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Autore: Ridichetipassa    05/04/2020    0 recensioni
"Voglio diventare anche io una ragazza alla pari!"
Era nato così quello che per gli altri era solamente "l'ennesimo capriccio di Mia".
Ma l'apparenza, si sa, può celare molto. Ed è proprio un vuoto incolmabile quello che si nasconde dietro la sua frivolezza, e che porterà Mia a partire alla volta del Giappone, in un ultimo disperato gesto per riappropriarsi di sé stessa. Nella terra dei crisantemi, la ragazza sarà costretta a interfacciarsi con una realtà che se da un lato ha la delicatezza dei fiori di ciliegio, dall'altro ha la violenza apocalittica del Sole che sorge.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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«Tu sei completamente scema.»

Alessandro mi guardava dall'alto del suo metro e novanta, gli occhi torvi, la mano che stringeva la bottiglia di vodka ora sospesa a mezz'aria. «Dimmi che stai scherzando, Mia...» proseguì con un una voce che si era fatta quasi minacciosa.

Sotto il suo sguardo accusatore, forzai il collo della bottiglia verso il basso e lo costrinsi a versarmi un bicchiere di quel liquido trasparente, «Ti sembra che io stia scherzando?» gli chiesi alzando un sopracciglio.

Imbambolato, continuava a studiarmi senza riuscire a proferire parola. Dalla testa ai piedi, i suoi occhi vagavano alla ricerca di un segno di cedimento da parte mia, magari un sorriso appena accennato o gesto di nervosismo, che gli facesse capire che ciò che gli avevo appena detto, in realtà, era solo una grande, immensa bugia.

«Marco!» urlò d'un tratto verso il salone, ridestato di colpo dal suo stato di trance e arrabbiato come mai lo avevo visto prima d'ora.

Ingoiai un altro sorso del mio drink simulando un'indifferenza che non mi era mai appartenuta.

«La tua ragazza se ne va dall'altra parte del mondo e tu non dici nulla?»

Sull'uscio della cucina aveva fatto capolino la testa del mio fidanzato. Aveva le guance arrossate dall'alcol e i capelli biondi scompigliati, scombussolati almeno tanto quanto lui. Delle profonde occhiaie violacee segnavano i suoi occhi azzurri, puntati in quel momento nei miei.

«Abbiamo già discusso abbastanza, non mettertici pure tu.»

Glielo avevo annunciato in macchina quello stesso pomeriggio, quando mi era passato a prendere sotto casa con la sua Mini verde bottiglia per andare alla festa di Giulia.

Proprio come Alessandro, si era ammutolito aspettandosi che io sbottassi a ridere da un momento all'altro. Io però ero rimasta seria.

E dentro quella serietà che mi aveva irrigidito i muscoli, incupito i tratti del viso e serrato le labbra, Marco si era sentito perso, perché aveva capito che quella era una decisione che avevo già preso, ma soprattutto che il suo parere non era stato richiesto.

Aveva urlato, imprecato, mi aveva insultata, poi si era calmato, mi aveva chiesto di ripensarci, di non partire, "Dimmi che questo è soltanto un altro dei tuoi capricci" aveva detto alla fine accarezzando i miei lunghi capelli castani.

Mi era venuto naturale farlo. Incassando il suo sguardo scioccato e turbato, mi ero scostata freddamente dal suo tocco in nome di un desiderio, forse più simile ad una necessità, che volevo proteggere da chiunque ero certa non sarebbe stato in grado di trattarlo con il giusto riguardo.

Non avevamo più parlato per tutto il resto del viaggio. Una volta arrivati a casa di Giulia, ci eravamo separati evitandoci per tutta la sera, almeno fino a quel momento.

Era una situazione a cui non ero abituata: pesante, opprimente, a tratti soffocante. Perché in un mondo come il nostro, la leggerezza finiva sempre per impastarci un po' tutti e ogni discorso, ogni discussione, non si spingeva mai oltre la superficie. Si riduceva tutto alle solite conversazioni, alle solite battute, ai soliti sorrisi forzati.

E forse era per paura, paura che grattando un pochino lo strato esterno, ci saremmo scoperti più veri e umani di quanto avremmo potuto sopportare.

E noi a questo non eravamo pronti.

«Non ci posso credere...»

Alessandro si era appoggiato al tavolo, il volto contratto in una smorfia condita di delusione e amarezza. Nell'aria, ovattate, le voci allegre dei nostri amici stridevano contro di noi.

«Che sta succedendo qui?»

In un attimo il tono acuto di Giulia squarciò quel silenzio che ci aveva avvolti come un guanto troppo stretto.

«Nulla» mi limitai a dirle buttando giù il contenuto del bicchiere tutto d'un fiato. Con la testa ancora rovesciata all'indietro, un particolare, apparentemente insignificante, attirò la mia attenzione.

Non era stato il braccio scheletrico della mia amica avviluppato attorno al collo del mio ragazzo a farmi storcere il naso, ma Marco.

«Mia partirà per il Giappone tra qualche giorno...»

Se c'era qualcosa in cui lui riusciva alla perfezione era provocarmi. Era bravo nel suo gioco e io finivo sempre per cadere nella trappola, incapace di farmi scivolare addosso quel ghigno derisorio che mi feriva ogni volta un po' di più.

Alle sue parole lei si illuminò. «Io ci sono stata, è un bel pae-»

«No, Giulia, forse non hai capito.» Fu Alessandro a interromperla, «Mia ci va per lavorare.»

Era una reazione alla quale mi stavo iniziando ad abituare. Gli occhi sbarrati, la bocca aperta, il respiro mozzato, Giulia si era zittita, forse per la prima volta in vita sua.

«Lavorare? Te?» proruppe ancora sotto shock.

Aveva usato le stesse parole che mi avevano rivolto i miei genitori qualche settimana prima.

"Tesoro, per favore, non dire sciocchezze." Mia madre, seduta sul divano con ancora indosso gli abiti da lavoro, si stava massaggiando le tempie con le dita. Ogni volta che in tribunale perdeva una causa, tornava a casa con delle forti emicranie che significavano solo una cosa: voleva essere lasciata in pace.

Io quel giorno, però, avevo deciso di sfidare la sorte. "Me ne vado in Giappone, mamma, che ti piaccia oppure no. L'agenzia mi ha già trovato una famiglia."

Che fossi una ragazza testarda era risaputo a tutti, ma allo stesso tempo perdevo interesse facilmente e le mie battaglie spesso scemavano da sole dopo un po' di tempo. Per lei questa era l'ennesima delle tante.

"Se vuoi proprio lavorare, trovati qualcosa qui a Roma" aveva detto mio padre liquidando la questione con un gesto stizzito della mano, intento a fare zapping col telecomando.

Colta da una rabbia incontrollabile, avevo battuto i piedi.

Ricordo perfettamente l'espressione accigliata dei miei genitori. "Smettila di fare i capricci, Mia!" mi aveva richiamata mia madre, "Questa è la cosa più assurda che sia mai uscita dalla tua bocca. Un'au-pair? Così, da un giorno all'altro?" aveva proseguito mio padre.

Quel giorno, di fronte all'indifferenza dei miei genitori, avevo inconsciamente imparato qualcosa di nuovo: se le parole hanno un peso, allora le mie dovevano essere per forza inconsistenti, forse più leggere di una piuma.

"Un anno sabbatico per riflettere, per capire cosa fare della mia vita, e nel frattempo mi dò da fare, mi guadagno qualcosa. Cosa c'è di sbagliato in questo?"

"Che puoi farlo anche a Roma, perché devi andartene in Giappone?" Mio padre aveva spento la televisione. "Perché ho bisogno di cambiare aria, pà"

La mia risposta non gli era piaciuta, ma non avevano più obiettato nulla.

Andava sempre a finire così: io mi impuntavo su qualcosa e loro me la davano vinta. "Fai come vuoi" e io mi ritrovavo a non dover lottare davvero per qualcosa. Era tutto lì, ad un capriccio di distanza.

«Sì, io. Perché vi risulta così difficile da credere?»

Giulia drizzò la schiena, le mani puntellate sui fianchi, «Forse perché sei talmente ricca che se volessi potresti campare di rendita per sempre!» esordì, per poi avvicinarsi a me e sussurrarmi all'orecchio con quella voce felina che l'aveva sempre caratterizzata, «A me puoi dirlo...come si chiama?»

Lì per lì non capii, «Ma chi?»

«Il tuo amante giapponese, ovviamente. Pensi davvero che sia così stupida da bermi la storia del lavoro?»

Non poteva saperlo, ma io ero troppo vuota per poter amare davvero qualcuno. Me ne ero accorta tardi, troppo, che le emozioni ormai mi rimbombavano dentro in un eco infinito. Erano farfalle rinchiuse dentro un contenitore vuoto che si schiantavano contro le pareti alla ricerca di una via di fuga. Marco era per me solo un'abitudine.

Io ero rotta. Qualsiasi cosa provassi era destinata a svanire in fretta. 

E lo giuro, ci avevo provato a far finta di nulla, a convincermi che andava bene anche così, che io andavo bene così.

Eppure un giorno, mentre stavo attendendo che il mio tram arrivasse, la voce squillante di una ragazza aveva attirato la mia attenzione. Stava parlando al telefono con qualcuno e intanto gesticolava, entusiasta. Tutt'ora non mi so spiegare cosa mi avesse spinto a farlo, ma delicatamente avevo sfilato una cuffietta dall'orecchio e mi ero messa ad origliare la sua conversazione.

Con gli occhi lucidi, emozionata, aveva raccontato della sua famiglia ospitante, dei bambini che le erano stati affidati, della cultura diversa con cui si era interfacciata, delle cose buone che aveva mangiato, dei momenti in cui si era sentita un po' nostalgica, dei luoghi che aveva visitato, "Certo, dopo ti mando le foto!" aveva assicurato zompettando felice.

Una lacrima, poi, le era scivolata lungo una guancia, "Ho conosciuto così tante persone speciali... è stata davvero una bella esperienza" aveva infine asserito prima di chiudere la telefonata.

E per tutto il tempo io mi ero ritrovata a gioire con lei, a ridere degli aneddoti divertenti, a condividere la sua malinconia nei momenti in cui si era sentita sola, a visualizzare nella mia testa le descrizioni dei luoghi, a riuscire quasi a sentire i profumi delle pietanze che aveva mangiato.

Con lo stomaco ancora in subbuglio e la tachicardia, avevo preso il tram pensando che ciò che avevo appena ascoltato l'avrei presto dimenticato.

Ma non fu così.

Mi ero appropriata di quelle sensazioni travolgenti e ne ero diventata ingorda. Ne volevo altre.

«Voglio davvero fare questa esperienza, Giulia.»

Scrollò le spalle, «Sappi che il Giappone è più bello visto da turista che da sguattera» sentenziò poco dopo, aspra, scatenando la risata di Alessandro e Marco.

Se alle loro reazioni avevo iniziato ad abituarmi, ai commenti che seguivano non ne sarei mai stata in grado.

Forse mi sarei potuta risparmiare quella conversazione con loro, se quel giorno, invece di proseguire, fossi scesa alla mia solita fermata.

Però gli occhi radiosi di quella ragazza, il suo racconto, la sua voce entusiasta, mi si erano attaccati all'anima a tal punto da far desiderare anche a me di poter vivere qualcosa di simile, qualcosa in grado di emozionarmi almeno la metà di quanto aveva fatto con lei.

E allora avevo cercato col cellulare la più vicina agenzia per ragazze alla pari e, impostato il GPS, ero scesa ben otto fermate dopo la mia, in un quartiere che mi aveva fatto credere di non essere neanche a Roma, ma in una qualche favelas non meglio precisata del Brasile.

Avevo stretto i denti e, con qualche difficoltà, mi ero avventurata per le stradine secondarie, vie di cui non avevo mai sentito parlare il cui asfalto sembrava essere stato divorato, smaggiucchiato da un mostro immaginario che lo aveva ridotto a un cumulo di buche.

Il ticchettio delle mie scarpe, poi, aveva incuriosito qualche passante, alcune vecchiette affacciate dal balcone e anche un gruppo di ragazzi intenti a fumare quella che sicuramente non poteva essere una normale sigaretta.

"C'è puzza di Parioli" si era udito d'un tratto e io mi ero stretta nelle spalle, colpevole. Perché era una puzza che sapeva di Chanel n°5, della borsa di pelle di Louis Vuitton, dello smalto laccato delle mie unghie, era una puzza che mi ero cucita addosso, che solo poche volte nella mia vita avevo provato, invano, a lavare via.

Ero arrivata all'agenzia con il cuore in gola, gli occhi sbarrati e un senso di panico che mi aveva accorciato il respiro.

Avevo accettato la prima proposta che mi avevano messo davanti senza neanche pensarci su.

Ovunque.

Mi bastava andare via, lontano. "Giappone? Sì, va bene."

Magari mi sarei lasciata dietro anche la puzza di quello che ero diventata.

«Sapete che vi dico?»

I miei amici mi stavano fissando, sui loro volti ancora ben impressi quei sorrisi di scherno che tanto odiavo.

Li sorpassai e senza neanche voltarmi li salutai: il dito medio della mia mano destra fu l'ultima cosa che intravidero di me.

   
 
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