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Autore: Nadine_Rose    19/02/2020    2 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 22

 

Rosso sangue

 

 “Liberami da me. Voglio uscire dalla mia anima.

Io sono questo essere che geme, che brucia, che soffre.

Io sono questo essere che attacca, che urla, che canta.

No, non voglio essere così.

Aiutami a rompere queste porte immense.” 

Pablo Neruda, Riempiti di me

 


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Immagine tratta dalla locandina del film “L’uomo dal cuore di ferro”

 

Campo di Fossoli, 20 febbraio 1944

~ Due giorni alla partenza per Auschwitz ~ 

 

Al tonante fischio della sirena, Sarah spalancò di colpo gli occhi e balzò a sedere sul letto. Con terrore, immaginò che quell’allarme preannunciasse l’arrivo dei bombardieri, ma fu un altro pensiero a farla rabbrividire. Le luci del crepuscolo mattutino penetravano dalle finestre della baracca, posandosi su volti stropicciati dal sonno di persone che, concitatamente, si preparavano a uscire, alcune coprendo il pigiama che avevano indosso. Si rese conto di aver dormito per un giorno e una notte di fila e, di conseguenza, di non essersi presentata per una giornata intera né al lavoro né al tenente. Le possibilità di scampare al trasferimento ad Auschwitz diminuivano sempre di più. Girando ancora intorno lo sguardo, atterrita, cercò la presenza rassicurante di Maria e la vide mentre, in ginocchio, aiutava il piccolo Giulio – che, piagnucolante e assonnato, si strofinava gli occhi – a indossare il cappottino. Balzò giù dal letto e, ignorando un capogiro, in gran fretta, s’infilò le scarpe e il cappotto.

“Maria!” la chiamò, correndole incontro e lei si volse, prendendo in braccio il bimbo che subito si accoccolò sulla sua spalla, desideroso di dormire ancora.

Per alcuni istanti, le due donne si parlarono con uno scambio di sguardi carichi di tensione, poi fu Sarah a rompere quell’eloquente silenzio. “Cosa sta succedendo?” domandò sconvolta.

Gli occhi nocciola di Maria divennero improvvisamente più lucidi e, con voce rotta dalla preoccupazione, rispose: “Credo che vogliano comunicarci qualcosa di…”

Neanche il tempo di terminare la frase, che Sarah subito la interruppe, incalzando con un tono più concitato: “Perché non mi hai svegliata ieri sera?”

“Ci ho provato, cara, ma ti sei girata dall’altro lato. Eri stanca morta”, le disse, tentando di assumere un timbro di voce e un’espressione in viso più sereni per rassicurarla e, intanto, il piccolo Giulio aveva già ripreso a dormire.

“Sbrigatevi, dobbiamo uscire”, intervenne Davide perentorio e agitato, ponendo una mano sulla spalla di sua moglie e, velocemente, lo seguirono.

Quando la sirena smise di fischiare, nel campo piombò un silenzio quasi surreale. I tedeschi avevano posizionato davanti al loro edificio una specie di palco costituito da due tavole di legno sovrapposte e un folto numero di soldati armati lo circondava. Sarah sentiva nelle orecchie le pulsazioni del proprio cuore e l’ansimare del proprio respiro che, nell’aria fredda del mattino, formava nuvolette di fumo bianche. Sul palco, dietro al microfono e affiancato da un sottoufficiale, si ergeva la figura del tenente. Ben dritto, con le mani dietro la schiena e con indosso il lungo cappotto dell’uniforme, sembrava più alto, più imponente, più minaccioso e Sarah dovette sforzarsi di allontanare dagli occhi della mente la terribile sequenza dei momenti vissuti con lui per essere presente a ciò che stava accadendo. Ma, al soffio di un respiro esalato al microfono, fu di nuovo trafitta dal ricordo del suo ansito e del cigolio del letto e lasciò che quel dolore le scavasse ancora nel corpo e nell’anima, fino a quando il tenente non iniziò a parlare.

Con voce metallica e glaciale calma, pronunciò poche parole che, di colpo, la fecero sprofondare in un’angoscia profonda, forse mai provata prima di allora, lacerandole il cuore: “L’SS-Scharführer Weber Jörg, adesso, leggerà i nomi dei prigionieri che lasceranno il campo. La partenza è prevista fra due giorni e avete un tempo più che sufficiente per raccogliere le vostre cose.” E, subito, indietreggiò di un passo per lasciare il microfono al sottoufficiale che, senza perdere tempo, iniziò a leggere da quei fogli che Sarah aveva già visto.

Soltanto lei, in mezzo a centinaia di persone un po’ smarrite e confuse dall’inaspettato annuncio, era tristemente a conoscenza della verità e, con la morte nel cuore, si mise in un ascolto profondo dei nomi dei deportati verso Auschwitz, contandoli e aspettando rassegnata il proprio turno. Arrivata a cento, perse il conto e strinse forte il braccio attorno alla vita di Maria, quando sentì pronunciare i nomi della donna, di suo marito e dei bambini con i quali era arrivata a Fossoli. Era certa che anche il suo nome fosse su quella lista, dal momento che, per un giorno intero, non aveva svolto il suo lavoro di cameriera e, soprattutto, non aveva mai soddisfatto realmente i bisogni del tenente.

 

Hermann lasciò il microfono al sergente maggiore e, mentre questi iniziava a leggere i nomi dei prigionieri destinati ad Auschwitz, fu libero di ricercare con lo sguardo Sarah. Aveva cancellato il suo nome dalla lista la mattina precedente, prima di farle portare la colazione e, affinché la sua presenza non lo distogliesse – esattamente come stava accadendo in quel momento – dagli impegni e da se stesso, le aveva permesso di riposare tutto il giorno. Non fu difficile scorgere la sua figura, la perfezione in mezzo alla bruttezza di centinaia di esseri per lui inferiori, avvolta nel cappotto rosso.  

Rosso, come lo sfondo della bandiera nazista, simbolo di supremazia della razza e di potenza che, da una torretta di sorveglianza, vide ondeggiare forte a un’improvvisa folata di vento. Ne udì il rumore, mentre la voce del sottoufficiale arrivava alle sue orecchie come un eco lontano, un suono indistinto e i suoi occhi tornavano a Sarah. Era in virtù di quel potere che si era avvalso il diritto di farla sua con ricatto e violenza.

Rosso, come il sangue d’innocenza rubata impresso sul lembo della sottoveste bianca che lei stringeva fra le gambe all’indomani della violenza, seduta sul pavimento, con le spalle appoggiate al muro e gli occhi fissi nel vuoto. E, intanto, la vide stringersi a una donna bionda che teneva in braccio un bambino piccolo, affiancata da un uomo dai capelli neri, folti e spettinati. Mai era successo che una ragazza lo respingesse e che lui si comportasse in modo così abietto.

Rosso, come il colore attribuito alla passione che, forse, avrebbero potuto vivere assieme, se solo avesse cambiato il suo approccio verso Sarah, accompagnandola per mano nei meandri del desiderio, a lei ancora sconosciuto. Desiderò farla sua, sentendosi suo. Desiderò sentire le carezze delle sue mani sul proprio corpo e farle esplorare quel nuovo mondo. Ma, d’improvviso, si costrinse a ritornare in sé, mentre il sergente maggiore aveva già iniziato a leggere l’ultimo foglio della lista.

 

Con gli occhi velati di lacrime e fissi sul sottoufficiale, Sarah attendeva che, da un momento all’altro, questi pronunciasse il suo nome. Attendeva sempre più rassegnata, tra angoscia per le persone – soprattutto, per quei poveri bambini – nominate per la partenza verso Auschwitz e paura per il destino che avrebbe con loro condiviso. Ma il suo nome non fu mai pronunciato, mai divenne un numero inciso sul braccio né lei cenere trasportata dal vento.

 

Berlino, ottobre 1946

 

Seduto sulla sedia, accasciato allo scrittoio della sua stanza, Hermann si era addormentato sopra una distesa di libri tradotti in italiano, dizionari e fogli sui quali aveva esercitato la sua dimestichezza nella lingua straniera, stanco per lo studio ma, soprattutto, tramortito da un vortice di ansia e di entusiasmo. Il giorno seguente, suo padre avrebbe incontrato degli amici, come lui, ex membri del Dipartimento 1A della polizia di Stato prussiana e, successivamente, della Gestapo. Grazie alle conoscenze di suo padre, avrebbe ottenuto tutti i documenti necessari per espatriare in Italia e, con la testa poggiata su “I dolori del giovane Werther”, sognò il fatidico momento in cui avrebbe ritrovato la sua Sarah.

 

“Ti avrò perché sto male,

se non ti sento mia.

Ti avrò perché non posso più aspettare.

Ti avrò perché in futuro

io ti ritroverò.

Ti avrò perché nel libro della vita mia

c’è scritto che ti avrò.”

 

Enrico Ruggeri, Ti avrò  

 

 

 

 

 

   
 
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