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Autore: Mary P_Stark    11/05/2020    1 recensioni
Cosa succederebbe se gli dèi dell'Olimpo e gli eroi greci camminassero tra noi? Quali potrebbero essere le conseguenze, per noi e per loro? Atena, dea della Guerra, delle Arti e dell'Intelletto, incuriosita dal mondo moderno, ha deciso di vivere tra noi per conoscere le nuove genti che popolano la Terra e che, un tempo, lei governava assieme al Padre Zeus e gli Olimpici. In questa raccolta, verranno raccontate le avventure di Atena, degli dèi olimpici e degli eroi del mito greco, con i loro pregi, i loro difetti e le loro piccole stravaganze. (Naturalmente, i miti sono rivisitati e corretti)
Genere: Commedia, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Astrea – 1 –

 

 

 

 

6 Agosto 1945 – Olimpo

 

 

Come? Come si era giunti a questo?

Certo, le guerre erano sempre imperversate, le genti erano perite per colpi di spada e mannaia, prima, di moschetto e baionetta poi. Alla fine, però, il perfido ingegno umano aveva saputo congegnare mostri d’immane grandezza, che neppure lei aveva mai immaginato di poter vedere.

Ma come? Come l’uomo si era perso a tal punto e talmente in profondità?

Era mai possibile che non udisse più la voce della coscienza? Che non ascoltasse più il proprio animo, che lei sapeva essere intriso d’amore? Era davvero morto anche il più piccolo seme di speranza di un roseo futuro, dentro di loro?

Nervosamente, Astrea tornò alla polla della visione che, ormai giornalmente, visionava all’interno del suo tempio, eretto a poca distanza da quello della madre, a est della cima del monte Olimpo.

Lì, ne afferrò i bordi marmorei e piegò il biondo capo verso il basso, scrutando i vari scenari di guerra con orrore sempre crescente.

Anche interpellando Ares, che per primo aveva incolpato di quello scempio, aveva ricevuto in risposta un laconico “sono già stato ripreso, grazie”. Come se quella misera frase potesse compensare i milioni di morti che avevano macchiato col loro sangue la culla della civiltà occidentale, e non solo.

Il sonno della ragione, genera mostri.

L’acquaforte di Françisco Goya del 1797, il Capriccio n.43, per l’esattezza, sembrava essere stata creata appositamente per mettere nero su bianco l’orrore di quegli anni.

Dormiente, la Ragione aveva creato nel suo subconscio una serie infinita di orrori e tremebonde aberrazioni, e queste si erano concretizzate in quei tempi infausti nelle forme di una guerra senza pari, a memoria d’uomo.

Solo gli dèi avevano conosciuto scontri più maestosi e terrificanti ma mai, nella sua esistenza, Astrea aveva pensato che l’uomo si sarebbe spinto a imitare le divinità fino a questo punto.

Mai, fino a quel momento, l’uomo aveva trasceso l’essenza stessa di vita e morte.

Mai, fino a quel momento, era stato così terribilmente ingegnoso nel dispensare lutti.

Mai, fino a quel momento, lei si era sentita così inutile e senza scopo.

Gli occhi di perla continuarono a vagare sulla polla, seguendo il percorso erratico scelto dalle visioni, finché una in particolare non la colpì, e decise di seguirla.

Fissò quindi sgomenta e preoccupata il volo di un aereo dalle ali lucenti, la cui goffa forma poteva ricordare quella di un albatros.

Al pari del volatile, anche quell’aereo veleggiava solitario, raggiungendo quote ragguardevoli e, sotto la luce del sole del mattino, appariva quasi bello e innocente.

«Dove… dove stai volteggiando, portatore di morte?» mormorò Astrea, sfiorando l’acqua per ingrandire l’immagine.

Il velivolo si allargò nella polla, permettendole di scorgere una scritta sulla fusoliera argentata.

Enola Gay.

Che mai voleva dire, quella parola?

Conosceva tutte le lingue del mondo, eppure quella parola non le diceva nulla. Cosa mai aveva voluto dire, l’uomo, scrivendo quella parola senza senso?

Accigliandosi, strinse ancora l’immagine per scorgere i volti dei piloti, ma vide solo giovani emozionati e, forse, un po’ impauriti. Non soldati navigati o guerrieri brizzolati.

No, quella era stata una guerra combattuta da giovani, per la maggiore, in cui i giovani avevano pagato un prezzo elevatissimo e, a volte, dettato da scelte folli e prese da chi, nella teoria, avrebbe dovuto badare a loro. Intere generazioni erano state spazzate via, e tutto per avidità, sete di potere, disgusto per il più debole.

Dalla polla giunse un rumore stridente – un portellone si era aperto – e Astrea, sempre più tesa, strinse le mani sul bordo della piccola fontana fino a sbiancarsi le nocche.

Colse un conto alla rovescia, un cigolio meccanico e ritmato e infine, con un sibilo sinistro, un oggetto tubolare venne sganciato sopra una città.

Subito, il B2 – quello era il nome dell’aereo che aveva fin lì osservato – si involò a dritta, quasi desiderasse fuggire il prima possibile dalle proprie azioni, nonostante si trovasse a un’altitudine più che ragguardevole.

Astrea non se ne preoccupò, preferendo seguire la parabola discendente di quell’oggetto sinistro e cupo che stava involandosi sempre più velocemente verso le terre del Sol Levante.

Su quale città? Quale?

Un ponte. Un ponte a T. Sembrava dirigersi lì, come se i puntatori avessero scelto con esattezza dove colpire, perché quella bomba non terminasse in mare, o su un lato disabitato della cittadina costiera.

A ben vedere, la bomba non toccò mai terra. Un secondo sole prese vita a diverse centinaia di metri dal terreno, incenerendo tutto sotto di sé e tutt’attorno a sé.

Astrea gridò – accecata da un simile e improvviso riverbero – mentre un fungo di nubi, ceneri, fuoco e fulmini si elevava verso il cielo, apparendo infinito e spettrale persino ai suoi occhi di dea.

Come un’onda di morte, l’aria compressa dall’esplosione si fece strada a forza sulla città, schiacciando, spazzando via ogni cosa, riducendo in polvere palazzi, vie, l’umanità stessa.

Fiamme si elevarono verso l’alto come serpi, mentre il fungo si apriva a ventaglio sulla città, divenendo scuro e purulento e ammassando ulteriore energia, nuovamente pronta a gettarsi sulle coste già in ginocchio.

Calde lacrime corsero sulle gote pallide di Astrea mentre, impossibilitata a distogliere lo sguardo, scrutava lungo le vie della città riarsa alla ricerca di qualche superstite.

Vide ombre sui muri, unico retaggio rimasto delle persone troppo vicine alla bomba, per sopravvivere.

Vide corpi carbonizzati, ridotti a carta stracciata e ritorta su se stessa, niente più di un agglomerato di carni rinsecchite e abiti laceri.

Vide sangue, lamenti e pianti.

Crollando in ginocchio, il volto poggiato sul bordo della polla per scrutare ancora e ancora quel delirio di dolore, Astrea scorse infine le prime anime derelitte e scampate al massacro.

Una dopo l’altra, simili a zombie, si riversarono nel vicino fiume Ōta in cerca d’acqua, desiderosi di dare sfogo alla sete famelica che, il fuoco della bomba, aveva prodotto in loro.

Fu a quel punto che una pioggia nera e fintamente salvifica cominciò a cadere dal cielo, spingendo la gente a rivolgere gli sguardi bisognosi verso l’alto… e a bere.

Sembrò una benedizione, ma Astrea sapeva bene che quell’acqua fetida e mortifera li avrebbe condotti a fine indegna. Nulla di buono poteva venire dal fuoco divino che l’uomo si era permesso di scatenare su quella città.

Grida disperate si unirono a preghiere di speranza, quando la pioggerella si tramutò in acquazzone. Ma ancora gli effetti della bomba erano lungi dall’essere terminati.

Le nubi nere e gorgoglianti, dopo aver dissetato col veleno coloro che aveva dapprima tentato di sopprimere con il fuoco, ora scatenarono un inferno vorticoso di vento, che serpeggiò lungo il fiume in cerca di nuove vittime.

Un piccolo tornado prese forma tra le rive screpolate dal fuoco della bomba, figlio di un’energia non ancora doma o sazia di sangue, portando con sé nuova distruzione e nuovi morti.

Le genti fuggirono, inveendo contro il cielo, contro gli dèi tutti e contro coloro che avevano portato quel fuoco di morte. Sconfitti e piegati, scapparono infine verso le colline in cerca di un aiuto che, solo dopo giorni e giorni di agonia, sarebbe giunto.

Crollando a terra in preda al terrore e al disgusto, Astrea si coprì le orecchie per non udire più i lamenti della gente ma questi, ormai, erano dentro di lei, simili a lame che ne trafiggevano il cuore.

Lei, la dea della Giustizia, aveva permesso che accadesse un simile scempio, non era stata in grado di instillare il giudizio nelle genti, e ora degli innocenti erano morti sotto il fuoco dei loro simili.

Sotto un fuoco divino che mai, nessun uomo, avrebbe mai dovuto avere il permesso di usare.

***

Era successo qualcosa. Ne era più che sicura.

Il suo cuore aveva tremato al pari delle ali di una farfalla e, quando Eos aveva scrutato in volto il compagno Astreo, aveva scorto sul suo volto il medesimo turbamento, la medesima ansia.

Insieme, erano quindi usciti dal tempio per raggiungere quello di Astrea, da dove Eos aveva sentito pervenire quella sensazione di dolore cocente e senza fine.

Senza perdere tempo a cercare le ancelle della figlia per chiedere lumi, Eos e Astreo corsero lungo i corridoi del piccolo tempio di Astrea in cerca di lei. Quando infine giunsero nelle sue stanze private, la dea dell’Aurora dovette aggrapparsi al compagno per non svenire e, sconvolta, gridò il nome della figlia più e più volte.

Astrea giaceva a terra, apparentemente priva di sensi mentre, dalla polla della divinazione, grondava sangue frammisto a cenere.

In fretta, Eos le si inginocchiò accanto, sollevandola contro di sé mentre Astreo, turbato, scrutava la polla per comprendere i motivi di un simile rigurgito terribile.

«Cosa stava guardando?» domandò spaventata Eos.

«Hiroshima» disse solo Astreo, mentre la compagna sgranava gli occhi in preda alla confusione più totale. «Hiroshima è completamente distrutta. Spazzata via, riarsa da fuoco e vento.»

«Ma come è possibile?» esalò Eos, cullando contro di sé la figlia, che ancora non dava segni di volersi riprendere.

«Non lo so, ma dobbiamo pensare prima di tutto a lei» mormorò Astreo, sollevandola in braccio. «Esculapio, io ti invoco. Mia figlia ha bisogno di te.»

Aggrappandosi al braccio del compagno – chiamando Esculapio, Astreo dava per certo che Astrea avesse un problema neurologico, e non fisiologico – Eos scrutò ansiosa l’apparizione astrale del dio e, turbata, mormorò: «Aiutala, ti prego.»

Il dio si avvicinò lesto al trio e, nello scrutare velocemente Astrea, annuì e disse: «Le porte del mio regno sono aperte per voi. Astrea necessita di un’immediata assistenza.»

«Cos’ha?» domandò ansiosa la madre della giovane dea.

Esculapio la fissò spiacente, mormorando: «Dolore. Un dolore così straziante da averla fatta crollare.»

I due genitori tornarono a osservare la polla grondante sangue ed Esculapio, oscurandosi a quella vista, sfiorò il braccio di Astrea e dichiarò: «Andiamo. Non c’è molto tempo.»

***

9 agosto 1945 –Ras Alhague1, regno dell’inconscio

 

Esculapio sapeva di correre un rischio, richiedendo la presenza del Sommo Érebos, ma sapeva bene anche quali erano i suoi compiti come dio della medicina.

Al pari di suo padre Apollo, quando egli vestiva i panni del medico, le sue incombenze erano inderogabili. Nel caso in cui una divinità avesse dato segni di squilibrio o pazzia, lui avrebbe dovuto renderne conto al dio Ctonio dell’Oscurità, colui che disponeva della vita e della morte di ognuno di loro.

L’averlo convocato per decidere delle sorti di Astrea lo aveva quindi angustiato, ma non di meno si sarebbe tirato indietro. E sarebbe stata sua l’incombenza di spiegare ogni cosa a Eos e Astreo, qualora Érebos avesse deciso di eliminare la dea della Giustizia dal Piano Terreno.

Fu comunque con un brivido di aspettativa e timore, che avvertì l’arrivo di Érebos nel suo piano astrale. Era impossibile non rimanere colpiti dall’aura del suo potere devastante.

I serpenti che dimoravano nella sua casa, e che erano la sua primaria fonte di medicamenti per i suoi pazienti, scivolarono via lontani, rintanandosi nei loro anfratti senza più dare segno di alcuna attività.

L’oscurità era temuta anche dalle creature della notte, se prendeva le sembianze di Érebos.

Quando infine Esculapio lo vide giungere dal fondo del lungo corridoio, anche lui venne squassato da un fremito spontaneo e involontario.

Alto e imponente, le sue nere vesti si confondevano con i corvini capelli e, al pari di questi ultimi, fluttuavano come un’oscura nube senza fine, che pareva contenere i recessi stessi dell’Universo.

Il volto, bellissimo ed eburneo, era solcato in quel momento da una smorfia preoccupata ma, quando Esculapio si inchinò al suo cospetto, questa si trasformò in un quieto sorriso di saluto.

Per quanto il suo potere fosse immenso e devastante, e in tutti gli dèi egli incutesse un certo timore, la divinità Ctonia era la quintessenza della gentilezza, e le sue parole non erano mai spese invano.

«A cosa devo questo accorato richiamo, mio giovane amico?» domandò Érebos, poggiando delicatamente una mano sulla spalla di Esculapio.

«Grande è il mio timore, oh Sommo, poiché temo per la sorte della cara Astrea, caduta in un sonno inquieto e mai più risvegliatasi da quel giorno» esordì il dio della medicina, conducendo la divinità Ctonia in una vicina stanza.

Érebos si accigliò a quelle parole e, quando vide in volto l’addormentata Astrea, sospirò affranto.

La sua infinita bellezza sembrava spegnersi a ogni respiro, e le rughe sulla fronte della giovane dea indicavano la sua perenne ansia, il suo infinito stato di dolore, il suo conflitto senza soluzione di continuità.

Sfiorandole il viso con una mano, il dio Ctonio penetrò in lei con gentilezza, fuoriuscendone però sorpreso alcuni attimi dopo, quando disse: «Si sta autoflagellando!»

«Come, oh Sommo?!» esalò sgomento Esculapio.

Annuendo, Érebos aprì per il dio della medicina una finestra sulla mente di Astrea e, turbato, aggiunse: «Non desidera la morte, come tu forse temevi. Lei vuole soffrire. Agogna a prendere su di sé tutto il dolore delle genti perché pensa di meritarlo

«Ma perché? Cosa mai può pensare di aver fatto?» ansimò turbato Esculapio, scrutando ansioso il dio Ctonio.

«Come Giustizia, pensa di aver fallito nel proprio compito, forse non rendendosi conto che, da molti secoli ormai, la mente umana non ascolta più i nostri sussurri, né accetta i nostri consigli… se non quelli votati al male» sospirò Érebos, scuotendo mesto il capo.

«Quindi, cosa le accadrà, ora?»

Prima ancora di poter proferire parola, Astrea si inarcò verso l’alto come un arco teso e, dalla sua gola riarsa, un urlo disumano spezzò l’immota quiete di quei luoghi, sgomentando entrambi gli dèi.

Subito, Esculapio si avvicinò alla sua paziente per trattenerla dal cadere, ma ella non si rese minimamente conto della sua presenza ed Érebos, sospirando addolorato, esalò: «Non di nuovo…»

Esculapio si preoccupò immediatamente, a quelle parole e, nel rendersi conto del loro reale significato, mormorò turbato: «Questo la distruggerà.»

Astrea si dimenò tra le braccia di Esculapio, strinse le mani al petto come per volersi strappare via il cuore e in un ultimo, disperato tentativo di darsi dolore, svanì a sorpresa dinanzi ai loro occhi.

Esculapio crollò a mani aperte sul letto ormai vuoto, fissando sgomento una polla nera e imperscrutabile che galleggiava sopra le lenzuola al posto del corpo di Astrea.

A sua volta, Érebos fissò confuso quel pozzo di oscurità, esalando: «Cos’hai fatto, Astrea?!»

«Che le è successo?» gracchiò confuso Esculapio, risollevandosi per poi guardare turbato la divinità Ctonia.

«Ha imprigionato il suo corpo all’interno della propria mente… così soffriranno con maggiore intensità sia la carne che l’animo» ansimò il dio Ctonio dopo aver poggiato una mano sulla polla oscura e gorgogliante.

«Non è possibile» scosse il capo il dio della medicina, ancora incredulo.

«Anch’io lo ritenevo impossibile ma, a quanto pare, lei ha trovato la forza necessaria per tentare il mai tentato» sottolineò Érebos, volgendosi poi sorpreso quando udì la porta della stanza aprirsi.

Le due divinità scorsero sull’entrata la figura fiacca di Eos che, nel vederli entrambi accanto a un letto ormai vuoto, si portò le mani al volto per reprimere un grido e gorgogliò: «La mia bambina… che le avete fatto?!»

«Cheta la tua ira, perché è immotivata» iniziò col dire Esculapio, raggiungendo in fretta Eos prima che potesse commettere atti imperdonabili nei confronti di una divinità Ctonia.

Eos, però, si divincolò tra le braccia del dio e gli urlò contro disperata: «Sapevo che stava male, ma non dovevi chiamare il Sommo Érebos senza avvisarmi! Dovevo dirle addio, prima!»

La divinità Ctonia, osservando serafico la lotta della dea, si limitò a rispondere a quell’ingiustificata accusa: «Mai avrei fatto soffrire inutilmente una madre, Eos, né mi sarei permesso di fare qualsiasi cosa alle tue spalle, o a quelle di Astreo. Contieniti, quindi, e ascolta ciò che ho da dirti.»

Eos si ammutolì all’istante, di fronte al volto austero e serio di Érebos e, annuendo debolmente dopo diversi istanti passati a ritrovare l’autocontrollo perduto, mormorò: «Le mie scuse, ma il pensiero di mia figlia ha messo le ali al mio dire.»

Il dio Ctonio assentì più sereno e, nello sfiorare nuovamente la massa oscura che rappresentava l’animo ottenebrato di Astrea, dichiarò: «Tua figlia si è volontariamente chiusa in una prigione di dolore, convinta di essere la causa delle pene degli uomini. Al momento non mi è chiaro come vi sia riuscita, né come possa essere possibile riportare il suo corpo in questo piano astrale, ma non lascerò nulla di intentato, per salvarla.»

Eos annuì a più riprese, le mani artigliate alle braccia di Esculapio - che ancora la tratteneva - e, con le lacrime agli occhi, la dea domandò: «Cosa… cosa devo fare?»

«Posso lasciare aperta una breccia nei suoi pensieri perché sia sempre raggiungibile. Parlatele, state con lei nel suo personale mondo e cercate di ricreare in lei la fiducia persa nei propri mezzi. Credo sia l’unico modo di agire, al momento» dichiarò Érebos, lanciando poi uno sguardo al dio della medicina: «Non le servirà supporto medico, in questo frangente, ma solo psicologico. Cercate di non lasciarla mai sola. Io mi consulterò con Hypnos e gli oneiroi per capire come sia potuta succedere una cosa del genere e poi ti riferirò, oppure manderò direttamente qui i miei figli. Di più, penso non si possa fare, per ora.»

Esculapio assentì grato ed Eos, crollando contro il petto del dio, mormorò affranta: «Ma perché si è voluta addossare le colpe degli altri!?»

Il dio della medicina le carezzò comprensivo il capo biondo mentre la divinità Ctonia, tornando a osservare la polla di oscurità, mormorava sconfortato: «A volte, è difficile scindere se stessi da ciò che il Creato ci ha spinti a essere per millenni. La sua volontà di Giustizia era così forte che, non avendo potuto ottenerla, l’ha spinta a colpevolizzarsi.»

Ciò detto, Érebos si scusò con entrambi per poter raggiungere i suoi figli e, mentre il suo corpo si smaterializzava dal regno dell’inconscio per tornare sulla Terra, si domandò come avrebbe potuto agire per aiutare Astrea.

Mai nella sua esistenza era stato testimone di un simile evento e, pur sapendo quanto potessero essere enormi i doni degli dèi, non si era mai spinto a pensare che potesse accadere un fatto simile.

Quando Esculapio lo aveva chiamato, aveva temuto per la vita di Astrea, già presagendo di dover terminare la sua esistenza, ma quando aveva scorto il suo dolore e la sua pena, si era sentito smarrito e inadeguato.

Quanto doveva sentirsi sola e colpevole, in quel mondo onirico creato da lei stessa per autoflagellarsi in eterno?

Sospirando nel riprendere corporeità nel tempio di Nyx, Érebos si avviò in cerca dei figli e, quando Moros lo incrociò lungo uno dei corridoi, sollevò un sopracciglio con fare interrogativo e domandò: «Sicuro di non volere un passaggio altrove, padre? Non ti ho mai visto così turbato dacché sono nato.»

«Non è il momento di disturbare Chaos. O almeno spero» replicò il dio, dando una pacca sulla spalla al figlio.

Moros allora spallucciò e, nell’allontanarsi, chiosò: «Vedi tu, ma non è male parlare col vecchio, ogni tanto.»

Érebos sorrise a mezzo, nel sentire quel commento vagamente irriverente. Moros, però, era famoso per non avere peli sulla lingua, anche se era sovente assai criptico, nelle sue uscite.

In quel caso, però, non v’era alcun intento di esporre dei Misteri. Era soltanto il commento ironico di un ragazzo rivolto al proprio padre.

Il punto era un altro; l’intervento di Chaos si sarebbe reso necessario, o sarebbe bastato l’aiuto di Hypnos e degli oneiroi?

***

Hypnos impiegò diversi minuti, prima di rendersi conto della presenza del padre all’interno delle sue stanze emisferiche e, nel volgersi sorpreso a mezzo, esalò: «Padre! Come mai qui?»

Érebos si avvicinò al figlio, impegnato a visionare i pensieri errabondi dei mortali sul suo singolare planisfero luminoso. Ogni mortale perso nei sogni appariva come una pallida luce biancastra, mentre le divinità spiccavano per i loro colori dorati e brillanti.

«Immagino tu sia indaffarato, in questi giorni» esordì il dio, affiancandolo.

Hypnos si accigliò, a quelle parole, indicando un punto in particolare del planisfero, dove le luci erano intermittenti e fievoli. Il Giappone.

«I mortali sono folli. Quegli ordigni hanno creato un autentico putiferio, e ora la gente vaga nel regno dei sogni senza più una meta. Morpheus non riesce a calmarli in alcun modo, mentre Phobetor è sovraccarico di lavoro. Per non parlare di Phantasos! Non hai idea di quante persone sognino quelle maledette bombe sotto forma di mostri striscianti e ululanti!» sbottò Hypnos, ingrandendo con un tocco delle dita il punto incriminato del suo personale globo terrestre.

La divinità Ctonia assentì turbata e domandò: «Avresti qualche minuto da dedicarmi? Abbiamo un problema.»

Hypnos lo fissò pieno di curiosità, domandandosi quale potesse essere il problema che suo padre non era in grado di risolvere da solo. Dacché ricordasse, non era mai capitato che Érebos il Sommo non venisse a capo di un dilemma con le sue sole forze.

«Se posso esserti utile, ben volentieri ti aiuterò. Dimmi pure» assentì Hypnos, ascoltando quindi la dissertazione del padre in merito al caso di Astrea.

Mano a mano che il racconto si dipanava dinanzi a lui, il dio del sonno si sorprese sempre più fino a raggiungere lo stato di assoluta incredulità.

Quando infine Érebos terminò il resoconto di ciò di cui era stato testimone, Hypnos sospirò addolorato, mormorando: «Non oso neppure immaginare il dolore di Eos. Astreo ne è già al corrente?»

«Lo sta informando or ora Esculapio» disse il padre. «Che ne pensi? Credi ci sia qualche possibilità di riportarla indietro?»

«In tutta sincerità, padre, neppure sapevo che un corpo fisico potesse essere risucchiato in un sogno, figurarsi in un incubo» ammise spiacente Hypnos. «Astrea deve avere utilizzato una quantità di energia spaventosa, per rinchiudersi in quella gabbia senza sbarre.»

«E’ quello che temevo» sospirò il dio. «Ho lasciato aperto un varco per renderla raggiungibile ma, ben presto, questo si chiuderà. Non possiedo le tue stesse capacità di controllo, per quel che riguarda il sonno. Pensi di poter rendere permanente quel passaggio, almeno finché non capiamo come aiutarla?»

Hypnos assentì senza problemi. «Sì, questo posso farlo. Per quanto lei sia adirata con se stessa, non può tenermi lontana dal suo sonno, poiché io lo governo. Vi terrò aperto un varco così che possiate raggiungerla, ma davvero non so come si potrà sbrogliare, questa matassa. Non credo esistano precedenti in tal senso.»

Sospirando, Érebos annuì torvo e, con voce che denotava il suo profondo stato di ansia, mormorò: «E’ per questo che vorrei parlare anche con Morpheus e gli altri. Forse, assieme, potremmo essere più incisivi rispetto a una manovra in solitaria.»

«Te li manderò non appena saranno di ritorno» gli promise Hypnos, con un cenno del capo. «Certo che questa cosa proprio non ci voleva, ora come ora.»

«Che intendi dire?» domandò vagamente sorpreso il padre.

«Morpheus, Phobetor e Phantasos tornano sempre distrutti, in questi giorni. Non so quanto potranno essere efficaci su Astrea, se lei è così decisa ad auto-flagellarsi» sospirò Hypnos, scrollando impotente le spalle.

Érebos annuì sconsolato, tornando con lo sguardo alla planimetria della Terra. Non faticava a comprendere i motivi della stanchezza degli oneiroi; con un mondo così sottosopra e tormentato da tali demoni, era chiaro quanto le menti umane fossero cariche di disperazione e paura.

«Mi aiuteranno per quanto potranno, e se potranno» dichiarò a quel punto la divinità Ctonia, battendo una mano sulla spalla del figlio. «Ti lascio al tuo lavoro.»

«Mi spiace non poter essere maggiormente d’aiuto» sospirò Hypnos.

Érebos, per contro, gli sorrise e replicò: «Mi sei stato d’aiuto, invece. Anche il solo potertene parlare, mi è stato di conforto. Inoltre, mi aiuterai permettendomi di visitare i sogni di Astrea finché ve ne sarà bisogno. Non mi pare poco!»

Hypnos accennò un sorriso e il padre, stringendo maggiormente la mano che ancora era posata sulla spalla del figlio, aggiunse: «Voi mi siete sempre d’aiuto e conforto. Non dimenticatelo mai.»

Ciò detto, se ne andò e Hypnos, lasciato a se stesso il planisfero, si trasmutò nel regno di Esculapio per fare quanto richiesto dal padre. In casi estremi come quello, era meglio agire il prima possibile.

***

Quando Hypnos apparve all’interno dell’enorme clinica di Esculapio, si diresse immediatamente verso il luogo in cui avvertiva la presenza effimera di Astrea.

Era appena percettibile, poco più di un lumicino flebile e indistinto, ma ancora presente.

Affrettando il passo per non doversene pentire in futuro, Hypnos quasi investì Astreo, quando aprì la porta della stanza per catapultarsi in fretta all’interno.

Il titano lo afferrò per le spalle, sostenendolo mentre il dio del sonno si scusava per la sua irruenza.

Eos, da parte sua, sospirò sollevata nel vederlo, e domandò: «Ti manda Érebos?»

Lui assentì e, nell’osservare turbato il profondo buco nero da cui proveniva l’energia latente di Astrea, comprese appieno i motivi della tensione del padre.

Una cosa simile non si era mai vista, né sapeva neppure esattamente cosa potesse essere quello che stava guardando in quel momento.

Ugualmente, sfiorò quell’ombra senza fine e forzò le sue pareti per ottenere un passaggio diretto al suo interno più profondo. Nel farlo, perle cangianti gli si formarono sulla fronte, indice della profonda fatica che quel compito gli stava costando.

Digrignando i denti, Hypnos forzò ancora, borbottando: «Eh, no, Astrea. Ho il diritto di passaggio, credimi, e non ti permetterò di tenermi fuori dalla tua testa.»

Eos si mosse per fermarlo, a quelle parole ma Astreo la bloccò, scuotendo il capo ed Esculapio, rivolgendosi alla dea, disse: «Lascialo fare. Non le sta facendo del male, ma è vitale che il collegamento con lei rimanga aperto, e solo lui può farlo.»

La dea annuì a fatica e, tenendosi accanto al compagno, mormorò: «Non so se posso farcela…»

«Devi. Per lei» sottolineò Astreo, stringendola maggiormente a sé.

Hypnos sogghignò proprio in quell’istante e, vittorioso, dichiarò: «Aaah! Eccoti!»

Ciò detto, un barlume di luce fuoriuscì dal globo nero e senza fondo, da cui Hypnos estrasse una mano ricoperta di graffi ed ecchimosi.

Subito, Esculapio si avvicinò per controllare gli effettivi danni e il dio del sonno, lasciandolo fare, mormorò torvo: «Ora il passaggio non si chiuderà e potrete farle visita, ma prestate attenzione. Al momento, è adirata con me e potrebbe anche ferire qualcun altro. Direi di lasciarle il tempo di sbollire un po’.»

«Cosa ti ha fatto?» domandò turbata Eos.

Hypnos scrutò meditabondo le mani di Esculapio che, con competenza, stavano sistemando una fasciatura intrisa di medicamenti sulle sua pelle contusa e, con una scrollata di spalle, dichiarò: «Lei, nulla… questi sono gli effetti della bomba che rivede nella sua mente. Continua a ripercorrere quei momenti in un loop senza fine, e questi pensieri hanno una loro forza fisica.»

I genitori ne rimasero assai turbati ed Esculapio, con un sospiro, lasciò infine andare la mano del dio del sonno, asserendo: «Dovrebbero guarire nel giro di pochi giorni. Essendo state causate dal potere di una divinità, non si comportando come qualsiasi altra ferita, e sono un po’ lente a rimarginarsi.»

«Lo immaginavo…» annuì Hypnos. «…ma poco importa. Non fa così tanto male. Per ora, posso fare solo questo ma, non appena gli oneiroi torneranno, li manderò qui per una missione esplorativa.»

Entrambi i genitori assentirono alle sue parole e Hypnos, con un cenno a Esculapio, uscì dalla stanza, subito seguito dal dio della medicina.

Una volta soli, il dio del sonno aggiunse torvo: «Mio padre ha fatto bene a non terminare l’esistenza di Astrea perché, a tutti gli effetti, è pericolosa solo per se stessa, ma non offre spunti per pensare che voglia farla finita. Il punto è un altro; questo dolore protratto all’infinito potrebbe, sul momento, starle anche bene per punirsi in merito a colpe che crede sue ma, con il passare del tempo, la cosa potrebbe degenerare. Dovrai fare molta attenzione a cogliere i messaggi subliminali inviati dalla sua mente.»

Esculapio assentì grave, mormorando: «Ammetto senza problemi che è il caso più difficile che mi sia capitato. Le crisi d’identità le posso curare, così come le depressioni, ma questo…»

Hypnos assentì preoccupato, lanciando un’occhiata al battente chiuso della stanza. «Sì, non è per niente facile. Non appena mi raggiungeranno i miei fratelli, parleremo più approfonditamente dei segnali premonitori di un collasso sistemico. Loro sono molto più esperti di me.»

Esculapio annuì al dio e, insieme, ristettero silenti in osservazione della porta che li divideva da Astrea. Nessuno di loro sapeva bene cosa sarebbe successo, da lì in avanti, ma una cosa era certa.

Nulla sarebbe stato facile, d’ora innanzi.

 

 

 

1 Ras Alhague: (α Ophiuchi) è il nome della stella principale della Costellazione dell’Ofiuco. Stando al mito, Zeus tramutò il semidio Esculapio in una costellazione per riparare al fatto di averlo ucciso per futili motivi. Ho pensato di creare un legame tra i due eventi, ed è anche per questo che Esculapio appare solo come entità astrale, sul mondo terreno, e non ha un corpo vero e proprio se non a Ras Alhague.

 

 

 

N.d.A.: Tutto ciò che ho scritto e scriverò in merito agli eventi di Hiroshima e Nagasaki, (tranne ovviamente le interazioni di Astrea e Alekos con i cittadini delle due città) sono fatti realmente accaduti e tratti dal libro "Sopravvissuto alla Bomba Atomica" di Akiko Mikamo.

  
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