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Autore: ___Page    11/02/2020    2 recensioni
Non era morto, la vivre card non lasciava spazio a dubbi. Continuava a bruciare, imperterrita, nella tasca dei suoi pantaloni ricongiunta al foglio originale, che avevano ritrovato abbandonato sull’isola dove quella macabra e snervante specie di caccia al tesoro aveva avuto inizio.
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«Cosa ci fai qui?»
Law si girò incredulo e lento, gli occhi che lanciavano schegge di ghiaccio, e si concesse un istante per studiarla con attenzione. Non l’aveva mai vista in vita propria e, sì okay, era consapevole di avere una faccia nota ma mica era una giustificazione per rivolgerglisi così.
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Avevano fatto qualcosa di avventato, avevano rischiato, se lo sentiva, glielo diceva l’istinto. Per fortuna lo spasmo allo stomaco era passato com’era venuto dopo pochi minuti, a tranquillizzarlo che la sua ciurma l’aveva scampata, almeno per il momento.
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Koala, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alla fine, era crollata. Persino per essere Laine, era molto più attiva del solito, quasi come se avesse troppa adrenalina in circolo da gestire e pur di stare con lei erano riusciti a farla mangiare lì di straforo. Un paio di altri detenuti l’avevano notata ma tutti avevano sorriso con cortesia e una qualche strana forma di distacco, per poi proseguire con le proprie faccende.
E alla fine, Laine era crollata, stretta al fianco di Koala, sul loro davanzale su cui Law era mezzo sdraiato e rischiava di seguire a ruota il piccolo demonietto e non che la rivoluzionaria fosse da meno ma, forse, accarezzare incessantemente Laine e canticchiare a fior di labbra la aiutava a restare più sveglia. A Law, dal canto proprio, si chiudevano gli occhi. 
Scosse la testa per risvegliarsi e si tirò su dalla posizione infossata in cui era scivolato senza neanche rendersene conto.  Non poteva addormentarsi, in realtà nemmeno Laine avrebbe potuto e una muta comunicazione passò tra lui e Koala quando i loro sguardi si incrociarono. Piangeva il cuore a tutti e due all’idea di interrompere quel sereno dormire, per un attimo Law arrivò addirittura a pensare che sarebbe stato bello poterla portare nella sua stanza  senza svegliarla e scosse di nuovo la testa.
Doveva ritrovare lucidità, smetterla di fare certi pensieri non da lui e, soprattutto, dovevano svegliare Laine per farla tornare nella zona kindergarten, non potevano permettere che qualcuno si accorgesse della sua assenza e si insospettisse.
«Ehi?»
Quasi che gli avesse letto nel pensiero, Koala smise di canticchiare e sollevò appena Laine per parlare al suo orecchio, senza smettere di pettinarle i capelli con le dita. Laine mugugnò, sfregando il visino contro il fianco della rivoluzionaria ma dopo qualche istante aprì gli occhi verde-grigi, liquidi di sonno e confusi.
«Ehi, piccola stella marina. Devi tornare nella tua camera» sussurrò dolcemente Koala, spostando le dita a sfregarsi sulle sue guance per aiutare a svegliarla ma non sarebbe stata un’impresa semplice, gli occhi le si stavano già richiudendo da soli.
«Devo proprio?»
Koala sorrise comprensiva, caricandosela ancora di più in braccio, per svegliarla mettendola dritta ma si fermò un momento per rivolgersi a lui.
«Vai, mi assicuro io che torni di là» lo invitò.
A Law, normalmente avrebbe dato fastidio. Lui non era debole, era stato costretto a non poterlo essere neppure da bambino, e odiava chi lo trattava come tale. Ma c’era solo gentilezza nella voce di Koala e lui era stanco. I braccialetti di agalmatolite, portati incessantemente per giorni, lo stavano provando, il che lasciava spazio a ben più di un sospetto sulla presunta velleità di indebolirlo di proposito usando il principio della maggiore o minore densità del minerale utilizzato, e di certo la tensione che continuava ad accumulare non contribuiva ai suoi tentativi di recuperare energie.
Non aveva ancora abbastanza informazioni per elaborare una strategia, non sapeva cosa si facesse lì e perché lo avessero portato in quel luogo, a che scopo avessero rapito dei bambini e che finalità avesse il test attitudinale a cui Koala era stata sottoposta.
Trafalgar Law navigava in acque alte e melmose, senza galleggianti né terraferma in vista e la carenza di sonno non era sua alleata. Doveva andare a dormire e lasciare che Koala si assicurasse che Laine tornasse alla zona kindergarten.   
Con un respiro profondo a riattivare il corpo almeno il tempo necessario per lasciare la sala comune, mezz’ora prima dell’effettivo coprifuoco, Law scivolò giù dal davanzale e, in un movimento fluido e automatico, piegò il busto in avanti, bloccandosi poi con il fiato sospeso, il cervello di nuovo attivo.
Una mano appoggiata al davanzale, Law si impose di mantenere la calma perché, dopotutto, non era successo niente. Si era fermato in tempo, no? Si era fermato e lo avrebbe saputo solo lui che stava per baciarle in testa tutte e due.
Non era stato un gesto premeditato né particolarmente intenzionale e forse quello lo avrebbe stranito anche di più se Law non si fosse reso conto, grazie a un flash improvviso che gli accese le sinapsi, da dov’era originato. Un ricordo, sfocato e vago, lontano nel tempo e nella sua memoria.
Suo padre che si alzava per andare a dormire e prima di raggiungere lui alla scrivania, per la consueta buonanotte e spettinata di capelli, si chinava a baciare sua madre e Lamy, che le dormiva in braccio.
Le fissò ancora qualche secondo, il cuore stretto e al tempo stesso calmo come forse non aveva battuto mai, più colpito di quanto gli sarebbe piaciuto lasciar trapelare, ma Koala non sembrava essersi accorta di niente, men che meno Laine che finalmente si stava svegliando.
«Tutto bene?»
Law tornò a focalizzarsi su di lei, che non aveva proprio l’aria di una prigioniera di un laboratorio dai fini sconosciuti, su un’isola non meglio localizzata nel bel mezzo di non era certo che mare, possibile cavia di chissà che esperimento. Non ce l’aveva mai avuta. Koala era una roccia in mezzo ad acque in tempesta e lo guardava, preoccupata. Preoccupata per lui.  
«Law…»
«Tutto bene» si rimise dritto il pirata, prima che Koala pensasse che la sua strana postura fosse dovuta a un qualche malore e si allarmasse ancora di più. Cosa stesse effettivamente per fare, neppure lei avrebbe potuto sospettarlo. «Buonanotte»
«Buonanotte Doc» mormorò in risposta, scuotendo appena Laine per riportarla del tutto tra loro.
Law si staccò a fatica dal davanzale ma si allontanò con passo deciso e senza guardarsi indietro, testa avanti fino alla propria stanza, dove si concesse un momento di lampante confusione, mani a sfregarsi il viso e riavviarsi i capelli. Si era distratto e aveva perso tempo prezioso, a giocare alla famiglia felice, e se non si fosse fidato ciecamente di lei avrebbe pure potuto sospettare che fosse quello l’esperimento. Quel luogo, quella situazione, gli riportavano alla mente ricordi e immagini che scavano di punta nella sua anima e nel suo cervello.
Esperimento o non esperimento, non avrebbe ceduto a quel ricatto della sua psiche, non si sarebbe più lasciato distrarre.
L’indomani, a mente fresca, avrebbe ideato un piano, anche solo decente sarebbe andato bene e se di visitare qualche altra zona di quel posto non ci sarebbe proprio stato verso, come aveva già tentato sempre a vuoto nei giorni precedenti, si sarebbe concentrato sul mandare via Koala, che le piacesse o meno, e mettere in salvo Laine mentre capiva come liberare anche tutti gli altri e se stesso, ovviamente. Era ora di agire.
Non avrebbe lasciato che la luce di Laine si spegnesse né che Koala venisse inghiottita dai flutti per aspettarlo. Lo aveva già visto succedere una volta, gli era bastato per la vita e lui non era più un bambino.
Mosse un passo verso il letto, dormire era il primo punto dello schema che avrebbe seguito, ma non riuscì ad andare molto lontano quando due braccia lo bloccarono e una mano salì a tappargli naso e bocca.
Fu questione di un paio di secondi, il tempo di realizzare che non cercavano di soffocarlo ma chiunque lo stesse trattenendo gli stava anche premendo un fazzoletto in faccia, e l’odore dolciastro e pungente del cloroformio già gli riempiva le narici.
Law provò a lottare con tutta l’energia che gli restava in corpo, decisamente scarsa per resistere a qualcosa che, in fondo, induceva uno stato che era precisamente ciò di cui aveva bisogno. Sentì le molecole narcotiche riempirgli i polmoni, raggiungere il circolo ematico, viaggiare con i globuli rossi fino al suo sistema nervoso centrale e inibirlo, mentre i suoi movimenti si facevano sempre più deboli e sconnessi, finché, per la prima volta da settimane, Law smise di lottare e si arrese al buio accogliente che lo circondava.
  

§
 

Il profumo del lemon curd gli solleticò la punta del naso e della lingua, mentre stirava le gambe ed estraeva la testa da sotto le coperte, conscio di avere un aspetto impresentabile e i capelli sparati in tutte le direzioni. C’era un motivo se portava sempre il capello, oltre a non apprezzare particolarmente il freddo alle orecchie.
Era mattina, lo sapeva perché il suo orologio biologico non falliva mai nel svegliarlo all’ora giusta per non arrivare tardi a scuola, anche quando scuola non c’era ma era un piccolo prezzo da pagare per mantenere una buona reputazione.
Insomma, cos’avrebbero detto se il figlio del miglior medico del paese fosse stato uno scapestrato ritardatario e pigro? Avrebbero dato la colpa a suo padre, alla sua dedizione al lavoro, lo avrebbero additato a pessimo capofamiglia, cosa che non era, assolutamente non era e lui avrebbe fatto di tutto perché questo non avvenisse mai. E poi a lui piaceva studiare.
Voleva bene a suo padre, gliene voleva davvero tanto, a lui e alla mamma.
La sua mamma profumava di lemon curd, e di vanillina. Come ci riuscisse, passando così tanto tempo ad assistere l’uomo che amava, tra farmaci e disinfettante, era un mistero ma la sua mamma profumava di lemon curd come la scia che arrivava dalla cucina.
Aveva l’impressione di sapere perché la mamma stesse preparando del lemon curd. Insomma, non era raro che cucinasse qualcosa di buono a colazione quando erano a casa tutti insieme, ma il retropensiero che non fosse solo un semplice giorno di riposo e neppure un giorno di festa qualsiasi, spingeva per emergere insieme a lui dal sonno.
Sentiva sua sorella ridere a una qualche battuta di suo padre e si agitò ancora un momento nel letto caldo prima di rotolare sulla schiena. Due dita lo accarezzarono sulla fronte e sapeva che se avesse sollevato le palpebre avrebbe incrociato occhi grigi, come i suoi, dolci e accesi da un sorriso, sfiorato da ciocche dello stesso colore del pan d’arancio, una delle tante torte alte e soffici e ricche di farina e lievito, tipiche del luogo. Dolci da forno che cuocevano lentamente e si gonfiavano, incamerando calore e aria, tra cui scegliere per i giorni di festa, che tutti amavano.
Tutti tranne lui ma non era un problema, perché a lui la mamma trovava sempre un’alternativa, nei giorni di riposo, come in quelli di festa e, soprattutto, nei giorni speciali come quello.
«Buon compleanno, amore»
Il profumo del lemon curd sovrastava tutto ma non aveva bisogno dell’olfatto per sapere che in cucina non avrebbe trovato una torta alta e soffice, ricca di lievito e farina, ma una croccante e gustosa torta di riso con mandorle e pistacchi, da mangiare con la crema al limone. Lo sapeva perché era la sua preferita, era la torta del suo compleanno e non vedeva l’ora di mangiarla, al punto che non si premurò nemmeno di aprire gli occhi nel mettersi seduto, così velocemente da sbilanciarsi e rischiare di rovinare al suolo, se le mani della mamma non lo avessero fermato in tempo, trattenendolo come mezzo sospeso, con il busto piegato in avanti.
«Beh, ben svegliato» rise al suo orecchio, la mamma, e Law si rese conto che non riusciva ad aprire gli occhi e che spalle, polsi e braccia gli dolevano.
Tentò ancora e ancora ma fu solo quando l’aroma del lemon curd prese a scomparire che ci riuscì, nonostante gli costasse non poca fatica. Perché si sentiva così rintronato?!
«Ben svegliato»
Law sollevò il capo di scatto, provocandosi una fitta al collo, costretto in una posizione tutt’altro che comoda da funi che gli tenevano braccia e polsi legati allo schienale di una sedia metallica. Sapeva di dover cercare chi aveva parlato, si sarebbe dovuto mostrare a proprio agio nonostante la situazione di evidente svantaggio, intoccato dall’ambiente circostante. Ma l’ambiente circostante era il luogo su cui da giorni cercavano di racimolare informazioni. Finalmente poteva analizzare il laboratorio e non riusciva neppure a mettere ancora bene a fuoco, a causa delle inalazioni di cloroformio che però, per i ceppi di Roger, non spiegavano la debolezza fisica. Sembrava che braccia e gambe gli fossero diventate liquide.
Era strano, il laboratorio, Laine non aveva sbagliato per niente aggettivo. Non aveva tanto l’aria di un “laboratorio” quanto di una sala operatoria, nonostante l’enorme acquario di pesci rari e variopinti che nuotavano placidi e ignari di quanto avvenisse al di fuori del loro minuscolo universo di vetro.
Ma era asettico, ordinato, c’era un tavolo carico di strumenti a Law fin troppo noti e lasciava pochi dubbi quel lettino su cui giaceva qualcuno che non riusciva a vedere in faccia, privo di coscienza o, forse, di vita.  
Poco distante un ripiano scuro reclinabile munito di ganci, dall’aria poco rassicurante e probabilmente gemello di quello che ospitava il paziente incosciente, si trovava vicino ad un carrellino su ruote su cui era appoggiato un cilindro con dei tubi attaccati. Law non aveva mai visto niente del genere, così come non aveva mai visto così tanta agalmatolite in una sola stanza e neanche il tizio che se ne stava seduto comodo su una grossa scrivania, dai riflessi bluastri e cangianti, come se avesse il mare dentro, e che gli aveva augurato un buon risveglio, ma sapeva di chi si trattava.
Law lo studiò, mentre mangiava di gusto una fetta di un rotolo di pan di spagna blu, ripieno di una crema candida e morbida e decorato con mirtilli e more, posato al suo fianco. La mascella pronunciata come l’arcata sopraccigliare, il setto appena deviato, gli occhi azzurri, piccoli e acquosi, Law stava finalmente dando una faccia a un nome.
«Ne vuoi un po’?» domandò mentre rigirava qualche briciola nella bocca impastata dal ripieno, indicando la torta con la forchetta. Law smise di studiare i suoi tratti un po’ asimmetrici, e si concentrò sull’insieme della sua schifosa faccia che avrebbe volentieri preso a schiaffi.
«Non mangio pan di spagna» rispose asciutto.
«No?! Oh è un vero peccato, questa blue velvet è paradisiaca. Ma capisco!» mise giù il piatto e alzò le mani in segno di resa, per poi sfregare i palmi tra loro per ripulirle «Tutti gli uomini di scienza hanno le proprie piccole fissazioni» Law si impose di rimanere mentre si avvicinava, anche perché, per quanto fastidioso ammetterlo, non aveva poi molte energie per provare a liberarsi, ma poteva sempre ostentare.
«Anche quelli non di scienza, a giudicare dalla tua fissazione per il blu»
Burkhard si fermò e lo squadrò per un momento, con sadismo, lo stesso che Law sapeva di avere nei propri occhi, ma che Law smorzava con coerenti ghigni e che invece il suo ospite accentuava con lo smagliante sorriso che gli stava rivolgendo.
«Avevo sentito che è divertente parlare con te ma non credevo che le voci fossero vere. Per una volta devo ricredermi» riprese ad avvicinarsi. «E ammetto che ero in ogni caso molto impaziente di fare la tua conoscenza, dottor Trafalgar» si chinò verso di lui e Law si distrasse un momento, incerto se fosse la sua mente a fargli qualche strano scherzo o la luce particolare del laboratorio ma, a distanza ravvicinata, sembrava proprio che Burkhard avesse qualche pelo della barba appena velata sulle guance che tirava del blu. Che problemi doveva avere, quell’uomo. «Ti stringerei la mano ma ti vedo impossibilitato. Oh, a proposito, dimmi, è un po’ troppo la sedia in agalmatolite?!» riprese il tono quasi spensierato con cui gli aveva offerto la torta e Law indurì la mascella.
Sedia in agalmatolite. Nessuno stupore che si sentisse tanto a pezzi, dannazione. E se non percepiva male, portava ancora anche i braccialetti.
«Nah, sembra di no, hai l’aria di tollerarla molto bene. Ad ogni modo, mano o non mano, io sono il dottor…»
«Burkhard» sibilò Law e più che per completare la frase dello scienziato, gli uscì quasi come un ammonimento. Gliel’avrebbe fatta pagare, gliele avrebbe fatte pagare tutte, compresa l’ignobile affermazione con cui se ne uscì un attimo dopo. 
«Quale onore! Ha sentito parlare di me da qualche collega?» s’informò e Law rischiò seriamente di perdere il lume della ragione.
Come si permetteva? Come si permetteva quel pazzo psicopatico di metterlo allo stesso livello suo, di suo padre, di qualsiasi altro medico? Lui non era un medico, loro non erano colleghi!
«Ho sentito parlare di te dai tuoi uomini che sono così idioti da non conoscere nemmeno le regole basilari quando si tiene un ostaggio nella propria stiva per settimane» ribatté Law, concedendosi un po’ di soddisfazione.  
Guardò il sorriso scivolare via dal viso di Burkhard, che arcuò le sopracciglia, in un gesto di finta riflessione, il mento stretto tra due dita. «E tu…» lo indicò con una delle due dita. «…credi sia una gran cosa? Conoscere il mio nome ti da qualche vantaggio su di me?» girò appena il viso, come a invitarlo a rispondere, una pausa a effetto per lasciargli il tempo che rischiò di spedire seriamente le sinapsi di Law in orbita.
Non sopportava che quel gran bastardo giocasse con lui come il gatto con il topo e la debolezza non lo aiutava ma non lo avrebbe dato a vedere. Non lo avrebbe…
«No, esatto. Ero certo potessi arrivarci da solo, Trafalgar Law, dopotutto sei intelligente, furbo e senza scrupoli, lo sappiamo tutti. E per questo spero di cuore che si possa trovare un punto d’incontro e iniziare una collaborazione»
Law strinse per un attimo i pugni ma li rilasciò quando, con sollievo, le sue labbra si stirarono in uno spontaneo ghigno di autentico scherno.
«Collaborare? Io e te?»
Purtroppo, era destinato a vita breve.
«Io, te e il Governo Mondiale» confermò Burkhard, come se nulla di strano ci fosse in quell’affermazione. «Tecnicamente questo laboratorio è di proprietà di Saint Oozark, uomo di grandi, grandissime vedute, mi piacerebbe fartelo conoscere, collega, mi piacerebbe molto. Tuttavia il nostro mentore e finanziatore ha ben accettato di affidare questo ambizioso progetto al Governo Mondiale, a patto che fosse gestito da me» Burkhard fece schioccare la lingua con soddisfazione, immettendo un po’ d’aria in bocca a denti stretti, le spalle scosse da un fremito di orgoglio. «A volte ancora non mi sembra vero! Cioè ma ci pensi?! Ad ogni modo, vedi, a Saint Oozark importa solo dei risultati. Lui, sai, è un uomo di scienza»
«Suppongo avrà qualche piccola fissazione allora» ironizzò Law, aggrappandosi a qualsiasi cosa pur di non farsi sopraffare da quanto surreale e scioccante fosse tutto ciò che stava scoprendo.
Governo Mondiale, come aveva detto Koala, e addirittura Draghi Celesti. E lui cosa c’entrava in tutto quel folle progetto?
«Ah esatto!» rise Burkhard, battendo le mani. «Esatto! Vedi?! Siamo già sulla stessa lunghezza d’onda! Meraviglioso, meraviglioso…» scosse il capo il sedicente dottore. «Comunque ti dicevo, a Saint Oozark importano solo i risultati da studiare e con tutto quello che gli devo, tu immagina il mio disappunto nel non riuscire a portare neppure un esperimento a buon fine. Neanche uno! Per il Governo Mondiale mi importa poco, sono abituati ai fallimenti, ma c’è anche una certa voglia di rivalsa personale, sono sicuro che tu mi capisci. Insomma gli studi sulla gigantificazione sono fermi a un punto morto oramai da anni e i pacifista sono un bello strumento ma non poi così comodo da controllare. Cioè non ci puoi interagire, se capisci che intendo» indicò se stesso e un punto di fronte a sé con mano oscillante Burkhard. «Ma poi, Saint Oozark ha compreso subito la genialità della mia idea, e anche i Cinque Astri in persona si sono dovuti piegare di fronte all’evidenza che un esercito di possessori di Frutto del Diavolo su richiesta è un’arma inestimabile»     
«Nonché una trovata originale» non provò neanche a trattenersi Law. Quel tizio era assurdo. Come gli era venuto in mente di mettersi in casa proprio lui, che aveva passato anni a pianificare la distruzione dello stesso identico progetto che Burkhard gli stava esponendo, ma ad opera di Doflamingo?
Forse si era preoccupato troppo, se Burkhard era come Caesar allora non…
«Mmmmmmh, sssì, l’idea degli Smile non era male. Un’idea mediocre per uno scienziato mediocre, dopotutto, ma gli zoozoo non sono certo i frutti più rari e nemmeno i più interessanti»
Law ci aveva provato. Law ci era anche riuscito, fino a quel momento, a dissimulare il suo reale stato d’animo, come a Punk Hazard con Vergo che non nascondeva di essere lì per ucciderlo, come a Wano con Hawkins che si accingeva a torturarlo.
Ma Law era stanco e decisamente preso in contropiede da quello che credeva di avere capito e, suo malgrado, trasalì. 
«Non puoi creare rogia e paramisha in laboratorio» si ricompose immediatamente.
«Oh no, hai ragione! Ma…» Burkhard recuperò una sedia e in due falcate gli si piazzò di fronte, busto proteso in avanti a spiegare, eccitato come un bambino. «…posso trasferirli da un corpo all’altro» simulò il gesto di spostare qualcosa con le mani, prima di estendere l’indice sinistro. «E nella misura in cui voglio io»
La faccia una maschera di pietra, Law sgranò gli occhi. Di cosa. Stava. Parlando?!
«Riesci a immaginare? Soldati calibrati sulla base delle necessità del momento, il potere di due Frutti in un unico corpo, estraibile, ritrasferibile e forse un giorno anche riproducibile artificialmente! Dimmi se non è una rivoluzione, eh!» gettò le mani al cielo ma Law non sembrava molto dell’idea di unirsi ai festeggiamenti.
Il pirata continuava a fissarlo e mandò giù una bella quantità di saliva prima di parlare di nuovo.
«E da me cosa vuoi?» lo sfidò, lo sguardo adombrato e pronto a uccidere.  
Burkhard sembrò colto alla sprovvista dal tono gracchiante e tutt’altro che amichevole dell’altro medico. Forse era sincero, forse fingeva. Law non lo sopportava più.
«Oh giusto. Tu, collega, sei l’anello di congiunzione» si rimise dritto sulla sedia, portando la caviglia sinistra sul ginocchio destro «Ora, non dubito tu conosca il meccanismo di funzionamento di un frutto del diavolo. Assorbimento da parte dell’apparato digerente, entrata in possesso del potere, Risveglio, modalità di rigenerazione del frutto, bla, bla, bla. Ovvio che si possono uccidere quelli che un frutto ce l’hanno in una stanza piena di mele o arance e darlo poi da mangiare a chi si vuole ma così ci si deve accontentare di un frutto a persona. Niente più potere combinato, impossibilità di dare lo stesso potere a due persone contemporaneamente. Regole, regole, regole» gesticolò all’aria Burkhard. «Però i frutti del diavolo, non sono frutti e basta. Possono animare oggetti, non possono coesistere in più di uno nello stesso corpo. Hanno un’essenza, un’essenza viva, che si lega inscindibilmente al proprietario e gli scorre nelle vene, insieme al sangue. Tu la senti vero? La senti l’essenza del tuo frutto che ti pompa nelle vene, come ti indebolisce il fatto che non fluisca liberamente insieme ai tuoi globuli rossi e all’ossigeno, solo perché sei legato a quella sedia. Fisicamente è come un siero. Un siero che io ho trovato il modo di estrarre» lo scienziato si voltò a indicare lo strano cilindro. «E se si impara a calibrare nel modo corretto, nello stesso corpo potranno coesistere le essenze di due, tre e chissà quanti frutti del diavolo contemporaneamente. Ma purtroppo, e te lo dico in confidenza perché siamo colleghi, sono ancora lontano da questo obiettivo. Sono bloccato da uno stupido dettaglio, le cavie muoiono perché il corpo non tollera l’assunzione dell’essenza per endovena. Ci pensi che assurdità?! Quanta frustrazione ho dovuto sopportare?! Quanti laboratori ho dovuto cambiare, spostandomi ovunque, perché poteva essere la razza, poteva essere il clima, poteva essere l’alimentazione come agivano sull’organismo fino ad arrivare qui, a Kenkyushitsu Island. Ha un bel suono vero? I locali la chiamano Labula ma è così… così…» schiocco la lingua come a indicare quanto lo trovasse noioso, muovendo la mano in un effimero gesto. «E poi, ti dicevo, arrivato qui a Kenkyushitsu Island, l’illuminazione! L’essenza scorre nel flusso ematico, si comporta come il sangue e di conseguenza il suo punto di raccolta sarà nel…»  
«Cuore» mormorò Law, troppo sconvolto per impedirsi di fare il gioco di Burkhard. Era chiaro, ormai, cosa c’entrasse lui in tutta quella storia. Avrebbe voluto essere un po’ meno intelligente, per restare nell’ignoranza ancora pochi istanti, fintanto che Burkhard ancora non aveva confermato l’ovvio.
«Il cuore» si riappoggiò allo schienale lo scienziato. «Organo affascinante, non trovi? Ed ecco finalmente lo step finale del mio progetto. Il segreto è iniettare l’essenza direttamente nel cuore ma non basta essere precisi, non basta inserire un ago lungo nel petto del donatore e del ricevente e neppure è una soluzione espiantarli. Mi servono i due organi, ben visibili e pulsanti, per gestire la quantità di essenza trasferita dall’uno all’altro»
Ghiaccio fu quello che a Law sembrò di aver inalato quando Burkhard smise finalmente di parlare. Si sentiva stordito e senza forze ma questo non significava che si sarebbe piegato.
«Io non ti aiuterò» comunicò con tono piatto e fattuale, che non lasciava trapelare neanche un briciolo della rabbia che gli si stava scatenando dentro, come un mare in tempesta.
Era arrabbiato, Law, arrabbiato, disgustato, inorridito. Quel pazzo era protetto dal Governo Mondiale e appoggiato da un Drago Celeste. E lui non era per gli spargimenti di sangue ma solo qualora non fossero necessari.
Si rendeva conto che nelle condizioni in cui si trovava poteva fare ben poco ma era solo questione di aspettare il momento giusto e non per questo avrebbe rinunciato al proprio libero arbitrio. Per abbassare la guardia, Burkhard doveva credere di averlo piegato e a Law non dispiaceva affatto in quel momento, poter dare voce a ciò che pensava davvero.
«Non ti aiuterò mai» decise di rincarare la dose e sapeva che Burkhard non si sarebbe fatto scoraggiare da così poco, ma lo spiazzò quando si alzò e, fatto il giro della sua sedia, prese a slegare le funi.
Law sentì le gambe scattare. Il corpo gli stava già chiedendo a gran voce da parecchi minuti di trovare un modo per alzarsi da lì e, ora che l’obbiettivo era vicino, urlava proprio.
«Questa non me la voglio perdere. Vedi, caro collega, è normale aggrapparsi al proprio libero arbitrio…»
Le funi caddero a terra e Law rischiò di rimettere per il bisogno di allontanarsi da tutta quell’algamatolite ma si fece violenza per non alzarsi subito e di fretta. Non voleva barcollare.  
«…ma a volte, semplicemente non si ha scelta. Come il mio piccolo soldatino» Burkhard smise di sussurrare al suo orecchio e si rimise dritto, alzando il tono. «Vero, piccolo soldatino?»
Law non aveva idea di cosa Burkhard stesse dicendo, né di cosa volesse mostrargli, ma sapeva che era il momento giusto per approfittarne e rimettersi in piedi senza dare l’impressione di avere raggiunto la soglia di tolleranza, salvo poi scoprire che ciò che stava per accadere gli avrebbe mozzato le gambe.
Non l’aveva vista ma era chiaro che fosse lì da tutto il tempo. Da prima del suo arrivo. Da chissà quanto. Si sentì morire un pezzo alla volta come se ogni tassello di quella storia che andava a posto richiedesse una parte di lui in pagamento. Più il quadro si delineava completo, meno ciò che stava guardando aveva senso.
E tutto aveva un nuovo significato.
Come facesse a muoversi così liberamente nella struttura, come facesse a sapere così tante cose. Non lo aveva mai fatto di nascosto, non era per la loro causa che si era aveva fatto la spia.
Il cuore gli si strinse, così forte da spremere fuori tutto il sangue, allagandogli il petto e l’addome. Faceva male, faceva così male. A Law non fregava niente di non essersi reso conto, anche se avrebbe dovuto. A Law non importava degli indizi logici che non aveva colto.
Law voleva soltanto che fosse un incubo, che non fosse reale, che non fosse lei.
Non lei, perché proprio lei?!
Chiunque, chiunque ma non…
«Laine»
Sapeva che non poteva sentirlo. Laine non era lì per davvero. Camminava senza cognizione di dove si trovasse né con chi, gli occhi fissi di fronte a sé, in trance, come una macchina.
«Non è stata meravigliosa a raccogliere informazioni per me per tutto questo tempo? Il mio piccolo soldatino è stato modificato prima di venire portato qui, selezionata con cura mentre era ancora all’orfanotrofio. È la mia piccola talpa da quando questo laboratorio è stato ufficialmente attivato. Una piccola talpa furba e irresistibile, non sei d’accordo, caro collega? Che poi, devo dirtelo, doveva raccogliere quante più informazioni poteva su di te e tenere d’occhio le tue interazioni con gli altri ma mai avrei creduto in un simile vantaggio, così ben servito su un piatto d’argento. Che proprio lei diventasse il tuo punto debole»
«Che le hai fatto?» sibilò Law. Non aveva neanche sentito le provocazioni di Burkhard e non riusciva a staccare gli occhi da Laine, come Laine era incapace di staccarli da un niente, un vuoto dei sensi, che in quel momento rappresentava tutto il suo mondo.
Law voleva vomitare. Voleva distruggere tutto, uccidere qualcuno.
Uccidere chiunque gliel’avesse portata via.
«Come scusa? Perdonami non ho s…»
«Che le hai fatto?!?» ruggì e un calo di pressione quasi spense per un attimo le luci al neon del laboratorio. Law percepì vagamente i polpastrelli pizzicare, come dopo aver usato il Counter Shock, ma non ci diede peso. Aveva i bracciali, non poteva essere stato lui e poi non gli importava di niente che non fosse Laine.
Burkhard sorrise, squadrando per un attimo la bambina, con un affetto che era rivolto alla propria invenzione, non certo alla piccola creatura che era stata usata come involucro. «Diciamo che è stata riprogrammata. In modo che quando si trova in questo stato alterato possa sentire e rispondere solo a me»
Law non riusciva neppure a ragionare. Era così abominevole da sfuggire a una comprensione completa, così scioccante e letale da inibire anche il più primordiale istinto di attaccare e uccidere. E non sarebbe comunque servito a niente.
Non gli sarebbe bastato, uccidere Burkhard, in quel momento. Non sarebbe stata la giusta direzione per ottenere ciò che davvero bramava.
Riportarla indietro.
Rivoleva Laine, la sua piccola Laine, la rivoleva con sé.
«Se collabori, la libero»
«Io non mi fido della feccia»
«No certo» concesse con un cenno del capo che indicava un falso profondo rispetto. «Ma pensaci, caro collega. Se accetti di restare, di fare quanto ti ho chiesto, potrei farla tornare normale e starebbe con te. Se accetti, non avrò più ragione di provocarle questo stato, a parte qualche sporadica occasione che potrebbe ovviamente presentarsi, non voglio mentirti»
Law non capiva.
Sapeva che non era la risposta, che non era nemmeno un’opzione, sapeva che era la cosa sbagliata da fare, che c’era in ballo molto di più eppure non vedeva altro che quella soluzione.
Non vedeva altro che Laine e che doveva salvarla e niente era più importante, neppure la sua ciurma, neppure la sua vita.
Law non capiva.
Quando era diventata così importante, quando era diventato così essenziale che lei stesse bene a discapito di qualsiasi altra cosa? Come?
Forse era la debolezza, forse Burkhard era riuscito a piegarlo davvero, forse era tutto un brutto sogno.
Organo affascinante, il cuore.
A passi lenti si fece più vicino, gettando al vento qualunque interesse a mostrarsi inscalfibile, si piegò piano su un ginocchio, di fronte a lei che nemmeno lo vedeva. Il visino tondo non appariva sofferente ma era una sofferenza vedere i suoi occhi così vuoti. Law provò l’impulso di scostarle i capelli ramati dietro un orecchio per poterla guardare meglio, di stringerla per metterla al riparo e tenerla al sicuro, di portarla via il più lontano possibile da quel luogo.
Ma non avrebbe funzionato, non sarebbe servito.
Prima doveva svegliarla e c’era un modo soltanto.
«D’accordo»
Non si stava arrendendo, quello era certo, non era il suo ultimo atto come pirata e uomo libero. Stava solo facendo ciò che andava fatto. Doveva svegliarla e poi avrebbe potuto escogitare un piano. Se avesse dovuto collaborare per un po’ lo avrebbe fatto ma, da stratega, Law sperava che la cavia morisse anche a cuore espiantato. Un simile esito avrebbe posto un freno a quella follia, facendogli guadagnare prezioso tempo. Se se la giocava bene al momento dell’estrazione, forse poteva anche intervenire sull’organo in questione per far accadere ciò di cui aveva bisogno.
«Io farò la mia parte, tu fai la tua»
Tutto, qualsiasi cosa per lei.
«Molto bene» Burkhard batté i palmi tra loro per poi sfregarli con soddisfazione mentre Law portava le mani ai fianchi di Laine. Lanciò una veloce occhiata sopra la propria spalla, verso Burkhard che sganciava una den den mushi. «Porta dentro la cavia» ordinò all’interfono e Law ignorò il brivido e ricacciò giù la bile mentre tornava su Laine, sperando e pregando di vederla riprendere coscienza per un tempo che gli parve infinito e non avrebbe mai saputo quantificare.
Capì che era trascorso solo quando sentì la porta del laboratorio aprirsi e dei passi avvicinarsi.    
La cavia prescelta non si stava lamentando e sembrava camminare con calma e senza essere costretta. Chiunque fosse quella povera anima, o non sapeva incontro a che destino stesse andando o lo aveva già accettato e quella considerazione provocò un fastidioso spasmo a Law. Non meritava quella fine, chiunque fosse, ma non avrebbe sperato diversamente da ciò che sapeva essere il miglior scenario per salvare Laine. Alzò la testa perché non era un codardo, era equo guardare in faccia la persona a cui stava probabilmente per togliere la vita.
E solo in quel momento Law si rese conto di non aver considerato un elemento di fondamentale importanza nella propria strategia, un’incognita dell’equazione che aveva, non sapeva neanche lui come, dimenticato di riportare, che ribaltava tutte le sue ultime considerazioni, che collocava definitivamente Burkhard un gradino al di sopra.
Perché davanti a lui, che lo guardava di rimando con determinazione e calma, il braccio stretto nella mano di un inserviente, c’era Koala.
  
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