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Autore: L_White_S    07/05/2020    0 recensioni
" Non sempre gli angeli nascono con le ali "
Quando i nazisti portano gli ebrei nel campo di concentramento di Auschwitz, il loro scopo non è solo quello di ucciderli…
Quando il re inglese attacca la Francia per riprendersi il trono, la guerra “dei cent’anni” diverrà il pretesto per celare le vere motivazioni del conflitto. Ma cosa hanno in comune questi avvenimenti storici?
Ice – il protagonista – è un ragazzo che si sveglia in un laboratorio ultratecnologico senza memoria. Gli esperimenti condotti lo hanno privato dei ricordi e solo dopo un accurato incidente, studiato – se vogliamo – inizia finalmente a trovare nel buio della sua mente quei flashback che faranno riaffiorare la verità, oltre che la luce.
La saga inizia con la ricerca delle origini di uno “dei dieci”, con un debutto fenomenale.
Si introdurranno domande che sorgeranno spontanee al lettore, quali la nascita del conflitto delle parti, sia di esseri
sovrannaturali che non, e di quanto possa un amore condizionare la vita…
Ice, durante il viaggio dettato dai ricordi, scoprirà una visione demoniaca che lo perseguiterà per tutto il tempo, manovrandolo come un burattino. Ma perché accade questo?
L’amore potrà riportarlo sulla retta via, perché la strada del male, è solo un bivio…
Genere: Fantasy, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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CAPITOLO      1.1
 
 
 
 
 
   Quella sera un nuovo credente si era unito alla liturgia celebrata da Maurice; l’uomo, rimasto col capo chino per tutto il tempo, minimizzando ogni movimento, si era alzato improvvisamente proprio al termine della messa, seguendo il frate.
   Sarebbe stato senz’altro un vantaggio enorme conoscere le varie stanze di Notre-Dame.
   Quante monache aveva contato? Una trentina, come minimo, quindi… quante camere c’erano in quella cattedrale?
   Avrebbe attaccato senza destare sospetti e se ne sarebbe andato in tutta calma se avesse saputo la pianta dell’edificio, ma così com’era, aveva l’impressione di trovarsi in un labirinto!
   Erano passati circa un paio di minuti e quasi tutti i presenti avevano abbandonato la navata con l’intento di tornare alle proprie abitazioni, persino le sorelle, dieci ne aveva contate, si erano dileguate.
   La tempesta continuava a fischiare fuori dalla chiesa.
   Il frate aveva benedetto i presenti per poi recarsi, in tutta fretta, nel suo alloggio privato.
   Come di consuetudine, l’uomo si alzò nascondendo il volto sotto l’ombra del grande cappuccio, dirigendosi verso le stanze; l’inflessibile attenzione per i particolari e la disciplina lo costrinsero a seguire la sua preda a una distanza tale da rischiare di perdere le sue tracce: i corridoi bui e longilinei, con i numerosissimi incroci, formavano un labirinto letale per chiunque entrasse, estraneo che fosse.
   Fu dopo qualche minuto di silenzioso pedinamento che il frate salutò un paio di monache ed entrò in una delle porte.
   Estasiato dalla caccia, l’incappucciato non si accorse che alle sue spalle qualcuno stava sopraggiungendo mentre d’innanzi a lui, svoltato l’angolo, altre monache lo avrebbero intercettato senz’altro.
   Non poteva farsi scoprire, qualunque fosse la causa; uccidere il predicatore e quindi la riuscita della missione, era equiparabile a nascondere la sua presenza.
   Il fallimento di una o dell’altra avrebbe portato a morte certa; Ry non perdonava.
   L’idea malvagia che sfiorò all’istante i suoi pensieri fu di compiere una silenziosa strage, ne era capace; le dominazioni ne erano capaci.
   Un omicidio di massa era l’ideale il più delle volte.
   Il suo istinto acconsentì, Ry avrebbe approvato, ma non il suo spirito.
   L’incarico affidatogli era semplice, forse troppo, perché doveva mandare tutto all’aria? Uccidere un umano qualunque non avrebbe richiesto abilità speciali e se le avesse usate, non se lo sarebbe mai perdonato.
   Non avrebbe “giocato alla pari” e la lealtà, era tutto per lui.
   Quindi, perché imbrogliare?
   Purtroppo però non aveva chissà quante scelte sottomano.
   O uccideva tutti, atto ignobile, o usava le sue particolari capacità; in entrambi i casi, il suo ego avrebbe ricevuto un durissimo colpo.
   “Maledizione”.
   Non poteva rischiare di esporsi.
   I frati e le monache s’incontrarono a metà corridoio, benedicendosi.
   Rimasero qualche secondo a parlottare sugli avvenimenti della giornata: stranamente gli invasori quel giorno avevano avuto l’ordine di ripiegare.
  “Chissà perché”, pensò l’incappucciato.
   Le quattro figure sotto di lui non si sarebbero mai accorte della sua presenza: con naturale disinvoltura, al loro arrivo, era riuscito a compiere un balzo tale da raggiungere il soffitto sopra le loro teste, allargando poi le braccia e le gambe, necessarie a porre la giusta resistenza contro lo forza di gravità.
   Il risultato: sembrava un ragno pronto per assaporare le quattro mosche cadute nella sua tela.
   Purtroppo il suo istinto, per quanto succube, in quei casi spesso riaffiorava facendogli perdere il controllo; la lingua biforcuta come quella di un rettile uscì allo scoperto sfregandosi contro i pungenti canini, pronti ad assaporare la calda carne umana.
   Fortunatamente fu interrotto nel momento stesso che l’attacco stava per compiersi.
   Un lampo, seguito immediatamente da un tuono, illuminò quella parte di corridoio.
   Una monaca, presa dallo spavento, alzò lo sguardo imprecando.
   La figura di una bestia di satana, pronta per ucciderla, le sconvolse la mente; provò a urlare, ma non appena tentò di farlo, per poco non svenne.
   Fu a quel punto che provvidenzialmente il più giovane dei pastori balzò in avanti e l’afferrò; i coscienti alzarono subito lo sguardo ma non videro nulla; solo qualche tavolaccia di legno.
   L’incappucciato, vistosi scoperto, si era allontanato dalla luce del lampo indietreggiando opportunamente.
   Era immerso nell’oscurità, tanto che i sei occhi rimanenti, nonostante lo stessero fissando, non riuscirono a individuarlo.
   Rimasero tutti immobili, scrutando le tenebre, ma nessuno ebbe il coraggio di perlustrare il corridoio con cura; quella notte incuteva già abbastanza paura e qualora l’avessero scoperto, l’incappucciato sarebbe partito all’attacco.
   In pochi istanti la monaca fu soccorsa e portata in una delle innumerevoli stanze, forse la sua, ricevendo le cure di cui aveva bisogno; ma che di lì a poco, non le sarebbero servite.
   L’incappucciato, di nuovo solo, si lasciò andare e dopo un’acrobazia, quasi fosse un gatto, tornò con i piedi per terra.
   Percorse pochi passi, quelli che lo separavano dalla porta del frate, e piegata la vecchia maniglia d’ottone, fece scattare la serratura chiusa dall’interno, poi entrò.
   Maurice, seduto sui talloni, era al centro della stanza rivolto alla luna, sarebbe stata la sua ultima penitenza e il killer sapeva che quella notte, un solo omicidio non sarebbe bastato…
 
 
 
 
   Era ancora notte fonda quando Ice aprì improvvisamente gli occhi.
   La luna era alta nel cielo e il silenzio padroneggiava nel bosco, la pioggia finalmente aveva cessato di cadere e sia Philip che Angeline sembrava dormissero.
   Qualcosa però non andava, era tutto fin troppo calmo e il ragazzo lo percepiva benissimo.
   Una strana sensazione, quasi innata, gli impediva di prender sonno nonostante cercasse da ore di chiudere gli occhi e scacciare i fastidiosi pensieri; anche il cavallo, poco sotto, sembrava pronto per aiutarlo, era sveglio e pimpante, continuava a scalpitare, eppure erano passate almeno un paio d’ore da quando Ice lo aveva raggiunto nel fienile.
   Provò a immaginare quello sguardo glaciale ancora una volta, forse era quella la causa del suo stato d’animo; anzi no, non lo spaventava più: erano già tre o quattro volte che chiudendo gli occhi ci aveva ripensato, e ora non gli faceva più tanta paura.
   Era un sollievo a dir la verità. Eppure il problema di fondo restava.
   Girarsi e rigirarsi sul fieno serviva solamente a pungerlo; il sonno lo aveva definitivamente abbandonato per quella sera.
   Quando tutt’un tratto gli venne in mente la strada percorsa con Angeline, il tentato omicidio a Philip, e l’imponente Notre-Dame.
   L’illuminazione non si fece attendere.
   “Maurice”.
   Senza esitazione indossò gli abiti ancora bagnati, scese le scale e salì in groppa al destriero.
   I massicci tronchi del bosco sfilavano a velocità elevata mentre il cavallo, guidato da Ice, galoppava senza sosta.
   Gli ululati selvaggi non distrassero il ragazzo, che sicuro della sua intuizione, tentava di raggiungere il più in fretta possibile il centro abitato.
   Finalmente, superata la paura di trovarsi a circa due metri da terra e correre su una bestia senza controllo, riuscì a valicare la fitta sterpaglia ai confini della città.
   La prima considerazione fu la stessa di quando aprì gli occhi destandosi: era tutto fin troppo calmo; nessuno si aggirava per strada, la pioggia aveva lasciato solo un pesantissimo odore di erba bagnata e persino il vento aveva deciso di andare a dormire quella notte.
   Parigi era deserta.
   Nessuna guardia, né inglese né francese, persino gli ululati erano spariti; solo il pesante respiro del cavallo al suo fianco poteva esser percepito, il resto era completamente morto.
   Con evidente angoscia e non poco timore si diresse lentamente verso la cattedrale.
   La porta principale sembrava esser sigillata e nessun lume proveniva dall’interno. Il buio più completo.
   Il primo pensiero fu di circoscrivere il perimetro dell’edificio e così, abbandonando sul posto l’animale, iniziò a correre lungo la mattonata grigia della chiesa.
   Raggiunse poi una struttura più bassa, apparentemente un’abitazione, “forse dei fedeli” pensò: aveva delle piccole finestrelle in alto, poco sotto il cornicione del tetto e sembrava un piccolo condominio.
   Era troppo scuro: intravedere qualcosa divenne ben presto impossibile perché a complicargli le cose si era intromesso anche un nuvolone.
   La luna era coperta e l’ambiente, oramai, sembrava un pozzo senza fondo.
   Muovendosi lentamente superò l’angolo e dopo qualche silenzioso passo notò una porta spalancata che cigolava avanti e indietro.
   Fu quando allungò il braccio per bloccarla che sentì uno strano liquido sul legno e sul marmo sotto i suoi piedi.
   Una qualsiasi altra persona avrebbe avuto paura, eppure quel sentimento era l’ultimo che il ragazzo avrebbe provato quella sera; d’altronde la curiosità se lo stava mangiando vivo. Ma forse, più semplicemente, non conosceva il vero senso del pericolo.
   Entrando notò ai suoi lati le grigie pareti del corridoio schizzare verso l’ignoto d’innanzi a se, mentre in terra, il liquido percepito era sempre più pesante e rendeva l’aria irrespirabile.
   C’era uno strano odore, quasi nauseante. Di ferro forse.
   Senza rallentare superò cinque o sei porte, quasi fosse richiamato da quella puzza sempre più forte, finché, svoltando a sinistra, entrò nell’unico battente aperto…
   Per tutta la “passeggiata”, lenta nell’oscurità, non commise un passo falso, nemmeno uno scricchiolio risuonò nel corridoio, e quando arrivò nella stanza completamente vuota, la retta figura d’innanzi a lui non si accorse della sua presenza.
   Era a circa un metro e mezzo quando l’uomo, percependo un movimento alle sue spalle, s’irrigidì di colpo.
   Forse però, quella che fu la sua prima impressione, si rivelò errata; non era un uomo.
   Voltandosi di scatto e allungando un braccio, tanto peloso quanto grosso, fu colpito in pieno: scaraventato in alto contro l’angolo più lontano della stanza.
   La reazione del giovane gli permise di ammortizzare il colpo e aggrapparsi con gli artigli sulle travi di legno.
   Erano usciti all’istante; fenomenali.
   Quando ritrovò la lucida, ancora euforico, si accorse di trovarsi all’incirca a circa tre metri da terra; il nemico era già sparito e al suo posto, c’era un corpo senza vita.
   Subito lasciò andare la presa e si diresse verso la salma; quando le nuvole lasciarono spazio alla luna, il volto oramai senza espressione di Maurice era l’unica parte del corpo intatta. Il resto era sparso qui e là.
   Non era unito a quell’uomo ma la rabbia che s’impossessò istantaneamente di lui fu notevole, forse più perché era stato colpito che per altro.
   In realtà, non lo sapeva nemmeno Ice il vero motivo.
   Abbandonando il corpo freddo del frate, si diresse verso l’uscita; il sangue: era quella la puzza che sentiva.
   Tornato all’aria aperta, fu colto dall’ennesimo senso di nausea, un odore diverso lo richiamava di nuovo verso l’ignoto; era qualcosa di soprannaturale e insieme spaventoso.
   La puzza di morte, non di morto.
   L’alba stava salendo velocemente quando si diresse verso un casolare, forse una taverna, seguendo quello strano effluvio.
   L’effetto che gli stava causando era catastrofico, quasi una droga, non percepiva più nessun rumore e la città, a sua insaputa, si stava risvegliando...
   Farsi trovare vicino la cattedrale era una cattiva idea, pessima in realtà.
   Assuefatto, rimase immobile per chissà quanti secondi davanti all’uscio, poi si decise ad aprire la porta.
   Nello stesso frangente che toccò il legno, il fetore che per lui era a dir poco celestiale, lo invase profondamente e ancora una volta, vide i medesimi occhi azzurri scrutarlo, studiarlo, penetrarlo nell’anima.
   Dopo qualche minuto di stallo, un oggetto freddo e tagliente sul collo lo fece tornare alla realtà, la lama di un inglese lo teneva sottomira…
 
   
 
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