Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Hoel    28/01/2020    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato  l'11.09.2021

***********************************************************************************************************************

 

 

 

Capitolo Settimo

5 (segue) – 6 settembre 1511

 

 

 

 

 

 

Per un istante, Mercurio Bua e Leka Busicchio credettero aver sbagliato strada.

Dall’alba avevano cavalcato ininterrottamente finché il terreno scosceso e irregolare delle colline si era livellato nella pianura, senza tuttavia imbattersi in alcuna resistenza né attacco, fattore bizzarro ripensando a tutti gli agguati ogniqualvolta mettevano il muso fuori Montebelluna.

Ad aumentare il loro disorientamento s’aggiunse inoltre la crescente desolazione che li circondava man mano s’avvicinavano alla loro meta, notando in lontananza le case vuote e i piccoli paesotti deserti, che si diradavano e lentamente sparivano in rovine diroccate e non dai colpi di cannone.

Sembrava … gli edifici sembravano quasi smantellati.

“Cristo Santo …! Cos’hanno fatto qui?”, udiva mormorare Mercurio i suoi uomini, basiti. “Ch’è successo?”

E se ciò li aveva turbati, nulla allora avrebbe potuti adeguatamente prepararli allo spettacolo offertogli una volta giunti a Treviso.

Di essa Mercurio possedeva vaghi ricordi, essendoci passato brevemente ai tempi di Fornovo, eppure era sicuro di non aver sbagliato luogo, ché Treviso se la sovveniva circondata da mura medievali dette a secco, alte e snelle e munite di molte torri da cui si accedeva tramite dodici porte. Otto ampi e popolosi borghi si diramavano da esse, brulicanti di case, negozi, chiese e monasteri, costringendo il perimetro del cuore cittadino all’antico e sovraffollato Cardo Maximus d’epoca romana, intricatosi nel corso dei secoli in uno sconclusionato dedalo di strade e abitazioni una sopra l’altra, da cui svettavano i campanili delle numerosissime chiese.

Invece, agli occhi sconcertati degli stradioti le mura cittadine si presentavano assai ridotte in altezza, costruite a terrapieno e rivestite da una spessa muraglia in laterizio e decorate a due terzi dell’altezza da un cordolo di pietra d’Istria, controventate da spalti esterni e spianate dal raggio di circa un miglio (pari al tiro delle più grosse artiglierie) che aveva comportato la demolizione integrale di quei borghi extra moenia, di loro rimasto qualche sparuto scheletro annerito dal fumo e non ancora interamente smantellato. Le porte, appurò il greco-albanese contandole freneticamente, s’erano ridotte almeno da quanto vedeva a due, dimodoché Treviso apparisse coi suoi tozzi bastioni più larga, massiccia, minacciosa e impenetrabile, protetta dalla Botteniga e dal Sile, spalti, fosse e cunette. Agli assedianti non s’era lasciato un angolo dove ripararsi né per accamparsi o posizionare in tutta tranquillità i cannoni. Mercurio aveva adocchiato un monastero, tuttavia troppo vicino alla porta cittadina da non sospettare che fosse tenuto sottotiro.

Costantemente sotto tiro. E pensare che ancora erano incomplete! Quale fortezza avrebbe partorito Treviso, ad opera compiuta?

Un brivido freddo percorse la schiena del capitano di ventura, le budella attorcigliate da un oscuro presagio già di suo fomentato dal malaugurio invocato su di lui dal giovane Miani; il fango, poi, che gli zoccoli dei cavalli sollevavano scalpitando non lo rassicurò, semmai esacerbò la sua convinzione che, forse, avevano sottovalutato la determinazione del nemico, novello Sansone [1].

“Cosa senti?”, volle il Bua l’opinione dell’altro comandante, il quale studiava anch’egli apprensivo l’imponente silhouette delle mura stagliatesi ancor più scure in controluce, il vessillo dorato di San Marco intrecciato a quello cittadino di Treviso, a croce d'argento accantonata in capo da due stelle di otto raggi, su sfondo rosso.

Mercurio diede ordine di tenersi ben distante, così da rimanere fuori dal raggio dei cannoni.

“Niente”, gli rispose Leka Busicchio, umettandosi nervosamente le labbra d’un tratto divenute secche. “Non odo assolutamente niente.”

Il capitano di ventura si morse l’interno della guancia. “Appunto, è troppo silenzioso qui … Dove sono le sentinelle? Dove sono tutti?”

“Sul fronte sud, come avevamo previsto!”

L’uomo scosse il capo. “D’accordo, ma il provveditore Gradenigo non può aver lasciato sguarnito completamente il lato nord. Non avrebbe senso …”

Nessun rumore infrangeva l’aria frizzante di fine estate, se non il vento sverzante che aveva sostituito la pioggia mattutina e che ingrossava capricciosamente gli stendardi. Dalla compatta cinta muraria non s’udiva né vociare di soldati né i cigolii delle ruote dei cannoni e dei carri, men che meno lo scalpiccio dei cavalli e i loro nitriti.

Nulla, un silenzio mortale, come se Treviso stesse emulando le limitrofe montagne.

“Sarà meglio portarci a quel monastero e avvicinarci a Porta Santi Quaranta”, suggerì Leka al conterraneo, facendo al contempo cenno alla sua compagnia di muoversi. “Restiamo comunque sotto tiro … Se solo riuscissi a capire quante cannoniere hanno …”

“Ritorniamo all’accampamento”, l’interruppe Mercurio. “Qui non finisce bene.”

“Ma come?”, protestò Leka. “Dopo l’intera cavalcata fin qua, te ne vuoi andare così, senza aver concluso nulla?”

“Abbiamo comunque ottenuto informazioni sulla struttura difensiva di Treviso, che possiamo riferire a La Palice una volta ritornato da Vicenza!”, ribatté altrettanto adirato il Bua. “Pensi che abbandonerei così su due piedi un’impresa senz’alcun valido motivo?”

“Possiamo spingerci più ad est, verso …”

All’inizio pensarono trattarsi dell’ennesimo sibilo di vento, sennonché le loro orecchie oramai smaliziate a tali rumori riconobbero quel fischio e impallidirono all’improvvisa comparsa di una ballotta di quasi 2 palmi, lanciata chissà dove ché non un filo di fumo si librava dalle cannoniere.

L’effetto rimase comunque devastante e non trovando la palla alcun ostacolo dinanzi a sé, essa viaggiò ancora più lontano e veloce, falciando e disperdendo la colonna di stradioti che ancora non s’era allontanata dal suo raggio.

Quale, però?

“Ripiegate! Ripiegate!”

Una seconda palla di cannone, subito seguita da una terza  li colpirono nuovamente con inquietante precisione, seguendone i passi alla stregua di un’ombra mortifera.

Dove? Da dove stavano facendo fuoco?

 

***

 

Il cucchiaio cadde di mano ad Etienne de Toulouse e con lui ai suoi compagni, impegnati a terminare il pasto offertogli dai loro poco rassicuranti anfitrioni i quali, bisogna però dire, pur avendoli tenuti sotto strettissima sorveglianza non avevano in alcun modo attentato alla loro persona, sicché il tolosano e gli altri suoi compatrioti avevano potuto riposare qualche oretta e perfino godersi il primo vero pasto decente dopo settimane di cibo immangiabile.

Il rombo dei cannoni ruppe tuttavia quella fragile bolla di tranquillità e i soldati francesi si guardarono allarmati l’un l’altro, incapaci di comprendere quanto stesse accadendo fuori dal casolare. Potevano immaginare, sicuro, ma il timore della conferma li impediva d’interrogare quella sfinge dell’interprete.

La novità giunse loro ugualmente nella furibonda persona di Michele da Brisighella, avanzante verso di loro con la daga sguainata e occhi iniettati di sangue.

“Cani fottuti!”, inveì loro contro e fendette l’aria con la lama, al che i francesi balzarono in piedi onde usare le dozzinali sedie a guisa di scudo, maledicendo la perquisizione del giorno addietro e il consecutivo sequestro dalle loro armi. “Così rispettate i patti? Parlamentare per voi corrisponde ad attaccare alle spalle? Vili canaglie!”

A nulla valeva la presenza dell’interprete, ché Etienne pur non comprendendo la lingua dai gesti violenti e collerici di Michele aveva ben afferrato la gravità della situazione sua e dei compagni; ciononostante, confidando nella sua effettiva innocenza, tentò ugualmente di riportare il brisighellese a più miti consigli:

“On ne savait rien! Je te le jure! On ne savait rien de cet attaque !”, si difese, incrociando e sciogliendo le mani onde reiterare il concetto. Richiamando alla memoria frammenti di parole veneziane captate di qua e di là da prigionieri e traduttori, il tolosano sbrodolò in affanno: “Gnente … gnente …”

Michele da Brisighella non si commosse. “Infame traditore d’un mangiarane, chi vuol sentire le tue patetiche scuse?”, e gli cacciò un pugno dritto al naso, spaccandoglielo, per poi avventarsi coi suoi compari sugli altri francesi inermi.

Fuori dal casolare, il capitano Vitello Vitelli assisteva al tutto dalla finestre, sorridendo compiaciuto, assai divertito dalle doti recitative dei suoi soldati.

Per poco, mano sul cuore, a quel teatrino ci cascava pure lui.

 

***

 

A gran fatica Mercurio riuscì a domare il panico vigente tra i suoi stradioti e a costringerli a raggrupparsi così da riparare dietro gli scheletrici ruderi degli edifici non ancora interamente abbattuti, quel tanto che bastava a tirarsi fuori dalla gittata dei cannoni e decidere sul da farsi prima di finire impallinati alla stregua di anatre selvatiche.

L’unica soluzione papabile comprendeva l’immediata e indiscussa ritirata a Montebelluna; il Bua, infatti, non desiderava arrischiarsi di testare fino a quando i marciani avrebbero continuato a bombardare, ignorando a quanto ammontasse il loro approvvigionamento in fatto munizioni. Malgrado avesse notato come esse fossero saltuarie ma ben mirate, quasi si fosse dato l’ordine di non sprecare alcun colpo, ciò non corrispondeva ad una prova concreta, contrariamente a quanto accaduto a Castelnuovo di Quero, dove là sì che il suo ex-castellano aveva dovuto lesinare sull’utilizzo delle bocche di fuoco per ovvia penuria di ballotte e polvere da sparo. Infatti, il greco-albanese s’era accorto di come dalla mezzaluna di San Bartolomeo avessero cessato di sparare, riprendendo invece dal torrione angolo di San Marco a protezione di Porta Santi Quaranta, dove egli, con un’abile finta, aveva condotto i suoi stradioti, disorientando per qualche attimo i marciani, che avevano creduto volersi nascondere dietro i ruderi davanti al rivellino di Porta San Tomaso.

Piccolo vantaggio atto solamente a riprendere fiato. Onorando il suo soprannome – l’Occhio Destro di Venezia – Treviso per davvero sembrava possedere mille occhi che tutto scrutavano e seguivano, degna emule di Argo Panoptes [2].

A peggiorare la già complicata situazione, il cielo s’era oscurato in un tremendo grigio fumo e il vento aveva cessato di flagellarli, sicché le ballotte viaggiano ancor meglio. Un nauseabondo odore di terra putrida e di fogna ammorbò l’aria dal sentore metallico e foriero del temporale, costringendo Mercurio a valutare una strategia di fuga adeguata onde sfruttare al meglio la prossima tempesta, che non giovasse solamente agli assediati.

“Il tiro è a raggiera”, delucidò il capitano di ventura al suo collega Leka Busicchio. “E la gittata è ad occhio e croce di mezzo miglio abbondante, se non oltre. Bisogna ritirarsi retrocedendo, solo così la scamperemo, oramai non ci è più possibile riprendere la medesima via da cui siamo arrivati. Ci stanno costringendo verso il Montello, là dove ci attendono quelle bestie feroci dei loro contadini. Porco Giuda maledetto!”, imprecò frustrato, digrignando i denti ed espirando rabbioso. “Ti giuro, Leka, che se quella troia rotto-in-culo-suggia-cazzi di Giovanni Gonzaga non ci ha rifornito di quanti più cannoni possibili, mi aggrego alla spedizione a Vicenza per il mero gusto di fotterlo a fondo col sabbione, finché non diventa femmina!”

Busicchio non lo mise in discussione per un istante, convenendo quanto Mercurio fosse capacissimo d’attuare quella colorita minaccia. Chi si scordava più della sua furibonda e sfacciata ramanzina propinata allo sbigottito Imperatore?

“Al maresciallo cosa diremo?”

“Che quel gran furbo del provveditore Gradenigo ci ha ben fregati. Ora, voi tutti”, intimò ai suoi uomini, “dopo questa ballotta, spronate i cavalli in direzione di …”, ma un fischio acuto e stridulo lo interruppe bruscamente, centrando appieno le rovine del monastero dietro cui s’erano riparati, il quale crollò in un gran boato, polvere e schizzi di acqua melmosa ovunque, annebbiando loro visuale.

“Hanno cannoniere alla base dei torrioni?”, proruppe Leka a gran voce, trillandogli le orecchie dal riverbero del botto infernale, impedendogli di udire un altro fragore, stavolta meno meccanico però altrettanto mortale.

Grida di battaglia.

Diradatasi quella nebbia artificiale di polvere, fumo e fango, per un attimo Mercurio giurò d’aver scorto Porta Santi Quaranta aprirsi, approfittando della confusione generata dall’ultimo sparo; forse un miraggio, non reale come invece era la colonna di cavalleggeri che li stavano caricando simil mandria di tori imbizzarriti. A capo di essi, il greco-albanese individuò Teodoro Clada e Giovanni Paleologo, affiancati da altri cavalieri marciani.

“Ritirata! Ritirata!”, gridò il capitano Busicchio, confidando nei pronti riflessi della sua compagnia e nella lontananza del nemico.

“In formazione, invece!”, ruggì Mercurio il contrordine, replicando aspro all’occhiata interdetta del collega. “Non ho mai voltato le spalle al nemico; perdio, non incomincerò certo da oggi, men che meno davanti ad un Paleologo!”, e a quel nome sputò per terra pien di disprezzo.  “Se oggi il destino ha disposto che finisca all’inferno, quant’è vero Iddio quegli scalzacani seguiranno meco!” Impugnò forte la zagaglia e sistemata bene la targa, incoraggiò i compagni: “Avanti! Il peggior biasimo è quello della nostra gente! San Giorgio! San Giorgio!”

Gli stradioti ulularono la loro approvazione  - San Giorgio! San Giorgio! -  e in breve da fuggitivi si trasformarono in avversari, venendo incontro ai loro parenti altrettanto bramosi di battaglia, il dente avvelenato per quel che ambedue le fazioni consideravano un reciproco tradimento: all’inizio di quel sanguinoso conflitto, i medesimi stradioti avevano tentennato durante gli scontri, consci di fronteggiare i propri famigliari e non avendo cuore di ucciderli se non costretti, ad ogni occasione avevano preferito catturare e i disarmare i compatrioti. Mercurio stesso più volte aveva contattato i parenti e antichi colleghi nella speranza di portarli dalla parte dei Collegati, talora riuscendoci talora ricevendo secche repliche di rifiuto. Adesso però, trascorsi due anni, gli stradioti alle parentele curavano di meno, badando a conservare la condotta e soprattutto le proprietà e i privilegi assegnati alle rispettive famiglie a Venezia  a seguito della progressiva diaspora dalle loro terre assoggettate dai turchi. Se in passato, infatti, solo i condottieri salpavano per tentar la sorte in guerra e ritornavano dalle famiglie col compenso, ora anch’esse seguivano i loro uomini, chiedendo questi profughi di conseguenza speciali concessioni alla Serenissima, la quale tanto generosamente gliele elargiva e tanto rapida sapeva toglierle se di loro insoddisfatta.

L’impatto tra i due contendenti rimbombò col fragore di un tuono, forse non avendo confidato gli stradioti marciani in un simil disperato gesto da parte di quelli franco-imperiali, supponendo al contrario di doverli rincorrere più che affrontare.

Nondimeno, il loro intontimento durò un fuggevole istante e caricarono feroci onde rompere la formazione avversaria e disperderli; in particolare, si premuravano di disarcionarli, un po’ come nelle giostre, al che d’afferrare le redini dei cavalli rimasti senza padrone e legare gli appiedati con un laqueus.

A Mercurio parve allora evidente come il loro obiettivo primario fosse la maggior acquisizione di prigionieri e siccome gli stradioti marciani pressavano nella sua direzione, capì trovarsi egli il primo in lista.

Un moto d’incontrollata stizza gli scosse le membra – maledetto, maledetto Gradenigo! Lo aveva aspettato, l’intera sceneggiata delle negoziazioni un mero pretesto per attirarlo in quella trappola appositamente preparata per lui, memore ancora della sua natura temeraria e opportunista malgrado i quattordici anni trascorsi dall’ultima volta in cui avevano combattuto assieme. Il provveditore sapeva che il Bua non si sarebbe lasciato scappare quella ghiotta occasione e ogni parola, perfino il lapsus, riferita dal trombetta era stato un accurato studio d’inganno.

Un’isterica risata sfuggì dalla bocca contratta del capitano: ironicamente, si sentiva lusingato da tanta premura, dimostrando come, tra tutti i comandanti nemici, Gradenigo avesse gran fretta di metterlo quanto prima fuorigioco, reputandolo il più pericoloso. E il bastardo aveva perfettamente ragione, poiché la sua cattura non sarebbe corrisposta ad un affare indolore.

Stringendo la zagaglia, Mercurio spronò il cavallo e puntò con precisione contro il cavaliere marciano che gli stava venendo addosso – povero sciocco, che credeva d’ottenere?  Il capitano di ventura neanche gli concesse tempo d’accorgersi del suo arrivo, che gli lanciò la zagaglia contro con gran possanza, colpendo in pieno la targa e spaventato di conseguenza il cavallo, che nitrendo acutamente inciampò e si piegò in avanti, cosicché il suo cavaliere si ritrovò da esso sbalzato e rotolante nel fango. Non pago di quella vittoria, tali cortesie lasciamole alle giostre, il Bua agguantò una zagaglia rimasta conficcata per terra e l’alzò per colpire il veneziano, il quale si rimetteva in piedi con grandi difficoltà, barcollando e molto probabilmente frastornato dalla caduta, con la melma fin quasi alle ginocchia.

Avvertita la presenza dello stradiota, il cavaliere evitò l’affondo gettandosi prontamente fuori dal tiro dell’avversario; risvegliatosi dal torpore iniziale grazie allo scorrere impazzito dell’adrenalina , estrasse la spada e impavido attese che il Bua lo caricasse di nuovo.

Bravo, pensò perfido Mercurio, stattene lì fermo ad attendere la morte! E si preparò a impironarlo, sennonché in un lampo egli non solo si vide disarmato, ma gli venne frantumata anche la targa da una lancia.

Per puro miracolo e per la saldezza della sua montatura Mercurio riuscì a rimanere sul suo cavallo, assorbendo l’impatto abbastanza da rimanere in equilibrio e allontanarsi dal suo nuovo avversario, dimentico di quel fortunello cui era stato concesso di vivere ancora qualche giorno. Sguainando la spada e disfacendosi dello scudo oramai inutile, il capitano girò il cavallo, pronto alla pugna e similmente lo era il suo avversario, la cui tracotanza fu tale, da impirare la lancia per terra ed estrarre a sua volta la sua lama.

Incerto se congratularsi per il coraggio o sfotterlo per la sua sventatezza, Mercurio si concesse un breve istante per studiare quel pazzo sconsiderato davanti a sé, non trovando in lui alcunché di minaccioso o misterioso,un anonimo cavalleggero in groppa ad un corsiero bianco latte che mordeva impaziente il freno.

Peggio per lui.

I due cavalieri si curvarono sul dorso dei rispettivi cavalli e corsero ad incontrarsi. Mercurio levò la spada per colpire alla spalla l’avversario, ma l’agile corsiero di quest’ultimo si drizzò sulle zampe e gli volteggiò davanti in maniera così imprevista che il veneziano riuscì a strisciare la punta della lama sul corsaletto del greco-albanese, che dovette rinculare in fretta, stupito da tanta rapidità.

E sempre improvvisamente, il cavaliere si spinse di colpo quasi ad abbracciare il condottiere, che tentò per difendersi di calargli un fendente sul capo, subito però bloccato dal nemico, conseguendone in una prova di forza tra i due, chi possedeva maggior vigore nel braccio da non solo sciogliere il nodo di lame ma anche di spingere i lati affilati contro il viso e la spalla dell’altro.

Di primo acchito risultava Mercurio il vincitore di quella contesa, imprimendo una forza tremenda e costringendo il veneziano ad arcuare la schiena all’indietro, sopraffatto. Sennonché, raggiunto il punto di massima tensione, ecco che questi scattò in avanti come una fionda, elargendo una poderosa testata al Bua, che, sia a causa dello stordimento che della furia cieca, di rimando colpì il cavaliere talmente forte da levargli la spada parata a difesa con un riverbero doloroso, al punto che il veneziano cacciò un mugolo di dolore. Allorché il greco-albanese s’accinse ad un secondo fendente, l’altro si piegò all’ultimo, estraendo dalla fusciacca un qualcosa di sottile e luccicante.

Ad urlare fu dunque il turno di Mercurio, i nervi impazziti che gli offuscavano la vista e gli facevano fischiare le orecchie. Quando credette di poter riaprire gli occhi appurò con orrore il sangue scorrere grasso e languido lungo il lato scoperto della sua coscia, tratto dai mortiferi pugnali berberi giunti a Venezia assieme ai vari carichi di merci e schiavi. Si diceva fossero così leggeri e sottili da poterli infilare nelle maniche più strette, risultando al contempo talmente affilati da provocare la morte con estrema rattezza.

Di riflesso il Bua si pose una mano sulla ferita, con l’altra stringendo la spada, ostinato a combattere. Il cavaliere veneziano, invece, serbava per lui altri progetti e giostrò il cavallo in modo da fargli perdere l’equilibrio e non soddisfatto, con lo scudo lo colpì dritto in faccia al che il capitano di ventura ruzzolò per terra dentro una pingue pozza di fango, sconfitto. Nella caduta a faccia ingiù Mercurio ingoiò suo malgrado acqua e fango, tappandoli bocca e nari al punto che si sentiva soffocare, impantanato nella terra acquitrinosa che subito lo abbrancava avida.

Il cavaliere veneziano, appurata la vittoria, staccò allora dal terreno fangoso la sua lancia e la conficcò appena appena sulla spalla del condottiero, non tanto da ucciderlo né ferirlo gravemente, giusto per levarsi la soddisfazione di torturarlo un po’. Ché quando, sceso da cavallo e infilata la spada di Mercurio nella propria fodera vuota, il cavaliere alzò la celata, l’uomo s’imbatté in un paio di occhi nerissimi, che mai in vita sua avrebbe scordato.

Destino beffardo, invero! Aveva promesso ad Hironimo di portargli prigioniero il fratello e invece da questi era stato battuto! Quella peste bubbonica per davvero gli aveva appiccato contro la malasorte!

“Et cussì, sistu un Miani? E qual? El Strùpio (storpio, ndr.)?”, rise il greco-albanese, sperando così di provocarlo ad uccidere, ché Mercurio non aveva intenzione di lasciarsi prendere, no, non da vivo! Anche se non avesse mai più potuto riabbracciare la sua Caterina e la piccola Marietta, almeno loro avrebbero appreso della sua morte onorevole, con la spada in mano, piuttosto di vederlo arrivare a Venezia in catene. “Scommetto che mi vuoi catturare, per chiedere uno scambio e così liberare tuo fratello. Ti manca, nevvero? Vuoi sapere come sta”, infierì malevolo. “Tranquillo, il tuo caro piccolo Hironimo è tratto col massimo rispetto. Certo, mi scalda il letto ogni notte, dovresti vedere come piange quando lo monto da dietro: sembra una fanciulla alla sua prima notte di nozze …” e attese la sfuriata.

Ne rimase deluso: il Miani era invece rimasto in strano silenzio, piegando la bocca in una smorfia inquietante e sempre senza proferire parola avanzò verso di lui. E una volta che l’ebbe sotto di sé, col piede gli premette sulla coscia ferita mentre in sincronia perfetta rigirava la punta della lancia conficcata nella sua spalla, al che Mercurio credette d’impazzire dal dolore, finché il corpo ad esso cedette ed egli non seppe più nulla. Il veneziano solo allora cessò di tormentarlo e allungò un braccio per ghermirlo, quand’ecco che alle sue spalle lo stesso cavaliere che il Bua aveva disarcionato gli gridò:

“Sier Marco, sté zoso!” e lo scatto del meccanismo della balestra fendette l’aria, impiantandosi nel collo dello stradiota che stava per decollare il Miani alle spalle. La sua morte comperò tempo ad un secondo stradiota che approfittando della confusione caricò il veneziano, il quale riparò in fretta e furia balzando in groppa al suo corsiero, perdendo tuttavia Mercurio, prontamente issato da Leka Busicchio che spronò il proprio cavallo alla stregua d’un ciuco, galoppando via rapidissimo.

“Ritirata! Ritirata!”

Dal dispetto, Marco Miani degolò lo stradiota dinanzi  a sé, battendo gli speroni sui fianchi di Eòo onde tallonare quel maledetto e ripigliarselo; purtroppo neppure la nobile bestia riuscì nell’impresa. Certo, i marciani inseguirono fin quasi alle pendici del Montello i nemici sconfitti, catturando ulteriori uomini e cavalli, ma la preda che il patrizio voleva già aveva spiccato il volo, svanendogli da sotto il naso anche a causa del violento temporale scatenatosi e della fitta pioggia che gli ostacolava la visuale e rallentava Eòo a furia di rimpinguare il terreno oramai saturo.

“Sier Marco”, lo richiamò Giovanni Paleologo, fermandosi dinanzi l’entrata della selva, “dobbiamo rientrare a Treviso. Che siano i contadini lì nascosti a finirli!”

Un’implosione di collera bruciò nel petto di Marco, il quale aprì la bocca in un ruggito nato muto, maledicendo il Bua, i franco-imperiali e tutta quella razza bastarda d’invasori, le dita strette convulsamente all’elsa della spada vinta a Mercurio, che a sua volta l’aveva sottratta ad Hironimo, conservandola come trofeo.

“Radunate i vostri uomini assieme ai cavalli e i prigionieri catturati”, istruì egli il Paleologo, lanciando un’ultima occhiata alla fitta vegetazione boschiva: volesse il Cielo che quei dannati s’imbattessero nei contadini, finendo impiccati a testa ingiù come fagiani!

Sotto alle mura di Treviso, Marco individuò ed afferrò il vessillo della compagnia di Mercurio Bua: alla festa della Madonna fra tre giorni, l’avrebbe offerto all’altare della Patrona, nella speranza che gli desse forza e consiglio, che la disperazione e l’ansia per la sorte del suo Momolo non li straziassero più l’anima.

Avrebbe trovato il modo di liberare il suo fratellino, Iddio gli era testimone che l’avrebbe trovato, a qualsiasi costo!

 

***

 

 

Sier Zuam Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri e Vitello Vitelli entrarono ieratici e solenni nel casolare, le espressioni gravi e rammaricate dirette ai prigionieri francesi lì legati e dai visi gonfi di botte, tenuti al guinzaglio da un sornione Michele da Brisighella.

“E cussì xélo questo el modo de parlamentar d’i Franzosi? Atacar drio le spale? Tanto ve rempite ea bocha de parolle chome honor, vertù, cavalaria, et tuto quel che volé, ma a la fine, vuj seti ‘na banda de can sassini, viliachi et pure onti e straonti.” (unti e straunti, ndr.)

“C’est ainsi que vous les Français …”, iniziò a tradurre l’interprete, sennonché Etienne de Toulouse lo interruppe, protestando la sua estraneità all’attacco appena avvenuto.

Purtroppo per lui, le orecchie del provveditore non erano ben disposte a sorbirsi ulteriore francese, intimandogli di zittirsi con un secco gesto.

“Grazie a Domine Iddio e alla Vergine Maria, Treviso si conserva intatta a San Marco: in caso contrario, le vostre sarebbero state le prime teste a cadere!”

I soldati francesi deglutirono alla mimica perfetta del provveditore.

“Ora ascoltatemi bene” e s’avvicinò ad Etienne de Toulouse, annodandogli al collo a mo’ di fazzoletto lo stendardo insanguinato dei gigli di Francia, “uno di voi ritornerà all’accampamento di Montebelluna e riferirà al vostro maresciallo monsignor de la Palice, che se vuole venire qui a Treviso, faccia pure, noialtri non aspettiamo altro. In aggiunta, se vorrà indietro i suoi uomini, monsignore dovrà sborsare doppia taglia per il suo inganno. In questo modo, imparerà a suo danno che con la Signoria non si scherza.”

Al cenno del suo capitano, Michele da Brisighella sciolse i nodi che legavano Etienne dai suoi compagni ed ignorando i disperati richiami di essi, lo spinse via dal casolare.

“E voialtri”, ringhiò minaccioso Gradenigo, “considerate la vostra vita ostaggio della Signoria: pregate la Vergine acciocché il vostro maresciallo s’astenga da altre monade (cazzate, ndr.), perché vi riavrà indietro, sicuro, ma un pezzettino alla volta!”

Detto questo sier Zuam Paulo uscì seguito dai capitani, beandosi della vista, mentre s’avvicinava a galoppo a Treviso, della fila di prigionieri e cavalli condotti all’interno della città. Un quarto dell’intera compagnia del capitano di ventura greoco-albanese -  non male come risultato.

“Il Bua non c’è”, commentò deluso Renzo di Ceri, storcendo la bocca. “Su questo punto abbiamo fallito.”

Vitello Vitelli sospirò profondamente. “Bisognava tener conto anche di questa possibilità. I suoi l’avranno difeso strenuamente, pur d’evitargli la cattura!”

“Per quanto sia frustrante, qualcosa abbiamo ottenuto”, ribatté Gradenigo e all’occhiata inquisitiva degli altri due, spiegò: “Oggi abbiamo inculcato al terribile Mercurio Bua del sano e mai abbastanza timor di Dio. Non oserà più questi colpi, non con noi, non qui a Treviso, poiché sa che sotto le nostre mura l’attende solo la morte. E senza i suoi slanci arditi e imprevedibili, La Palice non potrà più - tatticamente parlando - sorprenderci.”

 

***



 

Mentre i suoi comandanti discutevano le prossime mosse e valutavano il bilancio della giornata, acciocché al Senato arrivasse il miglior rapporto, a Treviso si respirava aria di festa: la vittoria sui franco-imperiali aveva disteso il clima di tensione e attesa, ringalluzzendo i suoi difensori e la certezza di scacciare gli invasori in via definitiva dalla Marca non appariva più un miraggio. Terminate di scrivere le lettere e inviatele a Venezia, anche i magistrati e funzionari palatini finalmente poterono tirare un lungo sospiro di sollievo e sier Lunardo Zustignan commentò malizioso tra i vari brindisi celebrativi come il suo collega sier Zuam Paulo Gradenigo fosse corso fin troppo speditamente dalla moglie; lode al suo intuito, ché madona Maria Malipiero Gradenigo sul serio l’aspettava impaziente, pronta a ricevere il marito onde coccolarselo ben bene, con tutti i crismi.

Gli stradioti di Teodoro Clada e Giovanni Paleologo in particolare vennero sommamente laudati e accarezzati, felici d’essere al centro dell’attenzione e descrivendo in un misto tra greco e veneziano la battaglia agli avidi ascoltatori, ovviamente infarcendo i dettagli in modo d’apparire ancor più valenti. Fissato su di una picca l’elmo di Mercurio Bua, lo esibivano orgogliosi alla folla euforica e stupefatta.

Anche i bombardieri ovviamente avevano da dire la loro, specie i più giovani e celibi che mimavano alle impressionate ragazze ogni dettaglio dell’impallinamento del nemico, sperando d’ottenere sul momento almeno una carezza o un bacio a mo’ di complimento, se altro era troppo domandare.

Ad un certo punto, e col beneplacito del podestà sier Andrea Donado “dalle Rose”, ad ogni piazza si radunava gente a festeggiare, ballando e bevendo di buon animo (vino rigorosamente assai annacquato), cogli stradioti che animavano la festa con le loro danze vorticose, le braccia tese come ali d’uccello e schioccando le dita roteavano in cerchi sempre più stretti. Per rendere il tutto più difficile e spettacolare, si ruppe qualche boccale e il ballerino, con in testa a sua volta una piccola brocca, evitava agilmente i cocci pur non alterando alcun passo di quel ballo accompagnato dal battito di mani dei suoi compagni e le vivaci melodie delle loro terre lontane.

Nella casa dei Cimavin vigeva simile clima festoso, in particolare il ritorno di sier Marco Miani e sier Marco Contarini; immediatamente, i due uomini vennero acciuffati dalle donne e costretti al bagno, non gradendo le delicate nari femminili l’odore di sangue, terra e sudore che si portavano appresso. E se Marco Miani aveva avuto la fortuna d’appartenere esclusivamente a madona Helena Spandolin Miani e pertanto solo lei aveva ogni sacrosanto diritto di spogliarlo e gestirselo a suo piacimento, ecco che invece Marco Contarini, reo d’esser celibe, finì nelle grinfie delle sornione madona Felicita e Màlgari, convenientemente sorde e cieche alle vive proteste degli uomini di casa.

“Hastu proprio da nettarlo ti?”, s’oppose Donado, assistendo impotente al volo dei pezzi d’armatura, sciolti con sospettosa maestria da parte della moglie. Tale era il suo disagio, che neanche più pretendeva di parlar distinto in presenza del patrizio veneziano, dando a Felicita del tu.

“Zò, caritade christiana!”, si giustificò impunita la giovane donna, liberando un paonazzo Marco Contarini dall’usbergo. “Curar i amalati et i feriti, el gh’ha dito Nuostro Missier Domine Jesu! E mi sun bona cristiana.”

“Sì, sì, ma fé attension che no te me devegni anca santa, co tuta sta devosion!”, e sollevando maligno il sopracciglio, aggiunse: “Fusse stà missier Marco un vecio scorfano [3], lo gh’avarestu nettà uguale?”

Felicita schioccò la lingua in dispetto. “Aria, sior màmara!” (babbuino, ndr.)

“A mi?”, trillò indignato Donado.

“A ti!”, confermò inclemente la giovane donna, mulinando le braccia come se stesse scacciando le galline dal pollaio. “Aria, che gh’ho da nettar el sier Marco, ch’el me se giassa tutto!”

Il povero mugnaio boccheggiò simil pesce fuor d’acqua – rimanendo in tema di scorfani – cercando furiosamente d’appigliarsi ad un qualsiasi argomento per ribattere a tanta sfacciataggine, sennonché suo padre Jacopo Cimavin il Vecchio lo cinse per le spalle e con delicatezza lo portò sulla panca davanti casa, godendosi il timido sole sbucato a temporale terminato. “Caro el mio toxo (ragazzo, ndr.), ti no te capissi gnente de’ femene: co xéle in pì de do in una camara, ti no te parlamenti, ti te fuzi e anca lesto!”

Donado, infelice all’eventualità di tal malefico gineceo in casa sua, s’augurò di generare solo figli maschi. In ogni modo quella sera, sotto le lenzuola, ben si sarebbe adoperato a rimarcare il territorio.

“A drèta, un fià pì a drèta!” (destra, ndr.)

“An, che bele spale!”

“Ah, che forte schena!”

“Che fianchi streti!”

“Patron, feve vardar le vuostre bele gambe!”

“Le vuostre cosse (cosce, ndr.) lisse!”

“La camisia, patron! Via la camisia!”

“Per metar l’oggio (olio, ndr.) in la macaura (livido, ndr.) a besogna cavarla de dosso!”

“Gran mercé? Coss’elo sto parlar da sbisào (plebeo, ndr.)?”, inquisirono in coro i due Cimavin, girando ambedue di scatto le teste all’udir quei commenti e fischi d’apprezzamento da soldataglia infoiata. E d’accordo dover sopportare le donne che ci scelgono, ragionò il pater familias, ma adesso esser pure preso d’assalto dalle vogliose vicine? Passi per le vedove, però le nubili? Le maritate? O tempora o mores!  “Coss’ele ste sporcarie da bordello?”, s’alzò bellicoso dalla panca, pronto a difendere l’irreprensibile  mos maiorum di casa sua.

L’arrivo dei due patrizi non era stato un affare privato, nossignore. Notando il loro aspetto scarmigliato e i capelli arruffati e sudati, le donne avevano colto l’occasione per appostarsi alla finestra e costì godersi lo spettacolo di un bel giovine ignudo. E ovviamente, mica si chiudeva, la finestra!

“Molighe (basta, ndr.), rassa de betòneghe!” (pettegole, ndr.), si sbracciò indignato Donado. “No ghe xé gnente da vardar!”

Una valanga d’insulti sommerse padre e figlio: “Via, via, che vuj do seti zà maridai!” (sposati, ndr.)

Pene perso!”

“Un pochetto de flemma, patrona, mi saria anca védoo!”

“Varé là, munèr, ti te sé pur vecio, bruto e teo gh’ha fiapo!”

“A mi?”, s’accalorò sdegnato Jacopo il Vecchio, e levando in alto l’avambraccio, le sfidò: “Mi lo gh’ho pì duro di quel puto; se volé pinciàr (scopare, ndr.) co un vero omo, vegnite suso in camara, horra, e vedarem, siore patrone, se xélo o no fiapo!” e le donne gli risero dietro ancor più forte e pure una gli scoccò un bacio al volo. Il pater familias allora accettò la sfida e si mise a correre bramoso dietro la più grassottella, una vedova il cui sedere alto e sodo gli provocava gravi turbe esistenziali, e questa tra grandi sgonnellamenti stette al gioco, cinguettando ilare.

Dinanzi a sì poco decoroso spettacolo, il povero Donado si coprì sconsolato la faccia con una mano e Marco Contarini, approfittando della confusione, agguantò un telo di lino e uscì di corsa dalla vasca, ritirandosi nella sicurezza di camera sua.

Soltanto l’inaspettato arrivo del podestà sier Andrea Donado riportò la calma, proprio ora che Jacopo aveva ghermito la sua vedovella -  guastafeste inopportuno!

“El mio nezzo, xélo in caxa?”

“Siorsì!”, esclamò esasperato Donado. “Et Lustrissimo, Zelenza, de bona grassia, tolévelo con vu!”

Ed era ciò che il podestà aveva ogni intenzione di fare, fumando infatti di dispetto a causa della disobbedienza di quel ragazzaccio: sua sorella, madona Alba Donado Contarini, gli aveva scritto lunghe lettere in cui gli raccomandava il figlio, che lo tenesse lontano dallo scontro diretto e in generale da ogni pericolo. E non solo quel disgraziato non si era recato al torrione di San Marco come ordinatogli, ma perfino s’era accodato a sier Marco Miani, i due fratelli da Riva e gli stradioti per la sortita fuori dalle mura! Non pago, pure aveva tentato d’attaccare Mercurio Bua! Se sier Marco Miani non l’avesse intercettato, a quest’ora altro che star dentro una tinozza! In una bara! E chi lo comunicava poi ad Alba? Meglio la morte, piuttosto …

Basta, volente o nolente, quel gaglioffo l’avrebbe seguito a casa sua!

Poaro illuso, ridacchiò sorniona madona Felicita, indicandogli la strada e mentre inviava Màlgari a stendere i panni.

Ad attendere la fanciulla c’era per sua somma gioia Cabriel, che la sorprese cingendole la vita da dietro e schioccandole un sonoro bacio sulla nuca.

“E jo? No te me netti? Mi gero al bastion de San Bortolo, no sastu? Varda, chome sun’onto!”, scherzò, mostrando il viso effettivamente brunito dal fumo della polvere da sparo.

Imbevendo un panno d’acqua, Màlgari gli ripulì via la sporcizia, approfittandone anche per accarezzargli le guance. “Co te parli col sior mio pare et co el dise che sì, che podemo darghece ea man (sposarci, ndr.), caro ti, vedaré chome te lavo tuto …”, e arricciò la boccuccia scaltramente civettuola.

Cabriel, sentendosi audace, la trascinò a sé e l’accomodò sulle sue ginocchia. “Ancha sença camisia?”

Le piccole e forti dita curiose di Màlgari scesero rapide e dispettose all’inguine del ragazzo, che trasalì dalla sorpresa, per poi imbronciarsi. “Sovratuto sença la camisia”, gli soffiò sulle labbra, baciandoselo con gusto.

D’umor totalmente opposto invece sguazzava sier Marco Miani, che sua moglie madona Helena Spandolin Miani trovò seduto su di una sedia a fissar il vuoto, ancora vestito di tutto punto e la spada del fratello ben stretta tra le mani. Appena appena quest’ultime e il viso si era pulito, forse per nascondere il rossore dei suoi occhi.

“Méli mou”, s’inginocchiò la giovane donna davanti al marito, scorrendo la mano sui folti ricci sudati.

“Lo avevo in pugno”, mormorò roco Marco in greco, i muscoli facciali contratti. “Lo avevo in pugno e mi è scappato. Tutti gli sforzi di sier Zuam Paulo, tutto … tutto inutile. Quel tanghero è ancora in circolazione e … e Momolo ancora suo prigioniero”, abbassò il capo contrito ed espirò affranto.

Rivedeva ogni istante, scena per scena, l’intera battaglia dall’apertura di Porta Santi Quaranta alla carica contro il nemico; di come Mercurio Bua aveva disarcionato Marco Contarini e di come, contrariamente ad ogni buon senso, invece di catturarlo lo stava per impirare. Ricordò il salvataggio dell’amico d’Hironimo, del suo personale duello brutale col Bua e soprattutto del salvifico intervento del pugnale berbero, un dono di nozze da parte del cugino Andrea Morexini.

Notando lo sguardo perso di Marco, Helena si pose con determinazione in piedi e, tolta di mano la spada dal marito, lo costrinse ad imitarla, armeggiando a levargli l’armatura. “Io la guerra la conosco solo tramite mio padre e mio fratello", esordì, alludendo al cavaliere Dimitri Spandolin e suo figlio Giorgio. “E similmente ad essa, conosco Merkourious Buas Spatas solo tramite i loro racconti e quelli di sua moglie Aikaterinī e ti assicuro che egli è molte cose, troppe cose, ma non uno stolto inutilmente sanguinario. Hieronymos è troppo prezioso per i suoi scopi, per torcergli anche solo un capello!”

“Neanche ti voglio ripetere ciò che m’ha confessato!”, ritorse di rimando Marco, imporporandosi di disgusto. “Le … le porcherie cui lo sottopone!”

Helena aggrottò scettica la fronte. “E tu così poca fiducia hai in Hieronymos, quel terremoto di tuo fratello che quando s’arrabbia tutta Rialto trema? Proprio tuo fratello che partecipa di nascosto alla Guerra dei Pugni? Pensi sul serio che si lascerebbe” e qui la greca stessa ebbe qualche difficoltà a scegliere la parola, “oltraggiare da uno come Merkourious Buas? Se quello sprovveduto gli si dovesse anche solo avvicinare con intenzioni poco caste, stai sicuro che la povera Aikaterinī si ritroverebbe  vedova col marito vivo!”

Un debole sorriso s’increspò sulla bocca di Marco.

“Méli mou, sotto certi aspetti, è stato meglio così: se tu avessi catturato Merkourious Buas, la sorte d’Hieronymos sarebbe divenuta ancor più oscura. La Signoria avrebbe spedito il capitano alla Torresella o alle Novissime, sorvegliato a vista fino alla fine del conflitto, senza accettare alcun riscatto né scambio. E dunque? Che ne sarebbe stato d’Hieronymos? Lo avrebbero deportato o in Alemagna o in Francia, come successo al padre e al fratello di Markos. Allora sì, che non l’avresti forse mai più rivisto. Ma, fintanto che sta col Buas, sussiste sempre la possibilità che Hieronymos riesca a fuggire o che noi riusciamo a salvarlo, in particolare … ”

“… quando si accamperanno qui per assediare Treviso”, incominciava a capire Marco dove la moglie stesse andando a parare. “Mercurio non si fiderà di lasciare Momolo a Montebelluna, lo costringerà a seguirlo. Sarà lui stesso a riportarcelo indietro.

“Esatto”, convenne Helena, trafficando cogli ultimi lacci. “E conoscendo il provveditore generale, mentre i franco-imperiali saranno impegnati a bombardarci, di sicuro invierà alle loro spalle un contingente di stradioti per far razzia del loro accampamento, rubando armi, munizioni, cibo e liberando i nostri soldati.”

“Mi proporrò volontario d’affiancare i comandanti Peleologi o chiunque sier Zuam Paulo vorrà nominare per quella spedizione”, decise Marco, rincuorato da quella prospettiva e già sentendosi rifiatare, ripromettendosi che in quell’occasione avrebbe raggiunto il suo obiettivo.

Strinse forte al petto l’adorata moglie, la sua colonna portante nonostante le recenti increspature nel loro matrimonio, dovute purtroppo al mal consiglio dell’orgoglio e della guerra.

“Se soltanto fossi nata uomo”, le sussurrò pieno d’ammirazione, inalando quel caro odore di gelsomino con cui ella si profumava le trecce nere, “che comandante degli stradioti saresti stata!”

“Avrei riconquistato Costantinopoli”, stette Helena allo scherzo, ponendo piccoli baci al giugulo del marito, vezzeggiando lieve la pelle salata con la punta della lingua. Sorrise compiaciuta al fremere involontario di Marco, all’eco del suo respiro già più profondo e irregolare, sebbene dal modo in cui stringeva le labbra ella intuiva come si stesse trattenendo, forse non reputando il momento adatto, non quando ancora sussistevano gravi questioni da regolare.

Beh, oramai il crepuscolo era sceso e fra tre ore sarebbe scattato il coprifuoco, inflessibile anche in quel clima di vittoriosa festa. A che pro scervellarsi, cavandosi il giusto ristoro? Ogni giorno ha la sua croce, si legge nei Vangeli, verità assodata e assoluta. La guerra ci sarebbe stata anche l’indomani, così come le lunghe discussioni su strategie, rifornimenti, lavori di rinforzamento della città … tutte cose che avrebbero totalmente assorbito suo marito, addirittura sottraendoglielo per sempre (Dio la scampasse da tale fato orribile!). Dunque, che non le si negassero quelle poche ore assieme, non quando il suo Marco era lì con lei, vivo, di carne e sangue, i muscoli delle forti braccia guizzanti sotto i suoi polpastrelli, pronti all’azione e al contempo dominati in rispettosa attesa.

“Però, che triste sorte sarebbe stata la tua”, ronronnò, sostituendo le unghie ai polpastrelli, piano e senza fretta, che ogni terminazione nervosa di lui la percepisse.

“La mia?”

Helena abbassò languida le palpebre, schiudendo appena la bocca quel tanto da lasciar intravedere la lingua che fece scorrere pensierosa sui denti. Si puntellò sui piedi, cingendo il marito con un braccio e con l’altra disegnando strani arabeschi sul suo petto nudo. “Sì, la tua. Se io fossi stata maschio, non avresti potuto certo …” e s’interruppe, scoccando un’occhiata birbante a Marco, per poi sciogliersi via troppo in fretta per i gusti dell’uomo, che rapido si premurò di riacchiapparla.

“Non avrei cosa?”

“Ah, niente!”, fece la greca con noncuranza, controllando la temperatura dell’acqua, che ancora fosse calda.

Marco strinse gli occhi, lasciando cadere le braccia mollemente ai fianchi e avvicinandosele tuttavia felino, predatorio. “Niente?”, ripeté in un soffio, appoggiandosi a lei appena appena da dietro, acciocché ella sentisse la sua presenza senza però sentirsi oppressa.

“Ecco, fossi stata uomo, non avresti di certo avuto una moglie che ti ricorda, signore caro, come bisogna lavarsi quando si ritorna a casa più lercio d’un villano il giorno dell’aratura!” , ridacchiò, per poi lanciare un gridolino quando, inattese, avvertì le mani di Marco intrufolarsi abili sotto le sue sottane, cercando, tastando e conquistando il suo premio più ambito.

“E io pensavo perché non avrei goduto di questa!”

“Ah, non mi dire! Credevo …”, Helena deglutì, mordendosi le labbra ché tali soddisfazioni non gliele avrebbe date, non subito almeno. “Credevo che a … ah! … a s-sua magnificenza non … non garbasse più …”

“Sbagliatissimo” e con un gesto deciso Marco cessò la sua dolce tortura, portandola delicatamente ad appoggiare la testa sulla sua spalla e costì baciarla tra sospiri e furtivi incontri delle loro lingue, intanto che l’altra mano scivolava pigra e liberava la moglie dall’intrigo dei vestiti.

Fingendo ritrosia, Helena provò a sciogliersi per ondulare invece bene il sedere sull’inguine di Marco, i cui movimenti divennero un buffo connubio d’impazienza e voglia di gustarsi il gioco, contraddizione che divertì assai la moglie, che ne approfittò spudoratamente.

“Sul serio”, si lamentò, accomiatandosi dai vari pezzi del suo abito scivolati uno dopo l’altro in un gran fruscio ai suoi piedi. “L’acqua si sfredda e … e poi unto come sei … mi sporchi, dai …”

Marco allora la sciolse dal suo abbraccio e tenendola per mano, la invitò a girarsi verso di lui. “Pazienza”, sentenziò egli, portando le sue mani ai fianchi di lei e abbassandosi un poco. “Vorrà dire che ti laverò io, se ti sporco”, la rassicurò e in un battibaleno Helena si ritrovò issata in braccio al marito, le gambe penzoloni sulle sue spalle.

Rise di quella prova di forza, mentre si lasciavano ricadere sul letto; sotto quell’aspetto il suo uomo non era cambiato dal giovane ventiduenne che l’aveva impalmata otto anni addietro.

“Mi laverai come fa il gatto?”, lo pungolò perfidamente giocosa.

“Come fa il gatto. Anzi”, le descrisse pigramente Marco, le dita che le scorrevano dal ginocchio lungo l’interno della coscia, dilettandosi a fine corsa a dar tormento alla rosea boccuccia con cui intendeva intensamente dialogare. “Anzi, come un grande …”, scivolò in basso, “… grosso …”, le sorrise birichino, “ … pasciuto gatto …”, leccò e baciò il palmo della mano che Helena gli scorse tra i capelli, suggendole le dita a guisa d’infante, “… soddisfatto e satollo di quella povera passerotta che s’è ingoiato …”

Uno sbuffo divertito fuoriuscì dal petto della donna, tuttavia teso e fremente d’anticipazione. “Sfacciato melenso!”, lo rimproverò falsamente altezzosa.

Marco non replicò, limitandosi a sorriderle carnivoro, lingua e denti ben in mostra e con quella zazzera scarmigliata più che ad un gatto ricordava il leone del suo omonimo santo. Che la mojer obiettasse quanto volesse, una volta partito alla carica e messosi all’opera quant’era vero che il sole sorge ad est, l’ultima parola l’avrebbe avuta lui.

 

***

 

 

“Altolà! Chi vive?”

“Zente in fede di San Marco!”

A mezzogiorno dell’indomani, 6 settembre, a Porta San Tomaso si presentarono alle sentinelle di guardia i prigionieri marciani fuggiti da Montebelluna, seminudi e talmente inzaccherati di fango che parevano dei saraceni. A guidarli c’era Vio, il più giovane degli esploratori delle truppe veneziane sin dai tempi della Guerra del Cadore [4], suo fratello Bernardin da lui liberato, nonché i due stradioti Teodoro Madalo e Nicola Cazantachi, più quattro cavalli rubati.

“Verzé la porta!”

Giubilando felici, chiaro segno della fine delle loro peripezie, i fuggitivi entrarono di corsa dentro, prontamente accolti dai compagni assai contenti di rivederli.

“Teodoro!”, esclamò uno stradiota, correndogli incontro e abbracciandolo con foga, arruffandogli poi i capelli. “Gran figlio di puttana … che poi sarebbe anche mia madre. Come diavolo hai fatto?”

Spintonandolo scherzoso, Madalo spiegò brevemente al fratello: “Ringrazia il capitano Domenico di Modone e quello scricciolo laggiù”, indicò Vio che litigava paonazzo in volto col fratello a causa della sua narrativa boccaccesca circa la loro fuga, con tanto di mimesi esplicativa per il gran sollazzo dei soldati che se la ridevano alla grossa. “Quello là ha dimostrato di possedere un paio di coglioni che non si trovano facilmente oggidì!”

“Et po’ el se gh’ha alsà le cottole et …”

“Molighe o te squarto!”

“In ogni modo sei libero e questo è ciò che conta!”, disse Giorgio Madalo, “Anche se … anche se vorrei che Zilio ti avesse seguito …”

Teodoro gli appoggiò fermamente una mano sulla spalla. “Ritornerà con noi, vedrai!”

“Oooooh … te plé trè dur! …”

“Argh! Simia (scimmia, ndr.) maladeta, te me la pagharé!”

La piccola bolla di buonumore non durò a lungo: appena saputo dell’arrivo dei fuggitivi, essi immediatamente vennero convocati a Palazzo dei Trecento onde riferire al provveditore generale quanto visto e udito, il tutto tra un vorace boccone di gallina bollita, carote, sedano, pane e vino saporito.

Guardandoli ingozzarsi incuranti di chicchessia, sier Zuam Paulo appurò quanto a corto di rifornimenti si trovassero i franco-imperiali.

Da loro Gradenigo apprese come La Palice fosse partito per Vicenza per portare al campo i cannoni promessi da Giovanni Gonzaga, giacché, malgrado le smargiassate del governatore di Milano, la rotta di Marostica li aveva assai danneggiati; dell’Imperatore si disperava l’arrivo, però si diceva che tosto sarebbe arrivato al campo un vescovo -  il nome purtroppo non sapevano riferirlo però suonava francese - nonché il conte Gianfrancesco di Gambara – quel can traidor brexiano!, ruggirono i patrizi al sentirlo nominare – appunto grande sostenitore di Maximilian, da lui molto probabilmente inviato per farne (forse) momentaneamente le veci. Il pane scarseggiava, era duro e nero peggio del carbone; il vino sapeva d’aceto e si faceva la fame, i capitani avevano ricevuto pertanto l’ordine d’impiccare chiunque tentasse di oltrepassare il Piave per far razzia o disertare direttamente. I francesi e i tedeschi poco si fidavano l’un l’altro ponendo per sicurezza mezzo miglio di distanza tra i loro accampamenti e ciononostante, le baruffe e gli assalti notturni per rubare restavano all’ordine del giorno.

“E dil Bua?”

Ingoiando a viva forza il boccone troppo grande, a rispondergli fu Teodoro Madalo. “Ho visto i suoi uomini trasportarlo in barella, ma se per fargli il funerale o lenire la sofferenza delle ferite, non saprei dire.”

“E mio fratello?”, l’incalzò Marco Miani. “L’hai visto?”

Lo stradiota scosse il capo. “Il capitano Mercurio lo tiene nel suo padiglione personale, segregato e isolato dagli altri prigionieri. Da quel che ho compreso, neanche i suoi sottoposti possono avvicinarsi a lui né tantomeno parlargli”, gli spiegò contrito, dispiacendosi per la pena dell’uomo.

Sier Zuam Paulo Gradenigo s’accarezzò il mento, cogitando a lungo su quanto udito. Bisognava rallentare il ritorno di La Palice a Montebelluna, forse distruggendo il ponte di Bassano?

E se invece il francese avesse avuto intenzione di deviare direttamente a Treviso, magari portando seco il Gonzaga?

Alzatosi in piedi e ringraziati i fuggitivi, lasciandoli adesso tranquilli a godersi il meritato pasto, l’uomo si diresse assieme ai colleghi verso il Ponte de Pria, là dove scorreva l’acqua vorticosa.

“La chiusa è davvero pronta? Così come il partidor?”

“Siorsì”, rispose il podestà sier Andrea Donado, desideroso di distrarsi a seguito dell’ennesimo rifiuto del nipote di seguirlo a casa sua, anche dopo la sfuriata con cui l’aveva subissato.  

“Ottimo!”, asserì entusiasta il provveditore, studiando i mille intorcolamenti dell’acqua e i giochi delle alghe. “Ho intenzione di far deviare il corso dell’acqua fino a un miglio da Porta San Tomaso, così d’allagare la campagna circostante tra detta porta fino a quella di Santi Quaranta. E che la si faccia scorrere per due giorni consecutivi, in tal modo la terra s’imbomberà e al nemico non resterà che piangere sotto le mura di Trevixo!”

A meno che i francesi non si fossero infatti trasformati nelle rane da loro tanto apprezzate, sier Zuam Paulo Gradenigo dubitava fortemente nella loro capacità d’accamparsi o più in generale di muoversi nell’immenso acquitrino che Treviso si stava per trasformare.

 

***

 

 

Un attimo.

Un solo, fottutissimo attimo in cui Hironimo aveva chiuso gli occhi, stravolto dal sonno di una veglia forzata e dall’ansia provocatagli  dall’eco distante dei cannoni (dunque invero avevano attaccato Treviso?) ed ecco che Thomà era sparito dal suo giaciglio di paglia e stracci. Abituati infatti a dormire oramai uno incastrato all’altro onde tenersi caldi e scacciar via la fredda sensazione d’umido alle ossa, il giovane Miani aveva percepito a livello tattile quella scomparsa prima ancora della sua realizzazione logica.  

Balzando di scatto seduto, il patrizio si era messo a carponi, scostando la tenda e aguzzando la vista alla ricerca della figuretta del bambino, spingendosi a gattoni fin quanto la catena attaccata al palo glielo permetteva e anche quando ebbe raggiunto la massima tensione egli tentò di proseguire oltre, stringendo i denti al dolore al collo e all’aria mancante.

“Thomà!”, gracchiò apprensivo, la mente che elaborava ogni sorta di scenario, uno più orribile dell’altro sulla sorte del piccino. Che glielo avessero sottratto nel sonno? Che fosse morto a sua insaputa? Hironimo a quel punto contemplò di chiamare Zilio, il loro personale can da guardia, onde raccogliere maggiori informazioni, ma all’ultimo desistette: quello scimunito d’un energumeno manco gli portava loro da mangiare, figurarsi se gliene importava alcunché della loro salute. “Thomà!”, l’appellò in affanno. “Thomà!”

“Sssssh, patron! Sté chieto chome un sorzetto, sennò el gato ce magna!”

A quelle paroline accorte e sussurrate, il patrizio veneziano si voltò rapidamente, tirando un gran sospiro di sollievo e strisciando nel suo angolino là dove Thomà lo attendeva, il lembo inferiore della camicia levato su a mo’ d’involto. Per il resto era grigio di fango più d’un maiale nel suo accogliente porcile.

“Da dove sbuchi?”

“Da là zoso!” e il bambino indicò la buca che aveva scavato sotto la tenda, approfittando del dislivello che la terra, ricolma d’acqua non smaltita, aveva creato. Ecco dunque spiegato il suo aspetto a dir poco selvaggio.

Inoltre, tirò fuori dalla paglia un osso di pollo, l’unica carne che avevano visto in più di una settimana e che Hironimo l’aveva ceduta ad un Thomà sbavante dalla fame, e che il fantolino aveva con pazienza appuntito, sfregandolo ironicamente sulla palla di cannone che pendeva dal collare del patrizio. In questo modo, sega un giorno sega l’altro e ovviamente agevolato da un’ottima conoscenza dei nodi, egli aveva tagliato la corda che lo legava alla caviglia, giacché Mercurio Bua più di tanto non s’era curato di prevenire un’eventuale sua fuga.

“Sei scappato?”

“Siorsì.”

“E tornato indietro?”

“Sior patron, el campo xé pieno de soldai, ‘ndove voleu che fugga? El me van suito zaffar!” (subito acciuffare, ndr.), giustificò Thomà la, a suo parere, insensata obiezione del giovane Miani, la cui attenzione venne catturata dal fagotto stretto al petto del bambino.

“Cos’è?”

“Dil pan, patron.”

“Rubato?”

Thomà gonfiò le guance di dispetto, fulminando il patrizio. “El xé pan di Samarco, sior patron”, sibilò iroso, “sti cancari todeschi et franzosi lo gh’han robado a nuialtri.”

“An, così ti sei risarcito?”, replicò aspro Hironimo, più per la paura di un eventuale e crudele castigo nei confronti del bambino se beccato, che per il furto di per sé. “No sastu, caro ti, cosa fanno ai puti che rubano?”

Al che Thomà, terminato d’ascoltare la ramanzina in rancoroso silenzio e scarlatto in volto, scattò in piedi e alzò battagliero il mento onde apparire più grande e minaccioso, i pugni stretti convulsamente tra di loro e i denti ben esposti in una smorfia ferina. “Sì, patron, lo sciò cossa fan a li puti che roban e anca a quei ch’i no fan gnente! L’gh’ho ben visto mi a Feltre co i todeschi et  tajani (italiani, ndr.) [5] ce massacravan tuti! Saveu per dasseno cossa i fan? I nuj fan le sporcarie, i nuj taja a pezzi, i nuj dan in pasto a li cani! Par eli, semo zogàtoli!”, strillò, le vene del collo ingrossate e gli occhi sempre più umidi.

“El mio fradelino, el no gh’avea un anno ancora, i todeschi el gh’han ciapà per un pie di la cuna e l’gh’han fracassà el cranio sul muro! La mia siora mare e le mie sorele tute vergognate, anca quee menori de mi! La Gegia mia sorea, la gera ‘na puta de sie anni e la gh’han trattà de putana, a turno, ea xé morta cussì, lo stomego a tochi, pissando sangue!”, ingollò aria, nettandosi via stizzito le lacrime.

“Il mio sior pare e i mii fradei brusai vivi, perhò prima i soldai i gh’han tajà via le récie (orecchie, ndr.), ea napia (naso, ndr) e le man! Et zò, co la spartidora (sega, ndr.) dil mio sior pare!”

Dai piccoli indizi sparsi di qua e di là nei discorsi di Thomà, un sempre più basito Hironimo aveva appreso come suo padre dovesse aver esercitato la professione di falegname.

“La poara siora mia nonna, la gh’han taja en tochi, perché la gera massa vecia per i soldai! Depo’ i todeschi gh’han ordenà a li cani: Fresstir, fresstir! [6a] E sì, i can se gh’han ben nutrio di le buele di la siora mia nonna! E vuj, sior patron, me dite horra ch’el no xé justo robar a sti cancari el pan? TUTO LHORO I ME GH’HAN ROBADO! Anca l’anima, ché i me volean copar, i ridevano – per cossa, po’? Lustiche bube [6b], i ridevan, et i ridevan! Ah sì?, digo mi, voleu rider siori patroni? El todescho, mi l’gh’ho morsegà a la gola, tragando sangue azò crepasse mal!” e mostrandogli le mani, proseguì febbrilmente: “Mi sun corrotto, sior patron, cossa voleu che sia robar co gh’ho amazzà un omo? Gnanca in Paradiso per colpa lhoro andrò, perché sun dannato! Perhò”, e singhiozzò, il viso rigato di pingui lacrime che più Thomà si sforzava d’asciugare più copiose scendevano, “perhò sior patron no me pento, se podessi – oh se solum podessi! – de novo lo farave, et tuto, tuto!, i roberei a sti cani, sti sassini, sti baroni maladeti, i strupiaria, i strazzeria coi denti, i tormentaria, i faria le pèzori cosse! A Domine Idio gh’ho dimandà: Pare Nuostro che Vui seti in Cel, se non poté darme l’assoluçion, se non poté fulminar i todeschi, almancho la vendeta, de grassia, concedetemela! Cussì moro contento!” e nascondendo il viso tra i palmi delle mani pianse amaramente, le esili spalle sconquassate mentre disperati gemiti si mischiavano ai singulti.

Un bruciante groppo in gola impedì ad Hironimo di replicare alcunché, serratosi a guisa d’un cappio man mano che il bambino proseguiva nella sua angosciosa confessione, il respiro mozzato e il labbro inferiore tremante similmente all’intero suo corpo, quasi l’avesse ghermito la febbre quartana. Senza accorgersene più volte aveva sbattuto furiosamente le palpebre, la vista offuscata da lacrime figlie della collera, della tristezza e dell’orrore: a quelle infernali descrizioni la sua immaginazione aveva crudelmente scambiato gli sconosciuti volti della famiglia di Thomà alla sua, figurandosi la madre Leonora tagliata a pezzi e divorata dai cani, le nipoti Dionora, Crestina e la cognata Helena brutalmente stuprate fino all’assassinio; i suoi fratelli Lucha, Carlo e Marco, i nipotini Gasparo e Anzolo mutilati e poi bruciati vivi, il neonato Scipio lanciato contro il muro, imbrattandolo con le sue cervella. Fosse accaduta una cosa simile a lui, avesse Hironimo assistito a quel massacro di certo sarebbe impazzito dal dolore e sì, sì avrebbe cercato vendetta ad ogni costo, anche a discapito della sua vita, ma …

… ma niente ciò li sarebbe mai accaduto. Non a loro, nel bene e nel male.

Hironimo realizzò d’un tratto quanto fosse stato fino a quel momento un privilegiato, un intoccabile e per di più padrone della sua vita. Tranne per i doveri a lui richiesti dalla Signoria, ogni sua azione e decisione era stato il frutto della sua volontà, di una sua scelta. E lui aveva scelto d’abbracciare la guerra allo mero scopo d’avanzar di carriera, di gloriarsi d’onori, cieco della disperazione di chi volente o nolente la subiva, di chi era più che sacrificabile ai “grandi scopi” dei rispettivi governi.

Adesso comprendeva.

Antropocentrismo … humanitas … l’uomo libero e padrone della sua esistenza … cura benevola tra i propri simili … sì, certo! Se si era patrizi, duchi, conti, principi, re ed imperatori allora sì che tutto ruotava attorno a loro, sovrani indiscussi dell’universo e perfino sopra Dio!

Ma gli altri? La gente comune?

Non erano anche loro di carne e di sangue? Non avevano anche loro sogni, progetti, talenti, gioie e dolori, non provavano caldo e freddo, non ridevano allo scherzo o piangevano all’affanno o s’adiravano ad un torto?

Utili numeri, utili bestie, meno del fango sotto i calzari, meno di niente.

Quanto a lui, egli non era altro se non un ipocrita che tanto parlava dell’uomo, della sua dignità, della sua anima superiore, della solidarietà umana ma poi non muoveva un dito, malgrado il suo status sociale di privilegiato glielo concedesse, per attuare concretamente le nozioni apprese e di conseguenza portare ad un vero miglioramento, nascondendosi dietro sterili letture e sterili discussioni, cullato e pasciuto in quegli agi ottenuti non per merito suo, adoperandosi però alacremente a raddoppiarli a scapito degli altri.

Hironimo provò un’infinita vergogna verso se stesso.

“Non morirai”, mormorò mestamente, la voce tremante. “Sempre ti proteggerò.”

Thomà tirò su col naso, levandosi un po’ di muco con le dita. “Anca l'Andrea me lo gh’avea promesso. El xé morto lo stesso.”

“Te lo giuro! Vivrò per te, per proteggerti.”

Le braccia gli si mossero di volontà propria e prima che il giovane Miani potesse rendersene conto, ecco che avviluppava un recalcitrante Thomà in un consolante abbraccio, stringendolo a sé forte quasi a dimostrare la serietà di quel giuramento, scostandogli la frangia dagli occhi e asciugandogli le lacrime coi pollici.

“La mama!”, pigolò affranto il fantolino, arrendendosi poco alla volta, le mani artiglianti i lembi del camicione del patrizio. “No la rivedrò mai pì, patron! No scolterò mai pì la sua vose, ni sentirò el calor di soi abrassi, ni le soe cansoni per indormensarme. Zà la soa fazza me la sto desmentegando. El sior cappellan me diseva: ea stà in Paradiso cum Domine Jesus, perhò mi la vojo qui, gh’ho besogno d’ela! El bone Jesu gh’ha la Madona, la Soa Mare, perché me gh’ha da ciapar la mia?”

Come rispondere a tale domanda, quando quindici anni addietro Hironimo ne aveva urlata una non tanto dissimile a Madre, all’ennesimo suo rifiuto di recarsi alla Messa?

Se a questo mondo esiste un dio così egoista e crudele che ruba ai bambini i loro padri, io non lo voglio pregare!

“Quando avevo più o meno la tua età, fu trovato impiccato a Rialto il sior mio Pare. Era morto senza ch’io potessi dirgli quanto l’amassi. Del suo viso, oramai, mi ricordo assai vagamente.”

Thomà sollevò il capo, sbattendo incredulo le ciglia umide: chi l’avrebbe mai immaginato, che l’altero e collerico reggente di Castelnuovo serbasse nel cuore un lutto simile al suo? Lo aveva sempre immaginato fortunato su di ogni fronte!

“Sparirà mai sta doja?”, domandò flebilmente, accoccolandosi al petto del patrizio che non si dava noia del camicione oramai sporco di fango e muco, seguitando al contrario ad accarezzare piano la testa del piccino, cullandolo lievemente e ricambiando la timida stretta della sua manina.

Scomparire? No, il dolore generato da quell’improvviso vuoto non sarebbe mai scomparso, infelice ombra che per sempre l’avrebbe accompagnato per tutta la vita.

“Col tempo, imparerai a conviverci.”

Thomà lo fissò a lungo come alla ricerca d’inganno; non trovatolo, abbozzò ad minuscolo sorriso, una fiammella di speranza ravvivata in quell’oceano di disperazione.

“Se pol disnar horra, patron?”, tentò un debole motto di spirito, arrossendo al gorgoglio del suo stomaco.

Hironimo aprì la bocca per replicare, sennonché fu interrotto da un concitato vociare da fuori il padiglione e l’avvicinarsi di lunghe ombre dietro l’ingresso principale.

“Scòndete!”

“Patron!”

Ma il giovane Miani lo spinse via, al che il bambino, dopo uno sconclusionato girar attorno alla tenda in cerca di un posto sicuro dove celarsi, optò per la cesta delle camice sporche di Mercurio.

“Toh, ecco dunque la famosa concubina del Bua!”, lo salutò beffardamente cortese il marchese di Busseto, Galeazzo Pallavicino, scostando il lenzuolo là dove si vociferava il greco-albanese custodisse il suo prigioniero più gelosamente del sultano con le sue amanti nel Topkapi [7]. “Come sono caduti in basso i patrizi veneziani!”

Hironimo gli sorrise graziosamente velenoso. “Toh, ecco il reggipalle dei francesi!”, cinguettò. “Come sono caduti in basso i nobili milanesi! Come sta il signor Giulio? E suo il signor fratello Galeazzo? Si sta godendo il nuovo titolo di Gran Scudiero?”

“Certo, certo, quasi mi scordavo del vostro insulso umorismo veneziano.”

“Ah, non vi preoccupate, magnifico messere, ho tutto il tempo per rinfrescarvi la memoria!”

Appurando come il dialogo stesse degenerando, il marchese di Pizzighettone, Teodoro Trivulzio, s’intromise in quella tenzone. “Risparmiate le vostre battute di spirito al maresciallo La Palice: appena sarà rientrato da Vicenza, vi trasferiremo alla gabbia vicino al suo padiglione.”

“Mi spiace deludervi, signor marchese, ma io sono prigioniero di Mercurio Bua e dubito che a quest’ultimo faccia piacere non ritrovarmi là dove mi ha lasciato!”

Il marchese di Busseto lo compatì e scosse il capo, intanto che l’altro gli si avvicinava per slegarlo dalla catena. “Non avete appreso l’ultima nuova? Il Bua è morto!”

Un macigno cadde nello stomaco del giovane Miani, rizzandosigli in allarme i capelli dietro la nuca. “Non è vero …” Sul serio il solo desiderio di saperlo morto aveva funzionato? Ma no, ridicolo!

“Mi rincresce contraddirvi, ma così è!”, confermò spiccio il Trivulzio. “A quanto pare, il suo tanto ingegnoso piano l’ha condotto alla morte sotto le mura di Treviso. Di conseguenza, ogni sua avere passa sotto la tutela di monsignor La Palice, prigionieri compresi.”

“Puoah”, grugnì ironico il veneziano, ripigliandosi in fretta dallo sconcerto iniziale. “Insomma, il cadavere del Bua è ancora caldo e voi già siete qui a razziare il suo padiglione? Certo che avete ben appreso le cattive abitudini dei francesi, chapeau!”

Galeazzo Pallavicino lo strattonò in piedi di malagrazia. “Sono contento che conosciate l’idioma francese”, dichiarò a denti stretti, imponendosi la calma e di non cedere alle provocazioni del patrizio. “Vi servirà egregiamente, non appena il maresciallo avrà disposto la vostra deportazione prima a Milano e poi in Francia …”

“… o in Alemagna”, s’intromise una voce alle loro spalle. “Vi ricordo, magnifici messeri, che quest’impresa monsignor La Palice la conduce per conto dell’Imperatore, non del Re di Francia”, ricordò loro il conte Gianfrancesco di Gambara, entrando nella tenda. “Ergo, ogni prigioniero appartiene alla Cesarea Maestà!”

Hironimo scoppiò all’improvviso in una fragorosa risata, costringendo a sé gli sguardi attoniti dei tre nobili, credendolo uscito di senno e non avvedendosi invece di come Thomà fosse anguillato fuori dal padiglione in cerca di Zilio, la cui stolidità era tale che anche da morto avrebbe eseguito gli ordini del Bua e cioè che nessuno s’avvicinasse al suo prigioniero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

*******************************************************************************************

Non mi ricordo in quale romanzo di André Gide lo lessi, però mi colpì quella sua riflessione quando, a seguito dello scampato pericolo di morte, una coppia dalla vita amorosa pari ad un surgelato tutto d’un colpo si ritrovi a far maratone di gambe all’aria, stimolate appunto dall’adrenalina e quel senso di caducità della vita.

Beh, grazie a Gide possiamo dunque capire il perché di tanta euforia a Treviso. Se il Sanudo diceva che a Padova, dopo la sconfitta dei Collegati, c’era gente che si abbracciava e baciava, vuoi che Treviso, famosa per la sua vita gaudente, non fosse da meno? ;)

Inoltre, la scena del Nostro e di Thomà per quanto breve mi ha molto depressa, quella dell’attacco mi ha sfinita e perciò volevo inserire all’ultimo un qualcosa di rilassante e divertente da scrivere. La vita d’altronde è fatta così, Eros e Thanatos non devono essere letti in chiave prettamente tragica e romantica …

Comunque, non ho esagerato riguardo all’orribile sacco di Feltre del 1510 né alle torture che la gente indifesa subì da parte dei Collegati. Purtroppo ve ne saranno ancora, più in là con la storia. E dispiace dire, ma come il Sanudo ha anche laconicamente commentato, anche gli “italiani” ci misero del proprio comportandosi né più né meno come gli stranieri.

Bene (insomma), spero che il capitolo vi sia piaciuto. Di nuovo, scusate per la lunghezza!

Alla prossima,

 

Un po’ di noticine:

[1] Sansone = personaggio biblico dall’incredibile forza risiedente nei suoi lunghi capelli, che con l’inganno gli furono tagliati, rendendolo facile vittima dei suoi nemici. Accecato e legato a due colonne, Sansone invoca Dio di concedergli la forza per l’ultima impresa, da qui la famosa frase: “Muoia Sansone con tutti i Filistei”, per indicare tutt’oggi un atteggiamento autodistruttivo pur di prevalere sul proprio nemico.

[2] Argo Panoptes = Argo che tutto vede, secondo la leggenda questo gigante sorvegliava per ordine di Hera la ninfa Io trasformata in mucca da Zeus, onde nasconderla dalla moglie gelosa. Pentitosi di averle ceduto la ninfa-ora-vacca, ma non riuscendo ad avvicinarvisi per via degli innumerevoli occhi del gigante, ecco che Zeus affida ad Ermes l’ingrato compito d’accopparlo e di ritornargli la bovina amante. Hera, commossa dalla fedeltà del gigante, staccherà dal cadavere di Argo i suoi occhi e li appiccicherà sulla coda del pavone, suo animale sacro.

[3] scorfano = tipo di pesce, nel linguaggio comune è anche sinonimo di persona assai brutta e sgraziata.

[4] Guerra del Cadore = conflitto combattutosi nel 1508, a causa dell’invasione del Cadore da parte di Massimiliano d’Asburgo, che con la scusa di scendere a farsi incoronare a Roma, ben aveva pensato di far un po’ di conquista dei territori di confine veneziani. Affidando il comando a Bartolomeo d’Alviano, Carlo IV Malatesta, Rinieri della Sassetta, Girolamo Savorgnan e pure col sostegno di Gian Giacomo Trivulzio a capo di un contingente francese, Venezia non solo respingerà l’invasione, ma pure estenderà il suo dominio nel resto Val di Grestra, Gorizia, Cividale, Cormons, il triestino e Fiume. Immenso fu il supporto della popolazione cadorina alle truppe veneziane, le cui guide locali guidarono l’Alviano tramite la forcella Cibiana, scendendo per la Valle di Cadore e pertanto tagliando la strada agli Imperiali in fuga verso Cortina.

[5] italiani = generalmente s’intende tutti coloro che non sono veneziani / marciani.

[6a] Fresstir, fresstir = storpiatura di “Fresst ihr, fresst ihr”, ovvero “Mangiate! Mangiate” – fressen, in tedesco è generalmente utilizzato quando a mangiare è un animale o se applicato ad una persona assume allora un connotato negativo. [6b] Lustiche bube, invece corrisponde a “lustige Bube”, ovvero “bambino divertente”.

[7] Topkapi = Palazzo del Topkapi o Serraglio del Topkapi era appunto la residenza ufficiale del sultano ottomano, dove si trovava anche il suo famoso harem.

 

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Hoel