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Autore: futacookies    26/01/2020    5 recensioni
{Longfic • Duncan/Courtney • accenni Trent/Gwen e Alejandro/Heather • commedia romantica}
Duncan Nelson, scapestrata rockstar, nota al pubblico e ai paparazzi per l'eccesso con cui conduce la propria esistenza, viene citato in causa dal direttore dell'Ottawa Royal Palace, di cui - si dice - avrebbe distrutto numerose stanze durante la propria permanenza.
Al suo agente non resta che rivolgersi allo studio legale Fleckman&Fleckman&Strauss&Cohen, per cui toccherà alla sua storica ex, Courtney, tirarlo fuori dai guai.
Dal capitolo 5:
Ma la voleva davvero, la sua attenzione? Oppure era unicamente uno stupido capriccio, l’ombra semisvanita di quello che una volta era stata, con lui? Non lo sapeva, ed era terrorizzata dall’idea di scoprirlo – non ci sarebbe ricascata in alcun modo, le ci erano voluti anni per liberarsi completamente di lui e adesso, che ci era finalmente riuscita, avrebbe fatto qualunque cosa per proteggersi.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Heather, Trent | Coppie: Alejandro/Heather, Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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NdA: sono finalmente tornata! Il fatto che questa storia sia in corso da quattro anni e non sia ancora riuscita a finirla è un po’ imbarazzante, ma ultimamente ho ripreso a scrivere in maniera più frequente e quindi spero di poter pubblicare nuovi capitoli nei prossimi mesi! Vorrei comunque ringraziare quando hanno recensito, o comunque anche solo letto questa in attesa di nuovi capitoli! Pensare che ci sia qualcuno che voglia leggerli mi dà sempre motivazione per proseguire!
Buona lettura!
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«Like every fallen leaf on the breeze.»
 
  • Capitolo VII
 
Courtney rimase immobile, sconcertata dalle parole di Duncan. No, si disse, ovviamente non sono gelosa. Il fastidio che provava alla bocca dello stomaco era semplicemente dovuto alla delusione – l’ennesima – provata quando aveva ormai capito che l’uomo che le stava davanti non era altro che una versione leggermente più adulta del ragazzo che si era lasciata alle spalle – ossia, aveva semplicemente più anni.

«No, Duncan!», strepitò, la sua voce sembrava quella di un’oca starnazzante, «Ovviamente non sono gelosa.», affermò, ricomponendosi. «Non. Sono. Gelosa.» scandì, per sottolineare definitivamente la sua presa di posizione. Non lo sono mai stata, avrebbe voluto aggiungere, ma avrebbero saputo entrambi che si trattava di una bugia. Courtney si vantava di essere una persona responsabile e dal sangue freddo, ma in realtà era tristemente consapevole di essere una creatura impulsiva e infantile – questo non la fermava dal fare del suo meglio per nasconderlo.

Lo sguardo che Duncan le rivolse sembrava suggerire che lui non le credeva affatto, ma lei lo ignorò e cercò di tornare all’argomento principale. «Hai capito quello che ti ho detto finora, vero?», chiese accigliata. L’altro annuì brevemente.

«Bene, allora capirai anche che se riuscissi a convincere questa benedetta ragazza a testimoniare che lei aveva in qualche modo acconsentito al macello che hai combinato, le mie possibilità di parare il tuo culo e salvare la mia faccia aumenterebbero sensibilmente.», spiegò.

Doveva ammettere che benché le recenti scoperti l’avessero indubbiamente infastidita, sapere che c’era una via di scampo a portata di mano l’aveva completamente risollevata. Forse Duncan non le avrebbe rovinato la carriera con la sua stupidità e forse sarebbe riuscita a liberarsi di lui in tempi molto più brevi di quelli a cui aveva inizialmente aspirato. Represse l’istinto di mettere il broncio al quel pensiero e rivolse uno sguardo interrogativo al ragazzo, aspettandosi un commento da lui.

«C’è un solo problema…», le spiegò, stranamente imbarazzato. Courtney alzò un sopracciglio e si preparò al peggio, ormai rassegnata all’idea che nulla in quella situazione le sarebbe stato offerto su un piatto d’argento. Duncan si grattò il collo a disagio, indeciso se proseguire – probabilmente per non farla arrabbiare. Alla fine lo sguardo che gli lanciò dovette convincerlo, perché le disse: «Non mi ricordo nulla, di quella sera. Non ho idea di chi sia questa ragazza. Non saprei nemmeno come contattarla – e non è che muoia dalla voglia di farlo», concluse.

Courtney si passò una mano sul volto lentamente, cercando di cancellare l’espressione distorta dalla rabbia che sapeva di aver in quel momento. Duncan non è poteva essere serio. Non c’era nessun motivo per cui non dovesse voler almeno provare. Ne avrebbero beneficiato tutti – ne avrebbe beneficiato lei e questo era abbastanza per costringerlo.

«Senti», iniziò, pregando di sembrare più persuasiva che disperata, «perché non ci pensi, almeno un po’? Potrebbe essere almeno un punto di partenza – e sarebbe anche il caso che tu incominciassi ad interessarti della tua stessa difesa, dopo tutto quello che sto facendo per te!», terminò, la voce un’ottava più alta di quando aveva iniziato. Sospirò rumorosamente e si allontanò dal ragazzo, sperando che avendo del tempo per rifletterci, alla fine si sarebbe convinto.

In oltre, non poteva davvero continuare a fare tutto da sola: in qualità di damigella d’onore della sposa, doveva aiutare Gwen con il suo matrimonio, e in qualità di avvocato della quasi signorina Wilson, doveva procurarsi quelle benedette prove e sperare che né Alejandro né il suo avvocato decidessero di discuterne davanti alla corte – quello sì che le avrebbe distrutto la carriera.
 

***
 

Effettivamente, Duncan ammise, Courtney non ha tutti i torti. Non aveva mosso un dito per aiutarla a difenderlo – ad essere onesto, molto spesso non aveva fatto altro che peggiorare la situazione. Era forse il caso che iniziasse a darsi da fare, per dimostrarle almeno un briciolo di gratitudine? Si sentiva strano, il desiderio di aiutarla era quasi assurdo come i suoi sensi di colpa – che non erano davvero tali, si ricordò – eppure, in ogni caso, non aveva niente di meglio da fare che almeno tentare.

Si trascinò a passi pesanti nel corridoio e arrivò alla sua porta – per la seconda volta in ventiquattro ore – e alla fine decise di non bussare. Qualunque cosa avesse intenzione di dirle, poteva aspettare la mattina: non le avrebbe dato la soddisfazione di vederlo scodinzolare davanti alla sua porta chiusa due notti di seguito.

Avere a che fare con Courtney era diverso da come se l’era aspettato: non peggio, decisamente non meglio, semplicemente diverso. Si trovava praticamente a vivere con un’estranea, che a volte ancora di comportava come la ragazzina di cui era stato innamorato, altre volte non era che un irriconoscibile riflesso di quello che era stata. C’erano momenti in cui avrebbe voluto sapere cosa le fosse accaduto, mentre il burrone che li separava diventava sempre più profondo – il pensiero di Courtney non l’aveva sfiorato per anni, e adesso era l’unica cosa che riusciva a pensare.

Il mattino seguente, quando si svegliò, Courtney era miracolosamente ancora a casa. Decise che se doveva fare una mossa – e sentiva il bisogno fisico di fare una mossa, di fare qualcosa pur di smettere di pensare –, doveva farla adesso.

«Courtney.», la chiamò. Lei si girò stizzita, mescolando aggressivamente il suo caffè e iniziando a battere furiosamente un piede – se il buongiorno si vedeva dal mattino, quella sarebbe stata una lunga giornata.

«Vorrei che mi dicessi», iniziò cautamente, «cosa devo fare per aiutarti.»

Courtney lo fissò guardinga, chiaramente indecisa tra il cedere e farsi aiutare – cosa che lei stessa aveva chiesto, maledizione! – e il mantenere il suo orgoglio e la possibilità di rinfacciargli di essere inutile. Stava finalmente per aprire bocca quando le squillò il telefono.

“Gwen? Si, ciao, dimmi.”

“Sì, certo, so che devo spedire gli inviti.”

“Sì, sì, lo so che oggi dobbiamo scegliere i vestiti per le damigelle.”

“Sì, non ti preoccupare, mi assicurerò che la zia Christabel sia fatta sedere il più lontano possibile.”

“Sì- certo- okay- sì- va bene, ciao.”

Tutto quello che le uscì di bocca fu un grugnito spazientito. Lo guardò con aria irritata e poi disse: «Se mai ti dovessero chiedere di fare la damigella, di’ di no.»

Duncan dovette trattenere una risata e lo sguardo affilato di Courtney si ammorbidì per un istante.

«Vuoi essermi d’aiuto? Allora», iniziò, frugando nella borsa, «questi sono gli inviti per il matrimonio di Gwen.», spiegò, porgendogli un pacchetto. «Mettiti un cappello e un paio di occhiali da sole e valli a imbucare. Cerca di capire come contattare quella benedetta ragazza. Uh, è trovami dei cioccolatini ripieni di marmellata di fragole. devono essere assolutamente di questa marca.», specificò, scribacchiando il nome su un pezzo di carta. «Cerca di non farti vedere mentre lo fai, è fondamentale. La mia carriera – che tu hai già minato abbastanza – dipende da questo.»

Gli rivolse un sorriso che era più isterico che altro e marciò verso la porta.

Duncan rimase immobile con il pacchetto tra le mani e decise che non c’era altra soluzione che fare come gli era stato detto – magari sarebbe riuscito a ricucire lo strappo precedente. Cercò di camuffarsi come meglio poteva: in fondo ne era perfettamente capace, ma perché mai avrebbe dovuto rinunciare alla folla di fan adoranti che si riunivano intorno a lui ogni volta che metteva piede fuori casa?

La prima parte era facilissima: si recò alle poste di Toronto e si assicurò che gli inviti fossero consegnati rapidamente – forse una o due persone l’avevano riconosciuto, di certo un paio l’avevano guardato malissimo. La seconda parte era leggermente più complessa e pertanto decise di affidarla all’unica persona che sapeva sarebbe riuscita a portare a termine l’incarico – l’unico ed inimitabile, John Smith. La terza parte fu semplice come la prima e davvero non capiva come fare quelle sciocche commissioni sarebbe stato d’aiuto a Courtney ma il suo obiettivo era quello di mantenerla tranquilla e contenta per cui andava benissimo così.

L’esser stato così rapido ed efficiente gli lasciava tempo per un’ultima missione, della massima delicatezza e di cui Courtney non sarebbe mai dovuta venire a conoscenza: c’era una sola persona che sarebbe riuscita a rispondere alle sue domande e ai suoi dubbi su Courtney e che forse gli avrebbe permesso di riprendere il controllo del loro rapporto.

La Galleria Nazionale di Toronto era a tre fermate di metropolitana dall’appartamento delle ragazze: un edificio imponente, pieno di roba inutile che non interessava davvero a nessuno, e sempre strapieno di turisti. Duncan li osservò per un po’ mentre attendevano pazientemente di poter entrare, sorseggiando la sua birra.

«Non dovresti iniziare a bere così presto.», lo riprese Gwen mentre ordivano un caffè doppio.

«Tu non dovresti assumere troppa caffeina.»

«Tu non hai a che fare con i turisti americani.»

«E tu non hai a che fare con Courtney.»

Gwen gli rivolse un’occhiata ironica prima di sedersi accanto a lui. Duncan non si aspettava davvero che accettasse di vederlo, soprattutto non per parlargli di Courtney. Quando glielo disse, lei sorrise.

«Se riusciste a trovare un punto di incontro, la sua vita si faciliterebbe – e riuscirebbe ad organizzare il mio matrimonio con molta più tranquillità.»
 

***
 

“Gwen, che significa che non riuscirai a venire?”

“Courtney, perdonami, mi hanno bloccato all’ultimo al museo con un gruppo che Karen non è riuscita a smaltire. Non preoccuparti, ho chiamato qualcuno che ti sarà di supporto!”

“Ma non posso scegliere io i vestiti delle tue damigelle! Rimanda l’appuntamento e basta!”

“Oddio, devo andare! Ricordati che è alle cinque e mezza!”

Courtney mandò un paio di sonore bestemmie all’altro capo della cornetta, che le rispose con un laconico tu tu tu tu. Avrebbe voluto urlare: a causa di Heather aveva dovuto sbrigare un sacco di scartoffie e lei e l’avvocato di Alejandro era state impegnate in un tango telefonico di quasi un’ora. Avrebbe ucciso Gwen, questo era poco ma sicuro: da un paio di giorni non faceva altro che abbandonarla con Duncan per stare con Trent, dormire a casa di Trent, andare a cena con Trent e per lavorare, ovviamente.

Fissò astiosa l’orologio che segnava in quel momento le cinque: lei a quell’appuntamento non ci voleva andare. Era stato un suggerimento della madre di Gwen, prenotare in una boutique specializzata – e a lei andava pure bene, ma cosa sarebbe successo se alle altre damigelle non fossero piaciuti i vestiti? Se non fossero piaciuti a Gwen? Emise un verso di sconforto e abbandonò riluttante il suo ufficio, sperando di trovare parcheggio in tempo.

Il negozio era riconoscibile da almeno un chilometro di distanza, con quell’esterno bianchissimo e le vetrine illuminate e coperte di fiori. Courtney c’era già stata per scegliere l’abito di Gwen il pomeriggio prima, ma di certo non le faceva piacere l’idea di doverci tornare – da sola, per di più, visto che la fantomatica sostituta di Gwen ancora non si vedeva. Visto che erano già passati alcuni minuti, Courtney decise che era stanca di aspettare e chiunque dovesse raggiungerla avrebbe potuto tranquillamente farlo ad appuntamento in corso.

Fu accolta da uno stuolo di commesse starnazzanti, impeccabili nei loro abiti rosa confetto, che cominciarono a tempestarla di domande sul tipo di evento, sui colori scelti, sui gusti della sposa per cercare di offrirle la soluzione migliore. Si accasciò esasperata su un divanetto e iniziò a sciorinare informazioni, annuendo o meno a seconda delle proposte. Si era anche quasi rassegnata all’idea di dover provare un paio di abiti, almeno per capire come le potessero stare, quando fu distratta da un paio di gridolini.

«Signor Nelson, siamo onorati della sua presenza! È qui per un lieto evento? Ha intenzione di convolare a nozze? Ah, ha appuntamento con la signorina?»

«Sì, sì, sono qui per i vestiti delle damigelle, ma sappiate che non ho nessuna intenzione di convolare a nozze, men che meno con quella ferocissima fanciulla!»

La ferocissima fanciulla, il cui sangue si era gelato nel momento in cui era riuscita a fare due più due, aveva intenzione di scatenare tutta la sua indole selvaggia e dare fuoco al cavallo di Troia che Gwen – come una novella Ulisse – le aveva appena regalato.

Consapevole di non poter fare una scenata, dovendo portare a termine la sua missione, si avvicinò sorridendo al ragazzo.

«Tu», sussurrò con il tono più stizzito di cui era capace, «che cosa ci fai qui?»

Duncan sembrò gongolare per un istante, prima di spiegarle che aveva incontrato Gwen per caso, mentre cercava di aiutarla ad organizzare il suo matrimonio, e che quest’ultima, resasi conto di non poter raggiungerla nel pomeriggio, aveva pensato che sarebbe stata un’idea deliziosa se avessero scelto gli abiti insieme.

Tutta la storia ovviamente le puzzava di marcio, perché non era plausibile in nessuno modo che Duncan avesse incontrato Gwen per caso, né tantomeno che l’amica usasse espressioni quali “idea deliziosa”, ma dato che Duncan non sembrava intenzionato a combinare guai, e dato che già si era dimostrato quantomeno utile, decise di lasciar correre.

«Allora, cosa avevi in mente?», le domandò, iniziando a rovistare tra i modelli appesi alle stampelle.

«Non ho nulla in mente! Ti sembro il tipo di persona che pensa ai vestiti da damigella?», rispose indignata.

«Dio, donna, tu sei negata per queste cose. Facciamo così, provati questo.», disse, allungandole un abito di pizzo azzurro polvere.

Courtney sentiva la sua sete di sangue aumentare ad ogni secondo. Chi si credeva di essere per dirle che era negata? Come osava quel troglodita che di certo indossava lo stesso paio di mutande da quattro giorni, accusarla di non essere in grado di scegliere dei maledetti abiti? Non ci voleva assolutamente nulla! Avrebbe scelto il primo abito che le capitava a tiro e avrebbe chiuso la questione.

«Courtney, cazzo, era una battuta. Rilassati.», le suggerì, sfoggiando uno sguardo che non sapeva se definire davvero pentito. «E poi», aggiunse, «io sono stato all’ultima settimana della moda di New York, mentre tu probabilmente stavi pulendo escrementi di topo.»

Courtney avrebbe tanto voluto commentare che pulire gli escrementi di topo era un’attività estremamente più piacevole che stare con lui, ma una delle commesse la batté sul tempo, complimentandosi sorpresa del fatto che Duncan avesse scelto uno dei colori più in voga della stagione.

Il ragazzo, fin troppo compiaciuto, le rivolse uno sguardo vittorioso e Courtney pensò che forse, alla fine, giusto per non rovinare il matrimonio di Gwen, poteva anche affidarsi a Duncan – così almeno avrebbe avuto qualcuno da incolpare se i vestiti non fossero piaciuti a nessuno.

«Stai pensando di affibbiarmi tutta la colpa se i vestiti non dovessero piacere, vero? Ce l’hai scritto in faccia.», la accusò. Courtney emise un verso di scherno. «Vai a provartelo.», le ripeté il ragazzo, scortandola personalmente al camerino. Quando Courtney si chiuse la porta alle spalle, lo sentì esclamare: «Ti aspetto qui fuori! Mi raccomando, voglio una sfilata degna di questo nome!»

Courtney iniziò a massaggiarsi le tempie. Avrebbe dovuto essere arrabbiata. Avrebbe dovuto tirargli contro una scarpa. Avrebbe dovuto lanciare un’imprecazione. Di certo non sarebbe dovuta scoppiare a ridere – ma era così stanca, stanca di sentire sempre quel peso sullo stomaco, stanca di vivere con la consapevolezza di potersi liberare di quel peso se solo si fosse lasciata andare. Duncan non era più il suo fidanzato, adesso erano insieme per caso, presto non lo sarebbero più stati – Duncan non poteva più ferirla davvero.

Forse avrebbe dovuto divertirsi, sfruttare il tempo che avevano insieme per dimostrarsi – per dimostrargli – che era davvero diversa, che non era più una ragazzina, che non era più capace di tirare fuori il peggio da lei.

Quando dopo pochi minuti uscì dal camerino, accentuando volutamente una camminata goffissima, si sentiva molto più leggera. Fece addirittura la linguaccia a Duncan, che si teneva la pancia dalle risate.

«Oddio, oddio, è orribile. Ti sta malissimo.», riuscì a dirle tra i singhiozzi. Forse dopotutto l’avrebbe ucciso. «Quello», continuò, indicando il vestito che effettivamente non era nemmeno un modello adatto a lei, «non è affatto il tuo colore.»

Poi si alzò e le fece cenno di seguirlo: la rispedì in camerino con almeno una decina di abiti da provare, ma sembravano uno più brutto dell’altro.

«Di’ la verità», ruggì dal camerino, «stai scegliendo apposta quelli che mi staranno peggio!»

Lo sentì ridacchiare. Avrebbe dovuto arrabbiarsi.

«Dai, prova questo.»

Dato che si era abituata ad uscire ed entrare dagli abiti automaticamente, si rese conto che di quello che le aveva passato soltanto quando uscì dal camerino e si guardò allo specchio.

«Duncan! Ma è nero!», esclamò inorridita.

«Complimenti per l’acutezza, Court.»

«Le damigelle non possono vestire di nero ad un matrimonio!»

«Devo obiettare, il lato gotico di Gwen apprezzerà enormemente. E poi almeno questo ti sta bene! Ti fa proprio un cul-»

«Non. Finire. Quella. Frase»

«-o da paura! Wow, davvero, sono sorpreso. Ahia!», si lamentò massaggiandosi lo stomaco, dove l’aveva appena colpito.

«Io vado a cambiarmi.», gli annunciò. Poi lo fissò minacciosa. «Chiedi aiuto alle commesse e spicciatevi a trovare l’abito perfetto. Ne va del matrimonio della mia migliore amica nonché della mia sanità mentale!»

Venti minuti, due vestiti e un giro di chiacchere inutili dopo, poteva finalmente abbandonare quella trappola mortale soddisfatta. Forse non era la fine del mondo, permettere a Duncan di essere stupido – di essere se stesso. Se solo non avessero sfoderato i coltelli nel momento in cui si erano rivisti, se si fossero dati la possibilità di parlare, avrebbe capito entrambi che non c’era più niente di cui avere paura, che a meno che non lo volessero non sarebbero tornati gli sciocchi di un tempo. Quello non era più il Duncan di cui era stata innamorata e non sarebbe mai stato di nuovo un Duncan di cui innamorarsi – non c’era più niente di cui avere paura.

«Ahh, sono stanchissima!», dichiarò, sprofondando sul sedile anteriore. «Allora, lo vuoi questo passaggio? Comunque devi tornare a casa mia.»
 

***
 
Era terrificante, vedere Courtney in quel modo: tutta sorrisi e cortesie e decisamente troppo allegra per essere considerata normale – aveva perfino salutato la signora Tobloskij con una serie di convenevoli assolutamente inutili. La vecchiaccia però non sembrava sorpresa, e non lo sembrava nemmeno Gwen, quando rincasando le aveva rivolto un sorriso a trentadue denti.

Poi le aveva detto: «Potrei ucciderti.»

Ma Gwen continua a parlarle rilassata, lui continuava a fissarle esterrefatto. Non aveva mai visto Courtney così, e quest’immagine così tranquilla della ragazza gli era ancora più sconosciuta di quella ferita di qualche giorno prima.

Che fosse tutta una trappola per ingannarlo? Che fosse soltanto un modo per disorientarlo?

Non riusciva proprio a lasciarsi il sospetto e le elucubrazioni alle spalle. Nemmeno tutte le informazioni che aveva ricevuto durante la mattina lo avevano aiutato: erano per lo più avvenimenti, piccoli pezzi di un puzzle che adesso toccava a lui comporre. Ma lui odiava i puzzle – e di certo odiava Courtney.

Okay, forse (forse) non la odiava, ma di certo sentiva di avere dei sentimenti negativi nei suoi confronti. Avrebbe dovuto batture tutti i suoi ragionamenti all’aria e abbandonare il caso, così non gli sarebbe rimasto altro che aspettare pazientemente la conclusione del loro rapporto lavorativo e chiudere per sembrare ogni contatto con lei.

Certo gli sarebbe mancato dover trovare nuovi modi per stuzzicarla, o farla propriamente imbestialire – magari gli sarebbe anche mancato dormire su un divano scomodo a cui ormai il suo corpo si era abituato, e gli sarebbero mancati gli squittii notturni di quel benedetto topo. Oppure no. Oppure di lì a un anno non si sarebbe nemmeno ricordato di che colore era, quell’orrendo divano, o di come fosse brutto, quel topo – non avrebbe ricordato la risata di Courtney quando Gwen faceva una battuta, non avrebbe ricordato il sapore disgustoso della pizza d’asporto che continuavano ad ordinare perché il ragazzo delle consegne era carino. Magari non ci teneva davvero, a tutto questo, e sarebbe stato di nuovo un troglodita privo di sentimenti.

«Duncan? Duncan?», Courtney gli sventolò una mano davanti al volto, «Idiota, mi stai almeno ascoltando? Ti ho chiesto dove hai messo i cioccolatini!»

Si riscosse immediatamente. «Sono dietro di te, idiota.»

Courtney emise un gridolino elettrizzato. «Perfetto! Non dovrebbe nemmeno essere necessario esibirli come prova in tribunale, il che sarebbe effettivamente un problema, basterà soltanto bluffare ancora un po’ con quel maledetto avvocato e almeno potrò far ritirare la denuncia per calunnia.»

La guardò interrogativo e Gwen si affrettò a spiegargli le dinamiche dell’ultimo divorzio di Heather.

«Il terzo? Mi stai dicendo che hanno già divorziato due volte e che hanno avuto la brillante idea di risposarsi entrambe le volte? Proprio due geni del male.»

«Ma magari avessero divorziato!», sbottò Courtney contrariata. «Mesi di duro lavoro per trovare un accordo, e alla fine si tirano sempre indietro. Sembra organizzato per farmi uscire di testa. Non troppo diversamente da te.»

«Ma almeno io sono carino!», protestò.

Courtney contrasse la faccia in una smorfia e poi si avviò verso la libreria per cacciare un fascicoletto.

«Questo è tutto quello che sono riuscita a ricavare dai testimoni.», annunciò, quasi tirandoglielo contro. «Se Gwen sarà così gentile da farci un caffè, direi che potremmo vagliarlo nel corso della serata e magari – visto che ultimamente ti senti così collaborativo – potresti anche sforzarti di darmi una tua versione dei fatti.»

Gwen, che era molto più intelligente e rapida di lui, era corsa a fare il caffè per poi spiegare che andava a dormire, visto che aveva un forte mal di testa – anche se era molto più probabile che lo volesse evitare, in quel modo, il forte mal di testa.

La prospettiva di passare ore sottoposto a quello stillicidio non lo entusiasmava: Courtney non avrebbe perso occasione per rinfacciargli che era un idiota, che la sua vita sarebbe stata molto più semplice se lui non fosse stato un idiota, che lei sarebbe stata molto più felice se la sua vita fosse molto più semplice e se lui non fosse un idiota.

Invece, dopo essersi scolata fino all’ultimo goccio di caffè e aver riempito di insulti più o meno tutte le persone di cui aveva letto le testimonianze – “questi erano così stupidi, questi puzzano, questi non riuscivano a metter insieme due frasi nemmeno per sbaglio, queste erano delle oche, Dio, Duncan, ma che razza di gente frequenti?” –, non solo sembrava di ottimo umore, ma addirittura ben disposta nei suoi confronti.

Non sapeva bene se fosse dovuto alla sua improvvisa collaborazione, al fatto che avesse effettivamente scelto degli abiti perfetti per le damigelle, oppure al fatto che si sentiva in colpa per come l’aveva trattato fino a quel momento, fatto stava che quella Courtney gli piaceva molto più di quella che si era ritrovato davanti dall’inizio delle sue disavventure giuridiche – cioè, non gli piaceva in quel senso, non nel senso che si sarebbe potuto innamorare di lei, perché lui non si sarebbe mai innamorato di lei, non di nuovo almeno, perché poteva essere stupido, questo glielo concedeva, ma di certo non era un masochista.

O no?

«Duncan, per amor del cielo, si può sapere dove hai lasciato la testa? È la terza volta che ti faccio la stessa domanda: cosa hai a dirmi su quella nefasta serata?»

La verità, che per qualche motivo non le aveva ancora detto, era che negli ultimi tempi – dopo essersi enormemente sforzato e aver usato quasi tutta la sua materia grigia, quindi poteva anche essere grata del suo impegno – aveva avuto dei ricordi, sebbene confusi, dell’accaduto.

Quindi iniziò a raccontarle quello che gli veniva in mente, dal piccolo gruppo di fan del backstage che dopo il concerto o aveva avvicinato, o di come fosse effettivamente molto ubriaco, del fatto effettivamente si ricordava che ci fosse una ragazza – e sì, si stava attivando per cercare di contattarla – fino a quando poi era diventato così stordito che c’era soltanto un sacco di rumore nella sua testa.

Courtney l’aveva ascoltato attentamente, aveva trascritto quasi ogni singola parola che gli era uscita di bocca, aveva rapidamente rielaborato tutto per farlo coincidere con le versioni degli altri testimoni e gli aveva spiegato come avrebbe proceduto la difesa con un’energia e una passione tali che a lui non restò altro che fissarla imbambolato.
 
 
 
 
 
 

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NdA: nonostante manchino ancora sette capitoli da qui alla fine della storia, direi che ormai la trama è tutta in discesa (circa). Spero che il cambio di sentimenti dei protagonisti non risulti affrettato, considerando che stavo già preparando un po’ di terreno, e che invece non vediate l’ora di scoprire come vivranno questo conflitto interiore! Nel caso ve lo stiate chiedendo, no, Gwen non era davvero impegnata, ha solo mandato Duncan sperando in una riconciliazione (inizialmente nell’ultimo pov di Duncan era inserita una scena in cui si spiegava quello che era effettivamente successo, però poi l’ho tagliata perché non molto inerente al resto del contesto). Duncan che ne sa di moda più di Courtney all’inizio mi sembrava una forzatura, poi ho pensato che lei è sempre con la testa nella scrivania, mentre lui è una rockstar, quindi forse sarei riuscita a far funzionare tutto.
Alla prossima, Fede ♥
  
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