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Autore: Violet Sparks    27/03/2020    31 recensioni
Ben Solo incontra per la prima volta Poe Dameron all'età di sei anni, in occasione dei funerali della madre di quest'ultimo, Shara Bey.
Poe sembra essere l'esatto opposto di Ben -bambino timido, solitario, spaventato dai suoi stessi poteri- eppure i tra i due si instaura un'amicizia profonda.
Un'amicizia che li accompagnerà per tutta l'infanzia, riempiendola di luce, prima che le ombre del Lato Oscuro si abbattano irrimediabilmente sulla vita di tutti loro.
[Darkpilot!]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Ben Solo/Kylo Ren, Kylo Ren, Poe Dameron
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2
 

And my body was bruised, and I was set alight
But you came over me like some holy rite
And although I was burning, you're the only light

(Only if for a night, Florence and The Machine)
 
 
 

Delle prime settimane della sua estate su Yavin4, Ben ricordava soprattutto l’odore di chiuso, il fruscio della penna sul foglio di carta, il calore opprimente che gli imperlava la fronte e gli appiccicava addosso ogni singola particella di tessuto.
Sua madre e lo zio Luke avevano degli affari importanti da risolvere, una missione diplomatica che li avrebbe tenuti in quella parte della Galassia fino alla fine della stagione e dopo l’anno passato tra le aride mura del Tempio Jedi, era stato opinione comune che anche a lui avrebbe fatto bene trascorrere del tempo su un pianeta così ricco di verde, dove l’aria era buona, pulita, da respirare a pieni polmoni.
Quando glielo avevano proposto, Ben ne era stato a dir poco entusiasta.
Il pensiero di poter finalmente passare del tempo con i suoi genitori, come quando era più piccolo, gli aveva riempito il cuore di una gioia indescrivibile, che lo aveva lasciato estasiato per giorni.
Quasi non ricordava più l’ultima volta che aveva avuto l’occasione di stare così tanto insieme a loro, o forse sì… era stato il momento in cui la mamma gli aveva detto che andare a vivere con lo zio Luke era la cosa migliore per lui, che così avrebbe avuto modo di controllare meglio quei poteri che qualche volta lo spaventavano a morte.
Quei poteri che, qualche volta, sembravano spaventare a morte anche loro.
Non che non fossero mai venuti a trovarlo, ovviamente.
Sia Leia che Han che perfino Chewbe si avvicendavano spesso al Tempio, sotto lo sguardo seccato di uno zio Luke che, puntualmente, si premurava di ricordar loro che “quello non era un cavolo di campo scuola, per la miseria! L’addestramento Jedi necessitava di disciplina!”, salvo poi arrendersi in un gran sorriso e accogliere la sua sgangherata famiglia a braccia aperta.
Ben adorava quelle giornate, fatte di meno allenamenti e più risate, cene che si protraevano, tra chiacchiere e ricordi, fino a quando il sole lasciava posto ad una trapunta di stelle, ma certo non era la stessa cosa che vivere sotto lo stesso tetto insieme a loro, dividere la quotidianità dei piccoli gesti, sapere i suoi genitori semplicemente nella stanza a fianco.
Ben soffriva a vederli partire, così come crudele e infinita pareva l’agonia della loro attesa: ore passate a scrutare il cielo in cerca di un segno, notti insonni davanti ad un holo che non si accendeva.
Yavin4 gli era suonato come una rivalsa, il premio perfetto per la pazienza dimostrata in quel tempo.
Era stato uno sbaglio.
Suo padre era ripartito con Chewbe dopo appena cinque giorni, lasciandosi dietro nient’altro che un frettoloso bigliettino di scuse sul tavolo da cucina e la promessa di un regalo favoloso, non appena avrebbe fatto ritorno da chissà dove e chissà quando.
Per quanto riguardava sua madre invece, Leia aveva preso l’abitudine di sparire insieme a Luke subito dopo colazione. Ben riusciva a stento a scambiare qualche parola assonnata con lei davanti alla sua tazza di latte e cereali, dopodiché passava il resto della giornata cercando accuratamente di evitare la pedante compagnia dell’androide C-3PO e sperando con tutto sé stesso che, almeno per quella sera, gli impegni della donna non si protraessero oltre l’orario di cena.
In quelle occasioni, Ben combatteva contro il sonno senza tregua, fin quando non crollava, sconfitto, come un albero abbattuto. Sapeva che anche nel cuore della notte, la mamma non mancava mai di curvarsi su di lui per posargli un bacio tra i capelli, lasciargli una carezza sulla testa, con le sue mani fredde e sottili, ma non era abbastanza.
Ben aveva dieci anni e, per l’ennesima volta, si ritrovava irrimediabilmente solo, su un pianeta sconosciuto, ingannato dall’illusione di poter mai condurre con i suoi genitori un’esistenza normale.
Quando lo zio Luke gli aveva suggerito di visitare la biblioteca della capitale e utilizzare i suoi preziosi strumenti calligrafici per ricopiare alcuni testi Jedi, era stato quasi un sollievo.
Il lavoro passivo, metodico, almeno gli permetteva di non pensare.
 
 

Fu lì, che Ben incontrò Poe Dameron per la seconda volta.
Ad un certo punto, mentre tracciava la curva di un’ultima vocale ai piedi della pagina, si sentì come osservato, allora sollevò di scatto lo sguardo dal pezzo di carta: una figura sfuggì dietro agli scaffali, rapida e furtiva, cercando di mimetizzarsi in mezzo alle fitte fila di libri.
Sforzo inutile.
Ben aveva fatto in tempo a scorgere il viso della sua spia, riconoscendola in pochi secondi.
Si trattava di uno dei ragazzini che vedeva sempre giocare nello spiazzo vuoto poco fuori la biblioteca, un enorme zona cementata prima della foresta, intervallata qua e là da rottami e spazzatura.
Ben passava di lì tutte le mattine, scorgendo puntualmente la banda di giovani intenta a giocare tra le lamiere o a calciare a turno qualche pallone di fortuna. In principio aveva anche valutato la possibilità di unirsi a loro, di farsi coraggio e presentarsi, come gli avevano suggerito anche la mamma e lo zio Luke, tuttavia gli era bastato sentirli bisbigliare al suo passaggio, avvertire la loro diffidenza, per scartare immediatamente quell’idea: poco male, Ben non era mai stato bravo a creare dei legami.
La verità era che non sapeva approcciarsi alle persone, non riusciva a comprenderle.
Ogni volta si sentiva inadeguato, fuori posto e quella abilità di cogliere le loro sensazioni più profonde, conoscere le loro paure, le loro bugie, non era certo di grande aiuto.
Su Hosnian Prime, dove era vissuto con la sua famiglia, i figli degli altri membri del Senato erano degli esseri meschini, viziati e pieni di sé, già proiettati verso un futuro di grandezze, tra gli sfarzi della Nuova Repubblica. Al Tempio Jedi, la situazione non era stata diversa: gli apprendisti che Luke aveva raccolto in giro per la Galassia erano bambini senza alcuna attrattiva, zavorre che non facevano che rallentare il suo apprendimento, limitandosi a scalpitare per l’attenzione dello zio, eroe della Ribellione e ad osservare lui con timorosa ammirazione, dal basso della loro mediocrità.  
Ma forse, il problema era che a Ben stesso mancava un pezzo, quel frammento minuscolo ed essenziale che permetteva agli uomini di combaciare con i propri simili.
Questo era lui, una tessera di puzzle sbeccata, ingombrante e superflua, senza una precisa ubicazione nel mondo.
L’unica attrattiva che suscitava sugli altri derivava dalla sua dinastia, quel nome e quel cognome altisonanti che sembravano precedere il suo passo come un’incudine, in attesa soltanto di schiacciarlo.
La figura ondeggiò un poco dietro i volumi polverosi, tergiversò nel suo nascondiglio, probabilmente indecisa sul da farsi, finché non risolse semplicemente per darsela a gambe.
Ben si strinse nelle sue stesse spalle, a disagio.
Il motivo per cui aveva riconosciuto subito il suo segugio, era che quel ragazzino gli era saltato agli occhi fin dal primo momento, anche in mezzo al folto gruppetto di coetanei.
Non sapeva perché, ma gli era sembrato di scorgere qualcosa di familiare nei suoi occhi scuri come la pece, nella zazzera di onde ribelli che gli incorniciavano il volto dai tratti regolari. Rispetto agli altri giovani di quartiere, non aveva mai sussurrato niente alle sue spalle né lo aveva apostrofato in qualche modo. Ritto sulle sue gambe secche e scorticate, si era sempre limitato a fissarlo attentamente, con una punta di sincera curiosità nel cuore.
Una curiosità che, alle volte, pareva frizzare nell’aria come polvere di stelle.
Quel giorno, ad ogni modo, Ben decise di non dare molto peso all’evento, catalogandolo come uno stupido scherzo tra bambini, dunque tornò alle sue mansioni di trascrittore, sebbene con molta meno concentrazione di prima.
Peccato però che la sua spia tornò il giorno dopo.
E quello dopo.
E quello dopo ancora.
Ben provò ancora a far finta di niente, a lasciare che il ragazzino magari rivelasse autonomamente le sue vere intenzioni, ma quello non dava segno di volersi esporre né tantomeno di voler accontentare la sua sete di mistero.
Ogni mattina, quando Ben passava di fronte allo spiazzo, fermava a metà qualsiasi cosa stesse facendo e gli infilava il suo sguardo addosso, con precisione scientifica, dopodiché gli dava un’oretta circa di vantaggio, prima di appostarsi dietro gli scaffali e prendere ad osservarlo, fermo ed in silenzio, fino a pomeriggio inoltrato.
Gli ricordava un gatto, un essere selvatico e curioso, intento ad annusarlo per chissà quale assurda ragione.
Dopo una settimana, Ben perse la pazienza.
Non appena l’altro assunse la sua usuale postazione, tre scaffali più in là del tavolo dove abitualmente sedeva, Ben chiuse gli occhi e lasciò la Forza fluire dentro di sé, allora spostò di lato la pesante struttura di legno, in un tumulto di polvere e volumi cascanti, privando all’improvviso la spia del suo confortante rifugio.
L’altro ragazzino tossì forte, la gola rinsecchita dai pulviscoli nell’aria.
Per un lungo secondo, osservò confuso i libri e lo scaffale che lo avevano appena tradito, lasciandolo alla completa mercé del suo bersaglio, passando gli occhi dagli uni all’altro con genuino stupore, poi però sollevò le proprie iridi scure verso di lui.
Ben rabbrividì.
Lo sconosciuto non sembrava spaventato né tantomeno braccato nel modo in cui ci sarebbe aspettati in una situazione del genere.
Il suo sguardo, sotto il sole cocente di Yavin4 che filtrava tra le grate della finestra, risplendeva di una luce impertinente, quasi giocosa e il sorriso ampio in cui, d’un tratto, si aprì il suo volto, raccontava della sua furbizia da strada più delle ginocchia sbucciate e le unghie lise.
“Ciao!” disse con voce squillante, agitando una mano.
Ben pensò di ricordargli che tecnicamente erano in una biblioteca e avevano già fatto troppo baccano, ma lanciando un’occhiata verso il fondo, notò che Willie, il vecchio custode, stava ancora sonnecchiando al suo posto, per cui “Si può sapere che diavolo vuoi?” decise di chiedere, senza ulteriori esitazioni.
Il ragazzino inclinò un poco la testa, lasciando che alcune onde gli ricadessero sulla fronte.
“Non sai chi sono io?”
“No…” rispose Ben, perplesso.
Che quella sensazione di familiarità avesse un senso?
Davvero si erano già conosciuti da qualche parte?
La mamma gli aveva parlato di alcuni amici di famiglia che abitavano su quel pianeta, ma nel poco tempo che riusciva a passare in sua compagnia, Ben non aveva mai pensato di indagare oltre.
“Non importa, meglio così.” continuò comunque il ragazzo, scrollando le spalle “Io sono Poe!”
Poe…
Chissà perché quel nome gli riportava alla mente il profumo dei fiori…
“Io sono Ben.”  
“Da quanto sai che sono lì dietro, Ben?”
“Da sempre, in pratica!” sbottò, senza nascondere una punta di superbia nella voce “Fai veramente schifo come spia!”
L’altro, Poe, emise una risata cristallina e si avvicinò.
“Vero! Ma tu potevi smascherarmi prima!” ribatté, sfacciato, mentre trascinava una sedia accanto a Ben e ci si piazzava sopra tranquillamente, sebbene nessuno lo avesse invitato a farlo.
Adesso che lo vedeva più da vicino, Ben notava dettagli che gli erano sfuggiti in precedenza.
Poe aveva delle ciglia foltissime e la pelle scura, bruciata in più punti dal sole. Indossava un paio di pantaloncini larghi, corti più o meno fin sopra al ginocchio e una canotta rossa che doveva aver visto giorni migliori, le cui bretelle ricadevano molto sotto le ascelle, lasciandogli scoperta una parte di torso.
Doveva essere un po' più grande di lui, o almeno così pareva: la linea marcata della mascella era già sporca di peluria in più angolazioni e la muscolatura tesa, solida, cominciava ad abbandonare la delicatezza infantile.
“Mi dici cosa diavolo stai facendo? Non sono riuscito a capirlo!” proruppe d’un tratto, puntellandosi sulle ginocchia per sporgersi ad osservare la distesa di libri e fogli sparsi sul tavolo “Sembra noioso! Non preferiresti venire a giocare fuori?”
Ben corrugò le sopracciglia, piuttosto irritato.
“Devo finire di copiare queste cose!” disse quindi, raccogliendo alla bell’e meglio le cose sparse e portandosele davanti, come a volerle proteggere dalla vista dell’altro ragazzino “Sono testi Jedi!” rimarcò infine, per conferire una qualche pomposità al proprio incarico.
“Quindi è vero che sei un Jedi!” esclamò però Poe, con tanto entusiasmo nella voce che Ben si sentì arrossire.
“Sì… cioè no! Sono un apprendista Jedi!”
“E gli apprendisti Jedi non si divertono?”
“Certo che sì!” rispose, sbuffando “Però mio zio mi ha dato il compito di finire questo testo, adesso. Non posso lasciarlo a metà.”
“Che palle tuo zio!”
“Mio zio è Luke Skywalker.”
“Che palle lo stesso!”
Ben si voltò verso di lui, ad occhi sgranati.
Nessuno, in tutta la Galassia conosciuta e non, aveva mai usato l’espressione ‘che palle’ rivolgendosi all’eroe di Guerra, il grande, potente e saggio maestro Jedi, Luke Skywalker.
Ogni tanto Ben lo aveva pensato, questo sì.
Zio Luke era divertente per lo più, un uomo affabile, pieno di interessi, solo che alle volte sapeva essere così noioso e pieno di sé, che Ben si ritrovava ad alzare gli occhi al cielo per lo sconforto.
Certo, non si sarebbe mai sognato di dire una cosa del genere ad alta voce.
Si sentiva in colpa soltanto a considerarlo.
Poe invece gli rivolse un sorrisetto sghembo, come se niente fosse, scoprendo una fila di denti piccoli e bianchissimi, dopodiché si allungò ad afferrare un foglio pulito da sotto al suo naso.
Ben rimase un attimo incantato dal movimento delle sue costole, affilate sotto la pelle nuda, poi però “Che stai facendo?” chiese, accigliato.
“Ti aiuto a finire! Così puoi venire fuori!” rispose quello, mentre agguantava anche un pennino, quello più vecchio e consumato che di solito teneva per riserva.
Ben era sempre più confuso.
“Uffa! Si può sapere cosa vuoi da me!” sbottò quindi, esasperato, sollevando la voce di almeno un tono “Perché sei qui? Perché vuoi aiutarmi? Perché ci tieni così tanto a che esca fuori con te?”
A quelle parole, Poe si voltò lentamente verso di lui e lo trafisse con i suoi occhi nocciola giganteschi, così intensi che gli parve di sentirne il peso sulle ossa e ancora giù, fino al midollo.
Provò a captare le sue intenzioni, a guardare oltre la superficie della sua pelle scura, lì dove l’animo umano aveva dimora, ma tutto ciò che trovò nel suo cuore fu pace e colore e un fuoco vivo che non bruciava, fulgeva.
Fu un attimo.
All’improvviso, mentre Ben era perso nelle sue elucubrazioni, il ragazzino si protrasse verso di lui, lo circondò con le proprie braccia scoperte e se lo strinse al petto, emettendo un forte sospiro che si infranse tra i suoi capelli.
Durò poco meno di un battito di ciglia, un contatto così rapido da somigliare a un’allucinazione, eppure bastò ad investire la mente di Ben di una sequela di immagini diverse – una bara, un altare, una tavolozza di mille sfumature di marrone- e a lasciargli nelle narici uno strano odore di erba.
Non guardò più Poe, si nascose dietro le proprie ciocche nere, crucciando la fronte, fingendo un fastidio che non provava davvero.
Per questo, udì a stento quella che fu la risposta del ragazzo.
“È che sei così pallido, secondo me hai bisogno di un po' di luce…”
Si misero a scrivere spalla a spalla, in silenzio.
Il tempo passò in fretta, quel giorno.
Ben non se ne accorse.
 
 
 
 
 


NOTE AUTORE
Vediamo il lato positivo, almeno la quarantena offre un sacco di tempo libero per scrivere e sclerare!
Non so ancora se ciò sia un bene o un male, vi dirò… In settimana ho finito la filmografia di Oscar Isaac (penso di essermi innamorata di lui, chiedo scusa alla moglie! Guardo Triple Frontier a ripetizione…) e adesso sto passando a quella di Adam Driver (sorry not sorry!).
Metteteci pure che è appena uscito Disney Plus con una intera sezione su Star Wars, non ne uscirò mai più, me lo sento!
 
Sono affezionata a questo secondo capitolo, perché come avrete notato è qui che l’amicizia tra Ben e Poe comincia a piantare radici, anche se sempre in nome del loro primo, vero incontro.
Ben non ricorda Poe (d’altronde è passato tanto tempo), tuttavia quell’evento pare fare capolino in lui in modo quasi atavico, attraverso minuscole sensazioni sottopelle, mentre Poe non ha dimenticato l’aiuto che gli è stato offerto in quel momento particolare della sua vita e, a modo suo, decide di interessarsi al suo coetaneo.
Altre piccole informazioni sul passato di Ben verranno a costruirsi piano piano, state tranquilli, un tassello alla volta.
 
Data la presenza di una OS che praticamente scalpita per farsi scrivere, non so se l’aggiornamento di Preludio arriverà già la settimana prossima o aspetterò per quella dopo ancora. Cercherò di fare entrare tutto quanto in breve periodo, questo è sicuro!
 
In ultimo, vi lascio qui un’immagine molto bella che la gentilissima e talentuosissima Fuuma (siete amanti della coppia Stucky e non la conoscete? FOLLI! Correte a leggerla
QUI!) ha realizzato per Darkness, flash della raccolta Darkpilot Stolen Moments:
http://ndkillian.altervista.org/ALTRO/IlMercanteDiStorie/DarkPilot01.png
 
Alla prossima :)
Violet Sparks
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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