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Autore: DrarryStylinson    28/04/2020    4 recensioni
Stiles è frutto di un esperimento genetico mal riuscito: metà uomo e metà lupo. Quando l’animale prende il sopravvento, la rabbia e l’istinto di far del male al prossimo sono impossibili da controllare. Solo un altro come lui potrebbe avere le capacità per fronteggiarlo.
Derek, rimasto solo al mondo e con un conto in sospeso con Stiles, si offre volontario per diventare anch’egli un mezzo lupo per poter così catturarlo.
Quando però la verità viene a galla entrambi dovranno rivalutare le loro posizioni in questa sorta di guerra.
Sterek!AU
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Il potere della solitudine: non avrei mai detto che questa pandemia avrebbe portato cose buone. Non pubblico qualcosa da tre anni (credo) e la noia mi ha fatto riscoprire il piacere della scrittura, lo stare svegli fino a notte fonda e vedere l’alba perché smettere di scrivere diventa quasi impossibile; l’avere gli occhi che lacrimano perché sei incollata al pc da troppo tempo e la luminosità comincia a darti problemi.
È dal 23 febbraio che sono chiusa in casa, sono uscita tre volte per fare la spesa, da oltre due mesi. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe potuta succedere una cosa del genere? Ragazz*, state a casa. State al sicuro.
Spero che questa storia vi faccia passare un po’ il tempo in queste giornate monotone. Perché è questo l’unico motivo per il quale l’ho scritta.

 

 



PROLOGO

 

Beacon Hills, California. Anno 2093
 

Aprii gli occhi e l’oscurità mi avvolse. Sentivo delle voci ovattate e distanti, tante voci che si sovrapponevano l’una con l’altra. Udivo il ronzio di qualche macchinario elettrico e delle porte che sbattevano. Percepivo l’acqua scorrere e l’odore di caramelle alla liquirizia. Sentivo una dozzina di cuori battere e un sentore di disagio perenne e di esaltazione.
Qualcosa mi pungeva le labbra e capii che erano i miei denti, i canini erano cresciuti fino a diventare zanne. Anche le unghie si erano allungate.
Appoggiai le mani alla parete che avevo davanti. Era freddo metallo. Un dolore mi percorse le braccia, come se tanti aghi fossero infilzati al loro interno. Cercai di muovere la testa ma il collo era come paralizzato e c’era qualcosa attaccato ad esso, come una specie tubo.
Udivo un bip bip artificiale e acuto e, dopo qualche secondo, capii che era il battito del mio cuore che veniva trasmesso da qualche computer che mi stava monitorando. Respirai affannosamente e i bip aumentarono di velocità.
Inaspettatamente cominciai a vedere, nonostante tutto quel buio. Distinsi le mie mani, con lunghi artigli al posto delle unghie, appoggiate al metallo. Nelle braccia erano veramente conficcati degli aghi, così come nelle gambe. Feci saettare gli occhi e capii di essere dentro una sorta di cilindro metallico. Un ringhio salì dalla mia gola, un verso ferino che non avevo mai sentito. Chiusi una mano a pugno, ferendomi il palmo con gli artigli affilati, e colpii la parete di fronte a me. Ruggii di dolore quando il botto, che rimbombò in quel piccolo spazio, ferì le mie orecchie troppo sensibili.
Le voci, al di fuori, divennero più pacate, come se avessero cominciato a sussurrare. L’atmosfera era troppo disturbata perché potessi distinguere quello che stavano dicendo, ma so che parlavano di me.
Un clangore metallico mi fece capire che la porta di stava aprendo. Quando la luce mi trafisse le pupille, che si abituarono immediatamente al chiarore, mi accorsi che non ero dentro ad un cilindro, ma dentro un’incubatrice.
“Abbassate la voce” sentii dire da una donna.
La fissai con sgarbo, soffermandomi sui suoi capelli rosso ramato.
I loro cuori battevano velocissimi e irrequieti e il loro disagio si trasformò in timore quando mi videro.
Misi un piede nudo fuori dalla capsula in cui ero stato per chissà quanti giorni e un dolore accecante mi attraversò la spina dorsale. Li guardai spaesato, poi tornai a fissare tutti i tubi che mi attraversavano il corpo. Me li staccai con violenza e un po’ di sangue zampillò dalle ferite che vidi richiudersi dopo pochi secondi. Allungai una mano dietro la testa e afferrai il tubo di plastica conficcato nel mio collo, lo strappai con un ringhio di dolore.
Troppi odori mi invasero le narici: deodorante, sudore, cibo, sigarette, quello schifo di caramelle alla liquirizia che qualcuno aveva in tasca.
Barcollai e un uomo si avvicinò a me afferrandomi per un braccio. Digrignai i denti facendogli vedere le zanne.
“Tranquillo” mi disse sussurrando. “Sei al sicuro”.
Teneva la voce bassa e controllata, come se sapesse che al mio udito i rumori forti avrebbero dato fastidio.
“Io sono il dottor Argent. Ti ricordi di me?” chiese.
Ebbi alcuni flash di me che firmavo qualche documento per dar via agli esperimenti e poi gli stringevo la mano.
Annuii con fatica mentre percepivo la ferita sul mio collo guarire da sola senza difficoltà.
“Ricordi il tuo nome?” chiese una donna avvicinandosi e tenendo una cartelletta in una mano e una penna nell’altra.
Mi scossi dalla presa di quel dottore e con le mani mi tastai il volto pieno di peli da animale. Guardai gli artigli che avevo al posto delle unghie poi mi specchiai sulla parete trasparente di fianco a me: ero completamente nudo e non provavo neanche un brivido di freddo.
Mi avvicinai alla parete e notai i miei occhi brillare minacciosamente: erano blu.
“Mi chiamo Derek” dissi. La mia voce era come la ricordavo, ma era mischiata ad un ringhio gutturale.

 




Non vedevo niente a causa del fumo, ma sapevo dal calore che diventava via via più insopportabile che le fiamme erano alte. “Mamma? Laura?” chiamai respirando fumo e tossendo subito dopo, sputando saliva. “Cora?” chiamai ancora mentre la gola si prosciugava a causa del calore elevato. Persi i sensi per qualche secondo e, quando rinvenni, ero sdraiato sull’asfalto, lontano di qualche metro dalla macchina ribaltata e ancora circondata dal fuoco. Vidi un’ombra avvicinarsi alla macchina e chinarsi per guardare al suo interno, poi con un balzo la oltrepassò e scappò via. Un uomo si avvicinò a me e si inginocchiò al mio fianco, mi prese la mano e poi chiamò i soccorsi.



 


La rabbia prese il sopravvento a causa di quel ricordo. Il bip artificiale si fece spaventosamente veloce.
Spinsi la donna che stava di fronte a me con la cartellina in mano e che scriveva, persino il rumore della penna sulla carta mi stava dando fastidio. Lei cadde a terra ma non me ne preoccupai. Mi avvicinai al computer e vidi il grafico del mio elettrocardiogramma. Sfondai il monitor con un pugno e le persone intorno a me si spaventarono, i loro odori divennero più acri.
“State tranquilli” disse il dottor Argent. “È solo turbato”.
Con le mani strinsi il bancone e notai tutta quella tecnologia avanzata che mi circondava. Riuscivo a percepire l’elettricità che ronzava nei cavi.
“Derek, sono la dottoressa Lydia Martin. Sai perché sei qui?” chiese la donna dai capelli rossi.
Mi presi la testa tra le mani, non riuscendo più a sopportare tutti quei rumori, quegli odori. La raggiunsi con due falcate e la presi per il collo sollevandola da terra di qualche centimetro, poi ringhiai come un lupo mostrandole i miei canini e gli occhi blu.
Sapevo perché ero lì. Ricordavo ogni cosa.
“Derek, lasciala andare. Noi siamo qui per aiutarti” disse Argent poggiandomi una mano sulla spalla. La sua mano sembrò quasi ghiacciata a contatto con la mia pelle bollente.
Posai la dottoressa a terra voltandomi verso di lui. Era il capo, era a lui che dovevo rivolgermi.
“So perché sono qui” mormorai con la voce roca, non utilizzata da troppo tempo.
Il dottor Argent annuì compiaciuto, mentre un particolare odore di soddisfazione si spandeva nell’aria coprendo quello della liquirizia che, non sapevo per quale motivo, era così forte.
“Allora possiamo cominciare il tuo addestramento” disse. “Dategli dei vestiti, fatelo mangiare. Tra mezz’ora lo voglio pronto” ordinò.
Un ragazzo giovane mi fece cenno di seguirlo e io obbedii sempre un po’ più calmo, cominciando ad abituarmi a quegli odori troppo speziati per un semplice essere umano.
Sapevo esattamente dove mi trovavo. Mi trovavo dove volevo essere. Ero pronto per l’addestramento, ero il secondo uomo modificato geneticamente per diventare un lupo mannaro. Mi ero offerto volontario per questo esperimento solo per poter catturare il primo licantropo: Stiles.



 


L’odore di benzina mi circondava, avevo in bocca il sapore metallico del sangue e mi trovavo a testa in giù, con la cintura che mi segava il collo per tenermi ancorato al sedile. Vidi una mano slacciarla, poi persi i sensi quando colpii il tettuccio della macchina con la testa. Sollevai le palpebre. Non ero più nella vettura, ma sul cemento caldo. Scorsi la luna piena e poi un’ombra passò davanti a me, la seguii per un po’ e la vidi spiccare un balzo inumano. Poi un volto da adulto, una voce gentile che mi diceva di rimanere sveglio, e la sua mano che stringeva la mia.





 

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