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Autore: Aluah    23/03/2020    2 recensioni
La chiamavano quotidianità.
Due anni soli, rinchiusi in un antico castello senza televisore.
Credete davvero che non sia successo nulla?
Raccolta di Flashfic, Drabble e One Shot incentrate sulla coppia più goth del manga.
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Drakul Mihawk, Perona
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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Cooking




 
I'm sittin' here in the boring room
It's just another rainy Sunday afternoon
I'm wasting my time
I got nothin' to do
I'm hangin' around
I'm waitin' for you

 
 


 
Un bicchiere di farina. 
Un cucchiaio di zucchero. 
Un bicchiere di latte. 
Ecco, mancava il latte
L’urlo che aveva lanciato, era certa, l’avevano sentito entrambi i colpevoli di quella gravissima mancanza nella sua dispensa. 
Aveva voglia di pancake. Quelli soffici, buoni, che le venivano tanto bene e la tiravano giù dal letto durante le mattinate uggiose che si susseguivano, una dopo l’altra, su quell’isola deserta -quelle ovviamente in cui non era lui a farlo. E per farli come tanto le piacevano, aveva ovviamente bisogno anche del latte, reo, in quel preciso momento, di mancare drammaticamente all’appello. 
Se aveva capito che le ombrellate in testa a poco servivano con loro -visti gli acuiti sensi che entrambi avevano sviluppato in anni di combattimenti-, era certa che le sue urla erano loro poco gradite, soprattutto la mattina presto. 
Aprendo di scatto la dispensa, alla ricerca di una valida alternativa, aveva realizzato che anche l’altrettanto necessario lievito si era volatilizzato. E con esso, anche la vaniglia. 
L’ennesimo urlo, l’ennesima antina sbattuta più energicamente di quanto non avesse mai fatto -o di quanto lei stessa non lo fosse stata da che viveva lì- ed anche la farina già setacciata nella scodella aveva preso il volo. Lei, lo zucchero ad essa mischiato, e tutti i suoi buoni propositi di dedicarsi alla sua colazione preferita. 
Se non fosse pesata poco meno di cinquanta chilogrammi vestita, avrebbe fatto prendere il volo anche ai due idioti che l’avevano gettata in quel baratro di profonda disperazione mattutina. 
“Ma quanto urli”.
Atono, come sempre.
Era certa che il brio nella sua voce fosse riservato a sole occasioni in cui era costretto a tirare fuori il meglio di sé –e che lei non considerava di certo relativo a scontri sanguinosi. Era alle sue spalle e la fissava, di certo un poco contrariato, lo immaginava, mentre con ancora parecchia ira si accaniva ora sulla ciotola caduta a terra, prendendola a scarpate. La farina cosparsa tutt’intorno aveva a suo modo fotografato tutti i suoi movimenti, rendendo lui partecipe del fatto che avesse prima malmenato altra oggettistica da cucina, ora sparsa su tutto il pavimento. 
Un mestolo. 
Un bicchiere, ovviamente rotto in mille pezzi.
Un piccolo setaccio che -quasi a volersi mettere in salvo- era rotolato fin sotto il tavolo. 
Se anche un arnese così piccolo si poteva dir dotato di un blando spirito di autoconservazione, lo stesso non si poteva dire dello spadaccino che, imperterrito, ancora la fissava di sottecchi. 
Ignorarlo -se mai glielo avesse lasciato fare- le sembrava una buona idea. 
Un altro urlo. 
“Voi! Idioti!” aveva parlato al plurale “Avete finito il mio latte!” 
La scodella, colpita dall’ennesimo calcio tirato con ben poco garbo e femminilità, era volata nell’altra stanza, piombando sul primo degli scalini che portavano al piano superiore. Se pure quella aveva compreso che non era tempo di starle tra i piedi, si chiedeva come lui potesse ignorare del tutto il suo stato d’animo, rimanendo lì, impalato, a prendersi i suoi insulti. L’autoconservazione, aveva concluso, era una delle tante qualità che di certo non gli appartenevano.
Assieme alla modestia.
E alla simpatia. 
Soprattutto alla simpatia. 
“Smettila di urlare”.
Più che atono, questa volta lo avrebbe definito lapidario. Un lieve -e subito fatto scomparire- sorrisino le si era dipinto in volto ripensando alla primissima volta in cui gli aveva rivolto quell’aggettivo: presa dalla rabbia del momento, ovviamente da lui causata -e che strano- l’aveva apostrofato lampadario. Sentirlo ridacchiare di lei, per la prima volta da che viveva con lui, era un ricordo che custodiva gelosamente, sebbene fosse collegato ad una sua piccola défaillance. 
“E tu smettila di bere il mio latte!”
Perché il latte era suo. 
Comprato con i soldi di lui -e di chi sennò-, ma suo. 
Lo sguardo che lui le rivolse -e che lei aveva colto benissimo- le fece capire che quell’argomentazione aveva ben poca presa su di lui, padrone di casa, locandiere improvvisato e dante asilo ad un altrettanto scorbutico allievo e a lei. Ogni tanto si chiedeva chi in effetti glielo facesse fare; poi si ricordava di non volerlo davvero sapere, timorosa che lui si sarebbe svegliato da un momento all’altro e li avrebbe sbattuti fuori a calci nel sedere. L’altro almeno, su di lei -in cuor suo- manteneva ancora un po’ di certezza sul fatto che non fosse per lui una così deplorevole compagnia.
“Anche io faccio colazione” le si era avvicinato, fulmineo “Dove pensi che le prenda le energie per sopportartialtrimenti?” 
Sopportarla. 
Sollevarla.
Soddisfarla. 
Sempre per “s” iniziava. 
Quel lieve cambio di tonalità nella sua voce era certa nascondesse un qualche doppio senso che, in quel momento, non era molto ben propensa a cogliere. Cercando di non avvampare -cosa che con lui le veniva particolarmente facile fare- aveva concentrato la sua attenzione sui cocci del bicchiere che ancora campeggiavano davanti a lei. Raccoglierli e gettarli via -visto che le veniva difficile poterlo fare con i due idioti incriminati- sperava l’avrebbe quantomeno tranquillizzata. 
Per la calma totale -forse-, non prima di sera. 
“Quante volte ti ho preparato da mangiare, eh?!” un pezzo di vetro alla volta li stava raccattando tutti nelle sue mani. Vetro, che, per definizione, risulta essere un materiale piuttosto tagliente se non accuratamente maneggiato. E che, per l’appunto, si era sentito in dovere -e pure lui, tanto ci mancava- di farle capire che agguantare schegge a mani nude non era di certo una buona idea. 
Si era tagliata. 
Si prospettava una bellissima giornata. 
Accovacciata con un diavolo per capello fissava la sua mano che, lentamente, si colorava di rosso. Non era una ferita profonda, ma aveva probabilmente reciso qualche capillare, e il sangue non smetteva di uscire. Fissarlo e basta, certamente, non aiutava a contenere i danni. 
Le fu di fronte in pochi passi, tirandola su di peso per le ascelle.
Alle volte la trattava come una bambina -altre decisamente no. 
Prendendole la mano dolorante l’aveva esaminata giusto il tempo di storcere il naso, facendole capire che non c’era un bel niente di cui preoccuparsi, anche se le sembrava di avere colto anche altro. Il taglio le attraversava il palmo destro da parte a parte, era superficiale ma, essendo fresco, le bruciava parecchio. 
“Mi sono pure tagliata per colpa tua!” 
Un lieve senso di colpa glielo poteva anche cercare di smuovere, no? Sapeva per certo che sarebbe stato del tutto inutile -e che lui riservava sentimenti tali probabilmente solo a sé stesso- ma il suo orgoglio era tale da impedirle di non provare per lo meno a fagli intuire qualcosa. 
Tipo quanto per lei i pancake la mattina fossero essenziali.            
Lui, e quell’altro che si portava praticamente sempre appresso, quando non si perdeva da qualche parte. 
Pronta a ricevere la risposta che lui sempre le riservava quando aveva quegli attimi di infantilità assoluta -ovvero il più totale e completo nulla- era rimasta piacevolmente spiazzata quando invece lui l’aveva guardata, un attimo prima di portarsi la sua mano alla bocca e leccarle delicatamente via il sangue dalla ferita. Sapeva essere ammaliante anche in un momento come quello, con la sua mano sporca di farina e sangue e imbrattargli l’accenno di barba mattutino. 
Forse allora non era un così completo idiota.
Allontanando la sua mano dalle labbra, ora pulita dal sangue, si era quindi voltato e allontanato. Non l’aveva mai fatto, preoccuparsi così quando si faceva male, cosa che vista la sua naturale goffaggine le riusciva molto bene. 
Di solito la scavalcava quando la trovava lunga e distesa lamentandosi di un qualche strano dolore che si era procurata. 
“Quella è la mano buona”
La mano destra. 
Quella delle coccole mattutine. 
Avvampando e cercando di recuperare un qualsiasi oggetto contundente, che lui sornione aveva aspettato che lei allontanasse nel suo scatto d’ira antecedente, gli aveva ancora una volta elegantemente esposto quanto lo ritenesseinfinitamente idiota, senza più nutrire alcun dubbio. 




















Note:
Questa storia era nel dimenticatoio, totale.
Ma siamo tutti a casa da bravi cittadini.
E io mi annoio.
Ciao,
Alu.
 
   
 
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