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Autore: blackjessamine    20/04/2020    16 recensioni
[Ole Nissen (OC), Homer Landmann (OC)]
Certi legami hanno lo stesso calore del sole: tracciano scie luminose che rimangono impresse negli occhi anche quando la notte sembra aver impiastricciato di nero una vita intera.
Sono i legami che sanno rinsaldarsi anche negli spazi vuoti creati dalla distanza, quei legami che un nome non lo vogliono nemmeno trovare, perché sono tenuti in piedi da sorrisi che negli anni non cambiano mai.
Un Guaritore figlio del mondo.
Uno psichiatra schiavo di un'empatia fuori controllo.
Sotto lo stesso cielo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Capitolo 3





Ole stringeva le dita attorno al piattino d’argento su cui Homer aveva impilato una quantità imbarazzante di vol-au-vent come se ne andasse della sua stessa vita: attorno a lui, un vorticare instancabile di sorrisi e chiacchiere formali minacciavano di sopraffarlo.
Ole se ne stava con la schiena ben poggiata contro la bianchissima parete del salone cerimoniale della nuova Accademia di Arti Magiche di Eugene, cercando di dare al proprio volto l’aspetto di una persona del tutto a suo agio, come se quello fosse esattamente il posto in cui voleva trovarsi; come se, in quel peculiare assembramento di uomini di cultura e artisti strampalati, Ole avesse un qualche ruolo. Eppure, ogni volta che i suoi occhi si impigliavano nel suo riflesso sulle ampie vetrate delle finestre, tutto ciò che vedeva era una faccia pallida e spettinata, terribilmente fuori luogo con quel suo pullover grigio fra i velluti eleganti di abiti da cerimonia e cappelli puntuti.
Gli sembrava che fosse passata una vita intera da quando era rientrato nel suo appartamento nel Campus con i capelli bagnati e la schiena dolorante a causa dei troppi libri stipati nella sua borsa, ma a giudicare dall’orologio di plastica – un orologio di plastica, neanche avesse otto anni! – che gli stringeva il polso, non erano passate nemmeno due ore.
Homer era stato irremovibile: aveva salutato Mia e Bruce, si era fatto mostrare la strada per la stanza di Ole, e senza nemmeno dare al suo vecchio amico il tempo di asciugarsi i capelli gli aveva stretto con gesto deciso la mano, trascinandolo con sé in una Smaterializzazione tanto improvvisa quanto precisa. Ole, che l’esame per ottenere la licenza di Materializzazione l’aveva fallito due volte – la prima causando un discreto trauma al cagnetto di Madama Piediburro, che non sembrava affatto aver apprezzato il peso di un diciassettenne sulla coda, la seconda lasciandosi alle spalle una ciocca di capelli non troppo consistente, ma sfortunatamente piuttosto evidente – da quando era tornato a vivere fra i babbani aveva sempre preferito la metropolitana alle tre “D”  che tanto lo avevano tormentato da ragazzino. Nonostante Homer invece avesse determinazione e decisione sufficienti a trasportare sé stesso e Ole nella giusta destinazione, Ole per poco non cadde fra le braccia di quello che aveva tutta l’aria di essere un buttafuori da night-club momentaneamente strizzato in un completo di foggia elegante che si tendeva pericolosamente su quelle specie di prosciutti che aveva al posto delle braccia.
La nuova sede dell’Accademia di Belle Arti Magiche diretta da Cecilia Landmann si trovava nel centro del quartiere magico di Eugene: era un edificio che sembrava non aver voluto fare nemmeno la più piccola concessione alla tradizione, preferendo di gran lunga concentrarsi esclusivamente su linee pulite e materiali leggeri, in perfetto stile minimale e babbano.
Ole non aveva avuto il tempo di concentrarsi troppo sull’architettura e di domandarsi con quanti parrucconi bigotti Cecilia Landmann avesse dovuto scontrarsi per ottenere un edificio fatto a immagine e somiglianza della sua mente fresca e tutta focalizzata sul futuro, perché Homer si era avvicinato al buttafuori, mostrandogli un rotolo di pergamena ben diverso dal cartoncino color porpora che una anziana coppia aveva poco prima esibito come lasciapassare per avere accesso alla festa.
“Niente invito, niente ingresso”, ringhiò la montagna di muscoli e sguardi severi, confermando sempre di più la convinzione  di Ole che quell’uomo fosse solito prestare la sua professionalità a eventi di ben diversa levatura.
“Capisco la sua posizione, buon uomo, ma vede, se legge qui capirà bene che mia madre, la direttrice Landmann, non sapeva del mio arrivo negli Stati Uniti, motivo per cui non ha ritenuto necessario farmi pervenire un invito ufficiale”.
Homer sorrise, il suo solito sorriso sicuro e capace di aprirgli ogni porta. Ma l’uomo posto all’ingresso dell’ampia porta di legno chiaro sembrava ben deciso a opporre tutta la resistenza che il suo mestiere riteneva consona alla serata. Si avvicinò agli occhi scuri la lettera che Homer gli porgeva, gettò un’occhiata sospettosa al sorriso luminoso del giovane uomo, e poi un’occhiata quasi rassegnata all’abbigliamento inadeguato di Ole, infine sospirò. Fece cenno ai due di farsi da parte, mentre accoglieva con un benevolo cenno del capo altri due ospiti muniti di regolare invito, poi estrasse una bacchetta lunga e piuttosto robusta da una piega del suo completo elegante, eseguì un pigro movimento nell’aria ed evocò una traballante gru di carta, che diresse con cenno svogliato a seguire gli eleganti ospiti di quel formale ricevimento.
Qualcuno avrebbe potuto trovare fuori luogo un origami a forma di gru di  carta sopra le teste degli ospiti illustri di un evento mondano di tale livello, ma evidentemente quel qualcuno non poteva conoscere bene Cecilia Landmann. Ole aveva un vago sospetto che l’idea degli origami fosse frutto del bizzarro senso dell’umorismo della Direttrice Landmann: era proprio da lei istruire i suoi dipendenti affinché tutti fossero capaci di evocare origami alati per scambiarsi dei messaggi. Probabilmente, aveva scelto personalmente quale animale fosse più adatto alla personalità di ogni singolo membro dello staff, in barba a polemiche e proteste.
Homer si cacciò le mani in tasca, disegnando con la punta delle scarpe lucide solchi precisi nella ghiaia bianchissima che scricchiolava sotto i loro piedi.
“Quanto ci scommetti che questo tizio ora ha mandato a chiamare mia madre e mi ha rovinato la sorpresa?”
Ole, che in realtà era più preoccupato che l’uomo avesse chiamato dei colleghi che si sarebbero sbarazzati di loro con un colpo di bacchetta e un calcio nel didietro, rimase in silenzio.
In silenzio, ma solo per un attimo, perché alla fine i suoi dubbi gli sfuggirono comunque dalle labbra, apparentemente inarrestabili:
“Vedi che è meglio che io torni a casa? È già tutto complicato così, non vorrei crearti più problemi che altro. Magari possiamo vederci domani mattina, con calma, e…”
“Piantala, Ole. Adesso sistemiamo tutto, e se fanno entrare me, fanno ovviamente entrare anche te”.
Ole avrebbe voluto replicare ancora qualcosa, ma alla fine rimase in silenzio. E fu un silenzio giusto, privo di imbarazzi e della voglia di riempirlo con qualsiasi cosa. Era il silenzio che poteva concedersi accanto a Homer, il silenzio dato dall’abitudine e dall’affetto, non dall’incapacità di trovare qualcosa da dire. Perché, Ole lo sapeva,  non appena avessero avuto modo di ritagliarsi un angolo di pace per mettere in fila i pensieri e ricucire lo strappo creato dagli anni di assenza e lontananza, tutta la confidenza sarebbe tornata, e si sarebbero ritrovati a trascorrere ore intere a parlare e a raccontarsi gli anni appena trascorsi, i pensieri e i sogni, le scoperte e i progetti, senza nemmeno accorgersi del tempo che scorreva.
Dopo un attimo di silenzio severamente scrutato dal buttafuori, una figura sottile e deliziosamente stretta in un elegante abito di seta color del bronzo emerse dall’interno dell’edificio, lanciando a Homer una lunga occhiata. Quel bel viso dalla pelle olivastra, circondato da una cascata di capelli scuri e lucenti come olio non apparteneva però a Cecilia Landmann: Aline Castro, bella come un dipinto e raggiante in quel suo ruolo tanto rilevante era una giovane scultrice di grande talento, pupilla di Cecilia Landmann e, da un paio di anni, sua assistente personale. Aveva solamente una manciata di anni più di Ole e Homer, e Ole ricordava di averla incontrata, anni prima, in quei pomeriggi estivi passati a casa Landmann. Aline stava preparando la sua prima personale a Londra, e la casa dei Landmann era stata invasa da riproduzioni di cera delle sue opere, mentre lei e Cecilia studiavano la disposizione migliore. Ole, che di arte ci aveva sempre capito poco, aveva trovato quei busti contorti inquietanti, ma la mostra aveva poi avuto un grande successo e Aline si era consolidata una bella posizione sulla scena artistica.
La giovane donna superò il buttafuori con un passo sorprendentemente rapido per quei sottilissimi tacchi a spillo che le regalavano una spanna di altezza in più, e rivolse a Homer il suo sorriso dalla dentatura candida e perfetta.
“Homer, ma che piacere!”
La voce della giovane conservava ancora l’accento musicale delle terre dov’era nata, e Aline si sporse con un gesto spontaneo e caloroso a baciare entrambe le guance di Homer, prima di rivolvere un sorriso anche a Ole.
“Caro, ci sei anche tu, ma che bello!”
Aline baciò anche Ole, soffocandolo nella nuvola opprimente e dolciastra del suo profumo. Mentre la guancia fresca di Aline sfiorava la sua, Ole capì che Aline aveva solo un vaghissimo ricordo dell’amico del figlio di Cecilia, e che in fondo non le importava molto di lui: le bastava trovarsi davanti quell’Homer ormai cresciuto, e cresciuto tanto bene.
Ole non fece in tempo ad elaborare l’irritazione suggerita da quel pensiero insinuante, perché la donna scambiò qualche parola con il buttafuori, che sorrise, annuì e lasciò passare i tre.
Da quel momento fu tutto un turbinare di luci e frastuono, una girandola di visi sorridenti e presentazioni, mentre i membri più in vista della società magica dell’Oregon si alternavano ad artisti dall’abbigliamento stravagante.
Cecilia Landmann, totalmente dimentica del Sottosegretario Anziano del MACUSA che aveva appena piantato in asso, proruppe in risate ed esclamazioni stupite, urlò e si commosse, abbracciò e baciò un numero insostenibile di volte suo figlio e Ole, sommergendoli di domande e trascinandoli ovunque, pronta a presentarli a chiunque con un moto orgoglioso.
 
Ole aveva provato un certo sollievo quando Cecilia Landmann era stata richiamata ai suoi doveri di ospite d’onore di quell’inaugurazione, lasciando così a suo figlio e al suo amico la possibilità scivolare tra la folla, annuire senza mostrare troppo la fame ogni volta che un cameriere in livrea porpora offriva loro il carico dei suoi profumati vassoi, trovandosi un posto piuttosto tranquillo accanto a un’ampia vetrata.
“Ancora due minuti, saluto la mamma e ce la filiamo, giuro” aveva sussurrato Homer che, dietro il suo viso apparentemente tranquillo, a feste del genere si annoiava a morte. Eppure, la noia non era una distrazione sufficiente a sedare la sua innata educazione, al punto che, pochi istanti dopo aver giurato di avere intenzione di andarsene, si era ritrovato davanti al sorriso di Aline Castro, la cui testa teneva delicatamente il tempo con il valzer suonato dalla piccola orchestra e sospirava alla volta di un gruppo di ballerini impacciati. Chiunque, anche se non fosse stato dotato dell’intuito di Ole, avrebbe capito che la donna desiderava essere invitata a ballare. E lo capì anche Homer, che dopo aver lanciato uno sguardo di scuse a Ole, porse la mano ad Aline, la quale non esitò un istante a lasciarsi trascinare fra la folla, chiaramente soddisfattissima.
 
E così, Ole era rimasto solo, in mezzo a un ricevimento formale a cui non era stato invitato, in un ambiente che non conosceva, fra maghi che ormai non frequentava più da anni, con un piattino pieno di tartine in una mano e il bicchiere di Homer nell’altra. Il suo, di bicchiere, lo aveva abbandonato su un minuscolo tavolino a pochi passi di distanza, senza nemmeno fare in tempo a bagnarsi le labbra: faceva un caldo infernale, in quella stupida stanza dove c’erano troppe persone, troppi lampadari che mandavano lampi luminosi e la musica troppo alta. Forse non sarebbe stato poi tanto sconveniente tornare al suo tavolino, poggiare il piattino e il bicchiere di Homer e recuperare il suo. O forse sì, perché attorno a lui i camerieri si muovevano senza sosta, ma nessuno sembrava davvero voler bere e mangiare. Il che era paradossale, perché fino a un quarto d’ora prima, quando Homer era accanto a lui, tutti sembravano impegnati solamente a riempirsi lo stomaco e rinfrescarsi la gola. Forse era semplicemente una delle tante regole non scritte della buona società: ai ricevimenti si può mangiare e bere fino a quando gli orchestrali suonano la mazurca, ma quando inizia il valzer, ci si deve fermare.
O forse era appropriato mangiare e bere solo negli istanti immediatamente successivi a un passaggio di camerieri. O magari esisteva uno schema che lui, ormai abituato com’era a dividere il suo tempo fra la clinica dove stava svolgendo il suo tirocinio e la biblioteca universitaria, parlando con pazienti schizofrenici e colleghi concentrati solo sul lavoro, proprio non riusciva a cogliere.
Non dovette preoccuparsene troppo a lungo, comunque, perché presto una giovane cameriera dai modi garbati si era avvicinata al tavolino, aveva agguantato il bicchiere ancora pieno di Ole e lo aveva aggiunto al gruppo di stoviglie sporche in precario equilibrio sul suo vassoio, scomparendo poi fra la folla in cerca di altri resti da far scomparire.
“Non lo avevi finito, vero?”
La voce di Homer, decisamente troppo vicina, fece sobbalzare Ole. Il giovane doveva essersi liberato dalle grinfie di Aline, e ora guardava con un sorrisetto malizioso la cameriera che si era portata via il bicchiere di Ole.
“No, non lo avevo finito”, ammise Ole controvoglia, massaggiandosi la fronte.
Faceva davvero troppo caldo in quel dannato salone, e il suo mal di testa, che l’arrivo di Homer sembrava aver relegato sul fondo delle sue sensazioni, stava cominciando a farsi nuovamente sentire.
“Avresti dovuto dirle che non avevi finito di bere. Non ci sarebbe stato niente di male, e…”
“Puoi evitare di farmi la predica e farmi sentire ancora più idiota, per favore?”
Ole voleva bene a Homer. Gli voleva bene come poteva volerne a un amico che era finito sul suo cammino per caso, che ci era finito quasi guidato da un istinto che non avevano saputo guidare, e che poi ci era rimasto ogni giorno, imparando a conoscere e farsi conoscere, a evidenziare affinità e differenze, con una pazienza fraterna e un affetto consolidato dalle esperienze condivise. Gli voleva bene, e probabilmente gliene avrebbe sempre voluto, ma Homer, qualche volta, si lasciava prendere dalla voglia di spronare Ole a uscire dal suo guscio, assumendo inconsapevolmente un atteggiamento un po’ paternalistico. Ole sapeva vedere tutte le buone intenzioni in quelle prediche, e qualche volta si era fermato a rifletterci sopra, cercando di trarne il meglio, ma in momenti come questi – quando era stanco, confuso e aveva mal di testa – non aveva la forza d’animo per guardare in faccia i propri difetti.
“Sicuro di star bene?”
Ole annui, sempre più stizzito: non sapeva da dove arrivasse quella stizza. O forse lo sapeva – non gli era piaciuto essere lasciato in un angolo, solo e spaurito come uno sciocco, mentre Homer faceva sfoggio di tutto il suo fascino stringendo a sé la figura sinuosa e bellissima di Aline Castro.
“Sto bene”.
Gli occhi scuri di Homer si strinsero, e sulla sua fronte abbronzata di dipinse una ruga sottile che Ole non gli aveva mia visto.
“Uhm, colorito smorto, patina di sudore sulla fronte, occhio vagamente lucido…”
“Non fare il cretino!”
Ole non poté fare a meno di scoppiare a ridere: Homer aveva assunto un tono così serio, calandosi nelle sue vesti professionali, che il contrasto con il ragazzino allampanato che Ole ricordava dai tempi della scuola era stato esilarante.
“Non sto facendo il cretino! Sono un Guaritore, io, e…” Homer si morse le labbra, cercando di restare serio e non unirsi alla risata di Ole, “insomma, sono quasi un Guaritore, ma anche se non ho ancora preso l’abilitazione credo di saper riconoscere tutti i sintomi della carenza di aria fresca”.
“Carenza di aria fresca… voi maghi sì che siete precisi, quando si tratta di dare un nome alle patologie”.
Una battuta. Quella di Ole voleva solo essere una battuta. E sì, sapeva di non avere la conversazione più brillante che si potesse desiderare, ma ciò non giustificava l’ombra scura che calò a rabbuiare improvvisamente il volto di Homer.
“Non intendevo… scherzavo, lo sai che scherzavo. Non volevo sminuire i tuoi studi, non mi sarei mai permesso…”
Ole si zittì davanti al gesto brusco con cui Homer sembrò respingere le sue scuse.
Voi maghi? Ole… dici sul serio? Noi maghi? E tu?”
Ole si strinse nelle spalle: quelle parole gli erano scivolate fuori di bocca senza che ci prestasse attenzione. Non aveva mai voluto prestarci attenzione.
Il mondo magico, per lui, non aveva mai saputo essere quella casa in cui ogni cosa sembrava trovare il suo posto, come accadeva a tanti altri maghi Nati Babbani. Per anni Ole si era raccontato che la colpa era tutta del suo scarso talento con la bacchetta, ma ora, dopo aver cambiato vita e continente, conservando però intatte le sue difficoltà nello stringere legami, una parte di lui – quella che era così bravo a ignorare, quella che sapeva zittire senza il minimo rimorso, quella che respingeva in fondo alla testa e che riusciva a tormentarlo solo nelle notti più difficili – sapeva che non era così.
Ole era un mago mediocre, ma, se avesse voluto, un posto nella società magica avrebbe potuto trovarlo. Non servivano poi tanti M.A.G.O. per vendere libri al Ghirigoro, o per lavorare all’Ufficio Personale di un qualsiasi dipartimento del Ministero, né per ideare la nuova campagna pubblicitaria per l’ultimo modello di Scopalinda, o dirigere un teatro, servire ai tavoli di un ristorante, scrivere per il Profeta…
No, non era solo per mancanze di prospettive che Ole aveva compilato le domande di ammissione in numerose università babbane. Lo aveva fatto perché la medicina babbana lo aveva ammaliato, certo, e perché, nonostante la sua insicurezza, qualche obiettivo a lungo termine se lo era dato. E se aveva accettato un posto alla Oregon Health&Science University era anche perché Portland gli sembrava abbastanza lontano dagli sguardi sempre più colmi di disprezzo e disapprovazione di suo padre, laggiù a Brighton. Eppure, nonostante tutto ciò che cercava di raccontarsi, sapeva che la sua era stata una fuga. Da suo padre e da una casa sempre più opprimente e fredda, certo, ma anche da quel mondo a fianco del quale aveva vissuto per sette anni, senza mai riuscire a sentirlo del tutto suo. E lo spaventava la consapevolezza di aver lasciato Hogwarts senza alcun rimpianto, senza alcun legame: andarsene era stato un modo per giustificare propria solitudine.
 
Ora però Homer era lì, dritto davanti a lui: l’unico legame, l’unica eccezione alla sua grande solitudine, l’unica persona che avesse mai avuto la pazienza di scartare uno strato di timidezza dopo l’altro per arrivare al nucleo di Ole, e col suo viso preoccupato pretendeva da Ole una risposta che lui non era certo di saper dare.
“Io niente. Ovvio che sono un mago, ma mi sento anche un babbano, e ho parlato senza pensare. In effetti, credo di aver bisogno davvero di un po’ di aria fresca”.
Homer lo guardò a lungo prima di sorridere, e Ole intuì chiaramente che quel sorriso significava solo tregua, non ti obbligherò a parlarne qui.
“Guaritore Landmann al tuo servizio. Andiamo a salutare la mamma, e troviamoci un posto tranquillo, così possiamo finalmente chiacchierare come si deve”.
Andare a salutare la signora Landmann si rivelò un’impresa più ardua del previsto: la donna, infatti, era stata infine incastrata dai suoi doveri di direttrice e ospite d’onore, e nemmeno tutta la sua insofferenza per l’etichetta riuscì a liberarla rapidamente da una chiacchierata con un importante finanziatore della sua Accademia.
 
Infine, però, tra un abbraccio e la promessa di scrivere presto, i due si ritrovarono a percorrere il vialetto di ghiaia dell’Accademia, lasciandosi alle spalle il baccano opprimente dell’alta società, per scivolare piano nel silenzio umido della notte.
Aveva smesso di piovere, e s’era levata una brezza leggera, una brezza fresca che, in pochi respiri, riuscì a ridare ossigeno alla mente stanca di Ole.
Quella serata era trascorsa come in un sogno: una parte di lui era rimasta ancorata a Portland, al fango che aveva lasciato sullo zerbino di casa e alla stanza che lo attendeva – una stanza cupa, una stanza noiosa, lontanissima dalle risate di Homer.
“Dove andiamo?”
Ole non voleva tornare a casa sua.
Non voleva affrontare di nuovo la monotonia e la solitudine che si era costruito attorno come una corazza. Non voleva che Homer, con i suoi sorrisi svelti e la sua capacità di essere a proprio agio ovunque, si ritrovasse a passare più tempo del necessario in quell’appartamento squallido. Non volva che Homer chiacchierasse ancora con i suoi coinquilini, non voleva che capisse che lui, Ole, con quei coinquilini ci parlava troppo poco, e che loro lo ritenevano strano, troppo timido, troppo imbarazzante…
“Ho un’idea. Ti fidi?”
Homer aveva gli occhi accesi di un entusiasmo vagamente malizioso: era un’espressione che Ole conosceva, l’espressione che suggeriva che Homer quell’idea l’aveva pianificata giorni prima. Non era capace di mentire, Homer: era evidente che aveva sperato con tutto sé stesso di poter arrivare a proporre la sua idea. E Ole, malgrado tutto, non era mai stato capace di spegnere quell’entusiasmo.
“Mi fido”, si ritrovò a sospirare mentre Homer gli prendeva la mano, trascinandolo con sé nel buio opprimente della smaterializzazione.
 
***
 
Prima ancora di aprire gli occhi, fu l’odore a colpire Ole: l’odore insistente dell’acqua di mare sporcata dalla pioggia di inizio autunno. L’odore di alghe trascinate a riva dalle mareggiate, accatastate in mucchi scomposti e marcescenti.
Ole mosse qualche passo, i piedi che affondavano nella sabbia umida e compatta. Si trovavano su una spiaggia sferzata da un vento decisamente meno gentile di quello che li aveva accolti fra le strade dei quartieri magici di Eugene. Il mare, inquieto, ruggiva a pochi passi da loro, sferzando la battigia con onde secche che facevano arrivare sino a loro spruzzi gelati di acqua salmastra. La spiaggia era una lunga striscia di buio, ma a qualche decina di metri da loro le luci di una struttura peculiare lanciavano bagliori dorati in ogni direzione. Era una sorta di lungo pontile che si stagliava sul mare, sorretto da alti pali di legno che affondavano sghembi fra le onde. Il pontile era costellato da edifici colorati e pieni di luci: d’estate probabilmente quel posto pullulava di turisti e di gente decisa a godersi i divertimenti della costa, ma quella sera nessuno, a parte i due giovani maghi, sembrava aver voglia di sfidare il vento che faceva ruggire il mare. C’era un certo fascino decadente in quel luogo, un fascino che Ole, cresciuto a Brighton, conosceva sin troppo bene: il fascino dei luoghi di mare vissuti nella stagione sbagliata, quando il silenzio si prendeva ogni cosa e la solitudine erodeva la facciata chiassosa portata dai turisti stagionali.
“Dove siamo?”
Homer, le mani affondate nelle tasche del suo elegante completo di velluto viola, sorrise soddisfatto. O per lo meno, Ole immaginò che Homer stesse sorridendo soddisfatto, perché era un po’ troppo buio per riuscire davvero a distinguere i suoi lineamenti.
“Old Orchard Beach. Muoviti, intanto, andiamo sotto le palafitte: dovrebbe essere più riparato”.
Homer cominciò ad arrancare sulla sabbia umida, senza aspettare che Ole lo seguisse: era certo che lo avrebbe fatto. E Ole, infatti, non si fece pregare. Leccandosi il sale portato dal vento dalle labbra, Ole domandò:
“Ma Old Orchard non è nel Maine?”
“Nissen ha studiato la lezione di geografia! Dieci punti a Tassorosso!”
“Scemo”, sbuffò Ole, alzando gli occhi al cielo, “tecnicamente, sarebbe vietato Smaterializzarsi da uno Stato all’altro”.
I due avevano finalmente raggiunto la porzione di spiaggia nascosta dalle ampie palafitte: era effettivamente una zona piuttosto riparata dal vento, ma la puzza di marcio era quasi insopportabile, lì. Homer estrasse dalla tasca del suo completo la bacchetta, illuminandone l’estremità per perlustrare la zona, fino a quando non individuò una porzione di sabbia abbastanza asciutta e riparata, e vi si lasciò cadere con un sospiro soddisfatto.
“Tecnicamente, non è vietato: si consiglia solo caldamente di avvertire preventivamente dei propri itinerari, nel caso di visto turistico. E poi, siamo pur sempre vicino a Portland, no?”
La luce flebile della bacchetta di Homer illuminava fiocamente il suo sorriso soddisfatto: Ole non si prese nemmeno la briga di puntualizzare che tra la Portland dell’Oregon e quella del Maine c’erano almeno dieci Stati disposti in linea d’aria. Si limitò a sedere sulla sabbia umida e fredda, prendendo distrattamente nota del fatto che lui non sarebbe mai stato capace di smaterializzarsi coprendo una così ampia distanza.
“E si può sapere come mai volevi venire proprio qui?”
Homer si strinse nelle spalle, lo sguardo fisso sulla risacca lontana, immersa nel buio.
“Così. Ho visto un depliant di un’agenzia viaggi che mostrava questo pontile, e ho pensato che sarebbe stato carino fare un salto. Non pensavo che però potesse puzzare così tanto”.
Ole trattenne a stento una risata: questo era Homer Landmann, l’uomo che vedeva un depliant pubblicitario e decideva di attraversare gli Stati Uniti così, per fare un salto. L’uomo che si muoveva per il mondo come se si trattasse del proprio salotto, che non aveva problemi a trascinare un amico che non vedeva da anni a una festa elegante, e poi sotto un pontile che a stento frenava il vento gelido. Lo studente modello, il Guaritore che prometteva di avere una carriera brillante, reclutato da uno dei luminari più importanti di Singapore per partecipare a un programma sperimentale e accogliere la sua eredità, con il colletto della camicia sollevato contro il vento e una bottiglia di vino appena estratta dal nulla in una mano.
“Allora, ci scaldiamo un po’? Per ricordare i vecchi tempi?”
Fu un lampo: un ricordo, rapidissimo, che andò a invadere la mente di Homer e quella di Ole nello stesso momento. Una spiaggia sulla costa meridionale dell’Inghilterra, un’estate che volgeva al termine e due ragazzini non ancora pronti a separarsi dall’adolescenza, qualche lattina di birra di troppo nella spiaggia ai loro piedi e la consapevolezza che sarebbero passati anni, prima che le loro strade si incrociassero di nuovo.
Non erano mai stati tanto vicini quanto quella notte, quando Homer aveva già messo la sua vita in valigia e aveva in tasca il sassolino che gli avrebbe permesso di concludere i suoi studi a Uagadou.
 
Con un gesto improvviso, Ole strappò la bottiglia dalle mani di Homer, facendo saltare il tappo con un suono secco. Ignorando le lamentele divertite di Homer, bevve una lunga sorsata, gli occhi strizzati contro il bruciore del vino che scendeva a infiammargli la gola. Non aveva mai amato particolarmente bere alcolici, ma quella notte tutto poteva essere diverso.
Quella notte era solo un’altra parentesi, un altro saluto pieno di malinconia prima che le loro strade si separassero di nuovo, e chissà quando si sarebbero rivisti.
Ole non poteva permettersi di essere ancora un ragazzino timido e impacciato, incapace di dare forma alle sue speranze migliori.
Non poteva permettersi altri anni di rimpianti, altri silenzi ingoiati a vuoto e ore trascorse a fissare un atlante geografico, immaginando luoghi e persone ormai irraggiungibili.
Bevve un altro sorso, determinato, quasi stesse assumendo soltanto una medicina, e rise. Una risata amara per rispondere allo sguardo sbigottito di Homer.
Levò la bottiglia in alto, una brutta imitazione di un brindisi, e la porse a Homer.
“Per ricordare i vecchi tempi”.
 
 
 


 
Note:
Insomma, ovunque si infilino questi due, io mi ritrovo a non riuscire a scrivere la storia che vorrei.
La struttura doveva essere tutta diversa, e non sto riuscendo a porre l’attenzione sulle tematiche che avrei in realtà voluto toccare, ma ormai mi sto quasi mettendo l’anima in pace. Quasi, eh, perché loro sono forse i due personaggi originali a cui sono più affezionata, e non riuscire a scrivere di loro come avrei voluto mi intristisce moltissimo.
Vi chiedo scusa se l’impaginazione dovesse risultare fantasiosa e per tutti i refusi che sicuramente mi saranno scappati, ma il mio pc mi ha abbandonato, e per la maggior parte del tempo devo scrivere con mezzi di fortuna.
   
 
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