Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l'11.09.2021
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Capitolo
Settimo
5 (segue)
– 6 settembre 1511
Per un
istante, Mercurio Bua e Leka Busicchio credettero aver
sbagliato strada.
Dall’alba
avevano cavalcato ininterrottamente finché il terreno
scosceso e irregolare delle colline si era livellato nella pianura,
senza
tuttavia imbattersi in alcuna resistenza né attacco, fattore
bizzarro
ripensando a tutti gli agguati ogniqualvolta mettevano il muso fuori
Montebelluna.
Ad
aumentare il loro disorientamento s’aggiunse inoltre la
crescente desolazione che li circondava man mano
s’avvicinavano alla loro meta,
notando in lontananza le case vuote e i piccoli paesotti deserti, che
si
diradavano e lentamente sparivano in rovine diroccate e non dai colpi
di
cannone.
Sembrava
… gli edifici sembravano quasi smantellati.
“Cristo
Santo …! Cos’hanno fatto qui?”, udiva
mormorare Mercurio i
suoi uomini, basiti. “Ch’è
successo?”
E se
ciò li aveva turbati, nulla allora avrebbe potuti
adeguatamente prepararli allo spettacolo offertogli una volta giunti a
Treviso.
Di essa
Mercurio possedeva vaghi ricordi, essendoci passato brevemente
ai tempi di Fornovo, eppure era sicuro di non aver sbagliato luogo,
ché Treviso
se la sovveniva circondata da mura medievali dette a secco, alte e
snelle e
munite di molte torri da cui si accedeva tramite dodici porte. Otto
ampi e
popolosi borghi si diramavano da esse, brulicanti di case, negozi,
chiese e
monasteri, costringendo il perimetro del cuore cittadino
all’antico e
sovraffollato Cardo Maximus d’epoca romana, intricatosi nel
corso dei secoli in
uno sconclusionato dedalo di strade e abitazioni una sopra
l’altra, da cui
svettavano i campanili delle numerosissime chiese.
Invece,
agli occhi sconcertati degli stradioti le mura cittadine
si presentavano assai ridotte in altezza, costruite a terrapieno e
rivestite da
una spessa muraglia in laterizio e decorate a due terzi
dell’altezza da un
cordolo di pietra d’Istria, controventate da spalti esterni e
spianate dal
raggio di circa un miglio (pari al tiro delle più grosse
artiglierie) che aveva
comportato la demolizione integrale di quei borghi extra moenia, di
loro
rimasto qualche sparuto scheletro annerito dal fumo e non ancora
interamente
smantellato. Le porte, appurò il greco-albanese contandole
freneticamente,
s’erano ridotte almeno da quanto vedeva a due,
dimodoché Treviso apparisse coi
suoi tozzi bastioni più larga, massiccia, minacciosa e
impenetrabile, protetta
dalla Botteniga e dal Sile, spalti, fosse e cunette. Agli assedianti
non s’era
lasciato un angolo dove ripararsi né per accamparsi o
posizionare in tutta
tranquillità i cannoni. Mercurio aveva adocchiato un
monastero, tuttavia troppo
vicino alla porta cittadina da non sospettare che fosse tenuto
sottotiro.
Costantemente
sotto tiro. E pensare che ancora erano incomplete!
Quale fortezza avrebbe partorito Treviso, ad opera compiuta?
Un
brivido freddo percorse la schiena del capitano di ventura, le
budella attorcigliate da un oscuro presagio già di suo
fomentato dal malaugurio
invocato su di lui dal giovane Miani; il fango, poi, che gli zoccoli
dei
cavalli sollevavano scalpitando non lo rassicurò, semmai
esacerbò la sua
convinzione che, forse, avevano sottovalutato la determinazione del
nemico,
novello Sansone [1].
“Cosa
senti?”, volle il Bua l’opinione
dell’altro comandante, il
quale studiava anch’egli apprensivo l’imponente
silhouette delle mura stagliatesi
ancor più scure in controluce, il vessillo dorato di San
Marco intrecciato a
quello cittadino di Treviso, a croce d'argento accantonata in capo da
due
stelle di otto raggi, su sfondo rosso.
Mercurio
diede ordine di tenersi ben distante, così da rimanere
fuori dal raggio dei cannoni.
“Niente”,
gli rispose Leka Busicchio, umettandosi nervosamente le
labbra d’un tratto divenute secche. “Non odo
assolutamente niente.”
Il
capitano di ventura si morse l’interno della guancia.
“Appunto,
è troppo silenzioso qui … Dove sono le
sentinelle? Dove sono tutti?”
“Sul
fronte sud, come avevamo previsto!”
L’uomo
scosse il capo. “D’accordo, ma il provveditore
Gradenigo
non può aver lasciato sguarnito completamente il
lato nord.
Non avrebbe senso …”
Nessun
rumore infrangeva l’aria frizzante di fine estate, se non
il vento sverzante che aveva sostituito la pioggia mattutina e che
ingrossava
capricciosamente gli stendardi. Dalla compatta cinta muraria non
s’udiva né
vociare di soldati né i cigolii delle ruote dei cannoni e
dei carri, men che
meno lo scalpiccio dei cavalli e i loro nitriti.
Nulla, un
silenzio mortale, come se Treviso stesse emulando le
limitrofe montagne.
“Sarà
meglio portarci a quel monastero e avvicinarci a Porta Santi
Quaranta”, suggerì Leka al conterraneo, facendo al
contempo cenno alla sua
compagnia di muoversi. “Restiamo comunque sotto tiro
… Se solo riuscissi a
capire quante cannoniere hanno …”
“Ritorniamo
all’accampamento”, l’interruppe Mercurio.
“Qui non
finisce bene.”
“Ma
come?”, protestò Leka. “Dopo
l’intera cavalcata fin qua, te ne
vuoi andare così, senza aver concluso nulla?”
“Abbiamo
comunque ottenuto informazioni sulla struttura difensiva
di Treviso, che possiamo riferire a La Palice una volta ritornato da
Vicenza!”,
ribatté altrettanto adirato il Bua. “Pensi che
abbandonerei così su due piedi
un’impresa senz’alcun valido motivo?”
“Possiamo
spingerci più ad est, verso …”
All’inizio
pensarono trattarsi dell’ennesimo sibilo di vento,
sennonché le loro orecchie oramai smaliziate a tali rumori
riconobbero quel
fischio e impallidirono all’improvvisa comparsa di una
ballotta di quasi 2 palmi, lanciata chissà dove ché non un filo di
fumo si librava dalle cannoniere.
L’effetto
rimase comunque devastante e non trovando la palla alcun
ostacolo dinanzi a sé, essa viaggiò ancora
più lontano e veloce, falciando e
disperdendo la colonna di stradioti che ancora non s’era
allontanata dal suo
raggio.
Quale,
però?
“Ripiegate!
Ripiegate!”
Una
seconda palla di cannone, subito seguita da una
terza li colpirono nuovamente con inquietante
precisione, seguendone
i passi alla stregua di un’ombra mortifera.
Dove? Da
dove stavano facendo fuoco?
***
Il
cucchiaio cadde di mano ad Etienne de Toulouse e con lui ai
suoi compagni, impegnati a terminare il pasto offertogli dai loro poco
rassicuranti anfitrioni i quali, bisogna però dire, pur
avendoli tenuti sotto
strettissima sorveglianza non avevano in alcun modo attentato alla loro
persona,
sicché il tolosano e gli altri suoi compatrioti avevano
potuto riposare qualche
oretta e perfino godersi il primo vero pasto decente dopo settimane di
cibo
immangiabile.
Il rombo
dei cannoni ruppe tuttavia quella fragile bolla di
tranquillità e i soldati francesi si guardarono allarmati
l’un l’altro,
incapaci di comprendere quanto stesse accadendo fuori dal casolare.
Potevano
immaginare, sicuro, ma il timore della conferma li impediva
d’interrogare
quella sfinge dell’interprete.
La
novità giunse loro ugualmente nella furibonda persona di
Michele da Brisighella, avanzante verso di loro con la daga sguainata e
occhi
iniettati di sangue.
“Cani
fottuti!”, inveì loro contro e fendette
l’aria con la lama,
al che i francesi balzarono in piedi onde usare le dozzinali sedie a
guisa di
scudo, maledicendo la perquisizione del giorno addietro e il
consecutivo
sequestro dalle loro armi. “Così rispettate i
patti? Parlamentare per voi
corrisponde ad attaccare alle spalle? Vili canaglie!”
A nulla
valeva la presenza dell’interprete, ché Etienne
pur non
comprendendo la lingua dai gesti violenti e collerici di Michele aveva
ben
afferrato la gravità della situazione sua e dei compagni;
ciononostante,
confidando nella sua effettiva innocenza, tentò ugualmente
di riportare il brisighellese
a più miti consigli:
“On
ne savait rien! Je te
le jure! On ne savait
rien de cet attaque !”, si difese, incrociando e
sciogliendo le mani onde reiterare il concetto. Richiamando alla
memoria
frammenti di parole veneziane captate di qua e di là da
prigionieri e
traduttori, il tolosano sbrodolò in affanno:
“Gnente … gnente …”
Michele
da Brisighella non si commosse. “Infame traditore
d’un
mangiarane, chi vuol sentire le tue patetiche scuse?”, e gli
cacciò un pugno
dritto al naso, spaccandoglielo, per poi avventarsi coi suoi compari
sugli
altri francesi inermi.
Fuori dal
casolare, il capitano Vitello Vitelli assisteva al tutto
dalla finestre, sorridendo compiaciuto, assai divertito dalle doti
recitative
dei suoi soldati.
Per poco,
mano sul cuore, a quel teatrino ci cascava pure lui.
***
A gran
fatica Mercurio riuscì a domare il panico vigente tra i
suoi stradioti e a costringerli a raggrupparsi così da
riparare dietro gli
scheletrici ruderi degli edifici non ancora interamente abbattuti, quel
tanto
che bastava a tirarsi fuori dalla gittata dei cannoni e decidere sul da
farsi
prima di finire impallinati alla stregua di anatre selvatiche.
L’unica
soluzione papabile comprendeva l’immediata e indiscussa
ritirata a Montebelluna; il Bua, infatti, non desiderava arrischiarsi
di
testare fino a quando i marciani avrebbero continuato a bombardare,
ignorando a
quanto ammontasse il loro approvvigionamento in fatto munizioni.
Malgrado
avesse notato come esse fossero saltuarie ma ben mirate, quasi si fosse
dato l’ordine
di non sprecare alcun colpo, ciò non corrispondeva ad una
prova concreta,
contrariamente a quanto accaduto a Castelnuovo di Quero, dove
là sì che il suo
ex-castellano aveva dovuto lesinare sull’utilizzo delle
bocche di fuoco per
ovvia penuria di ballotte e polvere da sparo. Infatti, il
greco-albanese s’era
accorto di come dalla mezzaluna di San Bartolomeo avessero cessato di
sparare,
riprendendo invece dal torrione angolo di San Marco a protezione di
Porta Santi
Quaranta, dove egli, con un’abile finta, aveva condotto i
suoi stradioti,
disorientando per qualche attimo i marciani, che avevano creduto
volersi
nascondere dietro i ruderi davanti al rivellino di Porta San Tomaso.
Piccolo
vantaggio atto solamente a riprendere fiato. Onorando il
suo soprannome – l’Occhio Destro
di Venezia – Treviso per
davvero sembrava possedere mille occhi che tutto scrutavano e
seguivano, degna
emule di Argo Panoptes [2].
A
peggiorare la già complicata situazione, il cielo
s’era oscurato
in un tremendo grigio fumo e il vento aveva cessato di flagellarli,
sicché le
ballotte viaggiano ancor meglio. Un nauseabondo odore di terra putrida
e di
fogna ammorbò l’aria dal sentore metallico e
foriero del temporale,
costringendo Mercurio a valutare una strategia di fuga adeguata onde
sfruttare
al meglio la prossima tempesta, che non giovasse solamente agli
assediati.
“Il
tiro è a raggiera”, delucidò il
capitano di ventura al suo
collega Leka Busicchio. “E la gittata è ad occhio
e croce di mezzo miglio
abbondante, se non oltre. Bisogna ritirarsi retrocedendo, solo
così la
scamperemo, oramai non ci è più possibile
riprendere la medesima via da cui
siamo arrivati. Ci stanno costringendo verso il Montello, là
dove ci attendono
quelle bestie feroci dei loro contadini. Porco Giuda
maledetto!”, imprecò
frustrato, digrignando i denti ed espirando rabbioso. “Ti
giuro, Leka, che se
quella troia rotto-in-culo-suggia-cazzi di Giovanni Gonzaga non ci ha
rifornito
di quanti più cannoni possibili, mi aggrego alla spedizione
a Vicenza per il
mero gusto di fotterlo a fondo col sabbione, finché non
diventa femmina!”
Busicchio
non lo mise in discussione per un istante, convenendo
quanto Mercurio fosse capacissimo d’attuare quella colorita
minaccia. Chi si
scordava più della sua furibonda e sfacciata ramanzina
propinata allo
sbigottito Imperatore?
“Al
maresciallo cosa diremo?”
“Che
quel gran furbo del provveditore Gradenigo ci ha ben fregati.
Ora, voi tutti”, intimò ai suoi uomini,
“dopo questa ballotta, spronate i
cavalli in direzione di …”, ma un fischio acuto e
stridulo lo interruppe
bruscamente, centrando appieno le rovine del monastero dietro cui
s’erano
riparati, il quale crollò in un gran boato, polvere e
schizzi di acqua melmosa
ovunque, annebbiando loro visuale.
“Hanno
cannoniere alla base dei torrioni?”, proruppe Leka a gran
voce, trillandogli le orecchie dal riverbero del botto infernale,
impedendogli
di udire un altro fragore, stavolta meno meccanico però
altrettanto mortale.
Grida di
battaglia.
Diradatasi
quella nebbia artificiale di polvere, fumo e fango, per
un attimo Mercurio giurò d’aver scorto Porta Santi
Quaranta aprirsi,
approfittando della confusione generata dall’ultimo sparo;
forse un miraggio,
non reale come invece era la colonna di cavalleggeri che li stavano
caricando
simil mandria di tori imbizzarriti. A capo di essi,
il greco-albanese individuò Teodoro
Clada e Giovanni Paleologo, affiancati da altri cavalieri marciani.
“Ritirata!
Ritirata!”, gridò il capitano Busicchio,
confidando nei
pronti riflessi della sua compagnia e nella lontananza del nemico.
“In
formazione, invece!”, ruggì Mercurio il
contrordine,
replicando aspro all’occhiata interdetta del collega.
“Non ho mai voltato le
spalle al nemico; perdio, non incomincerò certo da oggi, men
che meno davanti
ad un Paleologo!”, e a quel nome sputò per terra
pien di
disprezzo. “Se oggi il destino ha disposto
che finisca all’inferno,
quant’è vero Iddio quegli scalzacani seguiranno
meco!” Impugnò forte la
zagaglia e sistemata bene la targa, incoraggiò i compagni:
“Avanti! Il peggior
biasimo è quello della nostra gente! San Giorgio! San
Giorgio!”
Gli
stradioti ulularono la loro approvazione - San
Giorgio! San Giorgio! - e in
breve da fuggitivi si
trasformarono in avversari, venendo incontro ai loro parenti
altrettanto
bramosi di battaglia, il dente avvelenato per quel che ambedue le
fazioni
consideravano un reciproco tradimento: all’inizio di quel
sanguinoso conflitto,
i medesimi stradioti avevano tentennato durante gli scontri, consci di
fronteggiare i propri famigliari e non avendo cuore di ucciderli se non
costretti, ad ogni occasione avevano preferito catturare e i disarmare
i
compatrioti. Mercurio stesso più volte aveva contattato i
parenti e antichi
colleghi nella speranza di portarli dalla parte dei Collegati, talora
riuscendoci talora ricevendo secche repliche di rifiuto. Adesso
però, trascorsi
due anni, gli stradioti alle parentele curavano di meno, badando a
conservare
la condotta e soprattutto le proprietà e i privilegi
assegnati alle rispettive
famiglie a Venezia a seguito della progressiva
diaspora dalle loro
terre assoggettate dai turchi. Se in passato, infatti, solo i
condottieri
salpavano per tentar la sorte in guerra e ritornavano dalle famiglie
col
compenso, ora anch’esse seguivano i loro uomini, chiedendo
questi profughi di
conseguenza speciali concessioni alla Serenissima, la quale tanto
generosamente
gliele elargiva e tanto rapida sapeva toglierle se di loro
insoddisfatta.
L’impatto
tra i due contendenti rimbombò col fragore di un tuono,
forse non avendo confidato gli stradioti marciani in un simil disperato
gesto
da parte di quelli franco-imperiali, supponendo al contrario di doverli
rincorrere più che affrontare.
Nondimeno,
il loro intontimento durò un fuggevole istante e
caricarono feroci onde rompere la formazione avversaria e disperderli;
in
particolare, si premuravano di disarcionarli, un po’ come
nelle giostre, al che
d’afferrare le redini dei cavalli rimasti senza padrone e
legare gli appiedati
con un laqueus.
A
Mercurio parve allora evidente come il loro obiettivo primario
fosse la maggior acquisizione di prigionieri e siccome gli stradioti
marciani
pressavano nella sua direzione, capì trovarsi egli il primo
in lista.
Un moto
d’incontrollata stizza gli scosse le membra –
maledetto,
maledetto Gradenigo! Lo aveva aspettato, l’intera sceneggiata
delle
negoziazioni un mero pretesto per attirarlo in quella trappola
appositamente
preparata per lui, memore ancora della sua natura temeraria e
opportunista
malgrado i quattordici anni trascorsi dall’ultima volta in
cui avevano
combattuto assieme. Il provveditore sapeva che il Bua non si sarebbe
lasciato
scappare quella ghiotta occasione e ogni parola, perfino il lapsus,
riferita
dal trombetta era stato un accurato studio d’inganno.
Un’isterica
risata sfuggì dalla bocca contratta del capitano:
ironicamente, si sentiva lusingato da tanta premura, dimostrando come,
tra
tutti i comandanti nemici, Gradenigo avesse gran fretta di metterlo
quanto
prima fuorigioco, reputandolo il più pericoloso. E il
bastardo aveva
perfettamente ragione, poiché la sua cattura non sarebbe
corrisposta ad un
affare indolore.
Stringendo
la zagaglia, Mercurio spronò il cavallo e puntò
con
precisione contro il cavaliere marciano che gli stava venendo addosso
– povero
sciocco, che credeva d’ottenere? Il
capitano di ventura neanche gli
concesse tempo d’accorgersi del suo arrivo, che gli
lanciò la zagaglia contro
con gran possanza, colpendo in pieno la targa e spaventato di
conseguenza il
cavallo, che nitrendo acutamente inciampò e si
piegò in avanti, cosicché il suo
cavaliere si ritrovò da esso sbalzato e rotolante nel fango.
Non pago di quella
vittoria, tali cortesie lasciamole alle giostre, il Bua
agguantò una zagaglia
rimasta conficcata per terra e l’alzò per colpire
il veneziano, il quale si
rimetteva in piedi con grandi difficoltà, barcollando e
molto probabilmente
frastornato dalla caduta, con la melma fin quasi alle ginocchia.
Avvertita
la presenza dello stradiota, il cavaliere evitò
l’affondo gettandosi prontamente fuori dal tiro
dell’avversario; risvegliatosi
dal torpore iniziale grazie allo scorrere impazzito
dell’adrenalina , estrasse
la spada e impavido attese che il Bua lo caricasse di nuovo.
Bravo, pensò perfido Mercurio, stattene
lì
fermo ad attendere la morte! E si preparò
a impironarlo, sennonché in
un lampo egli non solo si vide disarmato, ma gli venne frantumata anche
la
targa da una lancia.
Per puro
miracolo e per la saldezza della sua montatura Mercurio
riuscì a rimanere sul suo cavallo, assorbendo
l’impatto abbastanza da rimanere
in equilibrio e allontanarsi dal suo nuovo avversario, dimentico di
quel
fortunello cui era stato concesso di vivere ancora qualche giorno.
Sguainando
la spada e disfacendosi dello scudo oramai inutile, il capitano
girò il cavallo,
pronto alla pugna e similmente lo era il suo avversario, la cui
tracotanza fu
tale, da impirare la lancia per terra ed estrarre a sua volta la sua
lama.
Incerto
se congratularsi per il coraggio o sfotterlo per la sua
sventatezza, Mercurio si concesse un breve istante per studiare quel
pazzo
sconsiderato davanti a sé, non trovando in lui
alcunché di minaccioso o
misterioso,un anonimo cavalleggero in groppa ad un corsiero bianco
latte che
mordeva impaziente il freno.
Peggio
per lui.
I due
cavalieri si curvarono sul dorso dei rispettivi cavalli e
corsero ad incontrarsi. Mercurio levò la spada per colpire
alla spalla
l’avversario, ma l’agile corsiero di
quest’ultimo si drizzò sulle zampe e gli
volteggiò davanti in maniera così imprevista che
il veneziano riuscì a
strisciare la punta della lama sul corsaletto del greco-albanese, che
dovette
rinculare in fretta, stupito da tanta rapidità.
E sempre
improvvisamente, il cavaliere si spinse di colpo quasi ad
abbracciare il condottiere, che tentò per difendersi di
calargli un fendente
sul capo, subito però bloccato dal nemico, conseguendone in
una prova di forza
tra i due, chi possedeva maggior vigore nel braccio da non solo
sciogliere il
nodo di lame ma anche di spingere i lati affilati contro il viso e la
spalla dell’altro.
Di primo
acchito risultava Mercurio il vincitore di quella
contesa, imprimendo una forza tremenda e costringendo il veneziano ad
arcuare
la schiena all’indietro, sopraffatto. Sennonché,
raggiunto il punto di massima
tensione, ecco che questi scattò in avanti come una fionda,
elargendo una
poderosa testata al Bua, che, sia a causa dello stordimento che della
furia
cieca, di rimando colpì il cavaliere talmente forte da
levargli la spada parata
a difesa con un riverbero doloroso, al punto che il veneziano
cacciò un mugolo
di dolore. Allorché il greco-albanese s’accinse ad
un secondo fendente, l’altro
si piegò all’ultimo, estraendo dalla fusciacca un
qualcosa di sottile e
luccicante.
Ad urlare
fu dunque il turno di Mercurio, i nervi impazziti che
gli offuscavano la vista e gli facevano fischiare le orecchie. Quando
credette
di poter riaprire gli occhi appurò con orrore il sangue
scorrere grasso e
languido lungo il lato scoperto della sua coscia, tratto dai mortiferi
pugnali
berberi giunti a Venezia assieme ai vari carichi di merci e schiavi. Si
diceva
fossero così leggeri e sottili da poterli infilare nelle
maniche più strette,
risultando al contempo talmente affilati da provocare la morte con
estrema
rattezza.
Di
riflesso il Bua si pose una mano sulla ferita, con l’altra
stringendo la spada, ostinato a combattere. Il cavaliere veneziano,
invece,
serbava per lui altri progetti e giostrò il cavallo in modo
da fargli perdere
l’equilibrio e non soddisfatto, con lo scudo lo
colpì dritto in faccia al che
il capitano di ventura ruzzolò per terra dentro una pingue
pozza di fango,
sconfitto. Nella caduta a faccia ingiù Mercurio
ingoiò suo malgrado acqua e
fango, tappandoli bocca e nari al punto che si sentiva soffocare,
impantanato
nella terra acquitrinosa che subito lo abbrancava avida.
Il
cavaliere veneziano, appurata la vittoria, staccò allora dal
terreno fangoso la sua lancia e la conficcò appena appena
sulla spalla del
condottiero, non tanto da ucciderlo né ferirlo gravemente,
giusto per levarsi
la soddisfazione di torturarlo un po’. Ché quando,
sceso da cavallo e infilata
la spada di Mercurio nella propria fodera vuota, il cavaliere
alzò la celata,
l’uomo s’imbatté in un paio di occhi
nerissimi, che mai in vita sua avrebbe
scordato.
Destino
beffardo, invero! Aveva promesso ad Hironimo di portargli
prigioniero il fratello e invece da questi era stato battuto! Quella
peste
bubbonica per davvero gli aveva appiccato contro la malasorte!
“Et
cussì, sistu un Miani? E qual? El Strùpio
(storpio, ndr.)?”,
rise il greco-albanese, sperando così di provocarlo ad
uccidere, ché Mercurio
non aveva intenzione di lasciarsi prendere, no, non da vivo! Anche se
non
avesse mai più potuto riabbracciare la sua Caterina e la
piccola Marietta,
almeno loro avrebbero appreso della sua morte onorevole, con la spada
in mano,
piuttosto di vederlo arrivare a Venezia in catene. “Scommetto
che mi vuoi
catturare, per chiedere uno scambio e così liberare tuo
fratello. Ti manca,
nevvero? Vuoi sapere come sta”,
infierì malevolo. “Tranquillo, il
tuo caro piccolo Hironimo è tratto col massimo rispetto.
Certo, mi scalda il
letto ogni notte, dovresti vedere come piange quando lo monto da
dietro: sembra
una fanciulla alla sua prima notte di nozze …” e
attese la sfuriata.
Ne rimase
deluso: il Miani era invece rimasto in strano silenzio,
piegando la bocca in una smorfia inquietante e sempre senza proferire
parola
avanzò verso di lui. E una volta che l’ebbe sotto
di sé, col piede gli premette
sulla coscia ferita mentre in sincronia perfetta rigirava la punta
della lancia
conficcata nella sua spalla, al che Mercurio credette
d’impazzire dal dolore,
finché il corpo ad esso cedette ed egli non seppe
più nulla. Il veneziano solo
allora cessò di tormentarlo e allungò un braccio
per ghermirlo, quand’ecco che
alle sue spalle lo stesso cavaliere che il Bua aveva disarcionato gli
gridò:
“Sier
Marco, sté zoso!” e lo scatto del meccanismo della
balestra
fendette l’aria, impiantandosi nel collo dello stradiota che
stava per
decollare il Miani alle spalle. La sua morte comperò tempo
ad un secondo
stradiota che approfittando della confusione caricò il
veneziano, il quale
riparò in fretta e furia balzando in groppa al suo corsiero,
perdendo tuttavia
Mercurio, prontamente issato da Leka Busicchio che spronò il
proprio cavallo
alla stregua d’un ciuco, galoppando via rapidissimo.
“Ritirata!
Ritirata!”
Dal
dispetto, Marco Miani degolò lo stradiota
dinanzi a
sé, battendo gli speroni sui fianchi di Eòo onde
tallonare quel maledetto e
ripigliarselo; purtroppo neppure la nobile bestia riuscì
nell’impresa. Certo, i
marciani inseguirono fin quasi alle pendici del Montello i nemici
sconfitti,
catturando ulteriori uomini e cavalli, ma la preda che il patrizio
voleva già
aveva spiccato il volo, svanendogli da sotto il naso anche a causa del
violento
temporale scatenatosi e della fitta pioggia che gli ostacolava la
visuale e
rallentava Eòo a furia di rimpinguare il terreno oramai
saturo.
“Sier
Marco”, lo richiamò Giovanni Paleologo, fermandosi
dinanzi
l’entrata della selva, “dobbiamo rientrare a
Treviso. Che siano i contadini lì
nascosti a finirli!”
Un’implosione
di collera bruciò nel petto di Marco, il quale
aprì
la bocca in un ruggito nato muto, maledicendo il Bua, i
franco-imperiali e
tutta quella razza bastarda d’invasori, le dita strette
convulsamente all’elsa
della spada vinta a Mercurio, che a sua volta l’aveva
sottratta ad Hironimo,
conservandola come trofeo.
“Radunate
i vostri uomini assieme ai cavalli e i prigionieri
catturati”, istruì egli il Paleologo, lanciando
un’ultima occhiata alla fitta
vegetazione boschiva: volesse il Cielo che quei dannati
s’imbattessero nei
contadini, finendo impiccati a testa ingiù come fagiani!
Sotto
alle mura di Treviso, Marco individuò ed afferrò
il vessillo
della compagnia di Mercurio Bua: alla festa della Madonna fra tre
giorni,
l’avrebbe offerto all’altare della Patrona, nella
speranza che gli desse forza
e consiglio, che la disperazione e l’ansia per la sorte del
suo Momolo non li
straziassero più l’anima.
Avrebbe
trovato il modo di liberare il suo fratellino, Iddio gli
era testimone che l’avrebbe trovato, a qualsiasi costo!
***
Sier Zuam
Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri e Vitello
Vitelli entrarono ieratici e solenni nel casolare, le espressioni gravi
e
rammaricate dirette ai prigionieri francesi lì legati e dai
visi gonfi di
botte, tenuti al guinzaglio da un sornione Michele da Brisighella.
“E
cussì xélo questo el modo de parlamentar
d’i Franzosi? Atacar
drio le spale? Tanto ve rempite ea bocha de parolle chome honor,
vertù,
cavalaria, et tuto quel che volé, ma a la fine, vuj seti
‘na banda de can
sassini, viliachi et pure onti e straonti.” (unti e straunti,
ndr.)
“C’est
ainsi que vous les Français …”,
iniziò a tradurre
l’interprete, sennonché Etienne de Toulouse lo
interruppe, protestando la sua
estraneità all’attacco appena avvenuto.
Purtroppo
per lui, le orecchie del provveditore non erano ben
disposte a sorbirsi ulteriore francese, intimandogli di zittirsi con un
secco
gesto.
“Grazie
a Domine Iddio e alla Vergine Maria, Treviso si conserva
intatta a San Marco: in caso contrario, le vostre sarebbero state le
prime
teste a cadere!”
I soldati
francesi deglutirono alla mimica perfetta del
provveditore.
“Ora
ascoltatemi bene” e s’avvicinò ad
Etienne de Toulouse,
annodandogli al collo a mo’ di fazzoletto lo stendardo
insanguinato dei gigli
di Francia, “uno di voi ritornerà
all’accampamento di Montebelluna e riferirà
al vostro maresciallo monsignor de la Palice, che se vuole venire qui a
Treviso, faccia pure, noialtri non aspettiamo altro. In aggiunta, se
vorrà
indietro i suoi uomini, monsignore dovrà sborsare doppia
taglia per
il suo inganno. In questo modo, imparerà a suo danno che con
la Signoria non si
scherza.”
Al cenno
del suo capitano, Michele da Brisighella sciolse i nodi
che legavano Etienne dai suoi compagni ed ignorando i disperati
richiami di
essi, lo spinse via dal casolare.
“E
voialtri”, ringhiò minaccioso Gradenigo,
“considerate la vostra
vita ostaggio della Signoria: pregate la Vergine acciocché
il vostro
maresciallo s’astenga da altre monade (cazzate, ndr.),
perché vi riavrà
indietro, sicuro, ma un pezzettino alla volta!”
Detto
questo sier Zuam Paulo uscì seguito dai capitani, beandosi
della vista, mentre s’avvicinava a galoppo a Treviso, della
fila di prigionieri
e cavalli condotti all’interno della città. Un
quarto dell’intera compagnia del
capitano di ventura greoco-albanese - non male come
risultato.
“Il
Bua non c’è”, commentò deluso
Renzo di Ceri, storcendo la
bocca. “Su questo punto abbiamo fallito.”
Vitello
Vitelli sospirò profondamente. “Bisognava tener
conto
anche di questa possibilità. I suoi l’avranno
difeso strenuamente, pur
d’evitargli la cattura!”
“Per
quanto sia frustrante, qualcosa abbiamo ottenuto”,
ribatté
Gradenigo e all’occhiata inquisitiva degli altri due,
spiegò: “Oggi abbiamo
inculcato al terribile Mercurio Bua del sano e mai abbastanza timor
di
Dio. Non oserà più questi
colpi, non con noi, non qui a Treviso,
poiché sa che sotto le nostre mura l’attende solo
la morte. E senza i suoi
slanci arditi e imprevedibili, La Palice non potrà
più - tatticamente parlando
- sorprenderci.”
***
Mentre i
suoi comandanti discutevano le prossime mosse e
valutavano il bilancio della giornata, acciocché al Senato
arrivasse il miglior
rapporto, a Treviso si respirava aria di festa: la vittoria sui
franco-imperiali aveva disteso il clima di tensione e attesa,
ringalluzzendo i
suoi difensori e la certezza di scacciare gli invasori in via
definitiva dalla
Marca non appariva più un miraggio. Terminate di scrivere le
lettere e
inviatele a Venezia, anche i magistrati e funzionari palatini
finalmente
poterono tirare un lungo sospiro di sollievo e sier Lunardo Zustignan
commentò
malizioso tra i vari brindisi celebrativi come il suo collega sier Zuam
Paulo
Gradenigo fosse corso fin troppo speditamente dalla moglie; lode al suo
intuito, ché madona Maria Malipiero Gradenigo sul serio
l’aspettava impaziente,
pronta a ricevere il marito onde coccolarselo ben bene, con tutti i
crismi.
Gli
stradioti di Teodoro Clada e Giovanni Paleologo in particolare
vennero sommamente laudati e accarezzati, felici d’essere al
centro
dell’attenzione e descrivendo in un misto tra greco e
veneziano la battaglia
agli avidi ascoltatori, ovviamente infarcendo i dettagli in modo
d’apparire
ancor più valenti. Fissato su di una picca l’elmo
di Mercurio Bua, lo esibivano
orgogliosi alla folla euforica e stupefatta.
Anche i
bombardieri ovviamente avevano da dire la loro, specie i
più giovani e celibi che mimavano alle impressionate ragazze
ogni dettaglio
dell’impallinamento del nemico, sperando d’ottenere
sul momento almeno una
carezza o un bacio a mo’ di complimento, se altro era troppo
domandare.
Ad un
certo punto, e col beneplacito del podestà sier Andrea
Donado “dalle Rose”, ad ogni piazza si radunava
gente a festeggiare, ballando e
bevendo di buon animo (vino rigorosamente assai annacquato), cogli
stradioti
che animavano la festa con le loro danze vorticose, le braccia tese
come ali
d’uccello e schioccando le dita roteavano in cerchi sempre
più stretti. Per
rendere il tutto più difficile e spettacolare, si ruppe
qualche boccale e il
ballerino, con in testa a sua volta una piccola brocca, evitava
agilmente i
cocci pur non alterando alcun passo di quel ballo accompagnato dal
battito di
mani dei suoi compagni e le vivaci melodie delle loro terre lontane.
Nella
casa dei Cimavin vigeva simile clima festoso, in particolare
il ritorno di sier Marco Miani e sier Marco Contarini; immediatamente,
i due
uomini vennero acciuffati dalle donne e costretti al bagno, non
gradendo le
delicate nari femminili l’odore di sangue, terra e sudore che
si portavano
appresso. E se Marco Miani aveva avuto la fortuna
d’appartenere esclusivamente
a madona Helena Spandolin Miani e pertanto solo lei aveva ogni
sacrosanto
diritto di spogliarlo e gestirselo a suo piacimento, ecco che invece
Marco
Contarini, reo d’esser celibe, finì nelle grinfie
delle sornione madona
Felicita e Màlgari, convenientemente sorde e cieche alle
vive proteste degli
uomini di casa.
“Hastu
proprio da nettarlo ti?”, s’oppose Donado,
assistendo
impotente al volo dei pezzi d’armatura, sciolti con
sospettosa maestria da
parte della moglie. Tale era il suo disagio, che neanche più
pretendeva di
parlar distinto in presenza del patrizio veneziano, dando a Felicita
del tu.
“Zò,
caritade christiana!”, si giustificò impunita la
giovane
donna, liberando un paonazzo Marco Contarini dall’usbergo.
“Curar i amalati
et i feriti, el gh’ha dito Nuostro Missier Domine
Jesu! E mi sun bona
cristiana.”
“Sì,
sì, ma fé attension che no te me devegni anca
santa, co tuta
sta devosion!”, e sollevando maligno il sopracciglio,
aggiunse: “Fusse stà
missier Marco un vecio scorfano [3], lo gh’avarestu
nettà uguale?”
Felicita
schioccò la lingua in dispetto. “Aria, sior
màmara!”
(babbuino, ndr.)
“A
mi?”, trillò indignato Donado.
“A
ti!”, confermò inclemente la giovane donna,
mulinando le
braccia come se stesse scacciando le galline dal pollaio.
“Aria, che gh’ho da
nettar el sier Marco, ch’el me se giassa tutto!”
Il povero
mugnaio boccheggiò simil pesce fuor d’acqua
– rimanendo
in tema di scorfani – cercando furiosamente
d’appigliarsi ad un qualsiasi
argomento per ribattere a tanta sfacciataggine, sennonché
suo padre Jacopo
Cimavin il Vecchio lo cinse per le spalle e con delicatezza lo
portò sulla
panca davanti casa, godendosi il timido sole sbucato a temporale
terminato.
“Caro el mio toxo (ragazzo, ndr.), ti no te capissi gnente
de’ femene: co xéle
in pì de do in una camara, ti no te parlamenti, ti te fuzi e
anca lesto!”
Donado,
infelice all’eventualità di tal malefico gineceo
in casa
sua, s’augurò di generare solo figli maschi. In
ogni modo quella sera, sotto le
lenzuola, ben si sarebbe adoperato a rimarcare il territorio.
“A
drèta, un fià pì a
drèta!” (destra, ndr.)
“An,
che bele spale!”
“Ah,
che forte schena!”
“Che
fianchi streti!”
“Patron,
feve vardar le vuostre bele gambe!”
“Le
vuostre cosse (cosce, ndr.) lisse!”
“La
camisia, patron! Via la camisia!”
“Per
metar l’oggio (olio, ndr.) in la macaura (livido, ndr.) a
besogna cavarla de dosso!”
“Gran
mercé? Coss’elo sto parlar da sbisào
(plebeo, ndr.)?”,
inquisirono in coro i due Cimavin, girando ambedue di scatto le teste
all’udir
quei commenti e fischi d’apprezzamento da soldataglia
infoiata. E d’accordo
dover sopportare le donne che ci scelgono, ragionò il pater
familias, ma adesso
esser pure preso d’assalto dalle vogliose vicine? Passi per
le vedove, però le
nubili? Le maritate? O tempora o
mores! “Coss’ele ste sporcarie
da
bordello?”, s’alzò bellicoso dalla
panca, pronto a difendere
l’irreprensibile mos
maiorum di casa sua.
L’arrivo
dei due patrizi non era stato un affare privato,
nossignore. Notando il loro aspetto scarmigliato e i capelli arruffati
e
sudati, le donne avevano colto l’occasione per appostarsi
alla finestra e costì
godersi lo spettacolo di un bel giovine ignudo. E ovviamente, mica si
chiudeva,
la finestra!
“Molighe
(basta, ndr.), rassa de betòneghe!” (pettegole,
ndr.), si
sbracciò indignato Donado. “No ghe xé
gnente da vardar!”
Una
valanga d’insulti sommerse padre e figlio: “Via,
via, che vuj
do seti zà maridai!” (sposati, ndr.)
“Pene perso!”
“Un
pochetto de flemma, patrona, mi saria anca védoo!”
“Varé
là, munèr, ti te sé pur vecio, bruto e
teo gh’ha fiapo!”
“A
mi?”, s’accalorò sdegnato Jacopo il
Vecchio, e levando in alto
l’avambraccio, le sfidò: “Mi lo
gh’ho pì duro di quel puto; se volé
pinciàr
(scopare, ndr.) co un vero omo, vegnite suso in camara, horra, e
vedarem, siore
patrone, se xélo o no fiapo!” e le donne gli
risero dietro ancor più forte e
pure una gli scoccò un bacio al volo. Il pater familias
allora accettò la sfida
e si mise a correre bramoso dietro la più grassottella, una
vedova il cui
sedere alto e sodo gli provocava gravi turbe esistenziali, e questa tra
grandi
sgonnellamenti stette al gioco, cinguettando ilare.
Dinanzi a
sì poco decoroso spettacolo, il povero Donado si
coprì
sconsolato la faccia con una mano e Marco Contarini, approfittando
della
confusione, agguantò un telo di lino e uscì di
corsa dalla vasca, ritirandosi
nella sicurezza di camera sua.
Soltanto
l’inaspettato arrivo del podestà sier Andrea
Donado
riportò la calma, proprio ora che Jacopo aveva ghermito la
sua vedovella
- guastafeste inopportuno!
“El
mio nezzo, xélo in caxa?”
“Siorsì!”,
esclamò esasperato Donado. “Et Lustrissimo,
Zelenza, de
bona grassia, tolévelo con vu!”
Ed era
ciò che il podestà aveva ogni intenzione di fare,
fumando
infatti di dispetto a causa della disobbedienza di quel ragazzaccio:
sua
sorella, madona Alba Donado Contarini, gli aveva scritto lunghe lettere
in cui
gli raccomandava il figlio, che lo tenesse lontano dallo scontro
diretto e in
generale da ogni pericolo. E non solo quel disgraziato non si era
recato al
torrione di San Marco come ordinatogli, ma perfino s’era
accodato a sier Marco
Miani, i due fratelli da Riva e gli stradioti per la sortita fuori
dalle mura!
Non pago, pure aveva tentato d’attaccare Mercurio Bua! Se
sier Marco Miani non
l’avesse intercettato, a quest’ora altro che star
dentro una tinozza! In una
bara! E chi lo comunicava poi ad Alba? Meglio la morte, piuttosto
…
Basta,
volente o nolente, quel gaglioffo l’avrebbe seguito a casa
sua!
Poaro
illuso,
ridacchiò sorniona madona Felicita,
indicandogli la strada e mentre inviava Màlgari a stendere i
panni.
Ad
attendere la fanciulla c’era per sua somma gioia Cabriel, che
la sorprese cingendole la vita da dietro e schioccandole un sonoro
bacio sulla
nuca.
“E
jo? No te me netti? Mi gero al bastion de San Bortolo, no
sastu? Varda, chome sun’onto!”, scherzò,
mostrando il viso effettivamente
brunito dal fumo della polvere da sparo.
Imbevendo
un panno d’acqua, Màlgari gli ripulì
via la sporcizia,
approfittandone anche per accarezzargli le guance. “Co te
parli col sior mio
pare et co el dise che sì, che podemo darghece ea man
(sposarci, ndr.), caro
ti, vedaré chome te lavo tuto …”, e
arricciò la boccuccia scaltramente
civettuola.
Cabriel,
sentendosi audace, la trascinò a sé e
l’accomodò sulle
sue ginocchia. “Ancha sença camisia?”
Le
piccole e forti dita curiose di Màlgari scesero rapide e
dispettose all’inguine del ragazzo, che trasalì
dalla sorpresa, per poi
imbronciarsi. “Sovratuto sença la
camisia”, gli soffiò sulle labbra,
baciandoselo con gusto.
D’umor
totalmente opposto invece sguazzava sier Marco Miani, che
sua moglie madona Helena Spandolin Miani trovò seduto su di
una sedia a fissar
il vuoto, ancora vestito di tutto punto e la spada del fratello ben
stretta tra
le mani. Appena appena quest’ultime e il viso si era pulito,
forse per
nascondere il rossore dei suoi occhi.
“Méli
mou”, s’inginocchiò la giovane donna
davanti al marito,
scorrendo la mano sui folti ricci sudati.
“Lo
avevo in pugno”, mormorò roco Marco in greco, i
muscoli
facciali contratti. “Lo avevo in pugno e mi è
scappato. Tutti gli sforzi di
sier Zuam Paulo, tutto … tutto inutile. Quel tanghero
è ancora in circolazione
e … e Momolo ancora suo prigioniero”,
abbassò il capo contrito ed espirò
affranto.
Rivedeva
ogni istante, scena per scena, l’intera battaglia
dall’apertura di Porta Santi Quaranta alla carica contro il
nemico; di come
Mercurio Bua aveva disarcionato Marco Contarini e di come,
contrariamente ad
ogni buon senso, invece di catturarlo lo stava per impirare.
Ricordò il
salvataggio dell’amico d’Hironimo, del suo
personale duello brutale col Bua e
soprattutto del salvifico intervento del pugnale berbero, un dono di
nozze da
parte del cugino Andrea Morexini.
Notando
lo sguardo perso di Marco, Helena si pose con
determinazione in piedi e, tolta di mano la spada dal marito, lo
costrinse ad
imitarla, armeggiando a levargli l’armatura. “Io la
guerra la conosco solo
tramite mio padre e mio fratello", esordì,
alludendo al cavaliere Dimitri
Spandolin e suo figlio Giorgio. “E
similmente ad essa, conosco
Merkourious Buas Spatas solo tramite i loro racconti e quelli di sua
moglie
Aikaterinī e ti assicuro che egli è molte cose, troppe cose,
ma non uno stolto
inutilmente sanguinario. Hieronymos è troppo prezioso per i
suoi scopi, per
torcergli anche solo un capello!”
“Neanche
ti voglio ripetere ciò che m’ha
confessato!”, ritorse di
rimando Marco, imporporandosi di disgusto. “Le …
le porcherie cui lo
sottopone!”
Helena
aggrottò scettica la fronte. “E tu così
poca fiducia hai in
Hieronymos, quel terremoto di tuo fratello che quando
s’arrabbia tutta Rialto
trema? Proprio tuo fratello che partecipa di nascosto alla Guerra dei
Pugni?
Pensi sul serio che si lascerebbe” e qui la greca stessa ebbe
qualche
difficoltà a scegliere la parola, “oltraggiare da
uno come
Merkourious Buas? Se quello sprovveduto gli si dovesse anche solo
avvicinare
con intenzioni poco caste, stai sicuro che la povera Aikaterinī si
ritroverebbe vedova col marito
vivo!”
Un debole
sorriso s’increspò sulla bocca di Marco.
“Méli
mou, sotto certi aspetti, è stato meglio così: se
tu avessi
catturato Merkourious Buas, la sorte d’Hieronymos sarebbe
divenuta ancor più
oscura. La Signoria avrebbe spedito il capitano alla Torresella o alle
Novissime, sorvegliato a vista fino alla fine del conflitto, senza
accettare
alcun riscatto né scambio. E dunque? Che ne sarebbe stato
d’Hieronymos? Lo
avrebbero deportato o in Alemagna o in Francia, come successo al padre
e al fratello
di Markos. Allora sì, che non l’avresti forse mai
più rivisto. Ma, fintanto che
sta col Buas, sussiste sempre la possibilità che Hieronymos
riesca a fuggire o
che noi riusciamo a salvarlo, in particolare … ”
“…
quando si accamperanno qui per assediare Treviso”,
incominciava
a capire Marco dove la moglie stesse andando a parare.
“Mercurio non si fiderà
di lasciare Momolo a Montebelluna, lo costringerà a
seguirlo. Sarà lui
stesso a riportarcelo indietro.”
“Esatto”,
convenne Helena, trafficando cogli ultimi lacci. “E
conoscendo il provveditore generale, mentre i franco-imperiali saranno
impegnati a bombardarci, di sicuro invierà alle loro spalle
un contingente di
stradioti per far razzia del loro accampamento, rubando armi,
munizioni, cibo e
liberando i nostri soldati.”
“Mi
proporrò volontario d’affiancare i comandanti
Peleologi o
chiunque sier Zuam Paulo vorrà nominare per quella
spedizione”, decise Marco,
rincuorato da quella prospettiva e già sentendosi rifiatare,
ripromettendosi
che in quell’occasione avrebbe raggiunto il suo obiettivo.
Strinse
forte al petto l’adorata moglie, la sua colonna portante
nonostante le recenti increspature nel loro matrimonio, dovute
purtroppo al mal
consiglio dell’orgoglio e della guerra.
“Se
soltanto fossi nata uomo”, le sussurrò pieno
d’ammirazione,
inalando quel caro odore di gelsomino con cui ella si profumava le
trecce nere,
“che comandante degli stradioti saresti stata!”
“Avrei
riconquistato Costantinopoli”, stette Helena allo scherzo,
ponendo piccoli baci al giugulo del marito, vezzeggiando lieve la pelle
salata
con la punta della lingua. Sorrise compiaciuta al fremere involontario
di
Marco, all’eco del suo respiro già più
profondo e irregolare, sebbene dal modo
in cui stringeva le labbra ella intuiva come si stesse trattenendo,
forse non
reputando il momento adatto, non quando ancora sussistevano gravi
questioni da
regolare.
Beh,
oramai il crepuscolo era sceso e fra tre ore sarebbe scattato
il coprifuoco, inflessibile anche in quel clima di vittoriosa festa. A
che pro
scervellarsi, cavandosi il giusto ristoro? Ogni
giorno ha la sua croce,
si legge nei Vangeli, verità assodata e assoluta. La guerra
ci sarebbe stata
anche l’indomani, così come le lunghe discussioni
su strategie, rifornimenti,
lavori di rinforzamento della città … tutte cose
che avrebbero totalmente
assorbito suo marito, addirittura sottraendoglielo per sempre (Dio la
scampasse
da tale fato orribile!). Dunque, che non le si negassero quelle poche
ore
assieme, non quando il suo Marco era lì con lei, vivo, di
carne e sangue, i
muscoli delle forti braccia guizzanti sotto i suoi polpastrelli, pronti
all’azione e al contempo dominati in rispettosa attesa.
“Però,
che triste sorte sarebbe stata la tua”, ronronnò,
sostituendo le unghie ai polpastrelli, piano e senza fretta, che ogni
terminazione nervosa di lui la percepisse.
“La
mia?”
Helena
abbassò languida le palpebre, schiudendo appena la bocca
quel tanto da lasciar intravedere la lingua che fece scorrere
pensierosa sui
denti. Si puntellò sui piedi, cingendo il marito con un
braccio e con l’altra
disegnando strani arabeschi sul suo petto nudo.
“Sì, la tua. Se io fossi stata
maschio, non avresti potuto certo …” e
s’interruppe, scoccando un’occhiata
birbante a Marco, per poi sciogliersi via troppo in fretta per i gusti
dell’uomo, che rapido si premurò di riacchiapparla.
“Non
avrei cosa?”
“Ah,
niente!”, fece la greca con noncuranza, controllando la
temperatura dell’acqua, che ancora fosse calda.
Marco
strinse gli occhi, lasciando cadere le braccia mollemente ai
fianchi e avvicinandosele tuttavia felino, predatorio.
“Niente?”, ripeté in un
soffio, appoggiandosi a lei appena appena da dietro,
acciocché ella sentisse la
sua presenza senza però sentirsi oppressa.
“Ecco,
fossi stata uomo, non avresti di certo avuto una moglie che
ti ricorda, signore caro, come bisogna lavarsi quando si ritorna a casa
più
lercio d’un villano il giorno
dell’aratura!” , ridacchiò, per poi
lanciare un
gridolino quando, inattese, avvertì le mani di Marco
intrufolarsi abili sotto
le sue sottane, cercando, tastando e conquistando il suo premio
più ambito.
“E
io pensavo perché non avrei goduto di questa!”
“Ah,
non mi dire! Credevo …”, Helena
deglutì, mordendosi le labbra
ché tali soddisfazioni non gliele avrebbe date, non subito
almeno. “Credevo che
a … ah! … a s-sua magnificenza non …
non garbasse più …”
“Sbagliatissimo”
e con un gesto deciso Marco cessò la sua dolce
tortura, portandola delicatamente ad appoggiare la testa sulla sua
spalla e
costì baciarla tra sospiri e furtivi incontri delle loro
lingue, intanto che
l’altra mano scivolava pigra e liberava la moglie
dall’intrigo dei vestiti.
Fingendo
ritrosia, Helena provò a sciogliersi per ondulare invece
bene il sedere sull’inguine di Marco, i cui movimenti
divennero un buffo
connubio d’impazienza e voglia di gustarsi il gioco,
contraddizione che divertì
assai la moglie, che ne approfittò spudoratamente.
“Sul
serio”, si lamentò, accomiatandosi dai vari pezzi
del suo
abito scivolati uno dopo l’altro in un gran fruscio ai suoi
piedi. “L’acqua si
sfredda e … e poi unto come sei … mi sporchi, dai
…”
Marco
allora la sciolse dal suo abbraccio e tenendola per mano, la
invitò a girarsi verso di lui.
“Pazienza”, sentenziò egli, portando le
sue mani
ai fianchi di lei e abbassandosi un poco. “Vorrà
dire che ti laverò io, se ti
sporco”, la rassicurò e in un battibaleno Helena
si ritrovò issata in braccio
al marito, le gambe penzoloni sulle sue spalle.
Rise di
quella prova di forza, mentre si lasciavano ricadere sul
letto; sotto quell’aspetto il suo uomo non era cambiato dal
giovane
ventiduenne che l’aveva impalmata otto anni addietro.
“Mi
laverai come fa il gatto?”, lo pungolò
perfidamente giocosa.
“Come
fa il gatto. Anzi”, le descrisse pigramente Marco, le dita
che le scorrevano dal ginocchio lungo l’interno della coscia,
dilettandosi a
fine corsa a dar tormento alla rosea boccuccia con cui intendeva
intensamente
dialogare. “Anzi, come un grande …”,
scivolò in basso, “… grosso
…”, le sorrise
birichino, “ … pasciuto gatto
…”, leccò e baciò il palmo
della mano che Helena
gli scorse tra i capelli, suggendole le dita a guisa
d’infante, “… soddisfatto
e satollo di quella povera passerotta che s’è
ingoiato …”
Uno
sbuffo divertito fuoriuscì dal petto della donna, tuttavia
teso e fremente d’anticipazione. “Sfacciato
melenso!”, lo rimproverò falsamente
altezzosa.
Marco non
replicò, limitandosi a sorriderle carnivoro, lingua e
denti ben in mostra e con quella zazzera scarmigliata più
che ad un gatto
ricordava il leone del suo omonimo santo. Che la mojer obiettasse
quanto
volesse, una volta partito alla carica e messosi all’opera
quant’era vero che
il sole sorge ad est, l’ultima parola l’avrebbe
avuta lui.
***
“Altolà!
Chi vive?”
“Zente
in fede di San Marco!”
A
mezzogiorno dell’indomani, 6 settembre, a Porta San Tomaso si
presentarono alle sentinelle di guardia i prigionieri marciani fuggiti
da
Montebelluna, seminudi e talmente inzaccherati di fango che parevano
dei
saraceni. A guidarli c’era Vio, il più giovane
degli esploratori delle truppe
veneziane sin dai tempi della Guerra del Cadore [4], suo fratello
Bernardin da
lui liberato, nonché i due stradioti Teodoro Madalo e Nicola
Cazantachi, più
quattro cavalli rubati.
“Verzé
la porta!”
Giubilando
felici, chiaro segno della fine delle loro peripezie, i
fuggitivi entrarono di corsa dentro, prontamente accolti dai compagni
assai
contenti di rivederli.
“Teodoro!”,
esclamò uno stradiota, correndogli incontro e
abbracciandolo con foga, arruffandogli poi i capelli. “Gran
figlio di puttana …
che poi sarebbe anche mia madre. Come diavolo hai fatto?”
Spintonandolo
scherzoso, Madalo spiegò brevemente al fratello:
“Ringrazia il capitano Domenico di Modone e quello scricciolo
laggiù”, indicò
Vio che litigava paonazzo in volto col fratello a causa della sua
narrativa
boccaccesca circa la loro fuga, con tanto di mimesi esplicativa per il
gran
sollazzo dei soldati che se la ridevano alla grossa. “Quello
là ha dimostrato
di possedere un paio di coglioni che non si trovano facilmente
oggidì!”
“Et
po’ el se gh’ha alsà le cottole et
…”
“Molighe
o te squarto!”
“In
ogni modo sei libero e questo è ciò che
conta!”, disse Giorgio
Madalo, “Anche se … anche se vorrei che Zilio ti
avesse seguito …”
Teodoro
gli appoggiò fermamente una mano sulla spalla.
“Ritornerà
con noi, vedrai!”
“Oooooh
… te plé trè dur!
…”
“Argh!
Simia (scimmia, ndr.) maladeta, te me la pagharé!”
La
piccola bolla di buonumore non durò a lungo: appena saputo
dell’arrivo dei fuggitivi, essi immediatamente vennero
convocati a Palazzo dei
Trecento onde riferire al provveditore generale quanto visto e udito,
il tutto
tra un vorace boccone di gallina bollita, carote, sedano, pane e vino
saporito.
Guardandoli
ingozzarsi incuranti di chicchessia, sier Zuam Paulo
appurò quanto a corto di rifornimenti si trovassero i
franco-imperiali.
Da loro
Gradenigo apprese come La Palice fosse partito per Vicenza
per portare al campo i cannoni promessi da Giovanni Gonzaga,
giacché, malgrado
le smargiassate del governatore di Milano, la rotta di Marostica li
aveva assai
danneggiati; dell’Imperatore si disperava l’arrivo,
però si diceva che tosto
sarebbe arrivato al campo un vescovo - il nome
purtroppo non
sapevano riferirlo però suonava francese - nonché
il conte Gianfrancesco di
Gambara – quel can traidor brexiano!,
ruggirono i patrizi al
sentirlo nominare – appunto grande sostenitore di Maximilian,
da lui molto
probabilmente inviato per farne (forse) momentaneamente le veci. Il
pane
scarseggiava, era duro e nero peggio del carbone; il vino sapeva
d’aceto e si
faceva la fame, i capitani avevano ricevuto pertanto l’ordine
d’impiccare
chiunque tentasse di oltrepassare il Piave per far razzia o disertare
direttamente. I francesi e i tedeschi poco si fidavano l’un
l’altro ponendo per
sicurezza mezzo miglio di distanza tra i loro accampamenti e
ciononostante, le
baruffe e gli assalti notturni per rubare restavano
all’ordine del giorno.
“E
dil Bua?”
Ingoiando
a viva forza il boccone troppo grande, a rispondergli fu
Teodoro Madalo. “Ho visto i suoi uomini trasportarlo in
barella, ma se per
fargli il funerale o lenire la sofferenza delle ferite, non saprei
dire.”
“E
mio fratello?”, l’incalzò Marco Miani.
“L’hai visto?”
Lo
stradiota scosse il capo. “Il capitano Mercurio lo tiene nel
suo padiglione personale, segregato e isolato dagli altri prigionieri.
Da quel
che ho compreso, neanche i suoi sottoposti possono avvicinarsi a lui
né
tantomeno parlargli”, gli spiegò contrito,
dispiacendosi per la pena dell’uomo.
Sier Zuam
Paulo Gradenigo s’accarezzò il mento, cogitando a
lungo
su quanto udito. Bisognava rallentare il ritorno di La Palice a
Montebelluna,
forse distruggendo il ponte di Bassano?
E se
invece il francese avesse avuto intenzione di deviare
direttamente a Treviso, magari portando seco il Gonzaga?
Alzatosi
in piedi e ringraziati i fuggitivi, lasciandoli adesso
tranquilli a godersi il meritato pasto, l’uomo si diresse
assieme ai colleghi
verso il Ponte de Pria, là dove scorreva l’acqua
vorticosa.
“La
chiusa è davvero pronta? Così come il
partidor?”
“Siorsì”,
rispose il podestà sier Andrea Donado, desideroso di
distrarsi a seguito dell’ennesimo rifiuto del nipote di
seguirlo a casa sua,
anche dopo la sfuriata con cui l’aveva
subissato.
“Ottimo!”,
asserì entusiasta il provveditore, studiando i mille
intorcolamenti dell’acqua e i giochi delle alghe.
“Ho intenzione di far deviare
il corso dell’acqua fino a un miglio da Porta San Tomaso,
così d’allagare la
campagna circostante tra detta porta fino a quella di Santi Quaranta. E
che la
si faccia scorrere per due giorni consecutivi, in tal modo la terra
s’imbomberà
e al nemico non resterà che piangere sotto le mura di
Trevixo!”
A meno
che i francesi non si fossero infatti trasformati nelle
rane da loro tanto apprezzate, sier Zuam Paulo Gradenigo dubitava
fortemente
nella loro capacità d’accamparsi o più
in generale di muoversi nell’immenso
acquitrino che Treviso si stava per trasformare.
***
Un attimo.
Un solo,
fottutissimo attimo in cui Hironimo aveva chiuso gli
occhi, stravolto dal sonno di una veglia forzata e dall’ansia
provocatagli dall’eco distante dei cannoni
(dunque invero avevano
attaccato Treviso?) ed ecco che Thomà era sparito dal suo
giaciglio di paglia e
stracci. Abituati infatti a dormire oramai uno incastrato
all’altro onde
tenersi caldi e scacciar via la fredda sensazione d’umido
alle ossa, il giovane
Miani aveva percepito a livello tattile quella scomparsa prima ancora
della sua
realizzazione logica.
Balzando
di scatto seduto, il patrizio si era messo a carponi,
scostando la tenda e aguzzando la vista alla ricerca della figuretta
del
bambino, spingendosi a gattoni fin quanto la catena attaccata al palo
glielo
permetteva e anche quando ebbe raggiunto la massima tensione egli
tentò di
proseguire oltre, stringendo i denti al dolore al collo e
all’aria mancante.
“Thomà!”,
gracchiò apprensivo, la mente che elaborava ogni sorta
di scenario, uno più orribile dell’altro sulla
sorte del piccino. Che glielo
avessero sottratto nel sonno? Che fosse morto a sua insaputa? Hironimo
a quel
punto contemplò di chiamare Zilio, il loro personale can da
guardia, onde
raccogliere maggiori informazioni, ma all’ultimo desistette:
quello scimunito
d’un energumeno manco gli portava loro da mangiare, figurarsi
se gliene importava
alcunché della loro salute.
“Thomà!”, l’appellò
in affanno. “Thomà!”
“Sssssh,
patron! Sté chieto chome un sorzetto, sennò el
gato ce
magna!”
A quelle
paroline accorte e sussurrate, il patrizio veneziano si
voltò rapidamente, tirando un gran sospiro di sollievo e
strisciando nel suo
angolino là dove Thomà lo attendeva, il lembo
inferiore della camicia levato su
a mo’ d’involto. Per il resto era grigio di fango
più d’un maiale nel suo
accogliente porcile.
“Da
dove sbuchi?”
“Da
là zoso!” e il bambino indicò la buca
che aveva scavato sotto
la tenda, approfittando del dislivello che la terra, ricolma
d’acqua non
smaltita, aveva creato. Ecco dunque spiegato il suo aspetto a dir poco
selvaggio.
Inoltre,
tirò fuori dalla paglia un osso di pollo, l’unica
carne
che avevano visto in più di una settimana e che Hironimo
l’aveva ceduta ad un
Thomà sbavante dalla fame, e che il fantolino aveva con
pazienza appuntito,
sfregandolo ironicamente sulla palla di cannone che pendeva dal collare
del
patrizio. In questo modo, sega un giorno sega l’altro e
ovviamente agevolato da
un’ottima conoscenza dei nodi, egli aveva tagliato la corda
che lo legava alla
caviglia, giacché Mercurio Bua più di tanto non
s’era curato di prevenire
un’eventuale sua fuga.
“Sei
scappato?”
“Siorsì.”
“E
tornato indietro?”
“Sior
patron, el campo xé pieno de soldai, ‘ndove voleu
che fugga?
El me van suito zaffar!” (subito acciuffare, ndr.),
giustificò Thomà la, a suo
parere, insensata obiezione del giovane Miani, la cui attenzione venne
catturata dal fagotto stretto al petto del bambino.
“Cos’è?”
“Dil
pan, patron.”
“Rubato?”
Thomà
gonfiò le guance di dispetto, fulminando il patrizio.
“El xé
pan di Samarco, sior patron”, sibilò iroso,
“sti cancari todeschi et
franzosi lo gh’han robado a
nuialtri.”
“An,
così ti sei risarcito?”, replicò aspro
Hironimo, più per la
paura di un eventuale e crudele castigo nei confronti del bambino se
beccato,
che per il furto di per sé. “No sastu, caro ti,
cosa fanno ai puti che rubano?”
Al che
Thomà, terminato d’ascoltare la ramanzina in
rancoroso
silenzio e scarlatto in volto, scattò in piedi e
alzò battagliero il mento onde
apparire più grande e minaccioso, i pugni stretti
convulsamente tra di loro e i
denti ben esposti in una smorfia ferina. “Sì,
patron, lo sciò cossa fan a li
puti che roban e anca a quei ch’i no fan gnente!
L’gh’ho ben visto mi a Feltre
co i todeschi et tajani (italiani, ndr.) [5] ce
massacravan tuti!
Saveu per dasseno cossa i fan? I
nuj fan le sporcarie, i nuj
taja a pezzi, i nuj dan in pasto a li cani! Par eli, semo
zogàtoli!”, strillò,
le vene del collo ingrossate e gli occhi sempre più umidi.
“El
mio fradelino, el no gh’avea un anno ancora, i todeschi el
gh’han ciapà per un pie di la cuna e
l’gh’han fracassà el cranio sul muro! La
mia siora mare e le mie sorele tute vergognate, anca quee menori de mi!
La
Gegia mia sorea, la gera ‘na puta de sie anni e la
gh’han trattà de putana, a
turno, ea xé morta cussì, lo stomego a tochi,
pissando sangue!”, ingollò aria,
nettandosi via stizzito le lacrime.
“Il
mio sior pare e i mii fradei brusai vivi, perhò prima i
soldai
i gh’han tajà via le récie (orecchie,
ndr.), ea napia (naso, ndr) e le man! Et
zò, co la spartidora (sega, ndr.) dil mio sior
pare!”
Dai
piccoli indizi sparsi di qua e di là nei discorsi di
Thomà, un
sempre più basito Hironimo aveva appreso come suo padre
dovesse aver esercitato
la professione di falegname.
“La
poara siora mia nonna, la gh’han taja en tochi,
perché la gera
massa vecia per i soldai! Depo’ i todeschi gh’han
ordenà a li cani: Fresstir,
fresstir! [6a] E sì, i can se
gh’han ben nutrio di le buele di la
siora mia nonna! E vuj, sior patron, me dite horra ch’el no
xé justo robar a
sti cancari el pan? TUTO LHORO I ME GH’HAN
ROBADO! Anca
l’anima, ché i me volean copar, i ridevano
– per cossa, po’? Lustiche
bube [6b], i ridevan, et i ridevan! Ah
sì?, digo
mi, voleu rider siori patroni? El todescho,
mi l’gh’ho morsegà a la
gola, tragando sangue azò crepasse mal!” e
mostrandogli le mani, proseguì
febbrilmente: “Mi sun corrotto, sior patron, cossa voleu che
sia robar co gh’ho
amazzà un omo? Gnanca in Paradiso per colpa lhoro
andrò, perché sun dannato!
Perhò”, e singhiozzò, il viso rigato di
pingui lacrime che più Thomà si
sforzava d’asciugare più copiose scendevano,
“perhò sior patron no me pento, se
podessi – oh se solum podessi! – de novo lo farave,
et tuto, tuto!, i roberei a
sti cani, sti sassini, sti baroni maladeti, i strupiaria, i strazzeria
coi
denti, i tormentaria, i faria le pèzori cosse! A Domine Idio
gh’ho dimandà:
Pare Nuostro che Vui seti in Cel, se non poté darme
l’assoluçion, se non poté
fulminar i todeschi, almancho la vendeta, de grassia, concedetemela!
Cussì moro
contento!” e nascondendo il viso tra i palmi delle mani
pianse amaramente, le
esili spalle sconquassate mentre disperati gemiti si mischiavano ai
singulti.
Un
bruciante groppo in gola impedì ad Hironimo di replicare
alcunché, serratosi a guisa d’un cappio man mano
che il bambino proseguiva
nella sua angosciosa confessione, il respiro mozzato e il labbro
inferiore
tremante similmente all’intero suo corpo, quasi
l’avesse ghermito la febbre
quartana. Senza accorgersene più volte aveva sbattuto
furiosamente le palpebre,
la vista offuscata da lacrime figlie della collera, della tristezza e
dell’orrore: a quelle infernali descrizioni la sua
immaginazione aveva
crudelmente scambiato gli sconosciuti volti della famiglia di
Thomà alla sua,
figurandosi la madre Leonora tagliata a pezzi e divorata dai cani, le
nipoti
Dionora, Crestina e la cognata Helena brutalmente stuprate fino
all’assassinio; i
suoi fratelli Lucha, Carlo e Marco, i nipotini Gasparo e Anzolo mutilati
e poi
bruciati vivi, il neonato Scipio lanciato contro il muro, imbrattandolo
con le
sue cervella. Fosse accaduta una cosa simile a lui, avesse Hironimo
assistito a
quel massacro di certo sarebbe impazzito dal dolore e sì,
sì avrebbe cercato
vendetta ad ogni costo, anche a discapito della sua vita, ma
…
…
ma niente ciò li sarebbe mai accaduto. Non a loro, nel bene
e
nel male.
Hironimo
realizzò d’un tratto quanto fosse stato fino a
quel
momento un privilegiato, un intoccabile e per di più padrone
della sua vita.
Tranne per i doveri a lui richiesti dalla Signoria, ogni sua azione e
decisione
era stato il frutto della sua volontà, di una sua scelta. E
lui aveva scelto d’abbracciare
la guerra allo mero scopo d’avanzar di carriera, di gloriarsi
d’onori, cieco
della disperazione di chi volente o nolente la subiva, di chi era
più che
sacrificabile ai “grandi scopi” dei rispettivi
governi.
Adesso
comprendeva.
Antropocentrismo
… humanitas … l’uomo libero e padrone
della sua
esistenza … cura benevola tra i propri simili …
sì, certo! Se si era patrizi,
duchi, conti, principi, re ed imperatori allora sì che tutto
ruotava attorno a
loro, sovrani indiscussi dell’universo e perfino sopra Dio!
Ma gli
altri? La gente comune?
Non erano
anche loro di carne e di sangue? Non avevano anche loro
sogni, progetti, talenti, gioie e dolori, non provavano caldo e freddo,
non
ridevano allo scherzo o piangevano all’affanno o
s’adiravano ad un torto?
Utili
numeri, utili bestie, meno del fango sotto i calzari, meno
di niente.
Quanto a
lui, egli non era altro se non un ipocrita che tanto
parlava dell’uomo, della sua dignità, della sua
anima superiore, della
solidarietà umana ma poi non muoveva un dito, malgrado il
suo status sociale di
privilegiato glielo concedesse, per attuare concretamente le nozioni
apprese e
di conseguenza portare ad un vero miglioramento, nascondendosi dietro
sterili
letture e sterili discussioni, cullato e pasciuto in quegli agi
ottenuti non
per merito suo, adoperandosi però alacremente a raddoppiarli
a scapito degli
altri.
Hironimo
provò un’infinita vergogna verso se stesso.
“Non
morirai”, mormorò mestamente, la voce
tremante. “Sempre
ti proteggerò.”
Thomà
tirò su col naso, levandosi un po’ di muco con le
dita.
“Anca l'Andrea me lo gh’avea promesso. El
xé morto lo stesso.”
“Te
lo giuro! Vivrò
per te, per
proteggerti.”
Le
braccia gli si mossero di volontà propria e prima che il
giovane Miani potesse rendersene conto, ecco che avviluppava un
recalcitrante
Thomà in un consolante abbraccio, stringendolo a
sé forte quasi a dimostrare la
serietà di quel giuramento, scostandogli la frangia dagli
occhi e asciugandogli
le lacrime coi pollici.
“La
mama!”, pigolò affranto il fantolino, arrendendosi
poco alla
volta, le mani artiglianti i lembi del camicione del patrizio.
“No la rivedrò
mai pì, patron! No scolterò mai pì la
sua vose, ni sentirò el calor di soi
abrassi, ni le soe cansoni per indormensarme. Zà la soa
fazza me la sto
desmentegando. El sior cappellan me diseva: ea stà in
Paradiso cum Domine
Jesus, perhò mi la vojo qui, gh’ho besogno
d’ela! El bone Jesu gh’ha la Madona,
la Soa Mare, perché me gh’ha da ciapar la
mia?”
Come
rispondere a tale domanda, quando quindici anni addietro
Hironimo ne aveva urlata una non tanto dissimile a Madre,
all’ennesimo suo
rifiuto di recarsi alla Messa?
Se
a questo mondo esiste un dio così egoista e crudele che ruba
ai
bambini i loro padri, io non lo voglio pregare!
“Quando
avevo più o meno la tua età, fu trovato impiccato
a Rialto
il sior mio Pare. Era morto senza ch’io potessi dirgli quanto
l’amassi. Del suo
viso, oramai, mi ricordo assai vagamente.”
Thomà
sollevò il capo, sbattendo incredulo le ciglia umide: chi
l’avrebbe mai immaginato, che l’altero e collerico
reggente di Castelnuovo
serbasse nel cuore un lutto simile al suo? Lo aveva sempre immaginato
fortunato
su di ogni fronte!
“Sparirà
mai sta doja?”, domandò flebilmente,
accoccolandosi al
petto del patrizio che non si dava noia del camicione oramai sporco di
fango e
muco, seguitando al contrario ad accarezzare piano la testa del
piccino,
cullandolo lievemente e ricambiando la timida stretta della sua manina.
Scomparire?
No, il dolore generato da quell’improvviso vuoto non
sarebbe mai scomparso, infelice ombra che per sempre
l’avrebbe accompagnato per
tutta la vita.
“Col
tempo, imparerai a conviverci.”
Thomà
lo fissò a lungo come alla ricerca d’inganno; non
trovatolo,
abbozzò ad minuscolo sorriso, una fiammella di speranza
ravvivata in
quell’oceano di disperazione.
“Se
pol disnar horra, patron?”, tentò un debole motto
di spirito,
arrossendo al gorgoglio del suo stomaco.
Hironimo
aprì la bocca per replicare, sennonché fu
interrotto da
un concitato vociare da fuori il padiglione e l’avvicinarsi
di lunghe ombre
dietro l’ingresso principale.
“Scòndete!”
“Patron!”
Ma il
giovane Miani lo spinse via, al che il bambino, dopo uno
sconclusionato girar attorno alla tenda in cerca di un posto sicuro
dove
celarsi, optò per la cesta delle camice sporche di Mercurio.
“Toh,
ecco dunque la famosa concubina del Bua!”, lo
salutò
beffardamente cortese il marchese di Busseto, Galeazzo Pallavicino,
scostando
il lenzuolo là dove si vociferava il greco-albanese
custodisse il suo
prigioniero più gelosamente del sultano con le sue amanti
nel Topkapi [7].
“Come sono caduti in basso i patrizi veneziani!”
Hironimo
gli sorrise graziosamente velenoso. “Toh, ecco il
reggipalle dei francesi!”, cinguettò.
“Come sono caduti in basso i nobili
milanesi! Come sta il signor Giulio? E suo il signor
fratello
Galeazzo? Si sta godendo il nuovo titolo di Gran Scudiero?”
“Certo,
certo, quasi mi scordavo del vostro insulso umorismo
veneziano.”
“Ah,
non vi preoccupate, magnifico messere, ho tutto il tempo per
rinfrescarvi la memoria!”
Appurando
come il dialogo stesse degenerando, il marchese di
Pizzighettone, Teodoro Trivulzio, s’intromise in quella
tenzone. “Risparmiate
le vostre battute di spirito al maresciallo La Palice: appena
sarà rientrato da
Vicenza, vi trasferiremo alla gabbia vicino al suo
padiglione.”
“Mi
spiace deludervi, signor marchese, ma io sono prigioniero di
Mercurio Bua e dubito che a quest’ultimo faccia piacere non
ritrovarmi là dove
mi ha lasciato!”
Il
marchese di Busseto lo compatì e scosse il capo, intanto che
l’altro gli si avvicinava per slegarlo dalla catena.
“Non avete appreso
l’ultima nuova? Il Bua è morto!”
Un
macigno cadde nello stomaco del giovane Miani, rizzandosigli in
allarme i capelli dietro la nuca. “Non è vero
…” Sul serio il solo desiderio di
saperlo morto aveva funzionato? Ma no, ridicolo!
“Mi
rincresce contraddirvi, ma così è!”,
confermò spiccio il
Trivulzio. “A quanto pare, il suo tanto ingegnoso piano
l’ha condotto alla
morte sotto le mura di Treviso. Di conseguenza, ogni sua avere passa
sotto la
tutela di monsignor La Palice, prigionieri compresi.”
“Puoah”,
grugnì ironico il veneziano, ripigliandosi in fretta
dallo sconcerto iniziale. “Insomma, il cadavere del Bua
è ancora caldo e voi
già siete qui a razziare il suo padiglione? Certo che avete
ben appreso le
cattive abitudini dei francesi, chapeau!”
Galeazzo
Pallavicino lo strattonò in piedi di malagrazia.
“Sono
contento che conosciate l’idioma francese”,
dichiarò a denti stretti,
imponendosi la calma e di non cedere alle provocazioni del patrizio.
“Vi
servirà egregiamente, non appena il maresciallo
avrà disposto la vostra
deportazione prima a Milano e poi in Francia …”
“…
o in Alemagna”, s’intromise una voce alle loro
spalle. “Vi
ricordo, magnifici messeri, che quest’impresa monsignor La
Palice la conduce
per conto dell’Imperatore, non del Re di Francia”,
ricordò loro il conte
Gianfrancesco di Gambara, entrando nella tenda. “Ergo, ogni
prigioniero
appartiene alla Cesarea Maestà!”
Hironimo
scoppiò all’improvviso in una fragorosa risata,
costringendo a sé gli sguardi attoniti dei tre nobili,
credendolo uscito di
senno e non avvedendosi invece di come Thomà fosse
anguillato fuori dal
padiglione in cerca di Zilio, la cui stolidità era tale che
anche da morto
avrebbe eseguito gli ordini del Bua e cioè che nessuno
s’avvicinasse al suo
prigioniero.
Continua
…
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Non mi
ricordo in quale romanzo di André Gide lo lessi,
però mi
colpì quella sua riflessione quando, a seguito dello
scampato pericolo di
morte, una coppia dalla vita amorosa pari ad un surgelato tutto
d’un colpo si
ritrovi a far maratone di gambe all’aria, stimolate appunto
dall’adrenalina e
quel senso di caducità della vita.
Beh,
grazie a Gide possiamo dunque capire il perché di tanta
euforia a Treviso. Se il Sanudo diceva che a Padova, dopo la sconfitta
dei
Collegati, c’era gente che si abbracciava e baciava, vuoi che
Treviso, famosa
per la sua vita gaudente, non fosse da meno? ;)
Inoltre,
la scena del Nostro e di Thomà per quanto breve mi ha
molto depressa, quella dell’attacco mi ha sfinita e
perciò volevo inserire
all’ultimo un qualcosa di rilassante e divertente da
scrivere. La vita
d’altronde è fatta così, Eros e
Thanatos non devono essere letti in chiave
prettamente tragica e romantica …
Comunque,
non ho esagerato riguardo all’orribile sacco di Feltre
del 1510 né alle torture che la gente indifesa
subì da parte dei Collegati.
Purtroppo ve ne saranno ancora, più in là con la
storia. E dispiace dire, ma
come il Sanudo ha anche laconicamente commentato, anche gli
“italiani” ci
misero del proprio comportandosi né più
né meno come gli stranieri.
Bene
(insomma), spero che il capitolo vi sia piaciuto. Di nuovo,
scusate per la lunghezza!
Alla
prossima,
Un
po’ di noticine:
[1] Sansone =
personaggio
biblico dall’incredibile forza risiedente nei suoi lunghi
capelli, che con
l’inganno gli furono tagliati, rendendolo facile vittima dei
suoi nemici.
Accecato e legato a due colonne, Sansone invoca Dio di concedergli la
forza per
l’ultima impresa, da qui la famosa frase: “Muoia
Sansone con tutti i Filistei”,
per indicare tutt’oggi un atteggiamento autodistruttivo pur
di prevalere sul
proprio nemico.
[2] Argo Panoptes =
Argo che
tutto vede, secondo la leggenda questo gigante sorvegliava per ordine
di Hera
la ninfa Io trasformata in mucca da Zeus, onde nasconderla dalla moglie
gelosa.
Pentitosi di averle ceduto la ninfa-ora-vacca, ma non riuscendo ad
avvicinarvisi per via degli innumerevoli occhi del gigante, ecco che
Zeus
affida ad Ermes l’ingrato compito d’accopparlo e di
ritornargli la bovina
amante. Hera, commossa dalla fedeltà del gigante,
staccherà dal cadavere di Argo
i suoi occhi e li appiccicherà sulla coda del pavone, suo
animale sacro.
[3] scorfano =
tipo di pesce,
nel linguaggio comune è anche sinonimo di persona assai
brutta e sgraziata.
[4] Guerra del Cadore =
conflitto combattutosi nel 1508, a causa dell’invasione del
Cadore da parte di
Massimiliano d’Asburgo, che con la scusa di scendere a farsi
incoronare a Roma,
ben aveva pensato di far un po’ di conquista dei territori di
confine
veneziani. Affidando il comando a Bartolomeo d’Alviano, Carlo
IV Malatesta, Rinieri
della Sassetta, Girolamo Savorgnan e pure col sostegno di Gian Giacomo
Trivulzio a capo di un contingente francese, Venezia non solo
respingerà
l’invasione, ma pure estenderà il suo dominio nel
resto Val di Grestra,
Gorizia, Cividale, Cormons, il triestino e Fiume. Immenso fu il
supporto della
popolazione cadorina alle truppe veneziane, le cui guide locali
guidarono
l’Alviano tramite la forcella Cibiana, scendendo per la Valle
di Cadore e
pertanto tagliando la strada agli Imperiali in fuga verso Cortina.
[5]
italiani =
generalmente s’intende tutti coloro
che non sono veneziani / marciani.
[6a]
Fresstir, fresstir =
storpiatura di “Fresst ihr, fresst
ihr”, ovvero “Mangiate! Mangiate”
– fressen, in tedesco è generalmente
utilizzato quando a mangiare è un animale o se applicato ad
una persona assume
allora un connotato negativo. [6b] Lustiche bube,
invece
corrisponde a “lustige Bube”, ovvero
“bambino divertente”.
[7] Topkapi =
Palazzo del
Topkapi o Serraglio del Topkapi era appunto la residenza ufficiale del
sultano
ottomano, dove si trovava anche il suo famoso harem.