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Autore: _Woodhouse_    17/02/2020    1 recensioni
❝Lo osservò dormire, sfiorando di tanto in tanto le linee insidiose delle sue costole, incastrata negli occhi di un altro, nel ricordo del suo respiro, affogata, vittima masochista del piacere che le procurava il ricordo della tensione che si librava fra i loro corpi e della complicità che aveva avvertito, mentendo insieme a lui, due volte e senza ragioni.❞
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 23.

Parte I

Did I say that I loathe you?
Did I say that I want to leave it all behind?
I can't take my mind off you.
I can't take my eyes off you.

(The blower's daughter, Damien Rice)




Per settimane, Josephine non aveva più rivisto James. Aveva evitato Polly con ogni mezzo e, quando non aveva potuto, si era sempre mostrata distaccata, nel tentativo di non creare mai, in nessuna circostanza, un clima che spingesse l’altra a confidenze di qualsiasi tipo, specie se di tipo romantico. Si rendeva conto di essere puerile, ma viveva nel terrore che la coinquilina le parlasse di James, rivelandole che alla fine, dopotutto, uscivano insieme. Non sapeva nulla, in realtà. Non sapeva se lui si fosse più fatto vivo, se la stesse corteggiando o ignorando. Aveva avuto cura di non indagare e Polly, dal canto suo, non aveva mai nemmeno cercato di imbastire conversazioni che potessero virare sull’argomento.
A soccorrerla nell’impresa di saltare ogni ostacolo sul sentiero della propria serenità, era stato Robb. Nelle ultime settimane l’aveva coinvolta nell’organizzazione e nell’allestimento di una piccola mostra che si sarebbe tenuta quella domenica. Era stata travolta dall’entusiasmo del fidanzato, il quale l’aveva condotta più volte nell’attico prescelto, quello che corteggiava da mesi, aspettando che arrivasse il suo momento. Molte volte Josephine gli aveva suggerito di trovarsi un altro locale, ma Robb non aveva voluto sentire ragioni. In passato, mosso dalla smania di esprimersi, aveva accettato di esporre i suoi pannelli in vecchi magazzini inospitali, in locali dalle luci tremende o in appartamenti privati con pareti dai colori agghiaccianti; adesso, invece, mirava a ben altro. Il bisogno di rivelarsi attraverso i suoi scatti non si era sopito, ma era stato surclassato dall’esigenza di recidere i legami con la figura di artista naïf a cui era rimasto avvinghiato per troppo per potersi finalmente sentire adulto, nel mondo e per agganciare finalmente legami sostanziali con il florido e più borghese ambiente culturale cittadino. Adesso pretendeva da se stesso un salto qualitativo e, consapevole di non poter snaturare la propria percezione e la struttura netta e semplice dei propri scatti, privi di orpelli e lontani dalla deriva kitsch in voga, si era concentrato su come generare un’ atmosfera sofisticata che gli garantisse, se non altro, di ripulirsi dalle polveri dei vecchi magazzini che in passato lo avevano fatto sentire esatto, d’effetto. Jo si era sentita lieta di poter finalmente dare un significato al suo ruolo di partner, sostenendolo e aiutandolo nelle scelte, dissipando alcuni dei suoi dubbi, placando la sua apprensione. Sì, perché Robb reputava questo evento d’importanza capitale, considerandolo un punto di svolta per la propria carriera. Josephine era ammirata e al tempo stesso incapace di comprendere i motivi per cui il fidanzato riversasse in quest’occasione un quantitativo tanto esagerato di aspettative. Nonostante reputasse eccessiva la sua concitazione, gli aveva dimostrato piena fiducia e appoggio, ingoiando molto spesso commenti o battute infelici. L’entusiasmo travolgente di Robb l’attraeva e ripugnava contemporaneamente. Trovava mirabile la sua ambizione, la sua smania di fare meglio, ma non poteva fare a meno di mal sopportare il modo in cui Robb – a tal punto assorbito dal progetto – appariva alienato dalla realtà, cieco e sordo agli input esterni ai limiti dell’ottusità. Tutte le volte che questa sensazione l’assaliva, Jo la ricacciava indietro con grande diligenza e ostinazione. Gli doveva dedizione e pazienza e trovava terrificante e insopportabile l’arroganza con cui si perdeva in simili pensieri, ergendosi a giudice, quando era lei stessa, quella da processare.

Era lei quella che aveva preso a riempire le giornate fino all’orlo pur di non sentire; da quando il semestre era cominciato, aveva frequentato ogni singola lezione, anche quando le doleva il ventre e sudava freddo per il ciclo; aveva accettato di unirsi a gruppi di studio che fino ad allora aveva ostinatamente ignorato; aveva preso caffè con colleghe sconosciute, mangiato ogni giorno in mensa, presenziato a seminari a tema letterario, ecologico, politico, persino religioso.
Ignorava, ormai, ogni criterio di selezione e non leggeva un libro di piacere da una quantità di tempo che non aveva precedenti nella sua carriera di lettrice. Tutto il tempo libero che le rimaneva, lo impiegava per Robb, con Robb.
La notte, però, non le lasciava scampo e certi pensieri le assediavano la veglia e il sogno come un veleno lento e corrosivo, di quelli di cui non si conoscono gli effetti se non l’attimo prima di contorcersi dal dolore. Inoltre, con l’approssimarsi della mostra, Josephine si sentiva sempre più angosciata, consapevole che l’avrebbe rivisto. Erano passati circa due mesi ed era convinta di aver digerito le parole di James e i significati che vi si celavano dietro. Inoltre, lui non aveva dato più cenni di alcun tipo e l’unica volta in cui aveva accettato di tornare dai suoceri con Robb, lui non si era fatto vivo. Sapeva, suo malgrado, che James, di recente, aveva trascorso molto più tempo a Londra che a St. Albans, complice un progetto di ampliamento che avrebbe previsto una sede aziendale nella capitale; ma lui non era mai capitato sulla sua strada e questo rendeva il suo distacco completo. Josephine si diceva che le era servito spezzare quel filo che l’aveva quasi stretta a lui in una morsa di disprezzo e seduzione e considerava una cosa del passato l’influenza che lui aveva su di lei. Era angosciata all’idea di incontrarlo, ma ne era al contempo elettrizzata, perché proprio non vedeva l’ora di dimostrare a se stessa che lui non poteva più nulla, non valeva più nulla.


 

***


 

L’aria di Novembre le pizzicava la schiena scoperta e la musica la raggiungeva dall’interno dell’attico. Dentro si muovevano con disinvoltura e vanità gruppi di uomini perlopiù in tweed e donne con enormi anelli di cattivo gusto sulle dita. C’era, in alcuni di loro, una deliberata e ricercata sciatteria, che altro non era che un modo di atteggiarsi, di etichettarsi. Le chiacchiere e certi accenti rotondi, marcati, saturavano l’aria, insieme a riflessioni edulcorate da termini eccessivi, impattanti. Josephine era lì da mezz’ora e si sentiva già soffocare. Vedeva Robb assorbire con naturalezza le pose e le conversazioni, come se quell’abito nuovo di zecca, intarsiato di lustrini e luccichii superflui, gli calzasse perfettamente, come fosse suo da sempre. Lo osservò attraverso i vetri della porta finestra e stentò a riconoscerlo, stentò a riconoscere i suoi sorrisi, le sue espressioni. Sapeva di dover tornare dentro per reggiungere Tracy, Spencer e Sierra, pesci fuor d’acqua come lei in quel contesto altisonante e sofisticato che invece sembrava curiosamente, inspettatamente l’habitat naturale di Robb. Raccolse il respiro e si gettò di nuovo tra la gente e le fotografie di Robb, alle quali, adesso che tutto sembrava filar liscio, poteva dedicare un sguardo attento e rilassato. In molti dei panelli erano esposti dettagli di lei su cui durante l’allestimento aveva evitato di soffermarsi e da cui ancora adesso, mentre si muoveva verso il gruppo di vecchi amici di Robb, distoglieva lo sguardo. I tre ragazzi sostavano davanti ad un pannello di medie dimensioni, rappresentante una bambina vietnamita che, trionfante, mostrava all’obiettivo una lucertola a testa in giù. Fu tra una chiacchiera e l’altra che Jo, alla fine, lo vide fare il suo ingresso. James era, come sempre, impeccabile e le bastò un’occhiata fulminea per attestarlo; l’attimo dopo sorrideva e si scusava con gli altri, dicendosi costretta a raggiungere quelli del catering in cucina per controllare, accertarsi che tutto procedesse senza intoppi. Era quello il suo compito, si disse muovendosi in fretta per raggiungere il retro: doveva occuparsi dei ragazzi che sfilavano in sala coi vassoi carichi di flûtes colmi di prosecco, del rinfresco che sarebbe stato servito a minuti, controllare che fosse tutto in ordine, tutto pronto, tutto già predisposto. Ma nella penombra della cucina, Jo si accorse di respirare a malapena: lui era lì, tra quelle stesse pareti, e lei scoprì di non essere pronta ad affrontarlo. Le sembrava di non vederlo da una vita intera e adocchiarlo, anche solo per un istante, le aveva rivelato quanto in realtà subisse ancora troppo la sua energia. Si disse che non era così, che non poteva essere così e che le tremavano le mani semplicemente perché non si aspettava di trovarselo davanti all’improvviso. Tornò in sala e intercettò subito Robb, Spencer e James vicini, di fronte a una foto che da quella lontananza non riconosceva. Lo sguardo di Robb la raggiunse subito e così il suo sorriso e James, che era di spalle, quasi avesse percepito la sua presenza, si voltò a guardarla. Josephine stirò le labbra in un sorriso cordiale, rivolto ad entrambi, sperando bastasse come interazione per l’intero pomeriggio. Quando Robb le fece segno di raggiungerli, capì di aver sragionato a pensare che un sorriso potesse bastare. Con dei gesti del tutto scoordinati gli fece intendere che lo avrebbe raggiunto a breve e che aveva altro da fare. Lui le fece l’occhiolino e tornò a guardare la fotografia seguendo lo sguardo di Spencer, ma non quello di James, che invece si allacciò alla schiena scoperta di Josephine mentre si allontanava fino a raggiungere un pannello enorme che trionfava nella parete opposta, la più distante.



Quello sguardo denso, duro, incredibilmente malinconico era davvero il suo. Non sapeva come Robb ci riuscisse, ma quando si guardava attraverso una fotografia, una delle sue, le sembrava di osservare un’estranea dall’aria imperscrutabile. Questo, tuttavia, non cambiava di una sola virgola il disagio di trovarsi così esposta allo sguardo altrui. Non sopportava di vedersi tanto immensa, ingombrante, ma resisteva, si costringeva a mantenere lo sguardo fisso nel proprio, pur di evitare di voltarsi, spostarsi e incrociare la rotta di James. Si strinse nelle braccia e sospirò: quello era il punto più lontano e sebbene sapesse che prima o poi lui si sarebbe mosso e inevitabilmente avvicinato, non riusciva a risolversi, a muoversi, a concedersi uno sguardo rilassato sulla sala. Non poteva certo sapere che a niente valeva lo sforzo di evitarlo e che lui era ad un passo da lei, alle sue spalle, ammaliato dalle sue scapole seriche e trasparenti.

– Fata? Non so, non mi sembra appropriato.

Era la voce di James, quella. Josephine se lo ritrovò accanto e insieme a lui il suo profumo, inconfondibile, prepotente come sempre. Gli scoccò un’occhiata laterale, non sapendo come rispondere, che tono utilizzare, in che momento e in che fase fossero. Lui le pareva rilassato, le mani dietro la schiena, un dolcevita beige che si gli arrimpicava sulla gola, una giacca scura, la mandibola rasata di fresco, il profilo severo, le spalle immense.

– Robb mi dice spesso che è così che gli appaio: una specie di fata che muta natura a seconda del giorno.

Jo prese a parlare, scegliendo di mantenere, per sicurezza, un tono asettico.
James strinse lo sguardo continuando a fissare gli occhi malinconici di Josephine, quella nella fotografia.
– Ho sempre pensato che tu fossi più una strega, a dire il vero, – disse infine. Nella voce nessuna ombra di sarcasmo. Un tono che sorprese Jo e che faceva a pugni col concetto appena espresso. Fu per questo che non si impettì e che rimase anche lei con lo sguardo rivolto alla fotografia e disse soltanto:
– L’ho sempre pensato anch’io.
James scese a guardarle le labbra nere, al minimo della saturazione, chiuse, un piccolo neo sulla curva del broncio.
– Ma non è nemmeno “strega” che l’avrei intitolata, – disse, con un tono pensoso, la voce morbida, priva degli spigoli di sempre. Un tono che allarmò Josephine e che le irrigidì i muscoli.
– E come l’avresti intitolata, allora?

Il tono di Jo assunse, senza che lei potesse farci nulla, una sfumatura di ironico scetticismo. Ma lui, pur cogliendola, proseguì ad osservare il pannello in bianco e nero, lottando tra la malia che esercitava su di lui e il fastidioso bisogno di guardare Josephine, quella in carne ed ossa e colori. Aveva pensato che rivederla sarebbe stato molto più semplice adesso che il tempo e la distanza avevano trascinato via le sensazioni e le parole che mesi prima avevano finito per annebbiargli la ragione. Ma era stato un errore credere che bastasse questo per liberarsi di quel sortilegio. Era stato un errore mastodontico e lo capì mentre la sua voce lo raggiungeva, ricordandogli con spietata dovizia il potere di cui era capace. 

– L’avrei intitolata poesia,– disse alla fine, sorprendendola. C’era qualcosa di doloroso in quello che lui le aveva appena detto, ma non riusciva a capire perché e in che punto preciso sentisse male.
– Sembrerebbe un complimento, ma sono sicura che non lo è, – rispose, sulla difensiva, pronta a sentirgli uscire dalle labbra un' offesa qualsiasi.
James finalmente la guardò, ma lei no, non ancora.

– Non lo è. Non è niente. E’ così che ti vedo.

Jo sentì nitidamente lo sguardo di lui addosso e gli concesse una mezza occhiata distratta, per sincerarsi che davvero lui non si stesse burlando di lei. Ma lui aveva lo sguardo, l’aria, la postura seria. Quell’atteggiamento inaspettato non fece altro che metterla a disagio e le provocò nello stomaco fitte senza nome. L’idea che la colpì era che lui l’avesse declassata a interlocutrice qualsiasi, che lui l’avesse ridimensionata: le parlava senza sarcasmo, senza durezza, senza disprezzo. Le parlava e basta, senza intenzione e intonazione. Le parlava e le diceva una cosa come “poesia” senza che questa sembrasse avere legami con loro. Era una parola come un’altra, senza implicazioni e suggestioni e ed era forse la parola più crudele che le avesse mai rivolto.

– La poesia è implicita, - proseguì lui, – E’ un non detto che si ripete e che confonde, finché non lo rileggi, una, due, dieci volte.

Jo si voltò a guardarlo, trascinata da un istinto incontrollabile, ma lui aveva ripreso a guardare di fronte a sé, di preciso le ciglia scure della ragazza in fotografia.

– Alcune poesie arrivano immediatamente, non sempre serve rileggerle, – commentò lei, cercando di mostrarsi disinvolta, come una che fa un commento qualsiasi ad un commento qualsiasi.

– Di certe poesie ti colpisce qualcosa che non è legato al senso. A volte finisci col provare qualcosa senza aver capito una sola parola. E’ più che altro una questione di sensazione e non di senso.

Desiderarono guardarsi negli occhi, immediatamente, disperatamente, ma non lo fecero. Era una conversazione surreale, probabilmente sognata e Jo non capiva di cosa stessero parlando esattamente, ma era una questione di sensazione anche quella, e il senso era completamente inafferrabile.

– E che poesia sono io, alla luce di questo? – chiese infine e si morse una guancia.
James si concentrò sulla malinconia dei suoi occhi che lo fissavano spietati, senza vita, più scuri che mai.
– Sei implicita, incomprensibile, una sensazione che schiaccia il senso e che me lo rende completamente indecifrabile, – rispose, la voce bassa, carica di qualcosa che prima mancava.
– Intendi rileggermi o ti basta così? – domandò lei, senza pensare, come se le fosse sfuggita via la voce.

James dovette contrarre la mandibola e allargare le spalle per impedirsi di dire quello che gli era balenato nella testa. Qualcosa che aveva a che fare con il motivo per cui era lì, vicino a lei, sforzandosi di rimanere incolore, di trattarla come una persona qualsiasi, una a cui poter dire cose come quelle senza che la cosa avesse un peso, un valore. Era lì, dopo due mesi, per leggerla, studiarla, perché non aveva mai smesso, aveva soltanto atteso e studiato il suo silenzio, la sua indifferenza. Ma c’erano ancora troppe cose di lei che doveva afferrare e per farlo, doveva avvicinarla, disarmarla. La voglia di provocarla e stizzirla gli strisciava ancora nelle vene e minacciava di prendere il sopravvento ogni istante, ma aveva compreso che per arrivare a lei, ai suoi segreti, doveva snaturarsi, diventare un altro, per quanta fatica gli costasse.

– Intendo rileggere finché non vedrò anch’io la fata di Robb, – disse finalmente, prima di guardarla e lasciarsi guardare con aria confusa. Entrambi subirono come una stilettata lo sguardo dell’altro e si sforzarono di non sentirsi agganciati, di non pensarsi inafferrabili, di non sentire l’uno il profumo dell’altra, di non vedere tutti i motivi per cui sembrava insopportabile non sfiorarsi le mani un attimo soltanto.
Fu in quel momento che Robb puntò l’obiettivo su di loro e restrinse l’inquadratura fino a fissarla sui loro sguardi. Quello fu il primo momento in cui Robb vide oltre i suoi stessi occhi e a colpirlo fu una sensazione senza forma: una sensazione e non il senso.



continua...

   
 
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