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Autore: LionConway    05/04/2020    3 recensioni
[Il Cacciatore]
[ The Deer Hunter / ... And Justice For All ]
[ high school!AU ] [ 1980s!AU ]
Mike Vronsky ha diciotto anni, vive con il padre in un'anonima cittadina della Pennsylvania e il suo principale sfogo è passare il tempo con i suoi migliori amici. Nessuno di loro ha un cospicuo conto in banca né voti particolarmente brillanti a scuola, ma la situazione di Mike è nettamente peggiorata durante la malattia e, in seguito, la morte della madre. Il nuovo anno è appena iniziato, la domanda per il college e l'evasione dalla vita di provincia pendono sulla sua testa e Mike deve assolutamente mettersi in pari con il programma.
Arthur, un giovane e attraente studente di Legge tornato in occasione dell'Homecoming, sembra essere la sua salvezza per quanto riguarda le ripetizioni... non fosse che detesta Mike e la sua combriccola per un torto subito un paio di anni prima.
Come se non bastasse, a peggiorare la situazione, ci sono gli ormoni ballerini di un diciottenne che comincia a scoprire la sua attrazione per gli uomini e, soprattutto, per il misterioso e affascinante Nick, il nuovo studente alla Clairton High.
Riuscirà Mike a sopravvivere al suo ultimo anno?
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, Cross-over, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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III. 
Uccidere Un Usignolo
 


 

Atticus non andava mai nemmeno a caccia; diceva che i fucili non gli interessavano. E quando, per Natale, ricevemmo i fucili ad aria compressa, lasciò allo zio Jack il compito di insegnarci a sparare. Un giorno, disse a Jem: - Preferirei che sparaste ai barattoli di latta, nel giardinetto, ma so già che andrete a caccia di uccelli. Sparate pure a tutte le ghiandaie che vedete, se riuscite a colpirle, ma ricordatevi che è peccato uccidere un usignolo. -

Fu l'unica volta che lo sentii dire che era peccato fare qualcosa, perciò chiesi chiarimenti a Miss Maudie.- Tuo padre ha ragione - disse. - Gli usignoli non fanno nient'altro che donare musica agli uomini. Non divorano gli orti della gente, né fanno il nido nelle madie; non fanno altro che cantare per noi con tutta l'anima. Ecco perché è peccato uccidere un usignolo "

Nelle Harper Lee – Il Buio Oltre la Siepe ) 
 



 

Quando Michael richiuse l'armadietto, vide un raggiante Nick camminare nella sua direzione e sventolare una mano in segno di saluto. Istintivamente, si guardò intorno: non erano rare le volte in cui gli era capitato di ricambiare un cenno non rivolto a lui. Si sentì doppiamente scemo quando Nick gli si piazzò di fronte, ridacchiando di quella sua reazione. 
 

«Scusi, lei spaccia?» chiese, appoggiandosi con una spalla alla fila di armadietti. Quel giorno indossava una camicia celeste quasi in tinta con i suoi occhi. Il giubbotto di pelle del giorno prima gli penzolava da un braccio.

Michael fece in modo di ricomporsi in fretta e sorrise, dando un colpetto al proprio Jansport color salmone. «Ho qualcosa in fondo allo zaino» bisbigliò, in caso qualche insegnante passasse di lì proprio in quel momento.

«Bene.» Nick ghignò, mettendo in mostra gli incisivi. Sì, aveva un ché del Lestat di Intervista col Vampiro: Michael non si sarebbe sorpreso se i suoi canini fossero stati più affilati della norma. «Quindi, ti passi quest'ora buca a fumare con me?»

«Oh, in realtà... non so se è il caso...» tentennò Michael. «Avevo pianificato di usarla per cominciare a studiare qualcosa...»

Non che l'idea lo allettasse in particolar modo, anzi: trascorrere un'oretta in completa solitudine con Nick rientrava decisamente di più nella sua concezione di divertimento. Il giorno prima gli aveva dato un passaggio a casa e aveva scoperto che non vivevano poi così lontani: a Michael sarebbe bastato attraversare il campo dietro la collinetta del belvedere per raggiungerlo a piedi. Nick lo aveva ringraziato con la promessa di invitarlo a merenda nel primo weekend possibile. Gli aveva pure chiesto informazioni sul cineforum dell'A.V. Club, al quale pareva essere sinceramente interessato. Insomma, era una persona piacevole. Tecnicamente, avrebbe dovuto farci amicizia per conto di Linda, ma la verità era che Michael smaniava sinceramente dalla voglia di conoscere più a fondo il nuovo arrivato. Un amico in più gli avrebbe fatto solo bene.

D'altro canto, aveva un sacco di lavoro da fare e sentiva il bisogno di portarsi avanti il più possibile. A quella risposta, Nick arricciò le labbra, apparentemente contrariato. «Oh, andiamo» lo esortò, «non cominci oggi le lezioni con Arthur Radley?»

«Kirkland» lo corresse Michael.

«Lo so. Era una citazione. Mai letto Il Buio Oltre la Siepe

Michael scosse la testa: lo conosceva di nome e aveva un vago ricordo del film in bianco e nero con Gregory Peck, ma lo aveva visto passare in tv quando era molto piccolo.

«Beh, c'era un tizio che non usciva da questa casa spettrale da venticinque anni» spiegò Nick, spostando il giubbotto di pelle su una spalla. «Si chiamava Arthur pure lui, ma tutti lo chiamavano Boo perché pensavano fosse un fantasma. In realtà era solo una persona molto timida e molto fragile. E c'è tutta una metafora col razzismo e le ingiustizie. Se non sbaglio, dovrebbe essere nel programma di quest'anno.»

Michael alzò gli occhi al soffitto: «Qualcuno ti ha raccontato di come ci siamo comportati con Arthur, vero?»

«Axel è un chiacchierone, sull'autobus.»

«Mi sento uno schifo ad avergli chiesto aiuto, dopo tutto quello che gli ho fatto.»

Nick allungò una mano, posandola dolcemente sul suo bicipite. Un tocco consolatorio. «Non crucciarti troppo» disse, «eri un ragazzino che seguiva il branco. Non ti scusa del tutto, ma almeno ammetti di aver sbagliato. Questo è il primo passo per sistemare le cose.»

Michael rimase come imbambolato per qualche secondo a fissare le dita di Nick premere lievemente intorno al suo braccio. Alla fine, si arrese al farsi trascinare da lui sugli spalti del campo di football.

Una classe di matricole aveva l'ora di educazione fisica. Nick fece qualche commento a proposito dell'altezza dei ragazzini ma Michael, leggermente stordito dall'erba, era troppo intento a osservare il suo profilo affilato, gli zigomi pronunciati e i capelli color miele che il vento si divertiva a scompigliare, creando una danza ipnotica in cui i propri occhi lucidi si persero con facilità. Si riprese solo quando Nick gli sventolò la mano davanti al viso, riportandolo alla realtà.

«Oh, ci sei?»

Michael scosse la testa, come per ridestarsi da un sogno, e gli passò la canna. «Scusa» bofonchiò, guardando le labbra sottili dell'altro chiudersi intorno alla cartina. «Fa' piano, è roba forte, questa.»

«Non così tanto» ribatté Nick. Appoggiò il collo sull'orlo del gradino dietro di sé -quello su cui stava seduto Michael-, gli occhi color ghiaccio rivolti al cielo plumbeo. «Si vede che non sei abituato agli allucinogeni.»

«Ne hai mai presi?»

«A New York non è certo difficile reperirli.»

Nick ridacchiò e gli restituì la sigaretta. Per un attimo, la sua lingua guizzò lungo il labbro superiore, eppure a Michael parve di vedere quella minuscola azione come a rallentatore. Era assurdo come gli veniva semplice memorizzare ogni singolo movimento di Nick, anche quello apparentemente più superfluo.

«Dimmi un po'» fece il ragazzo, poggiando il mento sul suo ginocchio. Michael sentì il suo braccio circondargli la gamba. Il suo unico pensiero fu che Nick fosse un po' fatto e ciò lo rendesse particolarmente incline al contatto fisico. A lui non dispiacque. «Che cosa c'è di divertente da fare, qui?»

Michael ponderò per qualche secondo la propria risposta. Già, che cosa c'era da fare, rispetto a una metropoli eccitante come New York? Il massimo della vita di Clairton si concentrava intorno al centro commerciale aperto tre anni prima, che era stato un po' la morte delle piccole attività nel centro cittadino. Era lì che la gente socializzava, di solito: c'era un cinema multisala, fast-food, caffetterie e ristoranti, una sala giochi, negozi di abbigliamento e alimentari a prezzi stracciati. 

«Beh, noi di solito facciamo campagne di Dungeons and Dragons nel seminterrato di Stevie. A volte, durano anche per tutto il weekend» rispose Michael, sentendosi l'essere umano più sfigato sulla faccia della terra. Effettivamente, lui e i suoi amici avevano una stramba concezione di vita sociale. «E facciamo la caccia al cervo, quando è stagione.»

«Oh!» Nick, evidentemente, non si aspettava una tale confessione perché ne sembrò sorpreso. «Non avrei mai immaginato che ti piacesse cacciare. Sembri un tale tenerone!»

Lo sembrava? Michael decise di ignorare quel commento, qualunque cosa volesse dire.

«La mia è una sorta di caccia etica, comunque» si affrettò a spiegare.

«Esiste una caccia etica?»

«Un colpo solo.» Michael diede un ultimo tiro allo spinello e lo passò a Nick, lasciando che lo finisse. «Tu devi contare su un colpo solo. Il cervo non ha il fucile, deve avere la possibilità di sopravvivere. Altrimenti non è leale.» [₁]

Vi fu un attimo di silenzio, durante il quale Michael si concentrò sulla corsa delle matricole. Avevano la sua stessa insegnante, la professoressa Rizzo, che Stanley aveva amorevolmente soprannominato Adolfa per via dei suoi rudi incitamenti allo sforzo fisico: ogni volta che contava, difatti, sembrava intenta a istruire la nuova gioventù hitleriana.

Michael avvertiva su di sé lo sguardo freddo di Nick, ma non si azzardò ad abbassare gli occhi. Era ancora concentrato sul suo braccio intorno alla propria caviglia. Infine, lo sentì allentare la presa.

«Perdonami» disse Nick, spegnendo ciò che rimaneva dello spinello sul metallo degli spalti, «non sono molto sicuro di credere a questa cosa.»

«Cioè?»

«Metti che colpisci il cervo con l'unico proiettile che hai, ma non muore. Lo becchi in un punto non fatale che gli provocherà atroci sofferenze. Come ti comporti?»

Michael si strinse nelle spalle. «Non mi è mai capitato di non riuscire ad abbattere un cervo con più di un colpo.»

«Ah, sei un professionista, allora» ridacchiò Nick, tradendo un tono svampito a causa dell'erba.

Certo che non lo era. La verità era che sparare era un talento di Michael: aveva imparato all'età di undici anni. Vi era stato un periodo in cui Piotr, ogni mattina, all'alba, lo costringeva a scivolare fuori dal letto e lo trascinava sulla collina a sparare a una fila di lattine di birra da lui stesso svuotate. Aveva smesso solo in seguito alle pesanti proteste di mamma. I suoi avevano litigato di brutto perché Piotr, paranoico come non mai, credeva che qualcuno li spiasse e sosteneva che Michael dovesse imparare a difendersi. A quel punto, comunque, lui era già in grado di tenere una pistola in mano. E la cosa peggiore era che gli piaceva. Amava la sensazione di controllo, di onnipotenza che solo imbracciare un fucile sapeva dargli. Amava inerpicarsi su per i pendii scoscesi delle montagne e trovarsi faccia a faccia con una maestosa preda. Muso a muso con un cervo dal palco regale, con i suoi occhi scuri così simili ai propri, Michael si sentiva un po' animale anche lui. Quante volte aveva desiderato sparire dalla società e vivere immerso nei boschi, nel rifugio di montagna dove passavano la notte durante le battute di caccia. Solo lui, un uomo allo stato primitivo, libero da imposizioni sociali e guidato esclusivamente dall'istinto di sopravvivenza, l'unica cosa su cui un essere vivente potesse contare.

«Fucili e cervi» sentì borbottare Nick.

Questa volta, Michael abbassò lo sguardo su di lui, per incontrare quei penetranti occhi ghiaccio che gli sorridevano luminosi. Ma forse era solo l'effetto dell'erba. «Non sembra così diverso dall'uccidere un usignolo.»

«Eh?»

«Leggi quel fottuto libro!» 

«Va bene, va bene!» Michael rise e alzò le mani in segno di resa. «Se davvero è così bello, andrò a cercarlo in biblioteca.» 

Nick si arrampicò sulla sua gradinata, sedendoglisi vicino. Molto vicino. Le loro anche si sfioravano e a Michael parve che la temperatura si fosse alzata di molti gradi in meno di un secondo, nonostante la coltre di nubi all'orizzonte e il forte vento autunnale che aveva invaso tutta la piana di Allegheny alla fine dell'estate. 

«Mi insegneresti a sparare?» chiese Nick, a un certo punto. «Magari vengo a caccia con voi, ogni tanto. Sempre se avete bisogno di un altro uomo.» 

Michael si voltò a guardarlo, come a voler capire quanto fosse potenzialmente portato alle armi, ma il suo cuore ebbe un sussulto quando si trovò a guardarlo dritto negli occhi azzurri, a così pochi centimetri di distanza.  Gli venne da deglutire, domandandosi perché quello sciocco muscolo nel petto avesse reagito a quel modo, sobbalzando e sprofondando più o meno in prossimità dello stomaco, dove un nugolo di farfalle si liberò dalle proprie crisalidi. Dovette distogliere lo sguardo in fretta e furia e posarlo su Adolfa per riprendere a pensare lucidamente e formulare una risposta: «Sì, ma certo. Quando vuoi ci mettiamo d'accordo.» 

Nick sollevò una manica della camicia. Controllò l'orologio da polso che indossava e disse che sarebbe stato meglio cominciare a incamminarsi per le prossime lezioni. 

Michael lo seguì lungo i bordi del percorso di atletica. Nick gli chiese quale sarebbe stata la sua prossima lezione. 

«Il corso di falegnameria.» 

«Oh, sei un tuttofare!» lo prese in giro Nick, dandogli un colpo di fianchi. Michael fece finta di barcollare e risero, mentre si muovevano in direzione dell'edificio scolastico. 

«Magari ci si becca a pranzo» provò a dire, speranzoso, ma Nick si strinse nelle spalle. 

«Vediamo. Linda mi ha invitato al tavolo con Angela e gli altri.» 

«Ah, capisco.» Michael tentò di nascondere la delusione, distogliendo lo sguardo e lasciandolo vagare lungo il campo da football. Ogni tanto si domandava se Linda si vergognasse di lui. 

Probabilmente, quel pensiero attraversò anche la mente di Nick perché gli domandò: «Tu e Linda non siete amici, scusa?» 

«Già, ma non pranziamo mai insieme. Lei sta sempre dietro Angela.» 

«Ho capito, ma se ti vuoi sedere con noi, vieni e basta. Non devi mica chiedere il permesso a lei o a qualcun altro.» 

Stavolta, fu Michael a scrollare le spalle. Il discorso di Nick era giusto, eppure sapeva che non sarebbe mai stato in grado di darvi retta. Era troppo introverso e, soprattutto, troppo legato a quella banda di rincitrulliti che si portava appresso. Forse erano un branco di sfigati, ma almeno erano i suoi veri amici. Non era sicuro che Nick avesse fatto amicizia con la squadra di football, nonostante si ostinasse a mangiarci insieme. D'altro canto, se Nick voleva frequentare i ragazzi popolari, non era affar suo. Ma allora perché gli aveva proposto di passare del tempo insieme? 

«Non fa niente» rispose, mentre rientravano a scuola. «Non è male passare l'ora del pranzo ad ascoltare le barzellette sconce di Stan.» 

«Immagino» ridacchiò Nick. Ancora una volta, i suoi occhi presero l'aspetto di due cristalli. 

 

§§§§ 
 

 

 

Quel pomeriggio, dopo la scuola, Michael dovette pedalare fino a casa di Arthur da solo. Linda era rimasta in palestra a farsi dare una mano da Angela per una coreografia: la sua audizione per entrare nelle cheerleader era imminente e aveva assolutamente bisogno di perfezionare le ruote. La notizia era trapelata alle orecchie di Steven che mai nella vita avrebbe perso l'occasione di ammirare Angela fare acrobazie mettendo le chiappe all'aria. Nick, Stanley e Axel avevano subito deciso di dargli manforte, dimostrare solidarietà fraterna. O forse anche loro speravano solamente di spizzare l'orlo di qualche mutanda. 

«Pervertiti» li aveva apostrofati Michael, prima di saltare in sella alla bici. 

Anche quel giorno, il vento soffiava con impertinenza lungo le stradine della città. Quando Michael parcheggiò nel vialetto di Arthur, le guance parevano esserglisi atrofizzate a furia di pedalare controvento. 

Quando venne ad aprirgli la porta, Arthur non si degnò di fargli nemmeno mezzo cenno di saluto. Si limitò a condurlo su per le scale, in una stanza adibita a studio. Al centro del pavimento campeggiavano una scrivania in mogano e una lavagna bianca, di quelle su cui era possibile scrivere con un pennarello e cancellare in seguito. 

Una grossa libreria laccata in nero teneva tutta la parete a sinistra della porta. 

«Li hai letti tutti?» domandò Michael, indicando l'enorme quantità di libri che abitavano gli scaffali. 

Arthur non rispose: stava smanettando con le batterie di un timer da cucina. 

Ancora fermo sulla soglia dello studio, Michael spostò nervosamente il peso da una gamba all'altra. Sapeva che il padrone di casa aveva ben più di una ragione per non voler parlare con lui più del necessario, ma quel silenzio assordante lo stava facendo dannare: doveva trovare il modo di sciogliere il ghiaccio, spezzare la tensione, altrimenti sarebbe sopraggiunto un attacco di panico, Michael ne era certo. 

«Hai una bella casa» provò a dire, deglutendo subito dopo. 

Inaspettatamente, Arthur alzò gli occhi dal timer. «Grazie» rispose, semplicemente, girando la manopola. «Hai intenzione di restartene lì per tutto il tempo?» 

Michael interpretò quelle parole come un invito. Mosse piccoli passi all'interno della stanza, poggiando timidamente lo zaino sulla scrivania e prendendo posto a una delle sedie. 

Arthur finì di impostare il timer e lo posizionò su una mensola. Indossava gli stessi jeans celesti del giorno prima, ma con un felpa grigia pulita. Sotto i folti capelli corvini portava una fascia rossa, di quelle che usavano gli istruttori di aerobica nelle videocassette di Linda. Lo sguardo di Michael, comunque, rimase imbambolato a contemplare le sue labbra: sembravano quasi due canotti! Istintivamente, il pensiero di ciò che poteva aver fatto Arthur con quella bocca si fece strada nella sua mente; il ragazzo avvertì un'ondata di calore invadergli le guance. Com'era possibile che si mettesse a pensare una cosa del genere? 

Grazie al cielo, Arthur non sembrò accorgersi del suo imbarazzo. Si appoggiò alla scrivania e lo osservò dall'alto verso il basso. Da quella posizione, pareva un gigante. «Ho dato un'occhiata al tuo programma per organizzare le lezioni» esordì, sgranchendosi le dita delle mani. «Direi di iniziare con algebra. Mi sembra la materia con cui stai messo peggio.» 

Michael emise un mezzo grugnito e abbassò gli occhi sulla superficie del tavolo, annuendo, imbarazzato. La matematica sarebbe sempre stata la sua dannazione eterna. A cosa gli sarebbe poi servita l'algebra nella vita, quello rimaneva un mistero. 

Sobbalzò quando udì Arthur battere energicamente le mani. «Bene, cominciamo!» esclamò, mettendosi in piedi e raggiungendo la lavagna, su cui scrisse un'equazione, tecnicamente, basilare. «Sai darmi la definizione di equazione?»

«No» mormorò Michael, tremando nel vedere i caratteri scritti col pennarello nero. Certo sapeva cosa fosse un'equazione, ma la definizione esatta non sarebbe riuscita a spiegarla nemmeno nella maniera più semplicistica possibile. Figurarsi essere in grado di risolverla. 

Tuttavia, Arthur non sembrava un tipo capace di farsi scoraggiare con tanta facilità. Anzi, al ricordo di tutte le malefatte che gli erano state rivolte anni prima, Michael si chiese come potesse pensare che fosse sprovvisto di pazienza. 

«Le equazioni sono uguaglianze tra espressioni matematiche in cui compaiono una o più incognite» rispose, e fin lì il giovane riuscì a seguirlo. «Risolvere un'equazione significa determinare i valori numerici che, sostituiti al posto dell'incognita, rendono vera l'uguaglianza.» 

Per tutta la prima mezz'ora di lezione, Arthur dovette sforzarsi a fargli entrare in testa i maledetti principi di equivalenza e un semplice (a sentir lui) procedimento per la risoluzione delle equazioni di primo grado. 

«Non ci capisco un cazzo!» sbottò Michael, a una certa, lanciando per aria il pennarello. «Perché è una frazione, adesso?» 

Era a tanto così dal mollare tutto e darsi alla prostituzione. Almeno non avrebbe avuto a che fare con incognite e altre stronzate. 

Arthur raccolse il pennarello da terra e, con una calma inaudita che sembrava tanto il preludio  a un'orribile uccisione a sangue freddo, gli indicò la frazione che stavano risolvendo insieme. «Per applicazione del secondo principio» rispose. «Che cosa stiamo ripetendo da un secolo? Enuncialo.» 

Michael se l'era già dimenticato, perciò dovette improvvisare: «Qualcosa a proposito di una divisione...» 

«È possibile dividere o moltiplicare i due membri per una stessa quantità diversa da zero.» Arthur indicò i denominatori. «Così ti basta semplificare. Davvero, non è difficile quando impari ad applicare i principi. Ma devi conoscerli. Allora, semplifica i due membri.» 

Michael fece l'operazione. Qualcosa cominciò ad avere effettivamente senso, quando il risultato diede x = 3. L'aver risolto una prima equazione, comunque, non gli risparmiò il resto delle preoccupazioni. «Okay, ma questa era basilare» osservò. «Lo hai detto tu. In classe ne facevamo di molto più difficili.» 

«Il progetto di una casa comincia dalle fondamenta, non dal tetto, Mike. Prima impariamo a risolvere quelle semplici, in seguito ci occuperemo di quelle più articolate.» 

Con la coda dell'occhio, Michael vide Arthur inforcare gli occhiali e sfogliare le pagine del suo eserciziario di algebra. Si ritrovò a fissarlo più intensamente di quanto avrebbe voluto: la montatura scura e la fronte aggrottata, segno della sua concentrazione, lo facevano sembrare più vecchio dei suoi ventidue anni. Michael non lo ricordava così casual, anzi, lo vedeva spesso la domenica in centro sempre ben vestito e pettinato, con un portamento elegante. Oppure, al contrario, lo intravedeva mentre attraversava la strada a tutta velocità per sfuggire alle provocazioni dei compagni, le spalle ricurve che lo facevano sembrare ancora più piccolo, le mani affondate nelle tasche come nella speranza di scomparire dentro ai vestiti. Lì per lì, invece, aveva un'aura di confidenza invidiabile che lo rendeva piuttosto fico. 

Quando Arthur risollevò lo sguardo su di lui, Michael si sentì arrossire, colto sul fatto. «Non volevo fissarti!» esclamò, come per giustificarsi. 

«Non ho detto niente...» replicò lui. 

Quello avrebbe dovuto essere il momento in cui Michael lasciava perdere; invece, proseguì a scavarsi la fossa da solo nell'imbarazzo, impossibilitato a chiudere la bocca nell'attimo più adatto. «È che pe-pensavo...» balbettò.  «Non ti avevo mai visto così... così...» 

La parola che aveva pensato era sexy ma non aveva il coraggio di dirla ad alta voce. A dirla tutta, si rifiutava persino di averla pensata: non era neanche minimamente concepibile una cosa del genere, meno che mai con Arthur. Sicuramente stava sbagliando qualcosa, proprio come quelle dannate equazioni. 

«... così sicuro di te!» 

Ci aveva impiegato qualche secondo, frazione di tempo durante la quale Arthur non aveva smesso di fissarlo come se gli fosse cresciuta una seconda testa; ma, alla fine, era riuscito a concludere la frase alla meno peggio. D'altronde, il concetto che desiderava esprimere era quello. Giusto?

Arthur scrollò le spalle e tornò a sfogliare l'eserciziario. «Che vuoi che ti dica?» rispose. «Sarà l'aria di città che mi trascino addosso ultimamente.» 

«Ti dona.»

Altra occhiata. Michael, a quel punto, avrebbe potuto tranquillamente distendersi nella fossa, colpire le pareti e aspettare che il cumulo di terra spostata lo seppellisse vivo. Perché non era mai in grado di starsene zitto? E, soprattutto, perché gli occhi di Arthur su di lui gli facevano uno strano effetto, quasi come se gli piacesse? 

«Va bene» tagliò corto lui. «Adesso concentrati sulle equazioni. Risolviamo qualche esercizio insieme, ad alta voce, dopo di ché te ne preparo qualcuna da fare da solo e vediamo come te la cavi.» 

Michael inspirò ed espirò profondamente, prima di annuire, come per arrendersi. Fare gli esercizi sotto la supervisione di Arthur non faceva sembrare la matematica come un problema insormontabile; tuttavia, nel momento in cui venne lasciato faccia a faccia su un quaderno a risolvere le equazioni da solo, gli sembrò di essere abbandonato in mezzo a un bosco di notte, disarmato e in mezzo ai lupi affamati. Nessuno dei suoi risultati combaciava con quelli sull'eserciziario. 

«Magari è sbagliato il libro» provò a sdrammatizzare Michael, mentre Arthur correggeva i suoi procedimenti. 

«Sì e se mia nonna avesse le ali, farebbe il piccione viaggiatore» commentò l'altro. Con la matita andò a indicargli un passaggio sul foglio. «Perché qui hai moltiplicato?» 

«Beh, hai detto che si può dividere o moltiplicare...» 

«No. Ti ho detto di moltiplicare quando il valore è negativo.» 

«Ah.» 

Troppe regole e troppe eccezioni. Non gli sarebbero mai entrate in testa. 

Quando scattò il timer, Michael si sentiva come se qualcuno gli avesse pigiato un piede sopra la testa con forza, schiacciandogli il cranio e il cervello. Grazie al Cielo, Arthur propose una pausa caffè. 

Appoggiato al bancone della cucina, Michael si strofinò gli occhi: numeri, lettere, simboli di più e meno ballonzolavano nel suo campo visivo. Gli sembrava di aver bevuto vodka. 

«Dobbiamo continuare con matematica, dopo?» mugolò, quando Arthur gli porse il caffè. 

Lui annuì. «Sì, sei una frana» disse, aprendo il frigo. «Ti auguro di non essere così terribile con le altre materie.» 

«Di solito, una sufficienza alla fine dell'anno riuscivo sempre a strapparla.» Michael allungò la tazza, lasciando che Arthur vi vuotasse dentro un po' di panna. «Ma questa volta non sono proprio riuscito a recuperare tutto in tempo. Non avevo la forza di studiare.» 

Vi fu qualche secondo di silenzio, durante il quale entrambi sorseggiarono i propri caffè. Alla fine, fu Arthur a parlare per primo.  «Mi dispiace davvero molto per tua madre» mormorò. «Mi piaceva. Era sempre gentile con me.» 

Le labbra di Michael s'incurvarono in un sorrisetto malinconico. «Era gentile con tutti» bisbigliò, tenendo gli occhi sulla superficie marrone della bevanda. 

«Beh, con me lo è stata in un periodo in cui nessuno lo era.» Arthur si sedette sul tavolo, fronteggiando Michael e lasciando penzolare le gambe, e bevve un lungo sorso di caffè. «Andavo spesso da Welch» disse. Welch era il diner dove mamma lavorava come cameriera, alle porte di Clairton, lo stesso dove aveva trovato lavoro Linda. Era lì che si poteva mangiare i migliori hamburger della città. «Una sera, appena arrivato, mi resi conto che non avevo con me il portafogli. Così tornai indietro fino a casa. Lo cercai per quasi un'ora, ma alla fine dovetti arrendermi all'evidenza di averlo perso. Così chiamai il ristorante e feci annullare il mio tavolo. Dopo un paio d'ore, qualcuno venne a suonare alla mia porta: era tua madre, con una porzione gigante di alette di pollo e due birre per me e il nonno.»

Michael sollevò gli occhi su Arthur, rendendosi conto di averli pieni di lacrime quando vide i contorni della sua figura tremendamente sfocati. 

«Offro io, mi disse» sorrise Arthur. «Scoppiai a piangerle davanti e ne fu così sorpresa che rimase con me fino a quando non mi calmai. Le dissi che l'ultima volta che qualcuno aveva suonato alla mia porta, era stato per lanciarmi un cartone del latte in faccia.» 

Le mani di Michael avevano preso a tremare. Sua madre non gli aveva mai detto di conoscere Arthur. La tazza che stringeva s'inclinò e ne fuoriuscì qualche goccia di caffè, cadendo sulla punta delle sue scarpe e macchiando per terra. 

«Cazzo» esclamò, mentre Arthur si alzava per prendere un pezzo di carta e pulire. «Mi dispiace. Mi dispiace così tanto....» 

E non parlava del caffè. Non aveva nemmeno più il coraggio di alzare gli occhi su Arthur. Non era sicuro che sarebbe riuscito a sopportare la sua espressione, qualunque essa fosse. Lo sentì affiancarsi a lui contro il bancone, ma i propri occhi rimasero immobili sulla superficie liquida del caffè. 

«Hai...» balbettò Michael, sentendosi tremare come una foglia. «Insomma... tu le hai mai....?» 

«No» rispose Arthur. «No, non le ho mai detto che eri stato tu.» 

Michael tirò su col naso. Ormai le lacrime avevano abbandonato i suoi occhi e gli solcavano copiosamente le guance. «Perché no?» gli chiese. La voce gli uscì più strozzata di quanto avrebbe desiderato. 

Udì Arthur sospirare al suo fianco: «Non volevo darle un dispiacere.» 

Già, il dispiacere di avere un figlio stupido. Non era così che Michael avrebbe voluto essere. Non era così che mamma lo aveva cresciuto. Se era vero che i defunti guardavano ancora i propri cari dall'aldilà, che cosa mai avrebbe pensato sua madre di lui, in quel momento, messo davanti alle proprie colpe, ai propri altarini? Poteva quasi intravedere il suo cipiglio contrariato. Anzi, no: deluso. E fu quell'immaginaria delusione che gli diede, finalmente, la forza di asciugarsi il viso al meglio e voltarsi verso Arthur. 

«Sono serio» disse, cercando di mantenere il controllo della propria voce, di non lasciare che si spezzasse. «Mi dispiace da morire. Per lo specchietto. Per il fottuto latte. Per tutte le cose che ti ho gridato seguendo il coretto. Sono stato un coglione... ma non voglio più esserlo. Non voglio.» 

Michael era migliore di così. Sapeva che poteva esserlo. Ma, soprattutto, sapeva che quella sarebbe stata l'unica occasione che avrebbe avuto per sistemare le cose. Le proprie e quelle con Arthur. Qualcuno dall'alto aveva deciso di donargli una chance per mettere a posto la propria vita e non l'avrebbe sprecata. Non poteva. 

Per qualche attimo, Arthur evitò di guardarlo negli occhi, concentrandosi solo sul proprio caffè. Michael si domandò se stesse considerando di accettare quelle scuse o meno. Sperò che fosse così, anche se non si sarebbe stupito del contrario. «Va bene» rispose, infine, restituendogli lo sguardo. «Va bene, mettiamoci una pietra sopra, per il quieto vivere. Ho come l'impressione che dovrai venire qui spesso se vuoi passare quegli esami.» 

«Già» bofonchiò Michael, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Davvero, mi dispiace.» 

«Okay, Mike, adesso stai rompendo un po' le palle.» 

«Sono stato uno sciocco. Un arrogante. Un bullo. Mi sento... mi sento come...» Michael inspirò profondamente «... come se avessi tentato di uccidere un usignolo.» 

Arthur ridacchiò. «Almeno hai letto Il Buio Oltre la Siepe» osservò, portandosi la tazza alle labbra. 

«A dir la verità no» ammise Michael. 

Arthur sputò il caffè. «Cosa?» squittì. «Non esiste! Si tratta di un pilastro della nostra letteratura! Com'è possibile che tu non l'abbia letto?» 

«Ma che ne so?» bofonchiò Michael, sentendosi imbarazzato: possibile fosse una mancanza così assurda? «A quanto ho capito, comunque, dovrebbe essere nel programma di quest'anno...» 

«Quel libro mi ha fatto venire il sogno di diventare avvocato.» Arthur si scostò dal bancone e portò la tazza nel lavello. Michael finì il proprio caffè e gli porse la sua. «Diciamo che, per ora, non ho ancora abbandonato l'ambizione.» 

Tornarono al piano superiore, nello studio, dove Arthur impostò nuovamente il timer da cucina. A fine lezione, Michael si era alleggerito dei venti dollari prestati da Linda ed era riuscito a risolvere una sola equazione, ma ne fu comunque felice: lo aveva fatto da solo, senza la supervisione di Arthur. Si trattava comunque di un inizio, no?

Mentre sistemava il materiale nello zaino, prima di uscire, Arthur gli sventolò un libro sotto il naso. Michael lo afferrò: il titolo Il Buio Oltre la Siepe campeggiava in nero su di uno sfondo ocra, sopra il disegno di un uccellino. 

«Cos'è, mi dai pure i compiti?» ghignò il ragazzo, ma lo infilò comunque dentro il Jansport, in mezzo ai quaderni. 

«Leggilo quando hai tempo» gli consigliò Arthur, prima di scortarlo nuovamente nell'ingresso. 

Sul portico, Michael si voltò a guardarlo: si era a malapena reso conto che non indossava nemmeno più gli occhiali. I capelli erano più disordinati, come se avesse fatto ginnastica. Sì, decisamente gli piaceva quel look sbarazzino su di lui. 

«Giovedì alla stessa ora, quindi?» chiese, stringendo le labbra: era quasi come se avesse paura di sentire Arthur negare. Dirgli che tutta quella situazione era assurda e lui avrebbe fatto meglio a trovarsi un altro insegnante. 

Ma Arthur annuì. «Sì. Continuiamo con algebra fino a quando non avrai le date dei test.» 

Il pensiero provocò in Michael un moto di nausea, ma capiva che migliorare le proprie doti matematiche era essenziale e doveva accadere il più in fretta possibile. 

Si congedò, lasciando che Arthur chiudesse la porta alle sue spalle, e si diresse verso la bicicletta, rabbrividendo e desiderando di avere con sé un giacchetto. Si era già fatto buio. 
 


 

 [₁] - La frase è riportata quasi accuratamente dal film originale. Piccola nota: sono contraria alla caccia e non ho assolutamente intenzione di "romanticizzarla". Nel film ha senso perché viene inserita come metafora della guerra e, successivamente, della roulette russa a cui Mike, Nick e Steven vengono sottoposti. Qui, in ogni caso, ci tenevo a mantenere il fatto che Mike fosse sempre un cacciatore e che abbia maturato l'idea del colpo solo a una giovane età. Purtroppo, in America, soprattutto nelle cittadine, è molto facile trovare adolescenti già affascinati dalle armi, capaci di acquistare e utilizzare una pistola o un fucile. Mi piaceva mostrare questo lato dei giovani made in USA senza sfociare in inutili paternali, nonostante io sia assolutamente contraria alla libera circolazione delle armi. 
 



Sarò veloce perché ho il terrore che mi si spenga il computer a random. Ringrazio di cuore tutte le persone che recensiscono, giuro che stavi per rispondervi uno a uno ieri ma guess what?? mi è morto il pc all'improvviso perché si surriscalda troppo facilmente. Se riesco, vi rispondo da tablet. Vi mando un bacione enorme, spero che questa ficcyna vi stia piacendo tanto quanto piace a me <3 

  
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