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Autore: MaikoxMilo    23/02/2020    3 recensioni
Le voci di tenebra azzurra, cheta ma terribile, si stanno allungando sempre di più sul nostro mondo. Sono latrati di sofferenza che, rantolando, vanno sparendo sempre di più, sono singulti di dolore che affogano nel silenzio di una frattura spazio-temporale, sono pianti inermi di bambini che non sono mai nati. Tutto porta ad un unico filo conduttore, tutto è manovrato da un solo, unico, burattinaio che agisce in virtù di uno scopo più alto, imprescindibile. La Dimensione Terra, la dimensione delle possibilità, unica ancora a resistere nel Multiverso algoritmico, sta per venire risucchiata da un'altra estensione, vicina ma lontana, gemella ma distante: il luogo natio del Mago medesimo, Ipsias. L'altra. L'infinitamente ineffabile.
Ciò che è successo lassù, quale correlazione ha con la Dimensione Terra? Potrà la Melodia della Neve, la melodia di tutte le cose, opporvisi?
Nuove esperienze e battaglie attendono i Cavalieri d'Oro del XXI secolo, sempre accompagnati da Marta, Michela, Francesca e Sonia, ormai entrate di diritto tra le schiere dei custodi del tempio.
In un mondo che va eclissandosi... sarà possibile una nuova luce?
Naturalmente si tratta del seguito di Sentimenti che attraversano il tempo, del quale è necessaria la lettura!
Genere: Angst, Avventura, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Cygnus Hyoga, Nuovo Personaggio, Scorpion Milo
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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Capitolo 5: Creazione e distruzione (prima parte)

 

 

20 ottobre 2011, mattina presto

 

 

Mi sono alzata prestissimo all’alba, senza neanche aver dormito per paura di essere risucchiata dal sogno. Nessuno è venuto a cercarmi, malgrado sia mio fratello che Francesca abbiano capito di aver fatto un passo falso ieri, presupponendo che non ci fosse nessuno fuori, e quindi parlando, facendomi così ascoltare tutta la conversazione che invece avrebbe dovuto rimanere intima fra loro. Meglio così, non ho la forza di affrontarli ora, né tanto meno di parlare di Stevin. Quando Camus se la sentirà, mi spiegherà che diavolo ci è andato a fare ieri mattina a parlare con il mio amico, anche se non so se io possa definirlo ancora tale, ugh… In più, l’ultima parte del discorso era molto confusionaria, non ho capito granché, mi ha solo fatto venire un gran mal di testa.

Mi appoggio ad una colonna del tempio, prostrata, buttando un occhio in direzione della tredicesima casa. Vado a zonzo dall’alba e ora sto andando a parlare con Shion, ma la mia mente è altrove, a quel 20 ottobre del 2009, a quell’infausto giorno di due anni fa, che ha visto la fine della mia infanzia, e a quella dannatissima alluvione, capitata proprio il giorno del compleanno del mio amico.

 

Mi spaventa… l’astio che prova per Marta, come se lei gli avesse fatto qualcosa, o peggio, come se lei avesse mancato di fare qualcosa a cui lui teneva. Non ha comunque alcuna cognizione di questi due anni, la sua mente è ferma ad ottobre 2009, per sua stessa ammissione.

 

Ha ragione mio fratello… fin dal nostro insperato incontro nella Valbrevenna oramai sigillata, Stevin non fa che guardarmi con astio, come mai non ha fatto in vita sua, non avrei mai creduto potesse provare un tale sentimento per qualcuno, men che meno nei miei confronti, lui, così gentile e buono… stento ancora a crederci!

Perché? Perché mi odia?!? Cosa gli è successo in questi due anni, dove è stato? Non è possibile che la valle sia stata bloccata da più di un mese, perché le testimonianze sono recenti e… e…

Mi prendo la testa fra le mani, sempre più confusa e annichilita. Non so da che parte sbattere la testa, non so se sto facendo bene oppure no, non so neanche cosa sia giusto o sbagliato, cosa sia falso o cosa sia veritiero. Non ho informazioni sufficienti, non ho niente tra le mani, eppure non faccio che torturarmi psicologicamente. Trattengo il respiro per una serie di secondi, come ho imparato a fare per tranquillizzarmi. Cerco quindi, con tutte le forze, di tornare alla calma, inspirando ed espirando con enorme sforzo.

Ho l’impulso di correre da lui e chiarire al più presto, oltre a sincerarmi delle sue condizioni, ma Shion mi ha convocato, non posso certo disdire. Coniugando tutte le mie energie per seppellire a viva forza le mie intenzioni, rialzo il capo con l’intento di arrivare finalmente al tredicesimo tempio, ma colui che vedo appoggiato ad una colonna poco sopra di me, del tutto incurante del mio stato, malgrado lo abbia visto con i suoi occhi del tutto simile ai miei, mi paralizza per un nanosecondo, in tempo comunque per mutare il mio sguardo in uno più truce.

“Buongiorno, figlia...”

‘Buongiorno, figlia’?!? Ma vai a cagare…

Sbuffo contrariata, atteggiandomi da Camus quando è seccato da qualcuno, e passo oltre, non degnandolo di uno sguardo, che intanto ho già tante cose per la testa, mi ci manca mio padre che mi si palesa davanti dopo mesi di latitanza, davvero pessimo!

“Nonostante il nostro rapporto sia migliorato, non perdi il vizio di essere supponente, così come tuo fratello...” mi rimbrotta subito, senza particolare enfasi.

Ah, il rapporto sarebbe migliorato?! Beato lui che lo riesce a vedere! Sì, certo, è un po’ meno vegetale ghiacciato rispetto al primo incontro, ma assolutamente inconciliabile con il mio essere, oltre al fatto che lo vedo a spizzichi e bocconi, come può pensare di costruire un qualche tipo di rapporto con me?!

“Potresti almeno salutare tuo padre...”

Ma non mi dire… si è offeso?! Questa è bella!

Sospiro, rivolgendogli uno sguardo glaciale ma concedendogli, con ‘buona’ disposizione d’animo, almeno una risposta.

“Il papino, invece, avrebbe almeno potuto farsi vivo in questi mesi… sai com’è, suo figlio maggiore è stato ad un passo dalla morte a causa della peste, ed è ancora debilitato. Come se non bastasse… mmm, mi sfugge qualcosa? - domando retoricamente, simulando di aver dimenticato una cosa che invece so benissimo – Ah, già… prima di quella volta suo figlio è stato ferito gravemente al torace, finendo in coma, non mi pare di aver mai udito accenni di preoccupazione da parte sua!”

Convinta di non aver più altro da aggiungere, giro i tacchi con l’intento di andare da Shion, ignara di avergli mostrato una via per contrattaccare, cosa che non tarda a fare.

“Non mi sembra di essere stato io a scappare preda dei sentimenti, obbligando così Camus a farti da scudo per proteggerti!” ribatte, serafico.

Accuso il colpo, sussultando, ma non mi do per vinta, voltandomi di nuovo e scendendo di qualche gradino per guardarlo dritto negli occhi, furente.

“Efesto, non osare! Non parlare così a cuor leggero di quel fatto, SOPRATTUTTO con quel tono disgustato!”

“Non era mia intenzione...”

Raduno tutte le mie forze per seppellire l’ascia di guerra, giacché non sembra giunto qui allo scopo di provocare, inoltre perseverare nelle accuse renderebbe solo me più infantile, e non è proprio il momento, questo.

“Noi divinità abbiamo il nostro bel da fare sull’Olimpo. Come sai, durante il vostro scontro con i falsi Hades, Ares e Apollo, è caduto tutto in rovina. Non ho quindi il tempo per venire qui e perdermi in convenevoli! – mi spiega, cauto – Tanto ci sei tu con Camus, gli hai salvato la vita, posso stare tranquillo!”

Il suo tono pacifico, anche se distante e ruvido, mi mette quasi del tutto a mio agio, permettendomi di tornare a guardare mio padre senza più quel velo di odio che ogni tanto provo. Non sono ancora in vena di confidenze con lui, mai lo sarò, ma almeno possiamo parlare senza scannarci. Nonostante questo, mi sento di aggiungere ancora una cosa.

“Non hai tempo per il tuo ruolo paterno, lo capisco… non lo hai mai avuto, del resto, ma non chiedere nemmeno a Camus un comunissimo ‘come stai?’è cosa ben grave… - gli dico, abbassando lo sguardo – Lui… lui, anche se seguita a comportarsi come prima, è molto debole, ci sono momenti in cui sta molto male, anche se si ostina a non darlo a vedere per non farci preoccupare, ma io lo so, so che le ferite gli dolgono ancora enormemente, per non parlare delle conseguenze della peste, di essere stato quasi posseduto dal nemico, che si ripercuotono ancora sul suo giovane e stremato corpo. Non ti chiedo di fare il padre premuroso, sappiamo entrambi che non ne sei in grado, ma almeno… almeno, quando puoi, vallo a trovare...” gli spiego, apprensiva, sospirando.

“Vedrò di fare quello che posso, anche se penso che il trattamento che riceverò sarà persino meno gentile del tuo!”

“Beh, è già qualcosa… per il resto, è il minimo, Efesto, sei il nostro padre biologico, ma non vi è alcun tipo di rapporto tra noi!” gli sorrido forzatamente, tornando a salire le scale. Lo vedo seguirmi a breve distanza, il volto serio e l’espressione un poco corrucciata, tanto da rivolgergli uno sguardo perplesso, non capendo le sue intenzioni. E’ lui stesso a chiarirmele immediatamente.

“Devi vederti con Shion, giusto? La questione è della massima segretezza, e mi è stato chiesto, in quanto padre, di collaborare” mi spiega solo, enigmatico.

Non aggiungo altro, la testa già fin troppo satura per permettersi di aggiungere altri elementi alla già ampia scacchiera precostituita che è di molto superiore a me.

Raggiungiamo quindi l’ultima casa, dove Shion ci attende. Nel momento in cui mi vede, quasi rilassa i muscoli, come se fino all’ultimo non si fosse aspettato la mia reale presenza. Lo vede approcciarsi a me con enfasi, fermandosi a pochi centimetri e chinandosi con il busto nella mia direzione. La sua fronte e i due strani segni al posto delle sopracciglia, si appoggiano alla mia pelle, sbigottendomi non poco e provocandomi l’impulso di indietreggiare, tuttavia resisto. Lo fisso ancora più sorpresa, spalancando gli occhi, mentre Shion con gesto delicato si stacca da me, sorridendomi con quei due magnifici occhi viola che si ritrova.

“Scusami per la rozzezza dei miei modi… ho invaso la tua sfera privata senza darti il tempo di reagire, ma era necessario per risvegliare il tuo ‘terzo occhio’ e destare così la tua coscienza superiore”

Effettivamente lo considero un gesto molto intimo, che uso solo con mio fratello, subirlo ora da Shion, senza avere la possibilità di opporvisi, mi rmette a disagio, soprattutto perché non ne comprendo la motivazione.

“Il terzo… il terzo occhio?” chiedo interrogativa, rammentando qualcosa a riguardo.

“Sì… voglio che tu veda la storia dalla parte mia e, soprattutto, di tuo fratello, prima di giungere qui al Tempio. Per farlo, ho avuto bisogno di toccarti in quella maniera, devi perdonarmi...”

“Io non… non capisco...” sussurro, sentendomi, per qualche ragione a me sconosciuta, sconfortata.

“Marta… il Sommo Shion vuole risvegliare in te i ricordi di quando eri una neonata di pochi mesi, implementandoli con quelli suoi e di tuo fratello, in modo da avere il quadro chiaro su una certa questione...” mi delucida mio padre, affiancandosi al Grande Sacerdote.

“Perché… perché ora?” riesco solo a chiedere, quasi meccanicamente.

“Perché è uscito il discorso l’altro giorno, perché te lo devo, visto che a causa del mio errore di valutazione avete rischiato grosso nella missione e, in ultimo, perché oltre al qui presente tuo padre, e tua madre, sono l’unico a saperlo… - inizia a spiegarmi, franco – Inoltre penso tu abbia percepito lo sguardo ricolmo d’odio di Camus, le sue frasi rancorose nei mie confronti… c’è una ragione anche per quelle, anche se tuo fratello non lo rammenta chiaramente, e tutto questo… sempre a causa mia!”

Non ribatto niente, limitandomi ad abbassare lo sguardo. Odiare è una parola eccessiva, non penso che mio fratello provi solo quello nei confronti di Shion, ma è lampante che qualcosa si sia rotto tra loro. Ho sempre avvertito stima reciproca tra i due, ma da quando siamo tornate nel nostro presente, dalla missione in poi, Camus sembra avercela in qualche modo con lui. Che davvero sia un retaggio passato? Che davvero con questa nuova vita Camus abbia deciso di dare il tutto e per tutto, più di quanto non abbia già fatto in precedenza, per la sua stretta cerchia di affetti e non solo come devoto paladino della giustizia? E’ suo diritto farlo, ma…

Dei nuovi passi da parte di Shion bloccano il flusso dei miei pensieri. Le sue mani mi toccano gentilmente le guance, spingendomi a guardarlo dritto in faccia, nuovamente in un gesto sin troppo intimo che mi imbarazza un po’. Tuttavia le sue iridi brillanti, in cui si può facilmente scorgere l’universo, mi attirano come un magnete, così come il suo sorriso gentile, ereditato anche da Mu. Non ha segni di vecchiaia in sé, il suo viso è tale e quale alla sua controparte del XVIII secolo, eppure tutto nel suo sguardo è cambiato, quasi come se la nuova vita non gli avesse appesantito il corpo ma l’anima che, da sola, deve reggere la zavorra di numerose altre vite, quelle dei suoi compagni caduti, quelle dei suoi compagni del presente.

“Ora… chiudi gli occhi e lasciati trasportare dalla corrente...” mi consiglia suggestivamente, portandomi a fare quanto chiesto. Aggiunge ancora qualcosa, ma non lo odo, perché sono ormai lontana, proiettata verso gli albori della mia vita appena formata.

 

 

* * *

 

 

Novembre 1994

 

Era una giornata grigia e ventosa tipica di Genova in quel periodo dell’anno, la Signora Antoinette ben lo sapeva, perché in quella città ci aveva passato buona parte dell’infanzia, sebbene fosse nata nella ridente costa azzurra, a Nizza. Suo padre aveva origini italiane, così come il suo nome ad Hoc, Dante, sua madre invece era francese, pertanto ne era nato un bel connubio, lei, di origini franco-italiane, infinitamente innamorata delle due città che l’avevano vista formarsi, Genova e Nizza. Malgrado quello, avrebbe voluto tornare nel posto che le aveva dato i natali per passare la brutta stagione, tutto quel grigiore la mal disponeva, rendendola triste, e lei era invece una persona allegra e solare, necessitava del sole e del bel tempo per stare meglio. Ma ovviamente un conto erano i suoi desideri, un conto le possibilità; con un lavoro da cardiochirurga all’ospedale Gaslini, il tempo anche solo per respirare era poco, unito all’impossibilità di spostarsi per lunghe distanze. Se, in più, a questo, si aggiungeva il dover mantenere due figli da sola, le cose si complicavano, rendendo impossibile tornare a Nizza, se non per le vacanze. Ragion per cui, l’intera famiglia si era trasferita stabilmente a Genova, città di mare, città di monti, città dalla doppia faccia, come Giano bifronte, città aperta, città chiusa, in un vertice di contraddizioni.

Arrestò i suoi passi, in attesa. Era arrivata all’asilo prima del solito, cogliendo al balzo la possibilità di andare personalmente a prendere il figlio più grande, cosa rara, dato gli innumerevoli compiti che aveva e che la costringevano a lavorare anche fino a tarda sera. Fortunatamente c’erano i nonni a prendersi cura dei figli, senza di loro sarebbe stato tutto molto più difficile. Le costava quella distanza forzata dalle sue due creature, ma era l’unico modo per permettergli una vita dignitosa, per nulla al mondo se la sarebbe lasciata scappare.

Così quel giorno di metà novembre, riuscendo miracolosamente a finire il turno per tempo, si era recata di persona all’asilo, e lì si era messa in attesa. Dopo pochi minuti, a lei si aggiunsero numerose altre mamme, talvolta accompagnate dai papà. Sorrise rammaricata. Ancora pochi minuti ancora, uno sciame di bambini si precipitò fuori, tuffandosi tra le braccia dei genitori tra le risate e i chiacchiericci generali. Antoinette non si meravigliò di non vedere il suo, di pargolo, tra la mischia, pertanto con passi eleganti e composti si recò direttamente dentro, ben sapendo che lo avrebbe trovato lì. Il suo figlioletto faceva parte dei fiocchi blu, così come il suo inusuale colore dei capelli che, la donna ipotizzava, avesse preso dal padre.

Varcò infine la soglia dell’aula, trovando conferma ai suoi pensieri, prima ancora che dalla vista, dalla voce della maestra che parlava in direzione di un bambino chinato sulla cesta di giocattoli che minuziosamente metteva in ordine.

“Su, Cammy, la campanella è già suonata, non preoccuparti di mettere a posto anche i giochi utilizzati dagli altri bambini, ci penso io qui!”

Nessuna reazione da parte del bambino che, silente e corrucciato, si spostava in giro per l’aula a prendere tutti i giocattoli in disordine per metterli nella cesta. Neanche di questo si meravigliò Antoinette, sorridendo malinconicamente a quella scena. Il suo frugoletto era un bambino speciale, lo sapeva, era diverso dagli altri, e non era solo un modo di dire.

“Buonasera!” salutò cordialmente, chinandosi un poco verso la maestra, la quale le sorrise raggiante.

“Buonasera, signora! Cammy sta mettendo a posto i giocattoli nonostante io gli stia continuando a dire di non preoccuparsi… - spiegò sbrigativa, indicandolo, ancora del tutto preso dal riordino – Cammy, su, vieni qui, c’è la mamma!”

Stavolta il bambino alzò il capo, scorgendo la nota figura di sua madre, ma non si mosse prima di aver sistemato nella cesta i peluches che le bambine, Katya e le altre, avevano utilizzato durante la giornata. Solo una volta ultimato anche quel passaggio, si decise a muoversi, prendendo il suo zainetto e avvicinandosi alle due donne. Sguardo basso ed occhi spenti. Anche di quello non si stupì Antoinette, ma le maestre, lo sapeva, facevano ancora fatica a comprenderlo.

“E’… è un bambino perfetto, tanto da sembrare finto, a volte… - lo elogiò la maestra Aurora, prendendogli la manina, Camus la lasciò fare – Mentre gli altri fanno casino, lui sta là nell’angolo a costruire con i lego, riesce a fare delle opere spettacolari per la sua età, sa? Però… però non socializza, è sempre da solo, parla poco, il minimo indispensabile, e non reagisce alle provocazioni degli altri compagni che a volte lo prendono in giro. Lui… lui è un bambino stupendo, ma a volte mi preoccupa, non vorrei che...”

Antoinette si affrettò a dire che era ben consapevole di tutto ciò che andava dicendo, che gli aveva già fatto fare visite specifiche, e che non aveva niente, risultando perfettamente sano. Era solo molto schivo e non si era del tutto abituato al trasferimento dell’anno precedente da Nizza a Genova. La maestra sorrise e annuì di slancio, un po’ più leggera nello spirito, allontanandosi poi a sistemare gli ultimi giocattoli spaiati.

In quel momento la Signora Antoinette si accorse che il piccolo Cammy aveva un livido viola sotto l’occhio sinistro, non sembrava causargli troppo male, ma era necessario indagare, perché non era la prima volta che accadeva.

“Cam… - lo chiamò, accucciandosi davanti a lui allo scopo di attirare l’attenzione – Cosa ti è successo qui?” chiese, accarezzandogli dolcemente la guancia.

“Sono andato a sbattere contro uno spigolo...”

“Stando fermo?”

Camus non rispose, si limitò a discostare lo sguardo, come faceva quando diceva una bugia, sebbene fosse raro perché non amava farlo. Era un bimbo molto giudizioso. La madre sospirò, prendendolo in braccio e sistemandogli lo strano ciuffo a cespuglietto che aveva in testa.

“Cammy, non è che… che uno degli altri bambini ti ha dato un pugno o una gomitata in quella zona?”

“...”

Era un bambino che parlava davvero poco, sebbene conoscesse fluentemente due lingue, l’italiano e il francese, e avesse imparato un sacco di parole, un vero e proprio prodigio.

“Camus, sai che, se ti picchiano, puoi dirlo a me, vero? Mi dispiace, sono spesso a lavorare, ma...”

“Non ha importanza...”

“Eh?”

“Non ha importanza se mi picchiano, sono bambini che non rappresentano niente per me, possono fare quello che vogliono, non gliela darò vinta!”

Discorso breve ma determinato. Antoinette preferì non aggiungere altro, Cammy sembrava stanco, pertanto lo portò dolcemente in braccio, la testa del piccolo sulla spalla, le manine intente ad arpionare con forza la sua giacca.

“Cam, ora andiamo a casa a ricongiungerci con i nonni e tua sorella. Ho il week-end libero questa settimana, l’occasione perfetta per stare un po’ insieme” gli spiegò, accarezzandogli teneramente i capelli che, sopra il capo, prendevano quasi vita ribellandosi in tutte le direzioni.

Al suono di quelle parole Camus si raddrizzò, fissando sua madre in trepidante attesa, gli occhi pieni di vita, luminosi come solo la sorella riusciva a ricreargli, sebbene, al momento, non fosse altro che un delicato e profumato fagottino di petali delicati.

“Da-davvero? Potrò giocare con lei, con te, e con i nonni?” chiese conferma, temendo di aver capito male.

“Certo! Questo week-end lo dedico totalmente a voi, però vacci piano con Marta, è ancora molto piccola!” confermò la signora Antoinette, felice di vedere finalmente suo figlio provare emozioni ed emozionarsi come capitava ai suoi coetanei.

Accadeva solo con sua sorella, miracolo di marzo profumato di primavera, non era che una neonata in fasce di 8 mesi, ma era stato il regalo più grande, soprattutto per il piccolo e schivo Cammy, asettico fino ad allora, che grazie alla sua nascita, aveva riscoperto finalmente il calore dei sentimenti. Perché se c’era una cosa che, fin dal principio, aveva preoccupato Antoinette, la nonna Ines e il nonno Dante, era l’assoluta incapacità del figlio più grande di cambiare espressione e interagire attivamente con l’ambiente circostante. Avevano pensato di tutto, che fosse autistico, che avesse problemi neuronali, che avesse un qualche tipo di deficit. Avevano girato pediatri diversi e specialisti vari, ma tutti avevano concordato che il bimbo non avesse nulla che non andasse, cosa che non spiegava però la sua afasia, il suo essere così assurdamente impassibile per la sua età; nonna Ines addirittura aveva teorizzato che il male non fosse fisico ma dell’anima (lei e le sue manie di richiamare il soprannaturale!) e che quindi i medici non potevano nulla, urgeva un’altra via; nonno Dante invece, uomo più concreto e un poco rude, non si era mai dato per vinto, rifiutando in tutti i modi quegli esoterismi.

Lui, personalità forte, non poteva in alcun modo accettare quella spiegazione altisonante, non si era quindi mai dato pace, cercando invece di far interagire a forza il nipote. Nessuna soluzione attuata aveva risolto alcunché nell’immediato, ma dalla seconda gravidanza in poi qualcosa di miracoloso era scattato nel piccolo. Aveva cominciato premurosamente a interessarsi delle sorti del fratellino, poi scoperto essere sorellina, chiedendo frequentemente delucidazioni su come si sentisse là dentro nella pancia della madre, un luogo buio, un luogo misterioso… e la cosa con era cambiata dopo la nascita della piccola Marta, così l’avevano chiamata, anzi, Camus era sempre più coinvolto nei confronti della sorellina, aiutava la mamma in casa, non la lasciava mai sola. Aveva un cocente bisogno di toccarla, cullarla e prendersene cura, quasi come se fosse il vettore, il modo, per provare sentimenti fino ad allora sconosciuti. Era stato un piccolo prodigio, per tutti!

“Mamma, voglio molto bene a Marta, sai? Vorrei… vorrei rimanere al suo fianco per tutta la vita!” si lasciò sfuggire Cammy, sorridendo appena. La sua espressione era dolce, le riempì il cuore di una nuova speranza.

“Oh, Cam… non è la prima volta che sorridi, ma ogni volta è come se non ti avessi mai visto farlo. Sei meraviglioso così, dovresti farlo più spesso, sai? Anche gli altri sarebbero più disposti nei tuoi confronti!” gli disse teneramente la madre, accarezzandogli una guancia.

“Degli altri non mi interessa...”

“Allora fallo per le persone a cui tieni, perché non immagini quanto possa far star bene un gesto simile. Anche se per te, forse, potrà sembrare insignificante, per chi ti vuole bene, invece, è insostituibile!”

“Devo… devo sorridere per Marta?”

“Sì, Cam, sorridi per lei, se puoi, la renderai felice!”

“Allora sorriderò per lei” disse, risoluto, socchiudendo gli occhi e incurvando leggermente le labbra, prima di addormentarsi poco dopo.

Antoinette lo sistemò meglio sulle braccia, scostandogli un ciuffo dalla fronte e baciandolo sulla guancia. Sarebbe andato tutto per il meglio, da quel momento in avanti; Camus, anche se a fatica, stava scoprendo un mondo nuovo, enorme, sarebbero stati compagni di avventura, lui e Marta, sarebbero cresciuti insieme, di questo ne era più che convinta.

Sorrise ottimista, accelerando il passo per andare a casa, ignara però che, tra i cespugli dietro ad un albero, una figura alta e incappucciata si stanziava lì, imponente. Non un rumore, non un suono, attese soltanto che la signora si allontanasse per uscire dal nascondiglio, le labbra stirate in un’espressione serissima, un fremito nel cuore.

“Finalmente ti ho ritrovato… Dégel!”

 

 

* * *

 

 

Camus si rese conto di essersi addormentato solo quando, subito dopo il girare della serratura, venne accolto, ancora prima che dal caldo della casa, dal pianto di una neonata. Letteralmente scattò, come se avesse sentito un allarme, e sarebbe anche caduto dalla sua posizione altolocata se non fosse stato trattenuto da sua madre. Si guardò velocemente intorno, percependo l’avvicinarsi di qualcuno di famigliare.

“Orsù! Orsù, stellina! La mamma e il fratellino sono qua, non piangere più! Via le tenebre, via le ombre se le persone che amiamo sono con noi!” cantilenò nonna Ines, cullando Marta tra le braccia, la quale, infagottata nella sua copertina e con un cappellino bianco di lana in testa, continuava ininterrottamente a piangere.

“Che succede?” domandò Antoinette, posando Camus per terra, il quale, calato interamente nella parte del fratello maggiore, cominciò a saltellare sul posto, cercando di attirare l’attenzione.

“Fammela vedere! Fammela vedere!!!”

“Ah, non lo so… piange da un’ora, l’ho cambiata e le ho dato da mangiare, ma non fa che urlare con tutte le sue forze, povera stellina… - spiegò la nonna, continuando a cullarla – Cosa hai, piccina? Mal di pancino? Brutto sogno?” si rivolse poi alla creatura, ancora intenta a strillare, paonazza in viso.

“Nonna! Posso tenerla in braccio? Posso?” chiese un agitatissimo Camus, ostinandosi a saltare per riuscire a scorgere il viso della piccola Ormai c’era lui in casa, era suo dovere prendersi cura della sorella, sapeva di poterci riuscire.

“Oh, certo, caro, ma stai attento, è molto delicata!” rispose la nonna, chinandosi per permettere al fratello maggiore di sorreggere il fagotto urlante. Camus finalmente riuscì a vedere in faccia la sorellina, ancora piccola e fragile, se paragonata a lui, ne ebbe un moto di tenerezza mentre, aiutato dalla signora Ines, le accarezzava le guance paffute.

“Ciao, piccolina… sono tornato a casa, non piangere più!” le disse con dolcezza, portandosela al petto. La neonata, sulle prime, continuò a frignare, irrefrenabile, poi, cullata da quel tocco, spalancò gli occhi scurissimi, fissandolo con sorpresa. Il tempo sembrò arrestarsi per una manciata di secondi.

“Sono qui con te, non sei più sola!” le confidò teneramente, sfregando il nasino contro la guancia sinistra della piccola, la quale, poco dopo, sorrise, il pianto di prima un lontano ricordo, anche se era ancora rossa e in viso e bagnata.

Camus si ricordò le parole della mamma e fece un largo sorriso, sperando così di farla sentire bene, cosa che effettivamente riuscì perché il fagottino delicato protese le braccia nella sua direzione, come a volerlo richiamare a sé.

Nonna Ines e mamma Antoinette si guardano complici e sollevate, liete nell’anima. Non era la prima volta che il piccolo Cammy riusciva a calmare Marta portandola contro il suo petto e coccolandola, era come se la neonata avvertisse la presenza di suo fratello, la faceva sentire bene e, non di rado, le permettesse di riaddormentarsi pacificamente. Vi era un rapporto speciale fra i due, un rapporto quasi trascendentale che fuggiva alle logiche, andava oltre le parole, collegava le loro anime, come se fossero l’uno l’espansione dell’altra.

In quel momento nonno Dante uscì dalla cucina, approcciandosi così al nipote, il quale teneva ancora Marta in braccio, in quel momento completamente addormentata contro il suo petto.

“La chiami ‘piccolina’, eh?! Ma sei un soldo di cacio anche tu, mio ometto!” gli disse, accarezzandogli i capelli con gesto burbero ma confidenziale.

“Uh, sì… sono piccolo anche io, ma… ma lei lo è ancora di più, sembra un fagiolino! Ha così bisogno di protezione...” rispose pratico, sorridendo ancora una volta, accarezzandole il visetto addormentato.

“Hai ragione, Cammy… - controbatté il nonno, posandogli le mani sulle spalle, che qualsiasi altra effusione, oltre a quelle date, sarebbe stata troppo per lui – Sarà tuo compito proteggerla con tutto te stesso, non dimenticarlo mai, perché diventerai tu l’uomo di casa, conto su di te!”

Camus annuì risoluto, imprimendo il suo sguardo fermo in quello traslucido del nonno. Lo avrebbe fatto, sì, l’avrebbe protetta, a qualunque costo!

 

Il giorno seguente Camus era totalmente preso a giocare nell’attiguo giardinetto della casetta, giacché la sorellina dormiva e gli era stato detto di non disturbarla. Sua madre invece era intenta a lavare i piatti mentre i nonni erano fuori per fare la spesa. Il piccolo Cammy non aveva quindi altra alternativa che giocare da solo, non che la cosa gli dispiacesse, anzi, preferiva di gran lunga la solitudine al frastuono dei compagni di asilo, così come l’intimità all’eccessivo affollamento. Al dire il vero, prediligeva anche costruire con i lego, che non giocare con il pallone, perché adorava tantissimo ricreare oggetti e animali che nella sua mente erano ben chiari. Tuttavia, stante il bel tempo fuori di quel giorno di novembre dal clima mite, la sua famiglia aveva insistito per consigliargli un’attività all’aperto, eccolo quindi lì, a lanciarsi una pallina da tennis e a riprenderla con maestria, facendola rimbalzare sul muro per poi acciuffarla al volo, dimostrando un’agilità e una forza fisica superiore ai suoi coetanei.

Ad un certo punto, vide il gatto dei vicini scendere dal muro perimetrale, ingobbendosi misteriosamente in una direzione che lui, dalla sua posizione, non riusciva a scorgere. Assistette, incuriosito, al rizzarsi dei suoi peli, mentre la bestiola prendeva a soffiare come se avesse visto un fantasma. Non trattenendosi più dalla curiosità, andò verso il micio, accucciandosi poi a pochi metri da lui, al sicuro; sapeva infatti che era meglio non disturbare un animale spaventato, e quello lo era sicuramente!

“Cosa c’è, Raoh? Cosa hai visto?” gli chiese gentilmente, ottenendo come risposta solo le pupille dilatate del felino, ancora ingobbito.

Camus sapeva che non avrebbe ottenuto una risposta concreta, ma gli riusciva molto meglio esprimersi con gli animali e le piante, piuttosto che con gli altri bambini. Cosa bizzarra, al dire il vero, ma il suo mondo interno era così.

Il gatto produsse ancora un suono gutturale e prolungato, prima di soffiare più intensamente di prima e filare via, con le ali alle zampe.

Nello stesso momento anche la pallina tenuta concretamente dalle sue manine sfilò via, come se avesse volontà propria. Stupendosene, la seguì immediatamente non staccandole gli occhi di dosso, almeno fino a quando questa non si alzò da terra e si mise a oscillare in aria. Camus era incredulo, sapeva fin troppo bene che una cosa simile non poteva fisicamente accadere, a meno che…

“Psicocinesi...” ne dedusse, mantenendo le distanze da quell’anomalia fisica.

“Esatto, bravo… è una parola difficile da pronunciare per uno della tua età! Sai anche cosa significa, immagino...”

Una voce gentile ma improvvisa lo mise subito in allerta, facendolo scattare verso il muro, in modo da avere la schiena coperta da eventuali attacchi. L’istinto aveva reagito prima di lui.

“E vedo anche che hai il riflesso da guerriero. Buon sangue non mente, anche se, in questo caso, sarebbe meglio forse dire anima...” continuò lo sconosciuto, zoppicando esaustivamente ma mantenendo una postura composta, a dispetto dell’età e delle innumerevoli rughe sul volto.

Camus non fiatò, si limitò ad osservare, mentre la pallina volava sopra la mano dello sconosciuto, ponendo così termine al suo comportamento atipico. Era un vecchio, nient’altro che un vecchio segnato dagli ingranaggi del tempo, ma i suoi occhi lilla e i capelli verde sbiadito erano anomali al solo ammirarli. Inoltre, il piccolo lo percepì nitidamente, aveva l’universo dentro di sé, una cosa mai avvertita in altri, o meglio, non in quella misura. Continuò a non dire niente, valutando come e quando scappare immediatamente in casa, per il momento stava semplicemente sul chi vive.

“Perbacco! Visto di chi sei la reincarnazione, mi aspettavo una parlantina molto più sciolta, mi hai colto totalmente impreparato, sai?” ridacchiò ancora lo sconosciuto, corrugando la fronte.

“Lei è un estraneo...”

“Lo sono”

“Io non parlo con gli estranei!”

“Oh, che bambino giudizioso!”

Camus assotigliò le palpebre, sempre meno propenso a fidarsi di quel signore che faceva cose strambe e diceva cose ancora più innaturali. Parlava a lui come se lo conoscesse, reputandolo forse un credulone per la giovane età. Chi aveva davanti, avrebbe potuto essere chiunque, un malintenzionato, un ladro, un violento… meglio rivelargli il meno possibile, questo Camus lo sapeva bene, anche se aveva solo 5 anni e ¾. Tuttavia… tuttavia quell’universo che avvertiva dentro quel signore attempato, lo metteva a suo agio, facendolo sentire simile a lui in tutto e per tutto e, per la prima volta, realmente capito da un altro essere umano che non fosse sua sorella.

“Cammy! Cammy!!! Dove sei?!”

Il richiamo di sua madre rivelò, suo malgrado, il suo nomignolo, cosa che lo fece raggelare nelle vene. Non era il momento adatto, quello, non ci voleva proprio, era una informazione troppo importante!

“Cammy, eh? E’ un bel vezzeggiativo, sarebbe il diminutivo di…? - ma si interruppe, vedendolo allontanarsi di corsa come morso da una tarantola – Ehi, aspetta, dove vai?! La pallina, la...”

Ma non fece in tempo a finire la frase che il piccolo, accelerando ulteriormente, si rifugiò in casa, al sicuro.

Il vecchio Shion sospirò, crucciandosi non poco. Inarcò un sopracciglio, soffermandosi poi a vedere il cielo blu cobalto sopra di sé. Era una giornata non troppo fredda, l’aria era pulita e sgargiante, tanto da ingannare i sensi e credere di essere in primavera, se il tronco cavo e i rami vuoti non avessero già ampiamente creato un brusco ossimoro tra la temperatura percepita e la stagione ormai morta.

“Capisco… non sarà affatto facile, eh?” bofonchiò, decidendo di lasciar perdere ancora per quel giorno. L’ultimo. Poi il futuro Acquario sarebbe andato con lui. Doveva andare con lui, poiché era l’ultimo che mancava. L’ultimo, prima di dirsi completo il primo cerchio dei dodici.

Decise di non dare peso allo smacco, allontanandosi fischiettando un motivetto della sua terra di origine che gli mancava enormemente, aaaaaaaaah, com’era brutta la vecchiaia, con tutte le sue malinconie!!!

Nel frattempo Camus, rifugiatosi dietro la porta di casa sua, nido sicuro, attese che il vecchio si allontanasse, prima di permettersi di sciogliere i muscoli e tirare un sospiro di sollievo. Aveva perso la sua pallina, sempre meglio di perdere qualcos’altro, comunque!

A quel punto sua madre uscì dalla cucina, le mani avvolte in un panno e le maniche tirate fino ai gomiti.

“Ah, eccoti qui, Cammy, non è da te non rispondere subito quando ti chiamano, mi hai fatto preoccupare!”

“Scusa, mamma...”

“Dove l’hai messa la pallina?”

“Mi è… mi è finita lontano. All’inizio ho provato a riprenderla ma poi rischiavo di allontanarmi troppo, quindi ci ho rinunciato...” disse colpevole, perché, in fondo, per quell’oggetto in apparenza insignificante, i suoi ci avevano speso soldi, gli dispiaceva averlo perduto.

Sorprendentemente la madre invece di arrabbiarsi gli sorrise raggiante, passandogli una mano tra i capelli poco prima di baciarlo sulla fronte, discostando il solito ciuffo.

“Hai fatto benissimo, Cam, il mondo è pieno di pericoli, non si è mai troppo prudenti. Una pallina si può ricomprare ma, vedi, tu no, e tu sei il bene più prezioso che ho insieme a Marta, non dimenticarlo mai!” gli spiegò con dolcezza, gli occhi amorevoli.

Camus si ritrovò ad arrossire a quella manifestazione di affetto, mentre il cuore, cosa rara, prese ad accelerare. Davvero a sua madre gli riusciva semplice rivelare i suoi sentimenti e dimostrare l’amore che provava per lui, perché per lui era così difficile? Ancora una volta si ricordò della raccomandazione avuta il giorno prima, che davvero un sorriso avrebbe aiutato a sistemare tutto? Tentò.

“Gr-grazie, mamma, io… io… ti voglio bene!” le disse tutto di un fiato, stringendole il busto in modo da nascondersi completamente a lei. Si sentiva un fuoco sulle guance, come ogni volta che esternava il suo mondo interno.

La signora Antoinette spalancò gli occhi e la bocca, quasi sconvolta: era la prima volta che il piccolo le rivelava i propri sentimenti, certo, con la sorella ci era già riuscito, ma con lei no, non ancora. E sentirglielo dire con quell’imbarazzo a stento trattenuto, era stata forse una delle cose più emozionanti della sua vita.

“Oh, Cam, grazie, io… sono così contenta di sentirtelo dire, non lo avevi mai fatto!” biascicò, accarezzandogli i ciuffi ribelli, del tutto simili ai suoi. Se avesse mantenuto la sua tipologia di capelli, facendoseli crescere, sarebbero diventati sicuramente lunghi e lisci, ad eccezione di quelli sopra la testa, che avrebbero mantenuto le sembianze di un cespuglietto disordinato in un universo di ordine ed equilibrio.

“Me lo ha insegnato Marta a dirlo...” confessò, ancora rosso in viso.

“Oh, Cam, tua sorella ci impiegherà ancora un po’ a parlare, non...”

“Non intendo con la bocca… - la intercettò, desideroso di spiegare – Io… io la sento con la testa, capisci? Mi parla nella mia mente, so che è la sua voce e… e avrà una voce bellissima!”

Effettivamente la madre non capiva, non poteva capire concretamente. Si era sempre pensata aperta ad ogni possibilità e, da un lato, lo vedeva bene con i suoi occhi che il rapporto tra Camus e sua sorella era qualcosa di speciale e profondo già così. La neonata si calmava quando suo fratello la stringeva al petto, quando le sue piccole orecchie da folletto avvertivano i battiti irrefrenabili del piccolo Cam; per lui era lo stesso, le emozioni, i bisogni, le parole le aveva imparate pienamente solo con lei per lei, malgrado questo, per la signora Antoinette, era impossibile comprendere il reale significato di ‘parlare senza usare la bocca’. Decise pertanto di lasciar cadere il discorso.

“Cammy, posso chiederti un favore? - l’attenzione del figlio era tutta su di lei – Ecco, andresti a vedere come sta Marta? Vero che non piange quasi mai e dorme di lunga, ma non la sento da un po’, puoi andare a vedere se è tutto ok? Finisco i piatti e ti raggiungo!”

Camus annuì con decisione, fiero del suo ruolo, dirigendosi poi al piano di sopra a tutta velocità. Raggiunse la porta socchiusa e vi entrò sospingendola, anche perché alla maniglia non ci arrivava ancora. Vide la culla e ci si arrampicò, ma prima di buttarcisi dentro guardò con attenzione la sorellina. La piccola era sveglia, ma sembrava imbronciata, muovendo nervosamente le corte braccine e gambine. All’apparire di suo fratello, riconoscendone il viso, produsse un vagito, muovendo le manine come a volerlo richiamare a sé. Camus sorrise, dandole così l’imput di farlo a sua volta, poi, puntellando i piedi, si lasciò cadere al suo interno, ovviamente stando attento a non schiacciarla.

“Ciao, piccolina… - disse, prendendola delicatamente in braccio – Appena ti ho visto sembravi arrabbiata ma ora va tutto bene, vero?”

“Nnnnnnnngggg!”

“Ha ragione la mamma, non parli ancora, ma… ma io riesco a sentirti, sai? - spiegò trepidante, certo di essere compreso almeno da lei – Sei qui, nella mia testa, e hai una voce bellissima, non vedo l’ora di poterla udire anche con le mie orecchie!”

Marta intanto alzò un braccino allo scopo di afferrare uno dei ciuffi di suo fratello, avvertendo l’impulso di ciucciare, ma erano ancora troppo corti per essere alla sua portata, pertanto, frustrata, si mise a piangere.

“Ngueeeeee!!!”

Un unico singhiozzo, perché, immediatamente dopo, la sua attenzione fu catturata da una luce azzurrina e attraente; una luce prodotta dal palmo libero di Camus. Non aveva forma, quella luce, ma era accattivante e misteriosa. La piccola spalancò le iridi, sorpresa.

“Non vedo l’ora, sai? Non vedo l’ora di vederti muovere i primi passi, di sentirti parlare, di vedere come crescerai… - le confidò, emozionatissimo – E’ così, sai? Ti farò vedere il mondo, le sue meraviglie, i suoi colori, come tu li hai fatti vedere a me, che ero totalmente incapace a distinguerli. Cresceremo insieme, fianco a fianco, così potrò farti vedere passo per passo ogni cosa vera, reale… le potrai toccare, percependone la temperatura, l’impeto, il battito. Vedrai tutto, con quegli occhietti, non solo così!”

Disse questo e, mentre terminava l’ultima frase, la luce celestina si tramutò in una farfalla di ghiaccio, del medesimo colore. Quella sbatté le ali un paio di volte, come a volersi asciugare perché appena uscita dal bozzolo, poi spiccò il volo. Era fatta di freddo ghiaccio ma pienamente vitale. Si posò sul nasino della neonata, la quale, sorpresa, starnutì più volte, ridendo come una matta davanti a quel prodigio. La farfalla non scomparì subito, sbatté le ali ancora un paio di volte, poco prima di tornare sul palmo di Camus e tramutarsi in polvere ghiacciata, che si sciolse poco dopo.

“Questo è come nasce una farfalla, ma dal vero è ancora più spettacolare, non puoi neanche immaginare quanto!” le raccontò, posandola di nuovo sul letto e accucciandosi al suo fianco, protettivo. Si sentì improvvisamente stanco ma non era una brutta sensazione, anzi! Non di rado produceva quegli strani fenomeni prima di cadere addormentato, a Marta sembravano piacere tantissimo, non faceva che sorridere quando li plasmava, rendendolo a sua volta felice. Socchiuse gli occhi, circondando la sorellina con un braccio. Le minuscole dita della piccola automaticamente strinsero al suo indice, non lasciandolo più andare. Sorrise ancora una volta, prima di aggiungere ancora una cosa.

“E’ tutto più bello dal vivo… Un giorno, non tanto lontano, ti porterò a vedere la nascita delle farfalle dai mille colori e ogni altra cosa che ci capiterà sotto gli occhi. Te lo prometto, piccola mia!” giurò solennemente, cadendo nel sonno più profondo.

 

 

* * *

 

 

Il giorno seguente era domenica, Camus ancora, dal basso dei suoi 5 anni e ¾ non capiva come fosse possibile che il tempo all’asilo trascorresse così lentamente da risultare snervante, a confronto con il fine settimana che invece era un battito di ciglia. Non era per niente giusto! Si stropicciò gli occhi e sbadigliò, quindi scese dal letto, andò a vedere la sorellina, che dormiva placidamente, e prese finalmente le scale, desideroso di aiutare la mamma nelle faccende domestiche. Non fece però in tempo a posare il piede sul primo scalino, che si accorse che nell’aria c’era qualcosa di strano, una vibrazione, nonché un vociare confuso nel soggiorno. Acutizzò i sensi, percependo una voce maschile, sconosciuta, arrivare proprio dalla stanza in questione. Un brivido gli corse lungo la schiena, un presagio, pertanto si diresse giù il più velocemente possibile. Una volta al piano terra, affacciandosi alla porta socchiusa, i suoi dubbi divennero realtà.

“...Quindi mi state dicendo che Cammy ha un cosmo e che è necessario portarlo lontano da qui per farglielo affinare, altrimenti corre il rischio di perderne il controllo...”

“E’ così, mia signora...”

Era il vecchio del giorno precedente, compostamente seduto sul divano e con un’espressione contrita, sua madre invece era a braccia conserte appoggiata alla biblioteca, in evidente postura difensiva.

Camus socchiuse le palpebre, sentendosi, forse per la prima volta in vita sua, iracondo. Il suo istinto viaggiava più veloce del sapere concreto, portandolo ad assumere a sua volta una posa difensiva. Tutto in lui era rigido e assolutamente statico, a parte il cuore che, percependo il pericolo, aveva cominciato ad accelerare.

Cosa voleva ancora quel signore da lui? Perché lo aveva seguito? Perché poi sua madre lo aveva fatto entrare?!? La sua giovane mente, febbricitante, cominciò a lavorare convulsamente, il tremore in lui. Non gli piaceva. Non gli piaceva per niente. Camus sapeva che era sbagliato origliare, ma ne andava del destino suo e di sua sorella, una giusta causa, era quindi assolutamente necessario.

“Mia signora… io posso capire che ciò che vi ho rivelato vi possa sconvolgere nel profondo, ma...”

“No, non mi sconvolge!” tagliò corto lei, schietta.

Il vecchio Shion corrugo la fronte, incredulo. Quella donna… quella donna non possedeva in cosmo, ma, per qualche ragione, sembrava ai suoi occhi tutto fuorché una persona qualunque. Decise di rimanere in attesa, sperando in un qualche tipo di spiegazione che non tardò ad arrivare.

La Signora Antoinette passeggiò nervosamente per la stanza tre volte, poco prima di sospirare e appoggiarsi nuovamente alla libreria.

“Non mi sconvolge…. - ripeté, una strana luce negli occhi, come di lupa che proteggeva i propri cuccioli – Mi sorprende invece che voi crediate che, dopo avermi detto questo, io semplicemente vi lasci portare via il mio Cammy come se niente fosse! E’ assurdo!”

Shion sospirò, sorvolando sulla spiegazione mancata. Era consapevole non sarebbe stata una passeggiata. Del resto, a differenza della maggior parte dei Cavalieri d’Oro già riuniti e orfani, lui, la reincarnazione di Dègel, aveva una famiglia, togliergliela sarebbe equivalso a perpetrare un’ingiustizia bella e buona. Ma il bene del mondo andava anteposto a quello individuale, così era, così sarebbe sempre stato.

“Mia signora, sono venuto qui affogando in me ciò che per me corrisponde alla moralità. Non sono venuto qui come benefattore, ma come distruttore, se serve, per un bene superiore! Non ho mai pensato, neanche per un istante, che sarebbe stato facile e, mi creda, toglierle la potestà su Camus, sarà un peccato che mi porterò dietro insieme a innumerevoli altri, ma… va fatto! Il bimbo è un pericolo sia per sé stesso che per gli altri, persino per lei medesima!”

La signora Antoinette si accorse, solo a discorso finito, di aver trattenuto il respiro, pertanto buttò fuori l’aria, ormai sotto pressione. Non si sarebbe comunque arresa.

“Per gli dei celesti, vi sentite quando parlate?!? Cammy un pericolo per me?! Ma andiamo, non...”

“Mi dica… suo figlio ha mai avuto comportamenti strani, atipici per un bambino della sua età?”

La signora Antoinette si ritrovò a spalancare gli occhi, totalmente incapace a controbattere: di comportamenti strani ce ne erano stati molti, innumerevoli, non sarebbe stato neanche possibile narrarli tutti a voce.

“Dalla sua espressione ne deduco di sì… ed io le posso spiegare perché: è un predestinato! E’ scritto nelle stelle che sarà il nuovo Cavaliere d’Oro di Aquarius!”

“Conosco la leggenda dei Cavalieri d’Oro e, nei miei trent’anni di vita, ho assistito e visto cose che gli esseri umani normali non possono nemmeno immaginare, ma…. Perdio, crede davvero di ‘addolcirmi la pillola’ a dire una cosa simile?! - ribatté, spaventata e arrabbiata – E’ vero, Camus è nato il 7 febbraio del 1989, il suo segno è quindi l’Acquario, come è vero che non è mai stato un bambino normale… ebbene, dicendomi questo pensa che glielo lascerò portare via?! Sono sua madre!!!”

“Signora… questo non è un discorso di volere ma di potere… ho facoltà di agire per un bene superiore, ed ho i requisiti necessari per addestrarlo a dovere e seguire il tracciato che le stelle hanno scelto per lui. Me ne duole enormemente, io… non vorrei, dico davvero ma… devo farlo, il piccolo è un pericolo soprattutto per sé stesso e per voi. L’ho percepito bene ieri mattina...”

“Il cammino che le stelle hanno tracciato per lui… ridicolo!” si oppose ancora, discostando lo sguardo, ma i suoi occhi erano lucidi, Camus li notò subito e non riuscì a fare a meno di inorridire: neanche sua madre avrebbe potuto far nulla davanti a quella enormità, la sua era una resistenza vana, come quella della gazzella predata che, malgrado i denti infilati nella gola dal leone, disperatamente continuava a scalciare, opponendosi con tutte le sue patetiche forze al suo destino ingrato.

“Lo sa anche lei, mia signora, in fondo al suo cuore… altrimenti non reagirebbe così, non è forse vero?” chiese conferma Shion, abbassando lo sguardo. Aveva un un compito e lo avrebbe portato a termine, ma a prezzo di perdere completamente la sua umanità, era preparato anche a quello.

La signora Antoinette non disse niente per una serie interminabile di secondi, pareva si fosse congelata sul posto, finché, con enorme patimento, non riuscì di nuovo a spiccicare parola.

“Lei si riesce ad immaginare quanto sia difficile crescere un bambino che, sin da quando era in fasce, non ha mai pianto in vita sua? Non ha mai… espresso le sue emozioni?!”

La domanda era retorica, ma era percepita con un non so che di accusa, perché era ovvio che quel vecchio dai troppi anni non capisse, era ovvio che non si sarebbe piegato alle sue lacrime e avrebbe portato a termine il suo sacro dovere. Era così evidente…

Shion non rispose, raccogliendo la sferzata e sopportandola. Tacque, in attesa che continuasse.

“Camus appena nato non ha prodotto nessun vagito… per una serie di minuti lo abbiamo creduto morto, giacché il parto non è stato affatto facile. Ero esausta e spaventa… mi terrorizzai quando lo presero malamente, con urgenza, per dargli uno scossone alla ricerca disperata di un segno vitale. Finalmente strillo, un’unica volta, poi tacque e non parlò più. Lo misero nell’incubatrice e lo monitorarono per un’intera settimana, prima di appurare che non aveva niente che non andasse, che era sano, ma io… non riuscivo a crederci… - spiegò prendendo un profondo respiro prima di continuare – Crescendo ha continuato a non reagire praticamente a niente, non chiedeva cibo, né attenzioni, non piangeva… lo portammo dai più svariati specialisti, dai più svariati medici, ma tutti concordavano che non avesse niente che non andasse. Come era possibile?! Mio figlio, il mio bambino, sembrava una perfetta statua di ghiaccio totalmente impassibile al mondo, non parlava, non aveva nessuna espressione, come poteva considerarsi… normale?!? Ero... disperata!”

Shion ascoltò con attenzione tutto il monologo, un’espressione contrita sulle labbra e un peso sul cuore, ormai dolente. Solo una cosa mormorò, a fatica.

“Dégel… fino a questo punto… fino a questo punto hai sofferto poco prima di morire! Che ingrato destino per uno come te… tu, che, tra tutti noi, non lo meritavi affatto!”

Antoinette udì quella confessione sommessa, ma non chiese delucidazioni, tutta presa dal suo racconto.

“Cammy continuò a non dire niente, finché, all’età di tre anni, non si decise a parlarci. La sua prima parola non fu né ‘maman’ né ‘grand-mére’, passò subito a padroneggiare quasi perfettamente il francese, sua lingua di origine, l’italiano lo apprese poco dopo e, in questo, fu aiutato dal trasferimento qui a Genova, avvenuto l’anno dopo quando ero già incinta di Marta. Non riuscivo a crederci, mia madre gridò al miracolo, ma io mi convinsi che in verità Cammy sapesse già farlo e che, per qualche ragione a noi sconosciuta, non volesse espirmersi”

“E’ un bambino molto intelligente, di questo potete starne certa!” lo elogiò Shion, non sapendo cos’altro dire, con gli altri Cavalieri d’Oro non era stato così difficile, ma… ne mancava solo uno, non poteva gettare la spugna proprio in quel momento.

“Le cose cominciarono a cambiare quando rimasi incinta di Marta...”

“Marta?”

“Sua sorella, sì!”

“Ah, la neonata!”

Antoinette annuì, lo sguardo cupo, riprendendo il discorso.

“Lei… da quando è nata, anzi, da ben prima, da quando sono rimasta incinta, è stata una benedizione per il fratello. Camus è nettamente migliorato, diverso, più… più normale… continua ad avere problemi a relazionarsi con gli altri, molto spesso è chiuso e corrucciato ma, mi creda, se le dico che sembra un bambino nuovo, sembra rinato!”

“E’ stato grazie a Marta?”

“Ne sono più che sicura! - affermò con decisione, una punta di orgoglio – Lei non può immaginare il rapporto meraviglioso che li lega, e non sono che all’inizio! Quando la piccola piange, Camus la stringe al petto e lei smette subito, sorridendo con gioia con quei due occhioni profondi che si ritrova. Cammy è sempre stato un bimbo molto giudizioso, mia aiuta a cambiarle il pannolino, mi da una mano a farle il bagnetto e a darle la poppata con il biberon, perché lei non si è mai attaccata al mio seno, passa molto tempo con la sorella, si prodiga per lei e, beh… lui dice che riesce a sentire la sua voce anche senza l’ausilio della bocca, che non vede l’ora di poterla udire con le sue orecchie…” continuò a confidare, emozionata.

“E la piccola invece come ha aiutato suo fratello?” chiese Shion, non chiedendo ulteriori approfondimenti sulla questione di avvertire la voce della sorellina con gli occhi della mente. Cosmo… era l’unica spiegazione alla faccenda, perché, lo aveva percepito, il bimbo lo aveva già notevolmente sviluppato, forse troppo…

“Oh, come le ho detto, Camus sembra rinato da quando c’è lei. Ha cominciato a provare emozioni, parla molto di più, manifesta i suoi sentimenti e i suoi bisogni come tutti i bambini della sua età. La strada è ancora lunga, ma, forse per la prima volta, vedo davvero un futuro radioso per loro due. Se rimarranno uniti, ho grandi speranze… - disse, le lacrime agli occhi, prima di correggersi – Avevo… perché ora mi rivela questo!” scoppiò in un vero e proprio pianto sommesso, inconsolabile.

“Signora… - biascicò Shion, alzandosi in piedi e posandole una mano sulla spalla nel tentativo di consolarla – Se io non lo prenderò con me…. può darsi che qualcun altro di ben più terribile lo faccia. Mi dia ascolto, la prego, non compio questa ingiustizia per i miei fini personali, ma...”

“Deve, lo so! - lo fermò, nascondendo la faccia tra le mani – Fin dalla loro nascita, ho sempre avuto il sentore che qualcuno me li avrebbe portati via, prima o poi, che non avrebbero mai potuto condurre un’esistenza normale, anche e soprattutto in virtù del loro padre, ma…”

“Porterò con me solo Camus, sono qui solo per lui, così sua sorella avrà più possibilità di condurre un’esistenza normale, glielo prometto, io...”

“Non me ne faccio niente della sua promessa! Con che cuore mi dice di separarli quando… quando vivono così in simbiosi?! Con che diritto… con che diritto vuole privare Cammy della facoltà di continuare a provare emozioni?! Di… di veder crescere sua sorella… mi dica, con quale?!?”

Le labbra di Shion fremettero, non trovando più le parole, qualche minuto dopo ci fu una risposta, che però non fu più udita da orecchie indiscrete.

Camus aveva sentito abbastanza.

Con le palpitazioni a mille e una rabbia crescente, mai provata prima, si era diretto silenziosamente in cucina, prendendo il biberon, il barattolo di latte in polvere, i pannolini e cinque bottigliette d’acqua da mettere nello zaino. Quello comunque era il problema minore, perché, durante il percorso, si sarebbe fermato in qualche fontanella a rifocillarsi. Per sé invece non aveva preso niente, resisteva bene alla fame e comunque non era una priorità; la priorità era invece quella di andarsene di lì il più in fretta possibile.

Fatto lo zaino, si diresse subito in cameretta. Doveva sbrigarsi se voleva che il piano potesse avere successo. La piccola Marta era nella culla, sveglia e un po’ agitata, sembrava percepire l’atmosfera pesante al piano di sotto, ma si tranquillizzò subito quando vide sbucare il volto rassicurante di suo fratello.

“Ehì… - la salutò, la voce più strozzata del solito nel parlare, il giovane cuore avvinghiato ad una nuova emozione troppo forte da sopportare: la paura di perderla – Stai tranquilla, non permetterò che ci separino!” le disse, prendendola delicatamente in braccio e guardandosi nervosamente intorno nel timore di essere beccato in fragrante.

Anche lui aveva paura in quel momento, tanto che si sarebbe paralizzato sul posto se non avesse avuto una motivazione abbastanza forte per impedire di esserne soverchiato.

“Gnnnnnnn?”

Camus le sorrise per calmarla, giacché la avvertiva agitata, dandole un bacino sul nasino e uno sulla guancia paffuta. Lui era il primogenito, a lui il sacro compito di salvaguardare sua sorella, come promesso al nonno.

“Non ti devi preoccupare di nulla, ci sono io con te, ce ne andiamo di qua, fuggiamo via! - asserì, deciso, premunendosi di prendere il marsupio, metterci dentro la piccina e legarlo dietro alla schiena come aveva visto fare a Mamma – Quel signore non ci avrà, né oggi né mai!” affermò, caparbio, facendosi coraggio per sé e per lei, prima di posarle la testolina sul petto in modo che potesse ascoltare i battiti del suo cuore e calmarsi. Poi, con il giovane cuore ancora in tumulto, sgattaiolò fuori di casa mentre, nel soggiorno, il vociare confuso tra i due contendenti si faceva sempre più lontano alle sue orecchie.

 

 

 

 

 

 

Angolo di Maiko per Milo

 

Ed eccomi qua con l’aggiornamento, che porta il primo dei due capitoli incentrati su Camus e Marta quando erano piccoli (nel caso della seconda MOLTO piccola XD). Questa volta sarò breve, perché vi è un unico, grosso, riferimento alle storie precedenti, ed è, con precisione, al capitolo 19 della “Guerra per il dominio del mondo”, quello della medicazione di Camus, per intenderci. La scena, vissuta dal punto di vista di Marta quando la ragazza si addormenta coccolata dal fratello, ci porta un suo ricordo, fumoso, nella culla, che qui vediamo bene nel particolare, perché è quando Camus usa il potere della Creazione (trattato alla fine della seconda storia) per tranquillizzarla. Tale potere, che qui si palesa come una farfalla, è innato in lui, ha origini ancora misteriose, lo possedeva già prima di diventare Cavaliere, anche se poi, per motivi che vedremo nel prossimo capitolo, non lo affinerà più per un lungo periodo.

Questo capitolo in particolare è incentrato molto sul fluff, come avrete potuto ben vedere (le mie storie sono un incessante pendolo che oscilla tra l’angst e il fluff, c’è poco da fare) XD

Ah, ancora una cosa che mi stavo per dimenticare: da ora in avanti, a volte, userò due tempi e due persone diverse per la storia, la prima è la classica prima persona presente che utilizzo già dalla primissima volta, a cui si aggiungerà ora la terza persona al passato in determinati momenti, il perché dei due tempi vi sarà chiarito più avanti.

Spero vi possa piacere, io sono molto soddisfatta di come ho reso questi due capitoli, sono contenta! ^_^

  
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