Film > La strada per El Dorado
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Autore: HellWill    29/03/2020    0 recensioni
Ambientato completamente nel mondo di Sentieri Sconosciuti, con personaggi completamente originali, l'unica cosa non originale è la trama: si tratta infatti di una palese riscrittura de "La strada per El Dorado" della Dreamworks, a cui mi sono molto più che ispirato per scrivere sui miei personaggi originali in questa storia per niente originale.
Ci sono ovviamente alcune cose diverse – "adattate", per così dire – rispetto al film, e anche rispetto ai libri dei Sentieri Sconosciuti, ma non me ne abbiate a male: ho fatto del mio meglio.
Genere: Comico, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Cross-over, Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Threesome, Violenza
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Il piano
 
Il giorno e la notte erano uguali, sul fondo di un barile; e così i due mascalzoni, per non impazzire, parlottavano fra di loro, intervallando momenti di silenzio in cui bevevano la poca acqua torbida rimasta sotto i loro polpacci.
«Prima o poi usciremo da questa situazione, vedrai» promise Morgan, e Mihael sospirò.
«Almeno sei rimasto ottimista. Non hai fame?».
«Non parliamone. Potrei mangiare un bue intero. Sento i muscoli fiacchi come carote ammuffite» si lamentò l’amico.
Mihael ridacchiò, scuotendo piano il capo, poi poggiò la testa contro la parete della solida botte.
«Secondo te quanto tempo è passato?».
«Tre giorni?».
«A me sembra di più… una settimana?».
«Oh, credimi Morgan, se fosse passata una settimana saremmo già morti».
«Non credi che potremmo ritentare?».
«Non credi sia passato troppo poco tempo da quando abbiamo tentato l’ultima volta?» Mihael tentò di non suonare scoraggiato, ma Morgan sorrise amaro fra sé e sé: tentativo andato a vuoto, dal tono dell’amico aveva intuito quanto fosse disperata la situazione.
«Va bene, va bene… pronto?» chiese ciò nonostante.
«Ah… dai».
«Riproviamo, forza».
I due puntarono piedi e mani contro il fondo e il coperchio delle botti, sospirando: sentivano la debolezza data dalla fame sin dentro le ossa, ma pur di non morire come topi… erano pronti a rischiare ancora e ancora. Ignorarono i suoni che venivano da fuori, nulla più che cigolii del legno della stiva secondo loro.
«Uno… due… tre!» dissero in coro, e stavolta i coperchi delle botti si sollevarono, con loro somma sorpresa. La luce, seppur fioca nella stiva, li abbacinò e per qualche secondo non riuscirono a vedere nulla di nulla; quindi quando delle grosse manacce verdastre e bluastre li afferrarono con violenza per le braccia, non furono altro che sorpresi: dei mezz’orchi dell’equipaggio li trascinarono sul ponte mentre i due, affaticati e accecati da giorni e giorni passati nell’oscurità delle botti d’acqua, non facevano altro che incespicare e cercare gli occhi l’un dell’altro, come due amanti colti in flagrante; ma non sapevano che quella era la nave di Whitman, e che i mezz’orchi li stavano spingendo proprio nella cabina del capitano, dopo aver legato loro i polsi e le caviglie con pesanti catene anti-magia: Mihael e Morgan erano infatti elfi, anche se di due popoli diversi; per questo, non si assomigliavano molto.
Mihael era un elfo dei ghiacci, anche noti come Sysfué: il suo popolo era diviso in diverse tribù, ognuna con un animale totem diverso, e ciò era noto ai più nel Regno di Mame; la tribù di Mihael, in particolare, aveva il totem della tigre bianca… e ciò voleva dire che Mihael poteva trasformarsi in tale. Aveva lunghi capelli bianchi e gli occhi a mandorla erano verde acqua, chiari come i ghiacci da cui proveniva; la sua pelle era di un dolce color caramello.
Morgan, invece, era un elfo delle scogliere, anche noti come Turanjel: erano un popolo guerriero, diviso in tribù che si dividevano intere porzioni del Regno di Isarnon, e che da sempre erano depredati di giovani membri del popolo dagli schiavisti che si spingevano fino alle scogliere più a nord di Isarnon pur di conquistare più schiavi per le proprie tratte. La sua pelle era nera come il carbone, con sotto toni di viola, e i suoi capelli bianchi erano di solito tinti di erbe naturali e colori innaturali… quella volta, li aveva verdi come le alghe del mare su cui viaggiavano, raccolti in treccine così strette da essere quasi un groviglio inespugnabile di capelli. I suoi occhi erano chiari come il cielo d’inverno, e tatuaggi di ogni tipo gli coprivano il corpo, in bianco contro la pelle scura.
Entrambi, ovviamente, sapevano utilizzare la magia… e se anche non l’avessero conosciuta, Whitman non era tipo da rischiare di crederlo sulla loro parola.
Vennero spinti entrambi nuovamente sotto coperta, e i loro occhi ormai disabituati alla luce – seppure si fosse trattato solo del crepuscolo, con il sole ben oltre l’orizzonte che virava sulla notte – trovarono pace; purtroppo, fu per poco, perché Whitman li accolse sputando per terra e alzandosi dallo scranno da cui stava studiando una carta nautica.
«Oh no… Whitman» mormorò Morgan, terreo.
«Il mio equipaggio è stato scelto con la stessa cura dei discepoli del Padre Cielo, perciò non tollererò clandestini. Sarete frustati, e quando attraccheremo a Olfort per i rifornimenti sarete frustati ancora. Quando giungeremo nell’Isola di Nessuno, nuovo territorio di Mame, sarete fatti schiavi nelle piantagioni di cotone per tutto il resto della vostra misera vita. E ora portateli via» congedò i mezz’orchi, che ghignarono, mentre Morgan fissava Mihael con un sorrisetto ironico.
«Evvai… Olfort!» disse a mezza voce, fingendosi entusiasta. Mihael si limitò a lanciargli un’occhiataccia, e insieme furono portati nuovamente sul ponte, e legati all’albero maestro mentre un terzo mezz’orco corpulento preparava la frusta. Nessuno diede loro qualcosa da stringere fra i denti, e così i due, viso contro viso, capirono di dover tenere duro da soli.
Gli schiocchi morsero le carni di Mihael per primo.
L’assassino sopportò stoicamente fino alla ventesima frustata, dopodiché proruppe in un urlo lacerante, almeno quanto l’arma che gli stava infliggendo quel supplizio; il sangue gli scorreva in rivoli giù per la schiena, e fino alla cinquantesima frustata fu un urlo per ogni colpo inflitto. Era come se gli avessero appoggiato del metallo fuso sulla pelle. I marinai ridevano di lui e lo sbeffeggiavano, mentre il sangue colava sul legno del ponte; poi toccò a Morgan.
Nessun dolore, tuttavia, poteva essere paragonabile a quello di sentire l’amante che veniva torturato. Mihael rimase il più immobile possibile, con la fronte schiacciata contro l’albero maestro e ascoltò la frusta che assaggiava le dolci carni del pirata, deturpando ulteriormente quel bel corpo che conosceva così bene, in ogni cicatrice inferta dai precedenti padroni di quello schiavo liberato.
Al contrario di lui, Morgan non urlò: era ben abituato al dolore ed era ben abituato anche alle frustate, nonostante non ne ricevesse ormai da un pezzo.
Finita la punizione pubblica, i due prigionieri vennero sbattuti in uno stanzino della stiva dedicato alla detenzione dei clandestini come loro; per loro fortuna, era vuota prima del loro arrivo, se si escludevano i ratti. Vennero subito visitati dal medico della nave, che dopo aver sciacquato le ferite con acqua marina se ne andò subito, sputando a terra con malagrazia: non perdeva altro tempo con i non-umani che non erano dell’equipaggio ma anzi, erano semplici clandestini e futuri schiavi.
Passò del tempo prima che uno dei due trovasse la forza di spiccicare parola; il primo fu Morgan, quando gli portarono il pasto: un rancio che nell’oscurità non si capiva cosa fosse, dal forte odore di vino e aceto.
«Ah… come mi era mancato il rancio del marinaio» mormorò ironico, e Mihael fece una smorfia all’odore.
«Che cazzo è?» chiese, prendendo la propria scodella a fatica.
«Un misto di galletta, a volte di riso per variare un po’, acqua marina e farina… ci si mette l’aceto così non si sente il sapore» spiegò, e Mihael fece un verso disgustato.
«Mannaggia al cazzo».
«Ehy… troveremo un modo di uscire di qui. Sei l’uomo dei piani, no?».
Mihael si scolò il rancio in due sorsi, sospirando: era il primo cibo che toccava dopo non sapeva quanto tempo, e nonostante li avessero privati delle armi, si concesse un po’ di ottimismo.
«Giusto. Giusto. Lasciami dormire e poi penseremo ad un piano».
«Bravo. Così ti voglio» lo incoraggiò Morgan, con un sorriso tenero, e i due si stesero su un fianco, cercando di evitare di poggiare la schiena sulla paglia sporca di escrementi e urina di topo; le tuniche erano state strappate dalle frustate, e non volevano rischiare che le ferite profonde si infettassero.
I due piombarono in un sonno pieno di sogni di oro e grandezza, che per qualche ora li portò via da quella squallida cella; li svegliò la luce del sole, che tanto era loro mancata in quei giorni di reclusione nelle botti.
«Eh eh, caro Sinjìn… queste mele non sono per te, tu sei a mezza razione!» sentirono una voce interagire con quello che sembrava un cavallo, che sbuffò come offeso. Mihael si stiracchiò, ma fu un grosso errore: le croste delle ferite scricchiolarono e si creparono, facendo uscire altro sangue che gli scorse in rivoli giù per la colonna vertebrale, facendolo rabbrividire per il dolore al punto che gli si rizzarono tutti i peli del corpo. Si alzò con lentezza e iniziò a fare avanti e indietro per la minuscola cella, lieto di poter sgranchire un po’ le gambe, e guardò Morgan dormire beato con un filo di bava che si allungava sul braccio scuro del compagno.
Una mela rotolò fino alla grata della loro cella, piombando dall’alto proprio sulla testa di Morgan, che ebbe un brusco risveglio: fissò Mihael, poi cercò il motivo per cui si era svegliato e si intascò la mela, conservandola per un momento più appropriato invece di mangiarla subito, per colazione.
Passarono i giorni, tutti uguali; il medico tornò un paio di volte per assicurarsi che non fossero morti, poi non si fece più vedere. Le catene scorticarono loro i polsi e le caviglie a furia di percorrere quelle quattro iarde quadrate della cella, avanti e indietro, e intanto i due parlavano a malapena, controllandosi le ferite a vicenda e dormendo accoccolati insieme, di notte, godendo del calore l’un dell’altro nelle notti fresche d’estate.
«Da qui, almeno, si vedono le stelle» mormorò Morgan ad un certo punto. Pur stanco, Mihael si sollevò su un gomito.
«Sai dire dove siamo, guardandole?» chiese serio, e il pirata annuì piano.
«Siamo quasi ad Olfort. Non so se riusciremo a sopportare altre cinquanta frustate, le ferite sono a malapena rimarginate, e meno male che guariamo velocemente».
«Non siamo umani, dopotutto» borbottò Mihael, e sorrise appena. «Motivo per cui ci frusteranno ancora e ancora».
«Non se prima scappiamo» sorrise il pirata, e si accoccolò nell’incavo del braccio dell’amante, poggiando la testa sul suo petto.
«Non se prima scappiamo» convenne Mihael, e si massaggiò gli occhi con una mano mentre con l’altro braccio stringeva il compagno. «Ci pensi mai al passato?» chiese piano, e Morgan mugugnò qualcosa di non intelligibile.
«Che intendi?» chiese poi, più chiaramente.
«Al modo in cui ci siamo conosciuti».
«Ah, intendi al bordello?».
«Che stronzo. Mi immaginavo una risposta più romantica» borbottò Mihael, spingendolo via. Morgan rise, e si mise seduto con un clangore di catene.
«A volte ci ripenso. E mi chiedo come ho fatto a capitare proprio con te quella notte. Mi chiedo anche come possa essere stato così fortunato… trovare un amico, un compagno e un amante nello stesso letto».
«Oh, suvvia, non è stato difficile. La sete d’oro e d’avventura non manca certo a nessuno dei due» sorrise Mihael. «E il fatto che tu sia un capitano pirata senza una nave non fa che renderti più affascinante».
Morgan fece un gesto vago con la mano.
«Immagino di sì. Allora, come procede il piano di evasione?».
Mihael si alzò con fatica e percorse a grandi passi la cella, poi alzò la testa.
«Va bene, un momento. Ci sto arrivando» disse, e Morgan lo guardò fiducioso.
«Sì, senza fretta» lo rassicurò.
«Bene, ecco il piano» borbottò Mihael, distendendosi prono accanto a Morgan, che si girò per stargli vicino, prono anche lui. «A notte fonda, tu e io prendiamo delle provviste, freghiamo una di quelle barcacce d’emergenza, e poi ce ne torniamo a Mame senza neanche dire ciao».
«Torniamo a Mame, sì?».
«Sì».
«In una barca a remi».
«Esatto».
«Grandioso, sensazionale» Morgan sbuffò, e Mihael lo guardò offeso. «Questo… questo è il tuo piano, eh?».
«In poche parole, sì».
«Beh, mi piace. Come arriviamo sul ponte?» chiese Morgan, giochicchiando con la mela di qualche giorno prima, meditando se mangiarla o meno.
«Mmmh» mormorò Mihael, poi ripeté, stanco: «A notte fonda, tu e io prendiamo delle provviste, freghiamo una di quelle barcacce e­–».
«Oh, magnifico» lo interruppe Morgan, e stava per dare un morso alla mela quando si ricordò che sul ponte c’era il cavallo di Whitman, che andava pazzo per le mele.
«Allora qual è la tua idea, sapientone?» Mihael pareva piuttosto scocciato, ma Morgan ribatté:
«Come? Come sarebbe? Non chiederlo a me, sei tu quello dei piani!» lo rimbeccò, poi elaborò l’informazione che gli era venuta in mente e si alzò di scatto, cosa che gli fece venire un giramento di testa. «Va bene, fermo, in effetti ho un’idea. Forza, sollevami» gli disse, aggrappandosi alla grata con le mani quando il compagno si alzò e lo sollevò senza questioni.
«Ehy, Sinjìn! Sinjìn! La vuoi una bella mela…? Vieni a prenderla!» chiamò il cavallo con un fischio sordo, per non farsi sentire da marinai o guardie, e in breve sentirono un tonfo e il suono di zoccoli sul legno. Mihael inarcò le sopracciglia: qual era il piano, dunque?
«Ma prima devi fare un giochetto per me» sorrise Morgan attraverso la grata, ritirando la mano con la mela, e il cavallo parve quasi offeso dall’implicazione. «Devi solo trovare un piede di porco… è un lungo pezzo di ferro, con una cosa tipo gancio alla fine, sì?» il cavallo inclinò la testa, senza capire, e Mihael sospirò.
«Morgan, stai parlando con un cavallo».
«Bravo Sinjìn» gli carezzò il muso, poco prima che il cavallo si allontanasse, e lo esortò: «Bravo, trova il piede di porco» sussurrò, e Mihael gli fece eco:
«Sì, “trova il piede di porco”… non capisce cos’è il piede di porco! È un cavallo, non c’è modo in cui–» fu interrotto dai passi pesanti del cavallo che tornava, e attraverso la grata cadde un mazzo di chiavi. Mihael lo fissò in attonito silenzio, mentre Morgan sorrideva a trentadue denti, e lo fece scendere mentre Sinjìn nitriva.
«Sai che il cavallo di Whitman è un Angéron?» chiese Mihael, raccogliendo le chiavi e tentandole tutte finché non riuscì ad aprire le proprie catene e quelle di Morgan.
«Che cos’è?» chiese il pirata, interessato.
«Un animale magico che può assumere la forma di qualsiasi altro animale… Whitman lo sfrutta come cavalcatura solo perché può trasformarsi in rondine e mangiare gli insetti invece delle provviste» ridacchiò l’assassino, e Morgan fischiò piano.
«Che figata. Bene, ora ce ne andiamo?».
«Dobbiamo aspettare, il sole è calato solo da un paio d’ore».
Quelle ore furono più lunghe ancora dei giorni passati in prigionia; a notte fonda, quando anche gli ultimi marinai di guardia si appartarono per riposare di nascosto, Morgan sollevò Mihael e l’assassino aprì la grata: una ventata d’aria fresca li colpì, investendoli con una zaffata di sudore, piscio e cibo fresco.
«Bene. Ora. La cambusa è di là» Morgan indicò verso la poppa, dove c’erano un paio di mezz’orchi che dormivano, e Mihael annuì piano: era il lavoro per lui, silenzioso come un’ombra.
I due si separarono, e mentre Morgan scopriva la barcaccia facendo il meno rumore possibile, Mihael andò a procurarsi delle provviste.
Fu di ritorno poco dopo, con una borsa gonfia di cibo e un’altra con due otri d’acqua belli pieni; nessuno lo inseguiva, quindi Morgan gli sorrise e issò la barca oltre il parapetto di babordo, dando a Mihael la corda. L’assassino montò sulla barca, ben attento a non mollare la fune, mentre Morgan cercava con lo sguardo Sinjìn: il cavallo tuttavia si era trasformato in un gatto nero, e quando li vide corse loro incontro, ricordandosi della mela promessa.
«Oh, Sinjìn… grazie, grazie» mormorò Morgan, riconoscendo gli occhi verdi dell’animale. «Se mai potremo ricambiarti il favore…».
«Per la miseria, Morgan! È uno spietato animale da battaglia, non un vero gatto! Avanti, prima che si trasformi in qualcosa di più rumoroso!».
Detto fatto, il gatto si ritrasformò in un cavallo, frugando con il muso nella blusa stracciata di Morgan, che si allontanò facendogli un cenno di saluto con la mano. Si mise sulla barcaccia insieme a Mihael e Sinjìn si sporse dalla balaustra, nitrendo il proprio disappunto.
«Ma cosa gli prende?» chiese Mihael, allarmato, e Morgan alzò lo sguardo verso il cavallo, scuotendo il capo; poi, improvvisa realizzazione:
«Ah. Vuole la sua mela, probabilmente» borbottò, frugandosi nella tunica e lanciandogli la mela; Sinjìn si lanciò oltre il parapetto, cambiando forma a mezz’aria per assumere quella di una scimmia verde, e afferrò la mela cadendo però in acqua.
«Sinjìn! Sinjìn!» chiamò Morgan impaurito, ma l’animaletto era già in forma di delfino e gli sputò il torsolo di mela addosso, mentre Mihael calava la barca in acqua.
«E ora… filiamocela!» lo esortò a prendere un remo, mentre Morgan carezzava il delfino che li seguiva.
Remarono per tutta la notte, e razionando le provviste arrivarono a passare una settimana sotto il sole, ben più di quanto si aspettassero; Morgan di notte consultava le stelle, per capire dove fossero, ma quelle acque gli erano sconosciute, quindi sapeva solo che stavano continuando a procedere verso est. Ciò nonostante, di Olfort non c’era traccia; Sinjìn forniva loro pesce fresco cacciando, certo, ma l’acqua dolce cominciava a scarseggiare e non sapevano quanto ancora gli sarebbe rimasto da affrontare. Dopo una settimana dalla fuga, il cielo cominciò a rannuvolarsi, concedendo loro un po’ di respiro dall’afa cocente.
«Quante provviste ci rimangono?» chiese Mihael dopo un po’, e Morgan scosse il capo.
«Ecco… diciamo che per fortuna c’è Sinjìn».
«Bene» borbottò l’assassino, e Morgan si strinse nelle spalle, allegro.
«Guarda il lato positivo: non può andare pe-» disse, mentre un tuono squarciava il silenzio e la calma piatta del mare, interrompendolo. Con un unico scroscio, iniziò a piovere pesantemente.
«Scusa… stavi per dire peggio?».
«No».
«No?».
«No».
«Sicuro?».
«Assolutamente».
«Benissimo».
«Ho cambiato punto di vista».
«Già, come sospettavo. Almeno siamo in una barca a remi» sospirò Mihael, riprendendo in mano il proprio: aveva le mani piene di calli dovuti al vogare tutto il giorno, ma sempre meglio della prigione e, in seguito, della schiavitù.
«In una barca a remi» sospirò Morgan, con tono depresso: com’era finito dall’essere capitano della propria nave pirata a quella situazione senza visibile speranza? «Non ti sfugge niente» borbottò, prendendo in mano anche il proprio remo e, sotto la pioggia scrosciante, iniziando a remare.
Passarono altri giorni; per fortuna gli otri erano stati riempiti dall’acqua piovana che avevano raccolto in un secchio, e Sinjìn continuava a fornire loro del pesce che essiccavano alla meglio su di un telo durante il giorno, mangiando poi al calar del sole.
Quando ormai le speranze sembravano svanite, i due si misero a riposare sotto il sole cocente, a petto nudo, con le schiene piene di cicatrici l’una contro l’altra.
«Mihael, avresti mai immaginato che sarebbe finita così?».
«Non mi aspettavo l’Angéron» mormorò in risposta lui, ad occhi chiusi: era stanco di remare, stanco di provarci, e aspettava solo che sopraggiungesse la morte per inedia o, più probabilmente, per sete. Si sentivano la pelle appiccicosa per il sale e secca per il sole, le labbra erano screpolate e pesanti occhiaie pendevano sotto gli occhi di entrambi, provati da quel viaggio senza fine.
«Qualche… rammarico?» chiese Morgan ad occhi chiusi, serio, e Mihael mormorò ironico:
«A parte morire?».
«Sì».
«Non ho mai avuto abbastanza… oro?» chiese Mihael: il suo passato da sicario era bruscamente terminato quando aveva seguito Morgan all’avventura con la sua ciurma di pirati; prima di allora era stato ricco, certo, ma aveva investito tutti i propri soldi in una fattoria da ristrutturare su, a nord del Regno di Mame, nelle Terre delle Tenebre; si diceva che in quel territorio la neve fosse quasi perenne, e il giorno non durasse che poche ore anche d’estate. Gli ricordava casa sua, dov’era cresciuto.
«Il mio rammarico, a parte morire, è che… la nostra più grande avventura è finita ancora prima di cominciare» Morgan interruppe i suoi pensieri, e gli strinse la mano con forza. «E nessuno si ricorderà mai di noi» sussurrò, quasi commosso. A Mihael si strinse il cuore.
«Se ti può consolare, Morgan, tu… tu hai reso la mia vita un’avventura» Mihael si portò alla bocca la sua mano, girandosi per baciargliela; poi rimpiombò schiena contro schiena, ad occhi chiusi sotto il sole cocente che gli faceva martellare le tempie.
«E se ti può consolare, Mihael, tu hai reso la mia vita ricca».
La barca ondeggiò pericolosamente ma i due non si mossero, mentre Mihael piangeva in silenzio; lacrime correvano anche sul viso di Morgan, che se le asciugò con rabbia e si sporse per urlare al mare la propria frustrazione.
Così facendo, tuttavia, la barca si sbilanciò e Morgan cadde con la faccia nella sabbia, mentre Mihael si alzava di scatto, allarmato. Morgan fissò la sabbia confuso, senza capire.
«È LA TERRAFERMA!» ruggì poi non appena ebbe connesso i due neuroni ancora attivi che gli erano rimasti dopo le settimane passate sotto il sole, e Mihael saltò giù dalla barca, ridendo e buttandosi sulla sabbia.
«Terraferma! Il paradiso!» esclamò contento. Morgan si distese nella sabbia accanto a lui, lanciandogli occhiate in maniera sensuale. «Ora dobbiamo solo trovare dell’acqua, del cibo fresco e magari un riparo per la notte…» elencò l’assassino, e lanciò uno sguardo al pirata. «Dico, ti sembra il momento per…?» chiese, inarcando il sopracciglio. Morgan si ritirò dal flirt, offeso, e si alzò: poco distante vi erano degli scheletri con una sciabola camusa conficcata in un cranio. Le ossa erano state ripulite dalle maree e dagli animali, e ora biancheggiavano nella sabbia dorata con ancora della stoffa che ondeggiava fra le costole che emergevano dalla spiaggia.
Morgan afferrò la sciabola, e la studiò: era poco affilata e anche scheggiata in alcuni punti, ma se fosse stata affilata avrebbe potuto aprire loro la strada nella foresta che si affacciava poco più in là sulla spiaggia… Camminò lungo la costa, in cerca di una pietra che potesse fare al caso suo come cote, mentre Mihael si alzava lentamente e aguzzava le orecchie: sentiva lo scrosciare tipico dell’acqua dolce, da qualche parte all’interno della foresta.
«Morgan!» lo chiamò, sorridendo. «C’è dell’acqua da qualche parte!».
Ma il pirata era fermo con la spada in mano e studiava un pezzo di pergamena con dei familiari disegni e delle scritte in elfico, così quando Mihael gli si avvicinò, Morgan indicò una formazione rocciosa della spiaggia, che somigliava in modo buffo alla testa di un falco.
«Quello… non ti sembra questo?» chiese, indicandogli il primo disegno sulla costa dell’Isola di Nessuno, e Mihael lo fissò incredulo.
«Che cos’è? La mappa?».
«Sì» rispose il pirata, spazientito.
«Tu hai ancora la mappa!?» Mihael ringhiò stavolta, e Morgan indicò la foresta e la roccia a forma di falco.
«È tutto qui! La roccia, il ruscello!» insistette Morgan, indicando anche la catena montuosa che si intravedeva oltre la foresta. «Persino quelle montagne! L’hai detto anche tu: poteva essere possibile, ed è così! Questa è la mappa per la città dell’oro, Kamayuwn!» disse d’un fiato, mentre Mihael scuoteva il capo e si massaggiava gli occhi con una mano.
«Hai bevuto acqua di mare, vero?».
«Oh, andiamo!» protestò il pirata, battendo il piede a terra come un bambino.
«Io non vado in nessun posto! Non mi addentrerei in quella giungla neanche per mille corone!» decretò l’assassino, tornando indietro verso la barca.
«E se fossero… mille milioni?» chiese Morgan, inarcando un sopracciglio e sorridendo allettante.
«Cosa?» Mihael si fermò.
«Pensavo solo che, in fondo, visto che Kamayuwn è la citttà d’oro…».
«Vieni al dunque».
«Insomma, polvere, pepite, mattoni, un tempio d’oro dove puoi cogliere oro dalle mura stesse…» Mihael si voltò lentamente verso di lui, con gli occhi verde acqua che scintillavano cupidi. «Ma tu non ci vuoi andare, perciò rimettiamoci in barca e torniamocene a Mame. Ci è andata così bene l’ultima volta che siamo approdati» Morgan appariva tranquillo, ma il cuore gli batteva fortissimo: pregava che Mihael cascasse nella sua rete, o non si sarebbe mai perdonato l’essersi lasciato sfuggire un’occasione simile.
«Fermo» Mihael gli puntò il dito contro. «Un momento» disse, avvicinandosi di nuovo. «Nuovo piano: troviamo la città d’oro, prendiamo l’oro, e poi ce ne torniamo nel Regno di Mame».
«E ce lo compriamo» rise Morgan, sollevato.
«Sì!» Mihael rise entusiasta, mentre Sinjìn sbucava fuori dall’acqua e si trasformava in un gabbiano, stridendo sopra le loro teste. Si avviarono dunque nella foresta, seguendo lo scrosciare del ruscello e la mappa, rifornendo gli otri e raccogliendo la frutta dagli alberi quando gliene capitavano.
   
 
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