Astrea
– 1 –
6
Agosto
1945 – Olimpo
Come? Come si era giunti
a questo?
Certo, le guerre erano
sempre imperversate, le genti erano perite per colpi di spada e
mannaia, prima,
di moschetto e baionetta poi. Alla fine, però, il perfido
ingegno umano aveva
saputo congegnare mostri d’immane grandezza, che neppure lei
aveva mai
immaginato di poter vedere.
Ma come? Come l’uomo si
era perso a tal punto e talmente in profondità?
Era mai possibile che
non udisse più la voce della coscienza? Che non ascoltasse
più il proprio
animo, che lei sapeva essere intriso d’amore? Era davvero
morto anche il più
piccolo seme di speranza di un roseo futuro, dentro di loro?
Nervosamente, Astrea
tornò alla polla della visione che, ormai giornalmente,
visionava all’interno
del suo tempio, eretto a poca distanza da quello della madre, a est
della cima
del monte Olimpo.
Lì, ne
afferrò i bordi
marmorei e piegò il biondo capo verso il basso, scrutando i
vari scenari di
guerra con orrore sempre crescente.
Anche interpellando
Ares, che per primo aveva incolpato di quello scempio, aveva ricevuto
in
risposta un laconico “sono
già stato
ripreso, grazie”. Come se quella misera frase
potesse compensare i milioni
di morti che avevano macchiato col loro sangue la culla della
civiltà
occidentale, e non solo.
Il sonno della ragione,
genera mostri.
L’acquaforte di
Françisco Goya del 1797, il Capriccio n.43, per
l’esattezza, sembrava essere
stata creata appositamente per mettere nero su bianco
l’orrore di quegli anni.
Dormiente, la Ragione
aveva creato nel suo subconscio una serie infinita di orrori e
tremebonde
aberrazioni, e queste si erano concretizzate in quei tempi infausti
nelle forme
di una guerra senza pari, a memoria d’uomo.
Solo gli dèi avevano
conosciuto scontri più maestosi e terrificanti ma mai, nella
sua esistenza,
Astrea aveva pensato che l’uomo si sarebbe spinto a imitare
le divinità fino a
questo punto.
Mai, fino a quel
momento, l’uomo aveva trasceso l’essenza stessa di
vita e morte.
Mai, fino a quel
momento, era stato così terribilmente ingegnoso nel
dispensare lutti.
Mai, fino a quel
momento, lei si era sentita così inutile e senza scopo.
Gli occhi di perla
continuarono a vagare sulla polla, seguendo il percorso erratico scelto
dalle
visioni, finché una in particolare non la colpì,
e decise di seguirla.
Fissò quindi sgomenta e
preoccupata il volo di un aereo dalle ali lucenti, la cui goffa forma
poteva
ricordare quella di un albatros.
Al pari del volatile,
anche quell’aereo veleggiava solitario, raggiungendo quote
ragguardevoli e, sotto
la luce del sole del mattino, appariva quasi bello e innocente.
«Dove… dove
stai volteggiando,
portatore di morte?» mormorò Astrea, sfiorando
l’acqua per ingrandire
l’immagine.
Il velivolo si allargò
nella polla, permettendole di scorgere una scritta sulla fusoliera
argentata.
Enola
Gay.
Che mai voleva dire,
quella parola?
Conosceva tutte le
lingue del mondo, eppure quella parola non le diceva nulla. Cosa mai
aveva
voluto dire, l’uomo, scrivendo quella parola senza senso?
Accigliandosi, strinse
ancora l’immagine per scorgere i volti dei piloti, ma vide
solo giovani
emozionati e, forse, un po’ impauriti. Non soldati navigati o
guerrieri
brizzolati.
No, quella era stata una
guerra combattuta da giovani, per la maggiore, in cui i giovani avevano
pagato
un prezzo elevatissimo e, a volte, dettato da scelte folli e prese da
chi,
nella teoria, avrebbe dovuto badare a loro. Intere generazioni erano
state
spazzate via, e tutto per avidità, sete di potere, disgusto
per il più debole.
Dalla polla giunse un
rumore stridente – un portellone si era aperto – e
Astrea, sempre più tesa,
strinse le mani sul bordo della piccola fontana fino a sbiancarsi le
nocche.
Colse un conto alla
rovescia, un cigolio meccanico e ritmato e infine, con un sibilo
sinistro, un
oggetto tubolare venne sganciato sopra una città.
Subito, il B2 – quello
era il nome dell’aereo che aveva fin lì osservato
– si involò a dritta, quasi
desiderasse fuggire il prima possibile dalle proprie azioni, nonostante
si
trovasse a un’altitudine più che ragguardevole.
Astrea non se ne
preoccupò, preferendo seguire la parabola discendente di
quell’oggetto sinistro
e cupo che stava involandosi sempre più velocemente verso le
terre del Sol
Levante.
Su quale città? Quale?
Un ponte. Un ponte a T.
Sembrava dirigersi lì, come se i puntatori avessero scelto
con esattezza dove
colpire, perché quella bomba non terminasse in mare, o su un
lato disabitato
della cittadina costiera.
A ben vedere, la bomba
non toccò mai terra. Un secondo sole prese vita a diverse
centinaia di metri
dal terreno, incenerendo tutto sotto di sé e
tutt’attorno a sé.
Astrea gridò –
accecata
da un simile e improvviso riverbero – mentre un fungo di
nubi, ceneri, fuoco e
fulmini si elevava verso il cielo, apparendo infinito e spettrale
persino ai
suoi occhi di dea.
Come un’onda di morte,
l’aria compressa dall’esplosione si fece strada a
forza sulla città,
schiacciando, spazzando via ogni cosa, riducendo in polvere palazzi,
vie,
l’umanità stessa.
Fiamme si elevarono verso
l’alto come serpi, mentre il fungo si apriva a ventaglio
sulla città, divenendo
scuro e purulento e ammassando ulteriore energia, nuovamente pronta a
gettarsi
sulle coste già in ginocchio.
Calde lacrime corsero
sulle gote pallide di Astrea mentre, impossibilitata a distogliere lo
sguardo,
scrutava lungo le vie della città riarsa alla ricerca di
qualche superstite.
Vide ombre sui muri,
unico retaggio rimasto delle persone troppo vicine alla bomba, per
sopravvivere.
Vide corpi carbonizzati,
ridotti a carta stracciata e ritorta su se stessa, niente
più di un agglomerato
di carni rinsecchite e abiti laceri.
Vide sangue, lamenti e
pianti.
Crollando in ginocchio,
il volto poggiato sul bordo della polla per scrutare ancora e ancora
quel
delirio di dolore, Astrea scorse infine le prime anime derelitte e
scampate al
massacro.
Una dopo l’altra, simili
a zombie, si riversarono nel vicino fiume Ōta in cerca
d’acqua, desiderosi di
dare sfogo alla sete famelica che, il fuoco della bomba, aveva prodotto
in
loro.
Fu a quel punto che una
pioggia nera e fintamente salvifica cominciò a cadere dal
cielo, spingendo la
gente a rivolgere gli sguardi bisognosi verso
l’alto… e a bere.
Sembrò una benedizione,
ma Astrea sapeva bene che quell’acqua fetida e mortifera li
avrebbe condotti a fine
indegna. Nulla di buono poteva venire dal fuoco divino che
l’uomo si era
permesso di scatenare su quella città.
Grida disperate si
unirono a preghiere di speranza, quando la pioggerella si
tramutò in
acquazzone. Ma ancora gli effetti della bomba erano lungi
dall’essere
terminati.
Le nubi nere e gorgoglianti,
dopo aver dissetato col veleno coloro che aveva dapprima tentato di
sopprimere
con il fuoco, ora scatenarono un inferno vorticoso di vento, che
serpeggiò
lungo il fiume in cerca di nuove vittime.
Un piccolo tornado prese
forma tra le rive screpolate dal fuoco della bomba, figlio di
un’energia non
ancora doma o sazia di sangue, portando con sé nuova
distruzione e nuovi morti.
Le genti fuggirono,
inveendo contro il cielo, contro gli dèi tutti e contro
coloro che avevano
portato quel fuoco di morte. Sconfitti e piegati, scapparono infine
verso le
colline in cerca di un aiuto che, solo dopo giorni e giorni di agonia,
sarebbe
giunto.
Crollando a terra in
preda al terrore e al disgusto, Astrea si coprì le orecchie
per non udire più i
lamenti della gente ma questi, ormai, erano dentro di lei, simili a
lame che ne
trafiggevano il cuore.
Lei, la dea della
Giustizia, aveva permesso che accadesse un simile scempio, non era
stata in
grado di instillare il giudizio nelle genti, e ora degli innocenti
erano morti
sotto il fuoco dei loro simili.
Sotto un fuoco divino
che mai, nessun uomo, avrebbe mai dovuto avere il permesso di usare.
***
Era successo qualcosa.
Ne era più che sicura.
Il suo cuore aveva
tremato al pari delle ali di una farfalla e, quando Eos aveva scrutato
in volto
il compagno Astreo, aveva scorto sul suo volto il medesimo turbamento,
la
medesima ansia.
Insieme, erano quindi
usciti dal tempio per raggiungere quello di Astrea, da dove Eos aveva
sentito
pervenire quella sensazione di dolore cocente e senza fine.
Senza perdere tempo a
cercare le ancelle della figlia per chiedere lumi, Eos e Astreo corsero
lungo i
corridoi del piccolo tempio di Astrea in cerca di lei. Quando infine
giunsero
nelle sue stanze private, la dea dell’Aurora dovette
aggrapparsi al compagno
per non svenire e, sconvolta, gridò il nome della figlia
più e più volte.
Astrea giaceva a terra,
apparentemente priva di sensi mentre, dalla polla della divinazione,
grondava
sangue frammisto a cenere.
In fretta, Eos le si
inginocchiò accanto, sollevandola contro di sé
mentre Astreo, turbato, scrutava
la polla per comprendere i motivi di un simile rigurgito terribile.
«Cosa stava
guardando?»
domandò spaventata Eos.
«Hiroshima»
disse solo
Astreo, mentre la compagna sgranava gli occhi in preda alla confusione
più
totale. «Hiroshima è completamente distrutta.
Spazzata via, riarsa da fuoco e
vento.»
«Ma come è
possibile?»
esalò Eos, cullando contro di sé la figlia, che
ancora non dava segni di
volersi riprendere.
«Non lo so, ma dobbiamo
pensare prima di tutto a lei» mormorò Astreo,
sollevandola in braccio.
«Esculapio, io ti invoco. Mia figlia ha bisogno di
te.»
Aggrappandosi al braccio
del compagno – chiamando Esculapio, Astreo dava per certo che
Astrea avesse un
problema neurologico, e non fisiologico – Eos
scrutò ansiosa l’apparizione
astrale del dio e, turbata, mormorò: «Aiutala, ti
prego.»
Il dio si avvicinò lesto
al trio e, nello scrutare velocemente Astrea, annuì e disse:
«Le porte del mio
regno sono aperte per voi. Astrea necessita di un’immediata
assistenza.»
«Cos’ha?»
domandò ansiosa
la madre della giovane dea.
Esculapio la fissò
spiacente, mormorando: «Dolore. Un dolore così
straziante da averla fatta
crollare.»
I due genitori tornarono
a osservare la polla grondante sangue ed Esculapio, oscurandosi a
quella vista,
sfiorò il braccio di Astrea e dichiarò:
«Andiamo. Non c’è molto tempo.»
***
9
agosto
1945 –Ras Alhague1, regno
dell’inconscio
Esculapio sapeva di
correre un rischio, richiedendo la presenza del Sommo
Érebos, ma sapeva bene
anche quali erano i suoi compiti come dio della medicina.
Al pari di suo padre
Apollo, quando egli vestiva i panni del medico, le sue incombenze erano
inderogabili. Nel caso in cui una divinità avesse dato segni
di squilibrio o
pazzia, lui avrebbe dovuto renderne conto al dio Ctonio
dell’Oscurità, colui
che disponeva della vita e della morte di ognuno di loro.
L’averlo convocato per
decidere delle sorti di Astrea lo aveva quindi angustiato, ma non di
meno si
sarebbe tirato indietro. E sarebbe stata sua l’incombenza di
spiegare ogni cosa
a Eos e Astreo, qualora Érebos avesse deciso di eliminare la
dea della
Giustizia dal Piano Terreno.
Fu comunque con un
brivido di aspettativa e timore, che avvertì
l’arrivo di Érebos nel suo piano
astrale. Era impossibile non rimanere colpiti dall’aura del
suo potere
devastante.
I serpenti che
dimoravano nella sua casa, e che erano la sua primaria fonte di
medicamenti per
i suoi pazienti, scivolarono via lontani, rintanandosi nei loro
anfratti senza
più dare segno di alcuna attività.
L’oscurità era
temuta
anche dalle creature della notte, se prendeva le sembianze di
Érebos.
Quando infine Esculapio
lo vide giungere dal fondo del lungo corridoio, anche lui venne
squassato da un
fremito spontaneo e involontario.
Alto e imponente, le sue
nere vesti si confondevano con i corvini capelli e, al pari di questi
ultimi,
fluttuavano come un’oscura nube senza fine, che pareva
contenere i recessi stessi
dell’Universo.
Il volto, bellissimo ed
eburneo, era solcato in quel momento da una smorfia preoccupata ma,
quando
Esculapio si inchinò al suo cospetto, questa si
trasformò in un quieto sorriso
di saluto.
Per quanto il suo potere
fosse immenso e devastante, e in tutti gli dèi egli
incutesse un certo timore, la
divinità Ctonia era la quintessenza della gentilezza, e le
sue parole non erano
mai spese invano.
«A cosa devo questo
accorato richiamo, mio giovane amico?» domandò
Érebos, poggiando delicatamente
una mano sulla spalla di Esculapio.
«Grande è il
mio timore,
oh Sommo, poiché temo per la sorte della cara Astrea, caduta
in un sonno
inquieto e mai più risvegliatasi da quel giorno»
esordì il dio della medicina,
conducendo la divinità Ctonia in una vicina stanza.
Érebos si
accigliò a
quelle parole e, quando vide in volto l’addormentata Astrea,
sospirò affranto.
La sua infinita bellezza
sembrava spegnersi a ogni respiro, e le rughe sulla fronte della
giovane dea indicavano
la sua perenne ansia, il suo infinito stato di dolore, il suo conflitto
senza
soluzione di continuità.
Sfiorandole il viso con
una mano, il dio Ctonio penetrò in lei con gentilezza,
fuoriuscendone però sorpreso
alcuni attimi dopo, quando disse: «Si sta
autoflagellando!»
«Come, oh
Sommo?!» esalò
sgomento Esculapio.
Annuendo, Érebos
aprì
per il dio della medicina una finestra sulla mente di Astrea e,
turbato, aggiunse:
«Non desidera la morte, come tu forse temevi. Lei vuole soffrire. Agogna a prendere su di
sé tutto il dolore delle
genti perché pensa di meritarlo.»
«Ma perché?
Cosa mai può
pensare di aver fatto?» ansimò turbato Esculapio,
scrutando ansioso il dio
Ctonio.
«Come Giustizia, pensa
di aver fallito nel proprio compito, forse non rendendosi conto che, da
molti
secoli ormai, la mente umana non ascolta più i nostri
sussurri, né accetta i
nostri consigli… se non quelli votati al male»
sospirò Érebos, scuotendo mesto
il capo.
«Quindi, cosa le
accadrà, ora?»
Prima ancora di poter
proferire parola, Astrea si inarcò verso l’alto
come un arco teso e, dalla sua
gola riarsa, un urlo disumano spezzò l’immota
quiete di quei luoghi,
sgomentando entrambi gli dèi.
Subito, Esculapio si
avvicinò alla sua paziente per trattenerla dal cadere, ma
ella non si rese
minimamente conto della sua presenza ed Érebos, sospirando
addolorato, esalò:
«Non di nuovo…»
Esculapio si preoccupò
immediatamente, a quelle parole e, nel rendersi conto del loro reale
significato,
mormorò turbato: «Questo la
distruggerà.»
Astrea si dimenò tra le
braccia di Esculapio, strinse le mani al petto come per volersi
strappare via
il cuore e in un ultimo, disperato tentativo di darsi dolore,
svanì a sorpresa
dinanzi ai loro occhi.
Esculapio crollò a mani
aperte
sul letto ormai vuoto, fissando sgomento una polla nera e
imperscrutabile che
galleggiava sopra le lenzuola al posto del corpo di Astrea.
A sua volta, Érebos
fissò confuso quel pozzo di oscurità, esalando:
«Cos’hai fatto, Astrea?!»
«Che le è
successo?»
gracchiò confuso Esculapio, risollevandosi per poi guardare
turbato la divinità
Ctonia.
«Ha imprigionato il suo
corpo all’interno della propria mente…
così soffriranno con maggiore intensità sia
la carne che l’animo» ansimò il dio
Ctonio dopo aver poggiato una mano sulla
polla oscura e gorgogliante.
«Non è
possibile» scosse
il capo il dio della medicina, ancora incredulo.
«Anch’io lo
ritenevo
impossibile ma, a quanto pare, lei ha trovato la forza necessaria per
tentare
il mai tentato» sottolineò Érebos,
volgendosi poi sorpreso quando udì la porta
della stanza aprirsi.
Le due divinità scorsero
sull’entrata la figura fiacca di Eos che, nel vederli
entrambi accanto a un
letto ormai vuoto, si portò le mani al volto per reprimere
un grido e
gorgogliò: «La mia bambina… che le
avete fatto?!»
«Cheta la tua ira,
perché è immotivata» iniziò
col dire Esculapio, raggiungendo in fretta Eos
prima che potesse commettere atti imperdonabili nei confronti di una
divinità
Ctonia.
Eos, però, si
divincolò
tra le braccia del dio e gli urlò contro disperata:
«Sapevo che stava male, ma
non dovevi chiamare il Sommo Érebos senza avvisarmi! Dovevo
dirle addio,
prima!»
La divinità Ctonia,
osservando serafico la lotta della dea, si limitò a
rispondere a
quell’ingiustificata accusa: «Mai avrei fatto
soffrire inutilmente una madre,
Eos, né mi sarei permesso di fare qualsiasi cosa alle tue
spalle, o a quelle di
Astreo. Contieniti, quindi, e ascolta ciò che ho da
dirti.»
Eos si ammutolì
all’istante, di fronte al volto austero e serio di
Érebos e, annuendo debolmente
dopo diversi istanti passati a ritrovare l’autocontrollo
perduto, mormorò: «Le
mie scuse, ma il pensiero di mia figlia ha messo le ali al mio
dire.»
Il dio Ctonio assentì
più
sereno e, nello sfiorare nuovamente la massa oscura che rappresentava
l’animo
ottenebrato di Astrea, dichiarò: «Tua figlia si
è volontariamente chiusa in una
prigione di dolore, convinta di essere la causa delle pene degli
uomini. Al
momento non mi è chiaro come vi sia riuscita, né
come possa essere possibile
riportare il suo corpo in questo piano astrale, ma non
lascerò nulla di
intentato, per salvarla.»
Eos annuì a
più riprese,
le mani artigliate alle braccia di Esculapio - che ancora la tratteneva
- e,
con le lacrime agli occhi, la dea domandò:
«Cosa… cosa devo fare?»
«Posso lasciare aperta
una breccia nei suoi pensieri perché sia sempre
raggiungibile. Parlatele, state
con lei nel suo personale mondo e cercate di ricreare in lei la fiducia
persa
nei propri mezzi. Credo sia l’unico modo di agire, al
momento» dichiarò Érebos,
lanciando poi uno sguardo al dio della medicina: «Non le
servirà supporto
medico, in questo frangente, ma solo psicologico. Cercate di non
lasciarla mai
sola. Io mi consulterò con Hypnos e gli oneiroi per capire
come sia potuta
succedere una cosa del genere e poi ti riferirò, oppure
manderò direttamente
qui i miei figli. Di più, penso non si possa fare, per
ora.»
Esculapio assentì grato
ed Eos, crollando contro il petto del dio, mormorò affranta:
«Ma perché si è
voluta addossare le colpe degli altri!?»
Il dio della medicina le
carezzò comprensivo il capo biondo mentre la
divinità Ctonia, tornando a
osservare la polla di oscurità, mormorava sconfortato:
«A volte, è difficile
scindere se stessi da ciò che il Creato ci ha spinti
a essere per millenni. La sua volontà di Giustizia
era così
forte che, non avendo potuto ottenerla, l’ha spinta a
colpevolizzarsi.»
Ciò detto,
Érebos si
scusò con entrambi per poter raggiungere i suoi figli e,
mentre il suo corpo si
smaterializzava dal regno dell’inconscio per tornare sulla
Terra, si domandò
come avrebbe potuto agire per aiutare Astrea.
Mai nella sua esistenza
era stato testimone di un simile evento e, pur sapendo quanto potessero
essere
enormi i doni degli dèi, non si era mai spinto a pensare che
potesse accadere
un fatto simile.
Quando Esculapio lo
aveva chiamato, aveva temuto per la vita di Astrea, già
presagendo di dover
terminare la sua esistenza, ma quando aveva scorto il suo dolore e la
sua pena,
si era sentito smarrito e inadeguato.
Quanto doveva sentirsi
sola e colpevole, in quel mondo onirico creato da lei stessa per
autoflagellarsi in eterno?
Sospirando nel
riprendere corporeità nel tempio di Nyx, Érebos
si avviò in cerca dei figli e,
quando Moros lo incrociò lungo uno dei corridoi,
sollevò un sopracciglio con
fare interrogativo e domandò: «Sicuro di non
volere un passaggio altrove,
padre? Non ti ho mai visto così turbato dacché
sono nato.»
«Non è il
momento di
disturbare Chaos. O almeno spero» replicò il dio,
dando una pacca sulla spalla
al figlio.
Moros allora spallucciò
e, nell’allontanarsi, chiosò: «Vedi tu,
ma non è male parlare col vecchio, ogni
tanto.»
Érebos sorrise a mezzo,
nel sentire quel commento vagamente irriverente. Moros,
però, era famoso per
non avere peli sulla lingua, anche se era sovente assai criptico, nelle
sue
uscite.
In quel caso, però, non
v’era alcun intento di esporre dei Misteri. Era soltanto il
commento ironico di
un ragazzo rivolto al proprio padre.
Il punto era un altro;
l’intervento
di Chaos si sarebbe reso necessario, o sarebbe bastato
l’aiuto di Hypnos e
degli oneiroi?
***
Hypnos impiegò diversi
minuti,
prima di rendersi conto della presenza del padre all’interno
delle sue stanze
emisferiche e, nel volgersi sorpreso a mezzo, esalò:
«Padre! Come mai qui?»
Érebos si
avvicinò al
figlio, impegnato a visionare i pensieri errabondi dei mortali sul suo
singolare
planisfero luminoso. Ogni mortale perso nei sogni appariva come una
pallida
luce biancastra, mentre le divinità spiccavano per i loro
colori dorati e
brillanti.
«Immagino tu sia
indaffarato, in questi giorni» esordì il dio,
affiancandolo.
Hypnos si accigliò, a
quelle parole, indicando un punto in particolare del planisfero, dove
le luci
erano intermittenti e fievoli. Il Giappone.
«I mortali sono folli.
Quegli ordigni hanno creato un autentico putiferio, e ora la gente vaga
nel
regno dei sogni senza più una meta. Morpheus non riesce a
calmarli in alcun
modo, mentre Phobetor è sovraccarico di lavoro. Per non
parlare di Phantasos!
Non hai idea di quante persone sognino quelle maledette bombe sotto
forma di
mostri striscianti e ululanti!» sbottò Hypnos,
ingrandendo con un tocco delle
dita il punto incriminato del suo personale globo terrestre.
La divinità Ctonia
assentì turbata e domandò: «Avresti
qualche minuto da dedicarmi? Abbiamo un
problema.»
Hypnos lo fissò pieno di
curiosità, domandandosi quale potesse essere il problema che
suo padre non era
in grado di risolvere da solo. Dacché ricordasse, non era
mai capitato che
Érebos il Sommo non venisse a capo di un dilemma con le sue
sole forze.
«Se posso esserti utile,
ben volentieri ti aiuterò. Dimmi pure»
assentì Hypnos, ascoltando quindi la
dissertazione del padre in merito al caso di Astrea.
Mano a mano che il
racconto si dipanava dinanzi a lui, il dio del sonno si sorprese sempre
più
fino a raggiungere lo stato di assoluta incredulità.
Quando infine Érebos
terminò il resoconto di ciò di cui era stato
testimone, Hypnos sospirò
addolorato, mormorando: «Non oso neppure immaginare il dolore
di Eos. Astreo ne
è già al corrente?»
«Lo sta informando or
ora Esculapio» disse il padre. «Che ne pensi? Credi
ci sia qualche possibilità
di riportarla indietro?»
«In tutta
sincerità,
padre, neppure sapevo che un corpo fisico potesse essere risucchiato in
un
sogno, figurarsi in un incubo» ammise spiacente Hypnos.
«Astrea deve avere utilizzato
una quantità di energia spaventosa, per rinchiudersi in
quella gabbia senza
sbarre.»
«E’ quello che
temevo»
sospirò il dio. «Ho lasciato aperto un varco per
renderla raggiungibile ma, ben
presto, questo si chiuderà. Non possiedo le tue stesse
capacità di controllo,
per quel che riguarda il sonno. Pensi di poter rendere permanente quel
passaggio, almeno finché non capiamo come
aiutarla?»
Hypnos assentì senza
problemi. «Sì, questo posso farlo. Per quanto lei
sia adirata con se stessa,
non può tenermi lontana dal suo sonno, poiché io
lo governo. Vi terrò aperto un
varco così che possiate raggiungerla, ma davvero non so come
si potrà
sbrogliare, questa matassa. Non credo esistano precedenti in tal
senso.»
Sospirando, Érebos
annuì
torvo e, con voce che denotava il suo profondo stato di ansia,
mormorò: «E’ per
questo che vorrei parlare anche con Morpheus e gli altri. Forse,
assieme, potremmo
essere più incisivi rispetto a una manovra in
solitaria.»
«Te li manderò
non
appena saranno di ritorno» gli promise Hypnos, con un cenno
del capo. «Certo
che questa cosa proprio non ci voleva, ora come ora.»
«Che intendi
dire?»
domandò vagamente sorpreso il padre.
«Morpheus, Phobetor e
Phantasos tornano sempre distrutti, in questi giorni. Non so quanto
potranno
essere efficaci su Astrea, se lei è così decisa
ad auto-flagellarsi» sospirò
Hypnos, scrollando impotente le spalle.
Érebos annuì
sconsolato,
tornando con lo sguardo alla planimetria della Terra. Non faticava a
comprendere i motivi della stanchezza degli oneiroi; con un mondo
così
sottosopra e tormentato da tali demoni, era chiaro quanto le menti
umane
fossero cariche di disperazione e paura.
«Mi aiuteranno per
quanto potranno, e se
potranno»
dichiarò a quel punto la divinità Ctonia,
battendo una mano sulla spalla del figlio.
«Ti lascio al tuo lavoro.»
«Mi spiace non poter
essere maggiormente d’aiuto» sospirò
Hypnos.
Érebos, per contro, gli
sorrise e replicò: «Mi sei stato
d’aiuto, invece. Anche il solo potertene
parlare, mi è stato di conforto. Inoltre, mi aiuterai
permettendomi di visitare
i sogni di Astrea finché ve ne sarà bisogno. Non
mi pare poco!»
Hypnos accennò un
sorriso e il padre, stringendo maggiormente la mano che ancora era
posata sulla
spalla del figlio, aggiunse: «Voi mi siete sempre
d’aiuto e conforto. Non dimenticatelo mai.»
Ciò detto, se ne
andò e
Hypnos, lasciato a se stesso il planisfero, si trasmutò nel
regno di Esculapio
per fare quanto richiesto dal padre. In casi estremi come quello, era
meglio
agire il prima possibile.
***
Quando Hypnos apparve
all’interno dell’enorme clinica di Esculapio, si
diresse immediatamente verso
il luogo in cui avvertiva la presenza effimera di Astrea.
Era appena percettibile,
poco più di un lumicino flebile e indistinto, ma ancora
presente.
Affrettando il passo per
non doversene pentire in futuro, Hypnos quasi investì
Astreo, quando aprì la
porta della stanza per catapultarsi in fretta all’interno.
Il titano lo afferrò per
le spalle, sostenendolo mentre il dio del sonno si scusava per la sua
irruenza.
Eos, da parte sua,
sospirò sollevata nel vederlo, e domandò:
«Ti manda Érebos?»
Lui assentì e,
nell’osservare turbato il profondo buco nero da cui proveniva
l’energia latente
di Astrea, comprese appieno i motivi della tensione del padre.
Una cosa simile non si
era mai vista, né sapeva neppure esattamente cosa potesse
essere quello che
stava guardando in quel momento.
Ugualmente, sfiorò
quell’ombra senza fine e forzò le sue pareti per
ottenere un passaggio diretto
al suo interno più profondo. Nel farlo, perle cangianti gli
si formarono sulla
fronte, indice della profonda fatica che quel compito gli stava
costando.
Digrignando i denti,
Hypnos forzò ancora, borbottando: «Eh, no, Astrea.
Ho il diritto di passaggio,
credimi, e non ti permetterò di tenermi fuori
dalla tua testa.»
Eos si mosse per
fermarlo, a quelle parole ma Astreo la bloccò, scuotendo il
capo ed Esculapio, rivolgendosi
alla dea, disse: «Lascialo fare. Non le sta facendo del male,
ma è vitale che
il collegamento con lei rimanga aperto, e solo lui può
farlo.»
La dea annuì a fatica e,
tenendosi accanto al compagno, mormorò: «Non so se
posso farcela…»
«Devi. Per lei»
sottolineò Astreo, stringendola maggiormente a sé.
Hypnos sogghignò proprio
in quell’istante e, vittorioso, dichiarò:
«Aaah! Eccoti!»
Ciò detto, un barlume di
luce fuoriuscì dal globo nero e senza fondo, da cui Hypnos
estrasse una mano
ricoperta di graffi ed ecchimosi.
Subito, Esculapio si
avvicinò per controllare gli effettivi danni e il dio del
sonno, lasciandolo
fare, mormorò torvo: «Ora il passaggio non si
chiuderà e potrete farle visita,
ma prestate attenzione. Al momento, è adirata con me e
potrebbe anche ferire
qualcun altro. Direi di lasciarle il tempo di sbollire un
po’.»
«Cosa ti ha
fatto?»
domandò turbata Eos.
Hypnos scrutò
meditabondo le mani di Esculapio che, con competenza, stavano
sistemando una
fasciatura intrisa di medicamenti sulle sua pelle contusa e, con una
scrollata
di spalle, dichiarò: «Lei,
nulla…
questi sono gli effetti della bomba che rivede nella sua mente.
Continua a
ripercorrere quei momenti in un loop senza
fine, e questi pensieri hanno una loro forza fisica.»
I genitori ne rimasero
assai turbati ed Esculapio, con un sospiro, lasciò infine
andare la mano del
dio del sonno, asserendo: «Dovrebbero guarire nel giro di
pochi giorni. Essendo
state causate dal potere di una divinità, non si comportando
come qualsiasi
altra ferita, e sono un po’ lente a rimarginarsi.»
«Lo
immaginavo…» annuì
Hypnos. «…ma poco importa. Non fa così
tanto male. Per ora, posso fare solo
questo ma, non appena gli oneiroi torneranno, li manderò qui
per una missione
esplorativa.»
Entrambi i genitori
assentirono alle sue parole e Hypnos, con un cenno a Esculapio,
uscì dalla
stanza, subito seguito dal dio della medicina.
Una volta soli, il dio
del sonno aggiunse torvo: «Mio padre ha fatto bene a non
terminare l’esistenza
di Astrea perché, a tutti gli effetti, è
pericolosa solo per se stessa, ma non
offre spunti per pensare che voglia farla finita. Il punto è
un altro; questo
dolore protratto all’infinito potrebbe, sul momento, starle
anche bene per
punirsi in merito a colpe che crede sue ma, con il passare del tempo,
la cosa
potrebbe degenerare. Dovrai fare molta
attenzione a cogliere i messaggi subliminali inviati dalla
sua mente.»
Esculapio assentì grave,
mormorando: «Ammetto senza problemi che è il caso
più difficile che mi sia
capitato. Le crisi d’identità le posso curare,
così come le depressioni, ma questo…»
Hypnos assentì
preoccupato, lanciando un’occhiata al battente chiuso della
stanza. «Sì, non è
per niente facile. Non appena mi raggiungeranno i miei fratelli,
parleremo più
approfonditamente dei segnali premonitori di un collasso sistemico.
Loro sono
molto più esperti di me.»
Esculapio annuì al dio
e, insieme, ristettero silenti in osservazione della porta che li
divideva da
Astrea. Nessuno di loro sapeva bene cosa sarebbe successo, da
lì in avanti, ma
una cosa era certa.
Nulla sarebbe stato facile,
d’ora innanzi.
1 Ras Alhague: (α Ophiuchi) è il nome della stella principale della Costellazione dell’Ofiuco. Stando al mito, Zeus tramutò il semidio Esculapio in una costellazione per riparare al fatto di averlo ucciso per futili motivi. Ho pensato di creare un legame tra i due eventi, ed è anche per questo che Esculapio appare solo come entità astrale, sul mondo terreno, e non ha un corpo vero e proprio se non a Ras Alhague.
N.d.A.: Tutto
ciò che ho scritto e scriverò in merito agli
eventi di Hiroshima e Nagasaki, (tranne ovviamente le interazioni di
Astrea e Alekos con i cittadini delle due città) sono fatti
realmente accaduti e tratti dal libro "Sopravvissuto alla Bomba
Atomica" di Akiko Mikamo.