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Autore: Adele Emmeti    03/03/2020    3 recensioni
La Fuga non è un rimedio, ma un tentativo di allontanarsi dalla fonte primaria del proprio dolore.
E Mizu lo sa bene, perché lei sta fuggendo da un torto assoluto, da un male gratuito e ingiustificato, da un'ingiustizia silenziosa ma lacerante. Lifeline è il racconto del suo lento percorso di rinascita, della sua sofferta risalita, dell'insieme di amore e gentilezza che nuovi e vecchi amici sono in grado di fornire.
Perché tutti, prima o poi, hanno bisogno di un'ancora di salvezza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Mi aspetta un viaggio di circa sei ore, e l'angoscia che i pensieri mi tormentino per tutto il tempo, mi ha indotta a munirmi di cellulare con connessione infinita, tablet, lettore mp3, due romanzi thriller, una rivista d'arte e tre numeri di un manga che avevo iniziato a leggere l'anno scorso.
 Eppure, appena il treno imbocca una galleria, il riflesso della mia immagine sul vetro mi distrae. Osservo le mie occhiaie, il mio biancore eccessivo, la frangia ormai cresciuta e diventata ciuffo, i tendini delle mani troppo sporgenti. Mi chiedo cosa ne sia stato della vecchia me, di quella che nonostante l'animo pacato e moderato, si godeva le sue passioni e la sua voglia di vivere il mondo, di esplorarlo e conoscerlo in tutte le sue sfaccettature. Mi chiedo dove sia finita quella Mizu che consolava gli altri, che faceva loro da spalla e aveva sempre la risposta a tutto. Ho come l'impressione che si sia persa, che l'abbia dimenticata da qualche parte, che si sia ritirata dalle scene per chissà quanto tempo.
 I miei mezzi di intrattenimento mi distraggono, ma non riescono del tutto a trascinarmi via e temo che queste sei ore diventeranno teatro di un inferno. Cerco sporadicamente di addormentarmi, fino a quando, nell'aprire gli occhi, noto una bambina, nascosta dietro il bracciolo dei sedili che ho davanti, dal lato del corridoio centrale.
 Mi fissava da non so quanto tempo. Le sorrido e lei cambia atteggiamento, da curiosa a fiduciosa. Viene avanti e si siede a fatica, perché ancora troppo bassa.
 «Come ti chiami?» Le chiedo.
 «Kate. E tu?» Ha i capelli di un biondo sfacciato, sottili, raccolti sotto un cappellino rosa, gli occhi azzurri e le guance arrossate dal sole.
 «Mizu. Dove sono i tuoi genitori?» Indica il vagone retrostante al nostro con il ditino.
 «Forse dovremmo avvisarli che sei qui o si preoccuperanno.»
 Fa spallucce.
 «Mi piace fuggire mentre dormono. È divertente.»
 «Però è pericoloso andare in giro da soli. Molto pericoloso.» Fa di nuovo spallucce.
 Ad un tratto appare il padre agitato e quando la becca seduta sul sedile, la rimprovera e la prende in braccio. Mi chiede scusa per il disturbo e io gli rispondo che non mi ha dato fastidio.
 Nel portarsela via, noto che lei mi guarda, dietro le sue spalle, e ridacchia divertita. Nessuno sa cosa darei per avere un briciolo della sua spensieratezza, per sapere che basta essere caricati in braccio perché il mondo non possa più toccarti.
 E torno a sfogliare la mia rivista, in cerca di sollievo.

 La grande scogliera sulla quale si affaccia Withecliff brilla sotto i raggi aranciati del sole pomeridiano, con le sue case bianche e le rocce argentate, proprio come ricordavo. Fino a pochi anni fa, io e i miei genitori passavamo l'intera estate nella grande villa di mia nonna, con lei e zia Rebecca. In realtà, mio padre e mia madre non facevano in tempo ad abbronzarsi che dovevano ripartire, mentre io restavo fino alla fine delle vacanze.
 Poi sono cresciuta, è iniziato il liceo, le miriadi di attività extrascolastiche e mia nonna è mancata. L'ultima volta che ho visto questa scogliera luccicante è stato al suo funerale. Da allora non siamo più tornati.
 Ma adesso rieccomi: la vita, ogni tanto, ti rimanda nei luoghi del passato, perché è soltanto lì che ritrovi briciole di te stesso.
 Quando il treno rallenta per entrare in stazione, una certa agitazione mi stringe l'intestino. Guardo fuori alla ricerca di un volto familiare, ma non trovo nessuno. Porto giù i miei bagagli e mi metto in prossimità dell'uscita. Il vagone è deserto. Nessuno va nei luoghi di mare a settembre, quando in realtà dovresti essere a casa a prepararti i libri per ricominciare l'anno.
 La porta si apre, spingo giù i trolley e scendo stando attenta a non cadere di testa. Mi sistemo la tracolla e inizio a guardarmi intorno. Vago lentamente, e quando il capotreno fischia e il macchinista rimette in moto l'enorme struttura chiassosa, individuo nell'aria una voce assolutamente inconfondibile. Mi volto e la vedo: è zia Rebecca, con una gonna rossa, a tubino, molto aderente, un'alta fascia in vita di pelle e una camicetta bianca sbottonata sul seno. Ha diversi diamanti alle dita, bracciali tintinnanti, unghie smaltate, trucco pesante da manuale e caschetto asimmetrico, di quel color caramello che porta ormai da quando ho memoria.
 Troppo presa da una telefonata, intuibilmente lavorativa, non si accorge della mia figura stropicciata, ferma nella penombra ad attenderla. Quando il suo sguardo si posa su di me, una lampante meraviglia le muta i tratti da seriosi a euforici. Chiude la chiamata senza congedare il suo interlocutore, né rimandarla a più tardi, e mi si fionda addosso correndo sui suoi tacchi alti, mentre il suo profumo ambrato mi riempie le narici fino al cervello.
 «Mizu! Tesoro mio! Come sei cresciuta! Non posso crederci! Fatti vedere!»
 Mi fa roteare tenendomi per una mano.
 «Sei diventata alta, come tuo padre – grazie al cielo- e sei rimasta così magra... gli ho sempre consigliato di farti fare qualche casting di moda, anche qui da me in agenzia! Hai un volto interessante, sei un bellissimo incrocio! Poi con questi capelli... potresti permetterti qualunque taglio. Ora che sei qui sfrutteremo un po' il tuo potenziale, che ne pensi?»
 «Beky, lo sai che non amo farmi fotografare... »
 «Sì, brava non chiamarmi zia... facciamo credere a tutti che siamo cugine. Ah, sì? Sei l'unica adolescente a cui non piacciono le foto. Io vedo decine e decine di ragazzine come te, ogni santo giorno, pronte a vendersi i reni pur di partecipare a qualche shooting o di essere contattata per il più ridicolo degli spot. E tu? Tu non ami farti foto.»
 Le sorrido divertita. Zia Beky riesce a sempre sollevarmi l'umore con la sua schiettezza e quella spontaneità elegante, che la mantiene sopra le righe da quando radunava le amichette in giardino e le faceva sfilare con gli abiti stropicciati delle sue bambole.
 «Come è andato il viaggio? Come stanno i tuoi? Li hai avvisati che sei arrivata?»
 «Il treno era semivuoto. Non ho avuto scocciature. I miei stanno bene.. li ho avvisati prima con un messaggio.»
 Beky prende uno dei miei trolley, poi lo rimette a terra e mi guarda con occhi molto materni. Mi avvolge di nuovo le braccia intorno al collo e mi stringe.
 «Ti ho preparato una stanza bellissima. Staremo benone insieme.»
 La risolleva e inizia a sgambettare verso l'auto parcheggiata all'esterno.

 Nella sua 911 bianca, decappottabile, iniziamo a percorrere la costa e a inoltrarci nelle maglie della cittadina. Rivedo negozi e spiagge che frequentavo tanto da piccola, con mia nonna. Riconosco dei volti, delle luci, delle insegne, riannuso degli odori che mi catapultano indietro, come se tutto fosse rimasto a quando dovevo portare la treccia e il cappellino di paglia, per proteggermi dal sole. Superate le strade più interne, ci allontaniamo verso la collinetta sulla quale sorge la villa che Beky ha ristrutturato in modo maniacale negli anni.
 «C'è qualcosa che hai lasciato intatto?» Le chiedo a voce alta.
 «L'amore per la nonna.» Mi risponde sorridendo dietro i suoi Ray-Ban a specchio.
 Arrivate in cima, spegne la macchina davanti all'ingresso e scende afferrando le mie valigie.
 Quando dischiude la porta, un profumo di patchouli e di mobilio nuovo mi fa dimenticare lo sgradevole sentore misto dei disinfettanti chimici e del sudiciume del treno.
 Dopo un brevissimo corridoio, accediamo ad un'ampia sala, con una scalinata elicoidale che conduce al piano superiore, a sinistra, e una grande cucina con un lungo tavolo in stile liberty moderno, tutto di un immacolato bianco antico, a destra.
 In fondo, due porte conducono a un salottino poco praticato e a un bagno di servizio piastrellato di mosaico dorato.
 Mi fa cenno di seguirla al pian superiore.
 La scalinata è larga, di marmo lucido i gradini e di vetro trasparente le protezioni laterali. La prima porta che incontriamo è della mia camera, le successive sono della sua camera da letto e del suo studio privato.
 «Spero ti piaccia. Ho allestito un baldacchino due posti con dei tendaggi che puoi chiudere o lasciare aperti, a tuo piacimento. A destra hai la cabina armadio e la porta che dà sul tuo bagno personale. Qui a sinistra ho sistemato una grossa scrivania, e degli scaffali a muro. Riempili pure di libri, quaderni e diari.
 «Ho smesso di scrivere sui diari quando avevo dieci anni.»
 «Beh, ora ne hai diciassette, non siamo così lontani.» Ci sorridiamo e la vedo avanzare verso la finestra. La apre e mi accorgo che dà su un balconcino dal quale è possibile apprezzare tutta Withecliff a valle, il bordo della costa, le spiagge in fondo alla conca e infine il mare, di un verde smeraldo che difficilmente è possibile replicare.
 «Cosa ne pensi? Ti piace la tua camera?»
 «È perfetta... non avevo dubbi. Potrei viverci tutta la vita qui dentro.»
 Beky scoppia a ridere.
 «Non esageriamo. C'è molta più bellezza lì fuori che qui dentro.»
 Lascio la mia tracolla su una poltroncina e respiro l'aria calda a pieni polmoni, mi arriva un profumo di erba fresca tagliata da poco, salsedine e ciclamini. I grilli hanno iniziato a cantare ed è quasi sera.
 «Ho ordinato del cibo indiano che arriverà tra un'oretta circa. Tu mangi indiano?»
 «Raramente, ma non mi dispiace.»
 «Io lo ordino spesso. Che ne dici se nel frattempo non ci prendiamo un tè in giardino, e inizi a spiegarmi un po' bene cosa è successo?»
 Aspettavo quel momento con quiete angoscia. Sapevo che avrei dovuto riaprire quel capitolo e scontrarmi con la parte più fragile di me stessa a breve; era lo scotto da pagare per l'asilo concessomi in un paradiso del genere. E, in fondo, era anche giusto che mia zia Beky sapesse tutto.
 «Certo... mi sembra una buona idea.»
 Scendiamo al piano di sotto, Beky prende una caraffa di tè dal frigo e due bicchieri di vetro cilindrici. Ci sistemiamo sotto un gazebo, nella parte anteriore della villa, più o meno sotto il balcone della mia camera.
 Lei versa il tè nei bicchieri a attende che prenda parola.
 «Ecco... da dove iniziare.» Faccio un respiro profondo e chiudo gli occhi. 
 Crescere significa anche questo; significa avere la forza di affrontare se stessi. 
 E i lividi che avevo sul collo e sulla schiena mi sembrano riapparire all'improvviso.

   
 
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