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Autore: Hoshi_10000    30/04/2020    1 recensioni
Questa storia è una raccolta di one shot per indagare l’atteggiamento dei personaggi di Yuri on Ice di fronte al proprio invecchiamento.
Perché per alcuni sono i 18, per altri i 29; alcuni festeggiano, altri piangono; alcuni si divertono con amici e parenti, altri ne pianificano l’omicidio.
Perché ognuno è diverso e ognuno è speciale, ed un compleanno non è mai solo il giorno in cui celebriamo il fatto di essere nati.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Otabek Altin, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Phichit Chulanont: Può essere un bel compleanno anche se lo passi da solo!

21 anni,
30 aprile
(giovedì)

Per alcuni l’odio è un sentimento negativo, per altri è un motore che spinge a muoversi.
Per Phichit, ad essere vera era la seconda: odiava la sveglia, quindi istintivamente allungava il braccio fuori dalle coperte e scorreva un dito sullo schermo del cellulare a zittirla.
Non faceva mai a tempo a risistemare comodamente il capo sul cuscino che quella ripartiva a suonare.
Nelle giornate belle, quelle in cui vedeva arcobaleni ed unicorni ovunque, di norma ne occorrevano tre, in quelli in cui era di cattivo umore il doppio o anche il triplo, quando era stanco dormiva nonostante i rumori.
Quel giorno, nonostante fosse stanco e non particolarmente entusiasta, si svegliò dopo due.
Trascinò pigramente i piedi giù dal letto, preparandosi per prima cosa un caffè, elemento determinante per il suo buon umore, e sentendo la bevanda abbondantemente zuccherata riscaldargli la gola la sua fiducia nella vita e la sua spensierata allegria iniziarono a tornare.
Fuori il sole splendeva, i suoi criceti erano impegnati a rincorrersi, aveva valanghe di messaggi ad attenderlo su Instagram, e soprattutto, era il suo compleanno.




Attaccato ad uno dei pali, Phichit faceva del suo meglio per non farsi spappolare dalla quantità di pendolari stipati sul pullman che con rassegnazione si dirigevano al lavoro, mentre lui stringeva fra le gambe uno zaino e scorreva la bacheca di Instagram con gli auricolari nelle orecchie.
Scorse velocemente i commenti, tutti di auguri, dando una risposta generale e appoggiando la guancia al palo, incurante della ragazzina che lo guardò schifata.
Mica lo lecco eh!
Ignorò la ragazza, guardando le cime dei palazzi oltre le spalle dei pendolari, pensando a ciò che l’aspettava.
Allenarsi il giorno del proprio compleanno era ritenuta da molti atleti, lui compreso, una sorta di crimine, per cui, con la piena approvazione di Celestino, s’era preso un giorno di ferie ed aveva deciso di visitare Detroit una volta per tutte.
Dire che non l’avesse mai fatto era strano forse, dato che viveva lì da un paio d’anni, e in pochi ci avrebbero creduto visto che il suo profilo Instagram pullulava di selfie con questa o quella famosa attrazione di Detroit.
Ma la verità era che non l’aveva mai fatto, perché farsi una foto di fronte a un palazzo o mentre imiti una statua non significa visitare.
In tutti quegli anni aveva fatto poco più di ciò che fanno molti studenti in gita scolastica: andava in luoghi consigliati dalle guide turistiche o dall’opinione comune, dava una rapida occhiata e annuiva condividendo l’opinione generale, già proiettato verso la prossima meta o troppo immerso nei discorsi con i compagni anche per abbozzare.
Invece quel giorno, con calma, si sarebbe spostato a piedi per il centro, soffermandosi a guardare qualunque cosa lo avesse interessato nel suo peregrinare senza meta, non tanto per fare foto, ma per osservare la città in cui viveva.
Poi sarebbe tornato a casa e avrebbe dato da mangiare ai criceti.




A voler essere ottimisti, aveva fatto una cinquantina di chilometri.
Aveva camminato tutto il giorno, a passo tranquillo e rilassato, visitando un paio di musei e numerose chiese, ammirando le spiagge e godendosi brevemente il fresco riparo offerto dagli alberi di un parco incontrato lungo la via: non avrebbe saputo indicare il luogo di uno solo dei luoghi che aveva visitato, eppure non se ne dispiaceva.
Se avesse voluto tornarci, in fondo, avrebbe solo dovuto scendere ancora in città.
Stanco ma piuttosto soddisfatto si accasciò sui sedili a gambe larghe.
-Giornata dura?- domandò il tassista, un uomo tarchiato di mezza età. Aveva una voce profonda, che pure legava piuttosto bene con il tono vagamente canzonatorio usato per porgli la domanda e un viso non esattamente rasserenante, in contrasto con dei sagaci occhi grigi.
-Non immagina quanto.- rispose sorridente, senza lanciarsi in dettagli non tanto perché non ne avesse voglia, quanto piuttosto per non rischiare di distrarre l’uomo dalla guida.
-Eppure mi sembra piuttosto soddisfatto.- constatò l’altro guardandolo attraverso lo specchietto centrale, senza per questo distrarsi dalla strada, e Phichit stabilì che a pelle l’uomo gli piaceva, per cui decise di esporgli la sua giornata.
-Sembra l’ascesi attraverso l’arte di Schopenhauer.- commentò a un certo punto l’uomo, fermo ad un semaforo in prossimità della sua ultima destinazione della giornata, l’unica programmata fin dal mattino.
Phichit aggrottò le sopracciglia a quel commento e l’uomo scoppiò a ridere, di una risata profonda e piena.
-Non conosce Schopenhauer deduco. Per fargliela breve, era un filosofo tedesco della metà del 1800. Secondo il suo punto di vista il mondo intero era governato dalla Volontà, un essere cieco che spinge le persone a- e qui l’uomo lasciò volutamente la frase in sospeso, girando a destra al semaforo divenuto verde -Per lui l’uomo viveva illudendosi che il mondo fosse governato da leggi fisiche e così via per non accettare di essere sottomesso a questa forza invisibile, e in pratica c’erano solo tre modi per fuggire a questa forza, ossia arte, empatia e indolenza.-
-Non sto a spiegarle empatia e indolenza, ma nella contemplazione disinteressata dell’arte per lui non c’era volontà di, per cui era un modo di fuggire a questa forza. Ricorda un po’ ciò che lei ha fatto oggi: non l’ha fatto per poter dire che, ma solo per il gusto di osservare.-
Il pattinatore guardò l’uomo stupefatto: da dove spuntava fuori? Da quando insieme alle corse erano incluse le lezioni di filosofia?
-Wow, ma lei come lo conosce?-
Di nuovo la profonda risata dell’uomo si espanse nell’abitacolo e Phichit, proteso ora in avanti per poter vedere meglio il suo interlocutore, sorrise di rimando.
-Leggo, giovanotto, leggo.- rispose accostando e facendo aprire le portiere. -Siamo arrivati, comunque, fanno 15 dollari per la corsa.-
Il pattinatore estrasse il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, allungando una banconota da venti al tassista -È stata la corsa più divertente che io abbia mai fatto.- disse a mo’ di ringraziamento, e l’uomo gli sorrise canzonatorio -Non otterrai lo sconto coi complimenti, giovanotto. Ora sparisci, smetti di pensare a Schopenhauer e gustati la partita.-
E con queste parole se ne andò, alla ricerca del prossimo cliente, lasciando Phichit di fronte al Comerica Park.
Decisamente volenteroso di vedere la partita.



Uno degli argomenti più diffusi all’interno del campus, come Phichit aveva scoperto appena trasferitosi, era lo sport: c’era chi preferiva il baseball, chi non si perdeva una sola partita di basket e chi letteralmente impazziva per il rugby.
Lui, logicamente, amava il pattinaggio.
Ma al di là del suo sport preferito, che passava inosservato dai più, doveva ammettere che apprezzava la concezione dello sport in America, perché anche se alle volte i tifosi erano un po’ estremisti, almeno erano sport di squadra, a differenza del muay thai o del badminton.
Vedere tutta quella gente riunita allo stadio doveva essere una cosa veramente elettrizzante, da sportivo lo sapeva bene, e pure come pubblico lo esaltava.
Ecco, finché il suo vicino, un ragazzetto di 16 anni scarsi, alto due volte lui, non cercava di dargli una gomitata scattando in piedi per una buona battuta di Christin Stewart, magari.
Quello scoordinatissimo impiastro del suo vicino lo aveva portato a cambiare bandiera e tifare i Dodgers dopo nemmeno due innings, giusto per vendicarsi. Magari non era maturo, ma era divertente, e fra l’altro stava tifando la squadra che sembrava più promettente.
-Ehi Phichit!- urlò una voce al suo fianco, arrivandogli alle orecchie comunque non molto più alta del boato della folla. -Sai di meritare l’espulsione dal paese, vero?-
Sorrise. Jason di certo non era Yuuri, non erano dei così buoni amici, ma quando il ragazzo gli aveva proposto di andare a vedere una partita per festeggiare il suo compleanno aveva accettato volentieri. Sarebbe stato divertente, magari avrebbero legato, aveva pensato. Poi arrivato allo stadio aveva scoperto che c’era pure Jessica e aveva quindi capito di essere poco più che un ologramma, ma quello poco contava.
-Porta pazienza ancora un po’, il mio visto scade fra tre mesi, poi mi potrai imbarcare sul primo aereo.-
-Torni a casa?-
Annuì -Passo l’estate con i miei.-
La discussione si chiuse, e Jason tornò subito a concentrarsi sulla fidanzata, del tutto dimentico di lui. E forse avrebbe avuto tutti i diritti di sentirsi offeso o trascurato, ma non lo era.
Perché avrebbe dovuto, solo perché un suo compagno di corso non gli regalava la sua completa attenzione? Salvo il fatto che in quel momento erano appena entrati in pausa, lui si stava divertendo a guardare la partita, non aveva la necessità di parlare con la coppia, tutt’al più gli avrebbe fatto comodo un passaggio per tornare a casa.
Aprì lo zaino ai suoi piedi, tirando fuori una bottiglia di Coca Cola sgasata come non mai, bevendo a canna e passandola ai ragazzi al suo fianco, e proprio nel girare il tappo per chiuderla sentì il telefono vibrare nella tasca dei pantaloni.
-Pronto?- chiese accettando la chiamata, senza nemmeno guardare chi fosse, concentrato sul suo vicino che si stava mangiando da solo un pacchetto di pop corn per tre persone. Beata adolescenza, ma poi sfido che diventano tutti grassi.
-Phichit, scusa per il ritardo, buon compleanno!-
Essendo l’intervallo qualcosa si sentiva, ma mica troppo, eppure quel poco bastò.
-Yuuri!- rispose contento, appoggiando la bottiglia sul suo sedile e alzandosi per andare in bagno, o quantomeno in un luogo in cui si potesse capire qualcosa senza bisogno di urlare.
-Mi dispiace, non me ne sono dimenticato, ma con i fuso-orari e tutto non è facile e-
-Non dire scemenze, come stai?-
Non aveva dubitato di Yuuri, ma proprio non aveva pensato alla possibilità che lo chiamasse, perché uno, le chiamate internazionali costavano un rene, due, con tutte quelle ore di fuso orario era veramente difficile organizzarsi e tre, sapeva che l’amico era molto impegnato.
-Bene, ma dovrei chiederlo io a te, sei tu che festeggi. Dimmi, cos’è il rumore che sento, stai festeggiando in grande in qualche locale?-
Ghignò, raccontando a Yuuri tutta la sua giornata, attardandosi anche un paio di minuti dopo il fischio d’inizio dell’ottavo inning, perché si era assolutamente divertito quel giorno, a festeggiare in tranquilla solitudine, però condividere con un amico restava una delle cose che più preferiva.
Forse persino ai social.







 
สุขสันต์วันเกิด
   
 
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