avere conversazioni sciolte con altre persone davanti ad Akio: avrebbe potuto introdursi nella discussione e avrebbe finito con l’essere troppo ‘rilassata’; Shuzo temeva di abbassare la guardia e concedere più del necessario.

Mentre Akio sembrava perfettamente a suo agio, parlava con disinvoltura, complice anche il fatto che i Morisaki e gli Izawa si conoscevano da anni grazie all’amicizia tra Mamoru e Yuzo.

Shuzo si sentì tutelato nel proprio silenzio, rompendolo solo di tanto in tanto affinché la sua tensione potesse passare inosservata.

«Vero?» Hisoka appoggiò il tovagliolo sul tavolo e versò dell’altro vino ad Akio. «Eravamo un po’ restii all’idea di una cena a base di cucina indiana, ma sappiamo che Pooja dà il meglio con i piatti della sua tradizione.»

«Era da parecchio che non la mangiavo, l’ultima volta sarà stato in Malaysia, lo scorso anno.»

«Viaggi ancora molto per lavoro? Vedi che cominci ad avere un’età!»

«Fintanto che si tratta dell’Asia, le ore di volo non mi preoccupano. È quando si parla di Europa che inizia a essere pesante.»

«In Malaysia penso di non esserci mai stato; vero, Rina?»

La signora Izawa inclinò leggermente il capo. «Non vorrete mettervi a parlare di lavoro?»

«Ma se stiamo parlando di cucina!» Hisoka schioccò le dita e tornò a conversare con Akio. «Sono stato a Singapore, però.»

«Bellissima e molto pulita, ma la cucina malese di Penang è la migliore di quella zona. Ricordo con piacere di un loro piatto tradizionale, molto speziato, con questa specie di curry di pesci secchi e arachidi.»

«Il naci lemak

«Sì, quello!»

«Ah! Fantastico! Pooja ne conosce la ricetta, la prossima volta le chiedo di prepararlo.»

Shuzo si sentì urtare la gamba con insistenza, mentre lo scambio di battute virava sull’uso delle noccioline americane nella cucina asiatica. Si volse e vide Mamoru abbozzare un sorriso divertito mentre accennava col capo ai due uomini immersi nella loro discussione.

L’espressione diceva ‘guardali come vanno d’accordo’ e sottintendeva una sghignazzata che si limitò a immaginare ma che gli echeggiava nella testa.

Lui sollevò entrambe le sopracciglia e fece ruotare gli occhi.

Sì, sì. Pappa e ciccia. Che culo.

L’intenzione, subito dopo, fu quella di buttare giù l’ultimo boccone con un sorso di vino.

«E tu, Shuzo?»

Il rumore che vino e cibo fecero mentre ingollava fu simile a un fumettistico ‘glom’.

«È già da un anno buono che sei libero, non hai ancora preso in considerazione l’idea di un viaggio?»

«Fuori dal Giappone, intende?»

Hisoka annuì, lui nicchiò.

«Be’, considerando la mia fedina penale, non penso che le altre nazioni farebbero a gara per accaparrarmi come ospite…»

«Ma per molti paesi noi non abbiamo bisogno del visto, almeno per novanta giorni.»

«Questo è vero, ma alcuni richiedono di compilare dei moduli e di certo, al momento, l’ultima cosa a cui penso è di mettermi a fare questioni con un agente aeroportuale sui perché e percome della mia vita.» Gli sembrava troppo lungo spiegare al signor Hisoka di tutti i viaggi che aveva programmato con suo fratello e che non erano mai riusciti a realizzare per tantissimi motivi. Viaggiare non rientrava proprio tra le sue priorità, anche se forse a Mamoru sarebbe piaciuto…

Shuzo si volse alla ricerca di un segnale sul volto del suo compagno che potesse dargli una risposta a una domanda non posta, ma Mamoru sembrava tranquillo e intento a terminare con gusto ciò che aveva nel piatto.

«Ci credo sia l’ultimo dei tuoi pensieri, perché scommetto che il primo è il frutteto!» intervenne la signora Rina, strizzandogli l’occhio e cambiando argomento.

«Oh, sì! Il frutteto!» anche sua madre ne era entusiasta.

Sentirsi approvare in qualcosa era un evento nuovo con cui stava prendendo confidenza.

«So che hai chiesto aiuto a zio Tomohisa.»

Shuzo spostò su Akio uno sguardo di ferro e labbra tese.

«Consulenza», ci tenne a specificare.

«Ammetto che aver saputo che fosse tuo fratello l’avvocato coinvolto nella compravendita mi ha un po’ tranquillizzato.» Hisoka fece ruotare il fondo del vino nel bicchiere. «Non si parla di piccole cifre, e loro avevano già fatto tutto quando ci hanno comunicato l’acquisto.»

«Hisoka-san, la stupirà sapere che non abbiamo dieci anni.» Shuzo si trattenne dall’essere più acido.

«Ti ricordo che il Kokoro l’ho tirato su da solo, papà.»

«Sì, ma ti ho aiutato con l’acquisto.» L’uomo sbuffò, il viso sprofondato nel palmo. «Ammetto di essermi sentito un po’ tagliato fuori.»

«Non dovrebbe essere contento, invece? Suo figlio non dipende più dalle sue sottane.»

«Ehi! Non sono mai dipeso dalle sottane di mio padre!»

Mamoru gli mollò una gomitata e lui sghignazzò.

«Piuttosto, vorrei capire come mai tu abbia cambiato idea.» Hisoka aveva assunto un’espressione seria nel rivolgersi a Mamoru. «Mi avevi detto che il prezzo era troppo alto e vi avresti rinunciato. Siete forse riusciti a contrattare? Non avrete mica chiesto un prestito?!»

Ecco, quella non se l’erano preparata. Shuzo si rese conto che non avevano pensato a una risposta da dare ai loro genitori. Parlare del conto offshore non gli sembrava il caso, soprattutto con suo padre presente: lo infastidiva che ficcasse il naso nei suoi affari, magari infarcendo il tutto con consigli non richiesti e filippica scontata. Avrebbe anche dovuto spiegare da dove provenisse quel conto, e parlare dello spaccio di droga avrebbe fatto piazzare a tutti l’ottimo biryani sullo stomaco.

«Ah… be’…»

«No… Certo che no, nessun prestito.»

Mamoru lo guardò, ognuno alla ricerca di una soluzione qualunque negli occhi dell’altro, e Shuzo scelse di sfruttare la sua carta migliore, l’unica su cui sapeva di poter contare sempre, anche a sproposito.

«Svaligiare una banca rende ancora bene.»

Akio tossì forte, il vino andato di traverso.

«Tutto bene? Bevi un po’ d’acqua…» Yumeko gliene versò un bicchiere, ma Akio lo allontanò con la mano; il viso rosso per lo sforzo.

Shuzo lo fissò da sopra lenti immaginarie con un sopracciglio inarcato.

«Era una battuta.» Sottolineò, accusatorio con contorno di sottintesi, mentre abbassava gli occhi sul piatto e spostava il bicchiere da un centimetro all’altro.

«Ah… sì?»

«Mi sembra ovvio. Credevi dicessi sul serio?»

«No, io… avevo pensato-»

«Che fossi così fesso da giocarmi la libertà con una rapina.» Gli rise in faccia con un’alzata di spalle. «Di cosa parlavamo in macchina, Mamoru? Di fiducia? Verso questo qua? Certo.»

«Non era quello che volevo dire. Se ti togliessi il vizio di interrompere la gente prima che finisca...»

«E se tu ti togliessi il vizio di pensare sempre male del sottoscritto.»

«Chi ti ha detto che ho pensato male? Io mi sono solo-»

«No, non dirlo! Eri preoccupato? Oh! Quale emozione.» Lo scimmiottò portandosi una mano al viso e sbattendo le ciglia.

Suo padre drizzò la schiena e il gesto provocò in lui un moto di sottile soddisfazione. Da quanto tempo era che non si azzannavano come erano stati abituati a fare? C’era qualcosa di familiare nell’alzare la voce, frase dopo frase, nell’assumere posizioni aggressive e speculari, nel cercare di prevalere. Qualcosa di familiare e ovvio.

Era ovvio che finisse così.

Era stata solo questione di tempo.

«Sei uscito di prigione da circa due anni, lavori regolarmente dallo stesso tempo. D’un tratto compri un terreno da quasi sei milioni di yen, e credi che io debba pensare che sia stata opera e virtù degli dèi?!»

Shuzo espirò con le narici e si rilassò contro lo schienale della sedia: il gomito sulla sommità della spalliera e l’altra mano che picchiettava l’indice sul tavolo.

«Dovevo immaginarlo che un Morisaki non avrebbe mai saputo tenere la bocca chiusa. Non mi affiderò più a lui come avvocato.»

«Tuo zio era preoccupato che potessi cacciarti di nuovo nei guai! Hai versato in contanti metà della cifra e quando ti ha chiesto da dove provenissero non hai risposto, che avrebbe dovuto fare?!»

«Il suo mestiere, che include anche un certo segreto professionale, mi sembra.»

Akio allontanò bruscamente la mano di Yumeko che aveva cercato di intervenire, mentre tutt’attorno regnava un gelo che la Siberia a confronto pareva Tokyo in pieno agosto.

«Non nasconderti dietro questo atteggiamento. Vuoi finire di nuovo in carcere?»

«Uso l’atteggiamento che mi pare e che meriti, chiariamo questo prima di tutto.» Shuzo si sporse di nuovo in avanti, appallottolando il fazzoletto che aveva tenuto sulle gambe e sbattendolo sul tavolo in malo modo. Fosse stato per lui, quel tavolo l’avrebbe scavalcato in un attimo, ma il selfcontrol stava tenendo ancora il cannibale alla catena in una maniera talmente magistrale per la quale avrebbe dovuto fargli un applauso. E lui lo sentiva scalciare, strepitare. Si contorceva e gli provocava fitte lancinanti al ventre, dove quello che aveva mangiato si rimescolava per l’agitazione e risaliva in nausea fino alla bocca dello stomaco.

Il cannibale si contorceva e guaiva, mentre lui gli dava il contentino lasciandolo abbaiare a piacimento.

«Seconda cosa, io non devo discutere di quello che faccio con te perché, ultim’ora!, non ti riguarda! Quindi se voglio svaligiare banche e se voglio tornare in galera, mi fottano gli dèi!, sono solo cazzi del sottoscritto, d’accordo?!»

Il silenzio tagliò tutto all’improvviso.

I cani si erano azzuffati, in quel primo round, ed erano stati tirati indietro dai padroni. Agli angoli dell’arena rimanevano a guardarsi male, pronti per una nuova carica. Sulla faccia, le cicatrici si erano riaperte assieme ai segni nuovi, e sanguinavano.

Loro, allo stesso modo, si fissavano da sopra una cena tranquilla e che avrebbe dovuto portare delle discussioni con sé, ma non di quella portata né con quella aggressività. Shuzo era stato preparato a sentirsi attaccare su altri fronti, e quello l’aveva colto un po’ alla sprovvista, ma quando si trattava di difendersi era un maestro.

Akio, invece, dava l’idea di qualcuno cui la situazione era sfuggita di mano quando aveva cercato di controllarla per tutta la cena, riuscendoci anche bene. Ma anche i bravi equilibristi finivano col cadere, qualche volta.

Il primo a distogliere lo sguardo dagli occhi dell’altro fu Shuzo, che sbuffò un sogghigno carico di disprezzo e scosse il capo. Sulle labbra aleggiava una piega storta verso il basso.

La cosa che più lo faceva arrabbiare era che, come al solito, qualcuno aveva dovuto assistere ai loro scontri; e che il pubblico fossero proprio i genitori di Mamoru era un’aggravante per i suoi nervi come corde di violino stonato. Percepiva i loro occhi addosso, imbarazzati, e la sensazione fastidiosa di non essere mai abbastanza, anche quando cercava di fare qualcosa di buono.

«Scusate.» Si alzò di scatto e i piedi della sedia strusciarono sul pavimento con uno stridio acuto.

Lasciò il salotto con addosso il bisogno impellente di fumare.

 

Mamoru non era riuscito a intervenire per fermare il precipitare della conversazione. E neppure gliel’avrebbero permesso: quando Shuzo e Akio partivano, gli altri che stavano loro intorno smettevano di esistere; aveva già avuto modo di testarlo e capire che tornavano a essere in grado di interagire con il mondo – Shuzo soprattutto – una volta che avevano sfogato l’accumulo di collera. Come una piaga purulenta. Ecco, la collera di Shuzo era quel pus che bisognava far uscire tutto.

Akio, invece, aveva una maggiore consapevolezza dello spazio e delle persone, semplicemente tendeva a ignorarle fino a che non aveva esposto del tutto le proprie ragioni.

Mamoru lo vide rimestare saliva a labbra strette e guardare la sedia vuota che aveva davanti. I pugni sul tavolo venivano aperti e chiusi e l’espressione non si decideva a sciogliere la tensione.

«…la solita, maledetta testa calda», borbottò alla fine mollando il tovagliolo sul tavolo e lasciando anche lui la stanza a passo svelto.

Lo scontro non era ancora finito e Mamoru sospirò, poco tranquillo all’idea di quei due da soli ora che erano carichi come mine.

«Quanto hai detto che erano durati?» chiese sua madre.

Yumeko sospirò, guardando in basso. «Quasi due anni. Suppongo non si potesse fare più di così…»

«Penso che Akio abbia avuto delle buone motivazioni per arrabbiarsi. L’avrei fatto anche io.» Suo padre lanciò un’occhiata indagatrice nei suoi confronti, mettendolo in una situazione scomoda.

«Mamoru, è davvero tutto a posto con l’acquisto del frutteto?» Yumeko, negli occhi, aveva la stessa preoccupazione che aveva avuto anche lui quando Shuzo gli aveva detto d’aver comprato il terreno.

«Sì. Tutto legale, tutto okay.»

«Va bene.»

«Forse è meglio andare a vedere che non si ammazzino…» Mamoru aveva già visto di cosa Shuzo fosse capace quando veniva accecato dalla collera; uno spettacolo cui sperava di non dover più assistere, perché raccogliere i cocci di ciò che rimaneva lacerava le mani. Nel gesto di alzarsi, però, Hisoka lo fermò.

«Lasciali fare o non impareranno mai ad affrontarsi.»

«Ma…»

«Tuo padre ha ragione, Mamoru.» Yumeko aveva la stessa fermezza nella voce. «È il momento che capiscano come rimettere insieme ciò che disfano senza l’intervento di nessun altro. Vale per Shuzo, ma soprattutto per Akio. Se davvero tengono l’uno all’altro e a costruire qualcosa, allora devono anche imparare a litigare come un padre e un figlio.»

Era un discorso che Mamoru capiva. Gli sarebbe quindi toccato aspettare, sperando di non sentir volare altre grida.

Sospirò, e affondò il viso nella mano. «E pensare che non gli abbiamo ancora detto che stiamo insieme…»

 

Possibile che dovesse sempre finire così, tra loro?

Possibile che anche quando cercava di avvicinarsi appena un po’, un passo solo, fosse sempre con il gesto sbagliato o la parola fuori luogo?

Akio non sapeva rispondersi, si stava convincendo non ci fosse proprio niente da fare e la loro – la sua – fosse una partita persa. Non esistevano conversazioni che, seppur storte, potessero finire in maniera ordinata o quantomeno civile. Si urlava, si parlava a vanvera, ci si voltava le spalle.

Con Shuzo sapeva di essere stato lui ad avergli insegnato a scappare dalle loro conversazioni, perché non gli era mai corso dietro.

«Se mi volti le spalle sei un vigliacco.» Aveva detto in più occasioni, quando non gli aveva concesso altra soluzione. E lui cos’era stato se non vigliacco allo stesso modo per aver preferito la sicurezza del vincere facile quando ad andarsene era niente più di un ragazzino arrabbiato e confuso?

Vigliacco della peggior specie, perché aveva scelto di sentirsi forte su suo figlio nella convinzione di insegnargli qualcosa.

Nessuno dei due, adesso, poteva permettersi di scappare ancora; lui per primo, ma si fermò nel mezzo del corridoio di casa Izawa senza sapere dove andare. La conosceva troppo poco o l’aveva dimenticata, nel tentativo di silenziare tutto ciò gli ricordasse Yuzo in maniera intensa e dolorosa, e adesso che ne aveva bisogno per trovare l’altro figlio si era bloccato.

«È in cucina, Morisaki-san. Sulla sinistra.»

La governante degli Izawa, la signora Pooja, emerse dalla penombra con il suo saree fatto di notte e stelle. La lunga treccia aveva campanelli che tintinnavano sulla punta e nel passarle accanto era accompagnata da un profumo intenso di fiori. Fiori e incenso.

«Cerca suo figlio, no? Sulla sinistra.» La donna si fermò a un passo nel vederlo ancora confuso, indicò col braccio verso una porta dai battenti scorrevoli di cui era rimasto aperto solo uno spiraglio che proiettava una frattura di luce sul pavimento. «Sembrava un po’ arrabbiato, ma dà l’idea di essere un tipo da fiammata e non da incendio.»

Qualcosa che brucia all’istante e in fretta, e poi si spegne in un ambiente circoscritto. I danni limitati a chi gli sta troppo vicino. E se lui avesse voluto limitare il danno a sé stesso avrebbe solo dovuto tenersene alla larga, ma quella era stata l’origine di ogni loro problema.

«Grazie.» Proseguì spedito, aprendo di slancio un battente della porta.

Shuzo si volse, esalando fumo dalle narici.

«Cazzo vuoi, adesso? Non è nemmeno più possibile fumare una sigaretta in pace?»

«Non si pianta una conversazione a metà, né ci si alza dal tavolo quando si è ospiti; mi pareva di avertelo insegnato questo.»

«Ma vai a farti fottere tu e i tuoi insegnamenti del cazzo. Con chi credi di parlare?!»

Akio richiuse il battente, tirandolo con un gesto secco che lo fece schioccare. Nel mezzo, la penisola dal ripiano in marmo li separava, mantenendoli ai capi opposti.

«Voglio essere sicuro che non hai fatto una stronzata.»

«Perché ovviamente io faccio solo stronzate, non è così?»

«No, non lo è! Ma se fosse davvero tutto a posto perché non dire la verità?»

«Perché dovresti fidarti di me e basta, mi sembra chiaro.»

«E io lo farei, credimi, se tu non avessi già mentito in passato e non fossi finito in galera. È normale ch’io voglia sapere da dove vengano quei soldi.»

«Vuoi controllarmi e farmi i conti in tasca? Mi pare di essere fuori da questa fase da un sacco di tempo. Quindi la mia risposta continua a essere: fatti i cazzi tuoi.»

Akio non si era mai reso conto quanto effettivamente fosse stato disposto a scendere a patti con Shuzo se non in quel momento, in cui suo figlio gli rispondeva nel modo in cui lui avrebbe risposto con ceffoni diretti, anni prima. Invece riuscì a farsi scivolare ogni cosa addosso, nemmeno fosse ignifugo rispetto alla famosa fiammata che continuava ad ardere violenta. Poteva addirittura vederne il colore: vermiglio fiore di melograno.

«Non hai chiesto né a me né alla mamma o a qualcuno della famiglia, e so che il terreno lo hai comprato tu e non Mamoru. Quindi anche gli Izawa ne sono rimasti fuori.»

«Chiedere a te?! Mi sarei fatto tagliare un braccio, piuttosto!»

«E allora dove li hai presi?»

«Impiccati.»

«Shuzo!» Akio colpì duramente il marmo col palmo aperto. Suo figlio girò adagio il capo con un sorriso soddisfatto raccolto all’angolo destro della bocca. «Non sto cercando di controllarti.»

«Ci mancherebbe.»

«Voglio solo che non ti cacci nei guai un’altra volta.»

«E perché, te n’è mai fottuto?!» Shuzo si volse dandogli modo di essere faccia a faccia; le mani afferrarono strette gli angoli della penisola. «In passato, ti è mai fottuto qualcosa dei guai in cui finivo?! Tu arrivavi solo a sistemare la situazione con i tuoi soldi e il tuo potere. Di come ci finissi o del perché non te ne fregava un cazzo di niente e adesso?» schioccò le dita, imitando il suo interesse che, agli occhi di Shuzo, era nato dal nulla. «Ti sto permettendo di avere una sorta di dialogo, ed è una gran concessione. Ma non sognarti, nemmeno per scherzo, di infilare naso e becco negli affari miei. Non abbiamo niente a che spartire che non siano chiacchiere di convenienza.»

Shuzo andò a segno con un affondo diretto che bastò a mettere chiari paletti in quello che avevano fatto nei quasi due anni precedenti. Shuzo gli aveva fatto una concessione affinché potessero essere in grado di mantenere un rapporto civile qualora si fossero trovati in mezzo ad altre persone. Niente di più. I muri che avevano tra loro erano rimasti, solo erano divenuti trasparenti.

Akio fece un passo indietro e infilò le mani nelle tasche del pantalone.

«Avevo detto a tua madre che non era una grande idea che venissi a questa cena.»

«Pensa, nemmeno io ci volevo venire, ma Mamoru ha tanto insistito.»

«A proposito di lui: se ti imbarchi in qualcosa di poco chiaro, cerca solo di non coinvolgerlo. È un bravo ragazzo.»

«Tu sei l’ultima persona al mondo a potermi dire come devo comportarmi con il mio compagno!»

Akio guardò suo figlio negli occhi e Shuzo fece altrettanto, approfondendo il sorriso con una nota di rivalsa.

«Già. Sorpresa. Ecco il motivo della cena, giusto per la cronaca. Così, già che ci sei, oltre a sparlare con la famiglia dei miei affari, sparlate anche di questo: sono finocchio e sto con Mamoru. Dopo quattro anni ci teneva che lo sapessi anche tu, nonostante gli avessi detto che non erano cazzi tuoi, ma, ehi!, lo sapevano tutti, mancavi all’appello.» Shuzo spense il mozzicone della sigaretta e incrociò le braccia al petto; la schiena dritta, il mento sollevato lo sfidava a dire qualsiasi cosa, aspettandolo al varco. «Mi raccomando, sii folkloristico con gli insulti. Fammi almeno ridere.»

Akio avanzò dopo qualche secondo di silenzio. Girò attorno alla penisola, ma si fermò sul lato. Non erano più opposti, quanto prossimali: Shuzo ancora ritto a braccia conserte, con tutto il suo orgoglio; e lui con l’onestà nelle tasche, dove teneva affondate le mani.

«Lo so da quando eri ancora in carcere.»

«Che cos-?» Un sospiro, una smorfia. «Mamma.»

Lui ammiccò.

«Quindi è stata lei a dirti di non urlarmi addosso. Non sei ancora partito in quarta, dai! Non ti sei fatto una lista delle cose da rinfacciarmi? So che le stai pensando. Tirale fuori.»

«Non c’è niente da tirare fuori.» Akio non distolse mai lo sguardo. «Per me non è un problema.»

«Non ti credo.»

«Come preferisci.»

Shuzo cambiò piede d’appoggio e poi disincrociò le braccia. «Cos’è, vuoi far vedere che non me la dai vinta così puoi andare a gongolare con gli altri Morisaki?»

«No.»

«Balle!»

«Allora chiedi a tua madre le mie reazioni quando abbiamo parlato di te e Yuzo.»

«A-ah!» Shuzo puntò l’indice e sogghignò soddisfatto. «Ecco la fregatura! Hai saputo che era finocchio anche il figlio perfetto e quindi non ti sei potuto incazzare. A questo punto immagino che nessuno dei Morisaki lo sappia, altrimenti che figuraccia ci faresti? Due figli, due froci. T’è andata male.»

«Veramente ho saputo prima di te. Di Yuzo l’ho saputo dopo e mi sono risentito perché non me ne aveva mai parlato.» Prese un profondo respiro e si allontanò dalla penisola. Tornò sui propri passi, fermandosi a un metro dalla porta e dando le spalle a Shuzo. «Credevo che almeno con tuo fratello qualcosa si fosse salvato… Mi ero sbagliato. Se i soldi te li sei procurati legalmente, va bene, non ti chiederò altro e mi fiderò di te, ma se dovessi aver fatto casini, sappi che le conseguenze si pagano sempre. In quel caso, chiamami, vedremo di sistemare.»

La conversazione e la cena per Akio furono concluse e dentro avvertì una sensazione di calma che non si era aspettato. Si sentiva sollevato, ma non sapeva perché.

«No, aspetta! Aspetta, cazzo!» Shuzo gli si parò davanti in tutta fretta con aria stravolta e sopracciglia aggrottate. «Io ti ho appena detto che sono gay, che lo era anche mio fratello… e tu te ne vai così? Senza dire niente?»

«Veramente ho detto che non è un problema.»

«E ti aspetti pure che ci caschi?!»

«Mi sono mai fatto problemi a misurare le parole nei tuoi confronti? Pensi che se l’avessi trovato inaccettabile non te l’avrei detto?»

Shuzo non rispose e i suoi occhi vagavano un po’ dappertutto come impazziti. Magari pensava a quella risposta che potesse convincere in prima misura sé stesso, che spiegasse tutto, ma Akio sapeva che l’unica risposta non era quella che Shuzo si era aspettato di dare e darsi.

Camuffò un sorriso affinché suo figlio non potesse mal interpretarlo.

«Mamoru ha la testa sulle spalle, è onesto e lavoratore. A me sta bene.» Gli passò accanto e lì si fermò, ancora una volta, mentre faceva scorrere piano l’anta della porta. «Per quanto riguarda i Morisaki, anche loro lo sanno già. E quello che pensano non mi interessa.»

Richiuse il battente alle proprie spalle e quando fu da solo si concesse di prendere un profondo respiro.

Avevano discusso, Shuzo l’aveva provocato più volte e lui non aveva risposto, era stato onesto, gli aveva detto quello che pensava. Non era tutto, certo, e forse non era neppure sufficiente, ma non era finita con le parole sbagliate con cui erano sempre stati abituati a ferirsi.

Nessuno dei due era ferito.

Le sue mani, quelle che guardò quasi di riflesso, erano pulite. Lui si sentiva pulito e, per una volta tanto, aveva fatto il papà.

«Non era così difficile…» e allo stesso tempo non era stato neppure facile, ma si poteva fare, si poteva cambiare, anche se suo figlio diceva che gli aveva fatto niente più che una concessione, anche se c’erano mura trasparenti a dividerli: le mura potevano essere ancora abbattute e la trasparenza, la concessione, poteva essere quella possibilità che Yumeko gli aveva detto che avrebbero dovuto afferrare.

Sulle mani pulite, nella penombra del corridoio, Akio sentì di averne stretto una piccola.

E non l’avrebbe lasciata andare.

 

Mamoru iniziò a preoccuparsi quando, dopo quasi venti minuti, non li vide tornare. Almeno uno, giusto per iniziare a formulare ipotesi.

Cambiò posizione sulla sedia e l’insofferenza dell’attesa iniziò a essere manifesta, tanto che suo padre sorrise.

«Sembra che ti abbiano acceso un fuoco sotto al sedere. Rilassati.»

«Rilassarmi? Con quei due da soli? Pfffft!» Mamoru appoggiò il tovagliolo sul tavolo e si versò dell’altro vino. Ne aveva già svuotato tre bicchieri. «Tu non immagini di cosa sono capaci. No, cioè, te l’immagini perché lo hai visto, ma… Shuzo parte come una mitragliatrice…»

«Anche Akio», sorrise Yumeko che non appariva preoccupata e come facesse lo sapeva solo lei.

«Appunto!»

«Akio mi sembra cambiato molto da quando è morto Yuzo.» Rina rivolse a Yumeko un sorriso comprensivo. «Me ne avevi parlato spesso, ma ora ho potuto vederlo con chiarezza.»

«Per lui è stato molto difficile, anche se non ne ha mai parlato molto.»

«Lo sarebbe stato per chiunque.»

«È vero,» annuì Yumeko all’osservazione di Hisoka, «ma io credo che lui stia accusando il colpo in maniera chiara solo ora che Shuzo è tornato.»

«Le situazioni si sbloccano in maniera inaspettata, e finisce che tutti si ritrovano con qualcosa da imparare.»

Hisoka lo guardò, non fu più specifico, ma Mamoru capì lo stesso. Tutti erano radici di un’unica pianta: quella principale nutriva le altre, poco alla volta e viceversa.

«Spero tu non ti sia perso, vedi che qui abbiamo quasi finito il vino.»

Hisoka guardò verso la porta dalla quale Akio era tornato a passo deciso. Mamoru si girò subito, Shuzo però non era dietro suo padre.

«Sì, scusa, ho sbagliato strada un paio di volte.»

«Esagerato! Non siamo mica a Villa Wakabayashi!»

Risero entrambi e Akio prese posto, bagnandosi le labbra con il vino che aveva ancora nel bicchiere.

Mamoru non gli staccò gli occhi di dosso: si era aspettato di trovarlo teso, e invece era tranquillo. Forse troppo.

«Direi che possiamo anche passare agli ottimi dolci del Kokoro. Spero ci sia del kasutera al matcha

«Sì, è una buona idea. Mamoru, perché non aiuti Shuzo a portarli di qua?»

A quella richiesta di Akio, si alzò di slancio; seduto non ci sarebbe più riuscito a stare comunque.

«Certo. Arriviamo in un attimo!»

Sparì dal salotto alla velocità della luce e, a dispetto delle difficoltà di Akio, riuscì a trovare la strada da prendere anche nella penombra. Spalancò le porte scorrevoli della cucina con fretta e la figura di Shuzo fu la prima cosa che i suoi occhi misero a fuoco: davanti a lui, con la schiena poggiata alla penisola e le braccia conserte. Le sciolse piano appena lo vide, la testa mossa a rallentatore e l’espressione che Mamoru classificò come stravolta. Gli parve che lo fosse così tanto da non avere neppure una vera reazione alla sua presenza.

Lui rallentò ogni frenesia, ma non abbassò la guardia perché Shuzo appariva come se qualcuno gli avesse messo una mano nel petto e avesse strapazzato il cuore per bene.

«Ehi…» Mamoru avanzò fino a raggiungerlo. «Tutto a posto? Mi hanno mandato a prendere il dolce.»

«Ah, sì… il dolce…» Shuzo si mosse a rallentatore e guardò dietro di sé, verso il ripiano della cucina in fondo alla stanza. «Auntie li aveva già preparati, sono pronti da servire…»

«Era solo una scusa per vedere se stessi bene.» Mamoru gli toccò la spalla e Shuzo si girò di nuovo.

Ancora fuori fase, rallentato. Smarrito come un bambino. Glielo poteva leggere negli occhi, tanto che racchiuse ogni conforto nella carezza con cui gli sfiorò il viso, fino a poggiare la mano sulla mascella. Il contatto, di solito, aveva sempre fornito un effetto rassicurante tra loro.

«Che ti ha detto?»

Mamoru si aspettò il peggio; con quell’espressione non poteva essere altro, e mentalmente maledisse la fottuta cena e l’idea bislacca di voler fare una dichiarazione d’ufficialità davanti a tutti e quattro i loro genitori. Aveva creduto fosse la cosa giusta per rispettarli, ma aveva finito con l’intelarsi negli stupidi formalismi giapponesi che molto spesso avevano ferito Shuzo.

«Akio…» Malerba scosse il capo e girò il viso. «Sapeva di me e Yuzo da tempo, anni. Sapeva di noi.» Gli occhi di nuovo nei suoi.

«Glielo ha detto tua madre?»

«Sì.»

«E lui?» Mamoru lo chiese anche se temeva la risposta.

«Ha detto che va bene.»

«…Eh?!»

Shuzo annuì. «Ha detto che per lui va bene, che non è un problema.»

«Sul serio?!»

«Sì. Lo ha ripetuto più volte.»

«Ma è fantastico! È tutto risolto! Ai miei va bene, ai tuoi pure. Non poteva andare meglio di così.» Gli prese il viso con entrambe le mani, costringendolo a guardare la sua felicità, nella speranza di trasmettergliela come un riflesso, perché Shuzo tutto sembrava tranne che contento. «Cosa c’è che non va?»

«Non gli credo.»

«Shuzo…»

«Mi sta prendendo per il culo.» Malerba si liberò senza essere troppo brusco e si allontanò dalla penisola. «Tutto questo non ha senso, deve avere un piano!»

«Perché dici così?» Mamoru accompagnò la domanda con un lungo sospiro.

«Perché quella risposta non è da Akio! Una vita intera a sentirmi criticare anche nel modo di respirare, e ora?! Gli dico che sono gay, che lo era anche Yuzo… Yuzo! Il suo figlio preferito! E lui?!» Shuzo allargò le braccia e le lasciò ricadere a peso morto lungo i fianchi. «Lui non batte ciglio, non m’ingiuria, non strepita. Non posso credergli, è solo una stronzata.»

Mamoru piegò appena il capo, sorridendo comunque con quella gioia che non riusciva – e non voleva – a mettere da parte. Guardava Shuzo appoggiato con entrambe le mani sul bordo del lavandino e capì che aveva paura come ne aveva avuta per andare lì quella sera. Paura di aver compreso una cosa e poi restarne deluso, paura di essere ingannato e tradito.

Lo raggiunse in passi calibrati per non allarmarlo e fargli mettere un’altra distanza tra loro. Il cannibale non era in giro; doveva essere terrorizzato quanto Shuzo stesso, tanto da scegliere di starsene con la testa sotto la sabbia. Allora Mamoru ne approfittò, toccò la nuca e il suo osso preferito, e rubò a Malerba un bacio dissetante. Aveva bevuto solo vino, a cena, aveva bisogno d’acqua, di sentirlo vicino, perché quando erano vicini così, da respirare l’uno il fiato dell’altro, allora andava tutto bene, le paure passavano. Quando restavano l’uno appoggiato alla fronte dell’altro sapevano di poter dire tutto.

«Non sono preparato… Lo ero per le offese, per le delusioni, per sentirmi dare dell’ingrato, ma per questo… per questo non sono preparato.»

«Credi ti stia ingannando?»

«Deve essere così… Lui è sempre stato così…»

«Perché non portiamo il dolce, così chiudiamo la serata e torniamo a casa?» Mamoru respirò l’odore del suo viso. Gli afferrò la vita e se lo strinse addosso, affinché tutta la vicinanza del suo corpo potesse rilassarlo. «Penserò io a te, ce ne staremo tranquilli sul divano… o a letto.»

«Con tutto quello che abbiamo mangiato?»

Si baciarono di nuovo; sentì Shuzo desiderarlo con più convinzione. Andava già meglio adesso.

«Allora divano.» Mamoru cercò il collo, vi chiuse la bocca nell’angolino morbido che la carne formava con la spalla, ma non strinse forte da lasciare il segno: ci avrebbe pensato una volta a casa.

«Ti dispiace se resto qui ancora un minuto?»

Mamoru lo guardò e lo smarrimento era minore di prima, ma aveva bisogno di un attimo in più prima di tornare dagli altri e da suo padre.

«Ti precedo.»

Prese il vassoio e raggiunse la porta, fermandosi sulla soglia per osservarlo fissare di nuovo il lavello, nemmeno avesse dovuto leggervi le istruzioni della vita all’interno.

«Shuzo?»

«Mh?»

«Hai mai pensato che potesse dire sul serio?»

Lo lasciò da solo a meditare su quel dubbio, perché Shuzo poteva essere sospettoso quanto voleva, ma per Mamoru era chiaro dove stesse andando quella strada, dove lo stesse portando poco alla volta. Ed era una buona strada, insperata, bisognava solo avere pazienza e presto o tardi le cose sarebbero cambiate.

Bisognava avere fiducia.

Akio verso Shuzo, Shuzo verso Akio.

E la fiducia era come Roma: non si costruiva in un giorno, lui ne sapeva qualcosa.

Con il vassoio pieno di dolci, Mamoru pensò che di Roma loro avessero appena posto la prima pietra.

 

 

E ti userò come segnale di pericolo:

che se ragioni troppo finisci col perdere la testa.

E ti userò come punto focale,

così da non perdere di vista quello che voglio.

Mi sono allontanato più di quanto avessi creduto,

ma mi sei mancato più di quanto avessi voluto.

E ti userò come segnale di pericolo:

che se ragioni troppo finisci col perdere la testa.

 

E ho trovato l’amore dove non era supposto ci fosse:

proprio davanti a me.

Mi sta parlando razionalmente.

 

I found – Amber Run

 

 

 

Fine

- Jikan: La Terra, L’Uomo e il Paradiso -

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: …e così, con quest’ultima one shot si chiude la raccolta ‘Jikan’.

Il tempo di mezzo, quello che non vi avevo raccontato a partire dalla fine del Capitolo XXX, è terminato e un altro aspetta i nostri eroi, più avanti negli anni. Da questo momento all’Epilogo di ‘Malerba’ dovranno passare altri quattro anni e spiccioli.

Come avrete capito, se ricordate l’Epilogo, in questo lasso di tempo le cose tra Akio e Shuzo non sono molto cambiate, né ci sono stati altri passi avanti plateali. I due Morisaki hanno di sicuro un rapporto maggiore rispetto a prima, ma Shuzo continua a rimanere ancorato sulle proprie convinzioni e distacchi che concedono sempre troppo poco, mentre Akio continua a rigirare tra le mani quella piccola possibilità che ha ottenuto con questa cena, senza concretizzarla.

Sono due uomini spaventati, che dell’altro sono stati abituati a conoscere e confrontarsi solo con il peggio che potevano offrirsi. Allora Shuzo concede a suo padre il minimo sindacale per non litigare e allo stesso tempo non farlo avanzare, e Akio accetta quel poco senza forzare troppo la mano e non rendersi una presenza invadente.

Lo sapete, vero, che non potranno restare così ancora a lungo?

Anch’io lo so e lo sanno anche loro.

Per questo c’è ‘Roots’. :)

Se riuscissi a terminarla per tempo, dovrebbe arrivare verso marzo e sarà una easy long piuttosto breve: Prologo + 6cap.

Un riferimento al Prologo di ‘Roots’ c’è già in questa ultima shot di ‘Jikan’… Dopotutto, se si vuole andare avanti, spesso è necessario ricordare cosa si è lasciati indietro. ;)

 

Come sempre, grazie mille a tutti voi per aver seguito fino alla fine questa storia. Siete sempre preziosi e spero di ritrovarvi ancora a farmi compagnia. :D
Nel frattempo, la serie ‘Soulmate’ è dietro l’angolo che vi aspetta!

Stay tuned <3

 

 

   
 
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