Capitolo
22
Rosso
sangue
“Liberami da me. Voglio uscire dalla mia
anima.
Io sono questo essere che
geme, che brucia, che soffre.
Io sono questo essere che
attacca, che urla, che canta.
No, non voglio essere così.
Aiutami a rompere queste
porte immense.”
Pablo Neruda, Riempiti di me
Immagine
tratta dalla locandina del film “L’uomo dal cuore di ferro”
Campo di Fossoli, 20 febbraio 1944
~ Due giorni alla partenza per Auschwitz ~
Al
tonante fischio della sirena, Sarah spalancò di colpo gli occhi e balzò a
sedere sul letto. Con terrore, immaginò che quell’allarme preannunciasse
l’arrivo dei bombardieri, ma fu un altro pensiero a farla rabbrividire. Le luci
del crepuscolo mattutino penetravano dalle finestre della baracca, posandosi su
volti stropicciati dal sonno di persone che, concitatamente, si preparavano a uscire,
alcune coprendo il pigiama che avevano indosso. Si rese conto di aver dormito
per un giorno e una notte di fila e, di conseguenza, di non essersi presentata
per una giornata intera né al lavoro né al tenente. Le possibilità di scampare
al trasferimento ad Auschwitz diminuivano
sempre di più. Girando ancora intorno lo sguardo, atterrita, cercò la presenza
rassicurante di Maria e la vide mentre, in ginocchio, aiutava il piccolo Giulio
– che, piagnucolante e assonnato, si strofinava gli occhi – a indossare il
cappottino. Balzò giù dal letto e, ignorando un capogiro, in gran fretta,
s’infilò le scarpe e il cappotto.
“Maria!” la chiamò, correndole incontro e lei si
volse, prendendo in braccio il bimbo che subito si accoccolò sulla sua spalla,
desideroso di dormire ancora.
Per alcuni istanti, le due donne si parlarono con
uno scambio di sguardi carichi di tensione, poi fu Sarah a rompere
quell’eloquente silenzio. “Cosa sta succedendo?” domandò sconvolta.
Gli occhi nocciola di Maria divennero
improvvisamente più lucidi e, con voce rotta dalla preoccupazione, rispose:
“Credo che vogliano comunicarci qualcosa di…”
Neanche il tempo di terminare la frase, che Sarah
subito la interruppe, incalzando con un tono più concitato: “Perché non mi hai
svegliata ieri sera?”
“Ci ho provato, cara, ma ti sei girata dall’altro
lato. Eri stanca morta”, le disse, tentando di assumere un timbro di voce e
un’espressione in viso più sereni per rassicurarla e, intanto, il piccolo
Giulio aveva già ripreso a dormire.
“Sbrigatevi, dobbiamo uscire”, intervenne Davide perentorio
e agitato, ponendo una mano sulla spalla di sua moglie e, velocemente, lo
seguirono.
Quando la sirena smise di fischiare, nel campo
piombò un silenzio quasi surreale. I tedeschi avevano posizionato davanti al
loro edificio una specie di palco costituito da due tavole di legno sovrapposte
e un folto numero di soldati armati lo circondava. Sarah sentiva nelle orecchie
le pulsazioni del proprio cuore e l’ansimare del proprio respiro che, nell’aria
fredda del mattino, formava nuvolette di fumo bianche. Sul palco, dietro al
microfono e affiancato da un sottoufficiale, si ergeva la figura del tenente. Ben
dritto, con le mani dietro la schiena e con indosso il lungo cappotto
dell’uniforme, sembrava più alto, più imponente, più minaccioso e Sarah dovette
sforzarsi di allontanare dagli occhi della mente la terribile sequenza dei
momenti vissuti con lui per essere presente a ciò che stava accadendo. Ma, al
soffio di un respiro esalato al microfono, fu di nuovo trafitta dal ricordo del
suo ansito e del cigolio del letto e lasciò che quel dolore le scavasse ancora
nel corpo e nell’anima, fino a quando il tenente non iniziò a parlare.
Con voce metallica e glaciale calma, pronunciò
poche parole che, di colpo, la fecero sprofondare in un’angoscia profonda,
forse mai provata prima di allora, lacerandole il cuore: “L’SS-Scharführer
Weber Jörg, adesso, leggerà i nomi dei prigionieri che lasceranno il campo. La
partenza è prevista fra due giorni e avete un tempo più che sufficiente per
raccogliere le vostre cose.” E, subito, indietreggiò di un passo per lasciare
il microfono al sottoufficiale che, senza perdere tempo, iniziò a leggere da
quei fogli che Sarah aveva già visto.
Soltanto lei, in mezzo a centinaia di persone
un po’ smarrite e confuse dall’inaspettato annuncio, era tristemente a
conoscenza della verità e, con la morte nel cuore, si mise in un ascolto
profondo dei nomi dei deportati verso
Auschwitz, contandoli e aspettando rassegnata il proprio turno. Arrivata a
cento, perse il conto e strinse forte il braccio attorno alla vita di Maria,
quando sentì pronunciare i nomi della donna, di suo marito e dei bambini con i
quali era arrivata a Fossoli. Era certa che anche il suo nome fosse su quella
lista, dal momento che, per un giorno intero, non aveva svolto il suo lavoro di
cameriera e, soprattutto, non aveva mai soddisfatto realmente i bisogni del
tenente.
Hermann lasciò il
microfono al sergente maggiore e, mentre questi iniziava a leggere i nomi dei prigionieri
destinati ad Auschwitz, fu libero
di ricercare con lo sguardo Sarah. Aveva cancellato il suo nome dalla lista la
mattina precedente, prima di farle portare la colazione e, affinché la sua
presenza non lo distogliesse – esattamente come stava accadendo in quel momento
– dagli impegni e da se stesso, le aveva permesso di riposare tutto il giorno.
Non fu difficile scorgere la sua figura, la perfezione in mezzo alla bruttezza
di centinaia di esseri per lui inferiori, avvolta nel cappotto rosso.
Rosso, come lo
sfondo della bandiera nazista, simbolo di supremazia della razza e di potenza che,
da una torretta di sorveglianza, vide ondeggiare forte a un’improvvisa folata
di vento. Ne udì il rumore, mentre la voce del sottoufficiale arrivava alle sue
orecchie come un eco lontano, un suono indistinto e i suoi occhi tornavano a
Sarah. Era in virtù di quel potere che si era avvalso il diritto di farla sua
con ricatto e violenza.
Rosso, come il
sangue d’innocenza rubata impresso sul lembo della sottoveste bianca che lei
stringeva fra le gambe all’indomani della violenza, seduta sul pavimento, con
le spalle appoggiate al muro e gli occhi fissi nel vuoto. E, intanto, la vide
stringersi a una donna bionda che teneva in braccio un bambino piccolo,
affiancata da un uomo dai capelli neri, folti e spettinati. Mai era successo
che una ragazza lo respingesse e che lui si comportasse in modo così abietto.
Rosso, come il
colore attribuito alla passione che, forse, avrebbero potuto vivere assieme, se
solo avesse cambiato il suo approccio verso Sarah, accompagnandola per mano nei
meandri del desiderio, a lei ancora sconosciuto. Desiderò farla sua, sentendosi
suo. Desiderò sentire le carezze delle sue mani sul proprio corpo e farle
esplorare quel nuovo mondo. Ma, d’improvviso, si costrinse a ritornare in sé, mentre
il sergente maggiore aveva già iniziato a leggere l’ultimo foglio della lista.
Con gli occhi velati
di lacrime e fissi sul sottoufficiale, Sarah attendeva che, da un momento
all’altro, questi pronunciasse il suo nome. Attendeva sempre più rassegnata,
tra angoscia per le persone – soprattutto, per quei poveri bambini – nominate
per la partenza verso Auschwitz e paura per il destino che avrebbe con loro
condiviso. Ma il suo nome non fu mai pronunciato, mai divenne un numero inciso
sul braccio né lei cenere trasportata dal vento.
Berlino, ottobre
1946
Seduto sulla sedia, accasciato
allo scrittoio della sua stanza, Hermann si era addormentato sopra una distesa
di libri tradotti in italiano, dizionari e fogli sui quali aveva esercitato la
sua dimestichezza nella lingua straniera, stanco per lo studio ma, soprattutto,
tramortito da un vortice di ansia e di entusiasmo. Il giorno seguente, suo
padre avrebbe incontrato degli amici, come lui, ex membri del Dipartimento 1A
della polizia di Stato prussiana e, successivamente, della Gestapo. Grazie alle
conoscenze di suo padre, avrebbe ottenuto tutti i documenti necessari per
espatriare in Italia e, con la testa poggiata su “I dolori del giovane
Werther”, sognò il fatidico momento in cui avrebbe ritrovato la sua Sarah.
“Ti avrò perché sto male,
se non ti sento mia.
Ti avrò perché non posso più aspettare.
Ti avrò perché in futuro
io ti ritroverò.
Ti avrò perché nel libro della vita mia
c’è scritto che ti avrò.”
Enrico Ruggeri, Ti avrò