Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 20.09.2021
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Capitolo
Tredicesimo, parte prima
Confiteor
(Onora
il Padre …)
“Com’era
egli?
“Lo
ignoro. Cioè, conosco a menadito il suo cursus honorum,
però
di lui come persona … io non ho mai capito chi fosse
…”
“Che
differenza fa? Era comunque tuo padre, non ti bastava?”
Già.
Chi era
Padre?
Quante
volte dopo la sua morte Hironimo se l’era chiesto,
meditando se veramente avesse conosciuto l’uomo in
padre o
solo uno dei tanti ruoli da lui ricoperto.
Sempre
gli era stato dipinto come uomo energico e dinamico, capace
di passare con disinvoltura dal comando di una galea a quello di una
città, dai
tribunali ai fonteghi, dal dibattito nelle assemblee di Palazzo Ducale
alla
dura vita di un accampamento.
Chi era
però sul serio Padre? Il capitano, il podestà, il
mercante, il massaro della Zecca, il camerlengo, l’avvocato,
il giudice o il senatore?
Quindici
anni erano trascorsi dall’atroce giorno in cui Hironimo
aveva riconosciuto il cadavere penzolante del genitore su quella scala
a
Rialto; quindici anni in cui egli aveva cercato sia di fuggire la sua
ombra che
d’aggrapparsi disperato ad essa.
Chi
eri per me, Padre?
I ricordi
più recenti l’amareggiavano, riportandolo agli
sguardi
delusi del genitore dinanzi agli scarsi risultati scolastici; alle
scudisciate
sul sedere per ogni singola marachella o disobbedienza; alla fredda
formalità
dei loro dialoghi e i severi monologhi, durante le esecuzioni in
Piazzetta tra
S. Todero e S. Marco, sulla Santa Trinità veneziana ovver:
Dio, la Legge e lo
Stato. Punizioni e divieti ogni santissimo giorno che Domine Iddio
metteva in
terra condito da quel “briccone” insopportabile -
no a questo, no a quello; stai
dritto e non gobbo; smettila di piangere; parla schietto e non
tartagliare;
lascia perdere le tue cugine; i tuoi cuginetti non sono piavoli
(bambolotti,
ndr.) con cui giocare; non mentire; non rubare i bussolai dalla cucina;
non
parlare se prima non ti s’interpella; non voglio gatti o cani
in letto; non
rispondere sgarbato; obbedisci ai tuoi anziani, e bla, e bla, e
blablabla …
Costui
era stato Padre negli ultimi anni, quando Hironimo aveva
incominciato a rispondere: Perché? ad
ogni ordine, ad ogni
ipse dixit, ad ogni cosa che non capiva e che desiderava che Padre
gliela
spiegasse, giacché il suo cervello di fantolino credeva
fermamente in una sua
onniscienza e infallibilità alla pari del Padre nei Cieli.
Perché
devo darti del “voi”, signor Padre?
Perché
così ci si rivolge tra patrizi e soprattutto ai tuoi
genitori.
Perché?
Perché
così stanno le cose.
Perché?
Perché
vuoi forse parlare come il popolino?
E
perché allora voi mi date del “tu”?
Perché,
si chiedeva l’allora Momolo, Padre doveva sempre andar via
da Ca’ Miani, anche quando non lo trattenevano più
gli affari di Palazzo?
Perché non poteva seguirlo?
Perché
quando lo vedeva con Madre, Momolo percepiva una fitta
acuta, un grandissimo astio nei suoi confronti - voi
lasciate sempre
sola Madre durante il giorno; io le faccio compagnia in vostra assenza;
voi non
avete alcun diritto di starle accanto, lei è mia! Mia! Mia!
Perché, Padre,
talvolta neppure voglio il Luchin, Carlino e Marchetto vicino a lei?
Gliel’aveva
letta negli occhi, codest’ostilità? Oppure egli
avevo
scorto la sua quando s’intrufolava spaventato in letto di
Madre, lamentando un
incubo e scalzando il genitore da esso, oppure quando in altana Momolo
le
sedeva davanti mentre lei merlettava a mazzette e Padre non si poteva
avvicinare per imbastire quei discorsi, che solo tra marito e moglie
dovevano
stare?
Quando
incominciarono ad essere gelosi l’un dell’altro?
Momolo per
Madre veniva sempre prima, anche del consorte. D’altronde,
non le aveva Padre
sottratto i maggiori per avviarli gradualmente alla vita pubblica?
Dunque, le
lasciasse il minore, ancora suo.
O
…
O quando
fu Momolo ad incominciare a preoccuparlo? Come il Missier
Grando, Padre quando si trattava di lui sembrava possedere occhi e
orecchie
ovunque, beccandolo puntualmente in castagna, colpevolissimo.
Me
lo fate crescere storto,
questo rimproverava Padre spesso a
Madre. Perché Momolo frignava per un nonnulla, diceva; si
fidava di chiunque,
scorgeva bontà dove non esisteva e solo ora Hironimo capiva
come mai l’avesse
riempito di ceffoni, quando aveva scoperto, di ritorno da scuola, la
focaccina
alla cannella regalatagli dal pasticcere dietro promessa di ritornarvi
più
spesso [1].
“Chi
te l’ha data? Chi? Perdio, parla! Chi t’ha dato
questa
focaccina?”
“Non
lo so, sior Pare, non lo so!”
“Anzolo,
per l’amor di Dio, smettetela di scuoterlo così,
lo
spaventate!”
“Non
t’ho insegnato niente? An, stupido? Quante volte
t’ho
ripetuto, che non si parla, né si accetta niente da
chicchessia se non dalla
tua famiglia? Ma a chi parlo, io? Al muro? E smettila di piangere, no
sta far
la pittima, e dimmi chi è stato a regalarti quella focaccina
o quant’è vero
Iddio ti rinchiudo nello sgabuzzino del fontego per tutta la
notte!”
“Stavo
rincasando da scuola, non mi ricordo dove stesse …”
“E
non hai aspettato Menego? O Baldissera? Ma ascolti o fai finta?
Tu hai d’aspettarli a scuola, cosa stava pensando quel tuo
cervello da gallina?
Lo sai, testa di rapa, cosa fanno ai bambini che se ne vanno in giro a
zonzo da
soli e che danno confidenza a chi non devono? An? Lo sai, oco
bauco?”
Storto
perché Momolo al competitivo e aggressivo mondo dei
“veri
uomini” preferiva il locus amenus in cui Madre era
Imperatrice e Padre era
l’Ospite, pieno di luce calda, di colori morbidi come le tele
del Zorzon. Il
suo pomeriggio ideale consisteva nel stare sull’altana
assieme a Madre,
Crestina, Eudokia, Zanetta e Orsolina e a madona
Maria
Foscarini Miani, spingendo il girello di Dionora o Agustin o Marco
Antonio, le
orecchie piene del loro cicaleggio. Grande festa poi quando veniva sua
zia,
l’amia Morexina con i cuginetti, allora si preparavano i
biscotti, il panunto
col lattemelle e frutta di stagione e Momolo giocava con loro,
specialmente con
Maria Morexini la quale gli mostrava orgogliosa le sue bambole, vestite
alla
milanese, alla fiorentina, alla fiamminga e una perfino alla turca. Gli
piaceva
un po’ meno, ecco, quando l’altre cugine - Anzol, Magdalena e
Querina Morexini - lo
costringevano o a perdere a carte o peggio ancora a scegliere chi tra
le due
possedesse le bambole più belle – domanda
trabocchetto, giacché avrebbe
ottenuto il broncio perpetuo di una o dell’altra e i
conseguenti dispetti; in
quel frangente, Momolo pigliava per mano il suo cuginetto Carlo e in
fuga
strategica e si rifugiavano dietro a Madre.
Dopo la
morte di Padre, Hironimo si comportò in maniera
diametralmente opposta, disprezzando ogni mollezza e atteggiamento
sensibile e
compassionevole quasi si fosse convito che ad uccidere il genitore, al
posto
della corda, fosse stato il suo rifiuto del mondo, per vivere nel suo,
di
mondo. Ciononostante, quando molto alterato, il suo spirito
s’acquietava di
nuovo accanto a Madre o all’Orsolina, tenendole i fili di
lana quando
sferruzzava berrette ai ferri.
“Sior
Pare?”
“Dimmi.”
“Ho
scoperto, che il mastro tessitore è un uomo.”
“Sì
ben, e dunque?”
“Dunque,
visto che non è solo negozio da femmine, posso imparare
senza che voi mi rimproveriate.”
“Davvero?
E perché vuoi apprendere a lavorare la lana?”
“Primo,
perché se dovrò aiutare i miei fratelli a
valutare i panni
di lana prodotti nelle filande, come faccio a sapere se ci stanno
imbrogliando,
rifilandoci tessuti di seconda qualità, se non conosco il
loro mestiere?
Oppure, come posso pagarli adeguatamente se non so la fatica dietro?
Terzo,
perché quando l’Orsolina mi confeziona una bereta,
sono contento. Vorrei anche
io far contente le persone e imparare qualcosa che porti a creare
invece di
distruggere. Sior Pare, è sbagliato?”
“No,
Momolo, non è affatto sbagliato.”
Chi era
Padre? Il nemico.
Chi era
Padre? Il difensore.
Chi era
Padre? Atlante con l’ingrato peso dell’esser
genitore.
Eppure,
non era sempre stato così. La sfortuna volle che padre e
figlio si separassero in cattivi termini, tra contrasti e
incomprensioni, però
Hironimo dal più profondo dell’anima credeva con
ostinato ardore che esistette
un tempo in cui egli per lui fu il suo Momolo, un tempo in cui, mentre
Padre
compilava questo o quel rapporto o controllava i conti, sulle sue
ginocchia
egli si sentiva invincibile, un re.
E gli
confidava i suoi pensieri senza paventare rimbrotti o
sminuimenti.
Con
questa missione, il preservamento della memoria di Padre e la
ricostruzione del mosaico che fu Anzolo Miani, Hironimo nel corso degli
anni
aveva raccolto con certosina scrupolosità ogni indizio sulla
vita del genitore,
letto e collezionato ogni cartiglio, interrogato ogni persona che
l’aveva
conosciuto, in cerca di tracciare un disegno definito e rispondere
all’annosa
domanda: chi era mio Padre?
Di
nascosto dai famigliari, da Madre istessa, sotto il suo letto a
cassettoni a San Vidal egli celava una cartella di marocchino rosso con
dentro
il frutto delle sue ricerche, da Hironimo consultata in quei giorni in
cui
invero si sentiva una nave senza nocchiero in gran tempesta.
***
(lettera
del N.H. Anzolo Miani di
Lucha a suo fratello maggiore il N.H. Marco Miani, Rettore di Sciro, 1464)
Carissimo
amico e fratello, compagno fedele e confidente,
mi
conforta apprendere come il viaggio da Negroponte a Schiro si
sia concluso felicemente, senza ritardi né intoppi e un poco
confesso invidiarvi
i caldi raggi del sole di cui sicuramente starete godendo. Approfittate
dunque
della buona aria e del clima favorevole, che vi possa giovare ai
polmoni,
avendomi la siora nostra Maregna riferito quanto ancora voi soffriate
di
sporadici attacchi di tosse. Vi rammento di portarle, al vostro
ritorno, di
quel salutare olio di iperico ivi prodotto: ella lo gradirà
e i suoi nervi con
lei e non assorderà più la povera Orsolina.
Vi
scongiuro di riguardarvi: anche se quest’anno potremo raderci
la barba, il lutto della morte del nostro dolcissimo fratello Vorzilio
corrisponderà per me ad una piaga ognora aperta e il sapervi
distante da casa e
per di più ammalato mi angoscia. Non strapazzatevi;
nutritevi adeguatamente,
dormite le giuste ore e pur praticando svaghi all’aria
aperta, non in eccesso
da mancarvi il fiato.
Quanto
al resto della nostra famiglia, le cose stanno così: il
nostro sior Pare ancora risiede a Pola, totalmente assorbito dal suo
nuovo
incarico di Provveditore della legna dell’Istria e della
Dalmatia; le lettere
scritteci dalla siora Maregna confermano la sua salute, le solite noie
e disagi
legati al ruolo, qualche novità locale e basta. Suppongo
quindi portarsi bene,
ché niente nuove buone nuove. Il sior barba
Nicolò ugualmente poco lo si vede,
si direbbe dormir quasi a Palazzo e rimprovera spesso nostro cugino
Thomà di
non imitarne lo zelo lavorativo, trascorrendo troppo tempo ai fonteghi
come se
si trattasse d’un gran crimine l’aiutarmi. Inoltre,
la moglie del nostro
germano aspetta un altro figlio, naturale voglia restarle un poco
più accanto e
dopo la Marietta egli spera ricever da lei un maschio. Il sior barba
Hironimo
si dileggia nelle ore morte o nello studio a legger di filosofia e
teologia o
in chiesa a San Vidal, al Monastier di la Caritae e dagli Agostiniani
di Santo
Stephano. Ultimamente mi reco con lui da quest’ultimi,
rafforzando il mio
latino e, avessi figli, già ho deciso a quali tutori
affidarli ché i
Domenicani, vi confesso, m’incutono un certo timore. Nostra
nipote Marietta e
nostro cugino Nane-Chéco crescono sani, di eccellente
costituzione e appetito e
assai rumorosi ma temo un poco per quest’ultimo, essendo il
sior barba Hironimo
d’età più nonno che padre, non vorrei
lo viziasse troppo; per il momento
Nane-Chéco resta in cuna e in custodia della siora amia
Maria e come crescerà,
si vedrà.
Per
me, colmo il vuoto della vostra assenza tra i fonteghi, le
visite alle filande e i libri di diritto, ché non
mancherà la mia occasione di
servire concretamente la Signoria, oltre in galea, e voi ben sapete
quanto
m’irriti trovarmi impreparato in qualsiasi compito affidatomi.
Item,
sto seguendo molto da vicino i nostri ordini di lana inglese
– lo spazio di galea acquistato ci garantisce un buon carico;
stendendo il
contratto con sier Zuane Foschari, mi chiese questi se avessi voluto
rivenderla
a Tunisi e /o a Siracusa – contro l’opinione di
Padre ho rifiutato poiché
lavorando in loco detta lana nelle filande otterremo maggior introiti,
senza
contare che il Foschari pur sarà uomo d’onore, ma
in galea la legge è lui e non
posso controllare i noli addebitatimi. Padre ed io abbiamo navigato e
commerciato a sufficienza da riconoscere immediatamente i metodi dei
contrabbandieri - tra le righe ciò ho
fatto intendere a sier
Foschari: non s’atteggi da furbo con me. [2]
Al
momento, dopo essersi trattenuti due mesi a Londra e passata la
fiera di Vintona, la Foschara di sier Zuane Foschari e la Malipiera e
la
Squercia del vicecapitano sier Stephano Malipiero si trovano ad Antona
e lì
finalmente avremo il nostro cargo. Aspetto novembre con impazienza,
quando
rimpatrieranno a Veniexia.
Conosco
bene i vostri scetticismi riguardo quest’insolito
investimento, ma credetemi che contrariamente a molti altezzosi la lana
inglese
la considero invece d’eccellente qualità e
testura, resistente e di prezzo
economico pur aggiungendo i costi di viaggio e ciò
giustifica i miei sforzi ed
ansie - il vostro prestito è ben
garantito. Vi ricordate il panno
acquistato per curiosità dall’ultima spedizione di
Fiandre? Teneva talmente
caldo da poter vestir estivamente sotto, impermeabile tutt’al
più. Senza
contare che anche a Florenza e a Millan la usano per confezionare panni
d’eccelsa qualità, sicché garanzia
assicurata.
Il
N.H. Priuli residente fisso ad Antona – cui mi sono
raccomandato, anticipando il Foschari e anche il Malipiero - mi
spiegava che di
lana in Ingaltera ne producono in sovrabbondanza, ma non son capaci di
lavorarla appropriatamente, cioè non con la maestria dei
tessitori e tintori italiani
sicché ad Antona hanno costruito una “Casa della
Lana” apposta per venderla a
noi e agli altri mercanti stranieri - Aragonesi, Fiamminghi, Anseatici
e
qualche Scandinavo. Di Genovesi e Napoletani sempre di meno
- mi riferiva
il N.H. Priuli le lamentele di un grossista alla Casa - colpa
della guerra
tra Eboracensi e Lancastrensi e degli stolti che essa mai uccide. Meno
male che
la Signoria vostra è tenace e non si è lasciata
intimorire - dice costui -
da quattro scalzacani che pensano di campare mangiando aria. Si
riferisce
quest’inglese ai saccheggi delle case dei Lombardi a Londra e
delle furberie di
Zuanne Peine, fu sindaco di Antona. Per nostra fortuna, il nuovo Re
eboracense
è molto ansioso di ristabilire i commerci con la Signoria
nostra e fa il tutto
per riportare l’ordine e punire i sudditi ribelli, che non ci
molestino né ci
impongano noli al di là di quelli
convenuti.
Parrebbe,
dunque, fratello carissimo, che questa mia idea di
tentare la sorte in Ingaltera possa dare i suoi frutti: il cargo
soddisferà le
nostre esigenze e potrebbe essere l’anno della ventura.
Vi
scriverò quanto prima e prego la Madonna che sempre stenda
su
di voi il Suo manto materno,
Vostro
fratello Anzolo
Item.
Giuntami nuova, dai consoli nostri a Londra il N.H. Priuli
ha appreso e mi riferisce come detto Re sia maldisposto nei confronti
del Conte
Varvici, ché questi gli vuol imporre moglie francese quando
lui la vuol
borgognona; pur il Conte ha già accarezzato il Roy di
Francia o per la sua
figliola madona Anna o per la sorella della Reyna, madona Bona di
Savoia. Si
vocifera però che il Re tutto è preso
d’amore per una nobildonna della fazione
sconfitta, madama Yxabela Greia, la quale è vedova con due
figlioli, e di come
sia il Conte che il Consiglio Privato non favoriscano tale unione, se
la pigli
il Re come amante ma come Reyna eia non digna est. Item, il N.H Priuli
teme
come il Conte, se ulteriormente infastidito, potrebbe anche disertare
il Re per
servire il rivale sconfitto e sarebbe grande disgrazia per
l’attuale Re e per
noi, di nuovo privati di un mercato tanto profittevole come quello
inglese,
dovesse la Signoria giudicare nuovamente Antona porto pericoloso per le
nostre
galee.
Novembre
però arriverà presto e per allora saremo a
posto. [3]
“In
certi periodi, in casa lo si vedeva o poco niente, specie
negli anni della guerra contro Frara. Ciononostante, la sua presenza la
percepivi eccome. S’informava spesso di noi, la siora Mare
gli scriveva lunghe
e dettagliate lettere; tant’è vero che,
rincasando, quando conversavamo e mi
chiedeva dei miei progressi nelle letture e nel ricamo, mi sembrava che
Padre
non fosse mai partito”, gli
confidò Crestina un pomeriggio.
Momolo
era venuto a salutare lei e i nipoti Dionora e Gasparo
prima della partenza per Treviso, dove Lucha si sarebbe diretto in
virtù di
camerlengo e non avendo egli ancora famiglia propria, Madre
aveva suggerito a
Momolo e a Marco d’accompagnarlo così da familiarizzarsi coi
futuri incarichi che
l’attendevano. Avrebbero viaggiato da soli, Madre doveva
seguire la
distribuzione e la catalogazione delle merci nei fonteghi e Momolo di
conseguenza stava sguazzando nell’angoscia, mai veramente
separato dalla
genitrice fino a quel momento e, non sapendo dove sbattere la testa,
s’era
rintanato a casa della sorellastra, l’unica a non rifilargli
il solito
ritornello del “non adesso”, “non ho
tempo”. Persino il barba Batista, sempre
disponibile, da quando l’avevano eletto Savio di Terraferma
pareva la laguna
averlo inghiottito.
Ignorava
gli esatti come, dove e perché, però ad un tratto
i due
avevano incominciato a discorrere di Padre: il sole piacevole li aveva
condotti
sull’altana del palazzo, dove Crestina prediligeva cucire ed
insegnare tale
arte alla figlia Leonora detta Dionora e, forse a seguito delle
lagnanze della
sua sorellastra circa le assenze del marito Thomà, ecco che
lei aveva correlato
i due uomini e Momolo ne aveva approfittato infido per interrogare
avidamente
la donna, Gasparo sulle sue ginocchia intento a mangiucchiare un
piavolo di
pezza.
(lettera
indirizzata dalla N.D.
Leonora Morexini Miani a suo marito Capitano di Galee della Marca e
dell’Istria, il N.H. Anzolo Miani, 1482)
[…]
La Tina mi scrive dal convento come le suore la stiano
impegnando in pie opere di carità, la quale ella offre a Dio
onde gli piaccia
di preservarvi dai pericoli della guerra. Mi manca molto il suo
chiacchierio e
le giornate trascorse lietamente in
giochi, quant’è strano visitarla in
parlatorio! Approverete di sicuro la scelta del convento: le suore non
seguono
una regola né troppo severa né troppo lasca, anzi
paiono dimostrare grande
benevolenza verso i talenti della Tina e le insegnano con zelo le
virtù della
matrona cristiana, invece di nutrire invidia come solgono spesso
indulgere
coloro che si monacano per costrizione […] Ogni giorno
Luchin e Carlino
recitano per la salute di V.S. delle deliziose Ave Maria e con molto
fervore
pregano Missier Sen Bastian che vi protegga dalle febbri malariche. Il
Luchin
v’allega qua la sua prima letterina […]
Marc’Tonin sempre chiede di voi e il
Marchetto sta imparando a camminare col girello e non sta mai fermo
[…] Giunta
ci è la nuova della presa di Comacchio da parte di V.S. e
ben siamo orgogliosi
di voi […]
(lettera
indirizzata dalla N.D.
Leonora Morexini Miani a suo marito Capitano di Galee della Marca e
dell’Istria, il N.H. Anzolo Miani, 1483)
[…]
comprendo la vostra penna esser legata da segretezza assoluta,
spero che voi e le vostre fuste restiate saldi e al sicuro per tutta la
durata
di quest’impresa. I vostri figlioli pregano assai il Signore
per il vostro
ritorno e ogni giorno Luchin e Carlino m’accompagnano per le
opere di carità.
Altro non si può fare, vige una gran confusione per via
della scomunica, pur la
Signoria è implacabile col clero veneziano: scelgano la loro
lealtà, se
Veniexia o Roma. Più a riguardo non vi so dire, la nostra
anima è in pace col
Signore Il Quale vede ogni cosa, anche le doppiezze dei suoi ambiziosi
servi
che, come il primo che sedette a Roma, Lo rinnegano in terra ignorando
come Egli
li rinnegherà in Cielo. La Tina vi saluta e vi mando, tra
gli oggetti da voi
richiestimi, un fazzoletto da lei cucito. I piccini mi chiedono di
scrivervi di
ogni dettaglio delle loro giornate; pregano per
l’incolumità vostra e delle
vostre galee e altre cinguettii che voi ben conoscete esser tipici
dell’età
loro.
“Com’era
Padre con te?”
“Molto
affettuoso, attento ad ogni mia necessità e pur non capendo
di ricamo, conscio però quanto in esso mi dilettassi, mi
portava in Merceria e
lì mi diceva: compra tutto ciò
che t’aggrada! Credeva che non
me ne rendessi conto, quando mi contemplava triste, forse gli ricordavo
mia
madre o forse l’avvicinarsi del tempo della
separazione”, disse la nobildonna,
intorcolando con arte le mazzette in un’agile danza ipnotica.
Ridacchiò:
“Talvolta Padre me lo ricordo anche un po’
impacciato con me, come ogni uomo
che non concilia più la sua bambina con la donna adulta che
diviene”, e
all’insistenze di Momolo di fornirgli maggiori dettagli ella
negò col capo, non
potendogli descrivere senza violare un segreto esclusivamente
femminile. “Era
gelosissimo e sospettoso di Thomà, gli aizzò
dietro i miei barba Antonio e Sebastian,
no sastu?”
(lettera
indirizzata al N.H. Antonio
Trum q. sier Stae dal Provveditore del Polesine di Rovigo, il N.H. Anzolo
Miani q.
sier Lucha, 1488)
Carissimo
amico, fratello mio,
ho
accolto con sollievo la pronta guarigione di vostro fratello
Sebastian; vi prego d’aggiungere i miei saluti e complimenti
al vostro germano
Lucha, che mi dicono distinguersi a Palazzo, in questo si
può ben vantare
d’assomigliare al quondam vostro Serenissimo barba
Nicolò […] Come vi scrissi,
il ponte di pietra – “del Sale”
– è completato, ad uso ed ornamento della
città; simile, il nuovo Palazzo Pretorio si
finirà presto cosicché la Fiera del
17 agosto possa suscitar ancor più entusiasmi e introiti per
la città e Ruigo
ne ha assai bisogno […] Tra le altre cose, fratello
carissimo, se non
v’incomoda troppo, un unico favore vi chiederei
poiché il mio ufficio mi vieta
d’assentarmi qua dal Polexine. Vorrei se per cortesia voi
v’informaste con
tatto e discrezione su Thomà figlio del fu sier
Thomà da Molin “Murlon” da la
Madalena. Poiché costui ben persiste nel suo proposito di
maritarsi con mia
figlia, io ho da sapere chi egli sia realmente, delle sue occupazioni
civili e
frequentazioni private, quale sia insomma il suo vero animo nei
confronti della
mia Tina. Nulla quaestio sulla sua famiglia – la conosco
bene, solido credito,
grandi elemosinieri, di buone qualità, molto cattolici e suo
nonno, sier
Francesco, un vero galantuomo – ma di questo Thomà
niente. Capirete, fratello
carissimo, che maritare una figlia non è come ammogliare un
figlio; una nuora
la si può raddrizzare, se falla verso il marito. Ma un
genero? Mia figlia da
sposata non m’apparterrà più, se il
marito dovesse rivelarsi una bestia solo
tramite la Quarantia potrei riaverla indietro e in quali condizioni?
Per amore
della vostra nipote e fiozza e per l’amore che portavamo per
la defunta
Andriana, vi prego d’aiutarmi a proteggere questa nostra
perla, ché darla ad un
indegno ci rende ad egli uguali e Dio non ci fa uomini né la
legge ci
conferisce i poteri e le libertà degli uomini, onde
permettere che una donna
venga strapazzata, men che meno se sangue del nostro sangue.
“Tu molto probabilmente non te lo ricordi, avevi tre
anni appena.
Al termine della festa nuziale, quando venne il momento di congedarmi
da Padre
per seguire mio marito in casa sua, ecco, m’inginocchiai come
conveniva e,
afferrategli ambedue le mani, gli dissi: Padre, voi
sapete quanto vi
ami e vi rispetti, dell’immensa gratitudine ch’io
nutro per voi per avermi
messa al mondo, cresciuta ed educata, facendomi buona veneziana e buona
cristiana. Padre mio, se v’ho offeso, se v’ho
deluso, se mi son comportata indegnamente
verso di voi, vi scongiuro, in nome di Dio e della Beata Sempre Vergine
Maria,
di perdonarmi ogni mancanza nei vostri confronti e di benedirmi in
questa nuova
parte della mia vita.” Ci crederai,
Momolo, che dovetti aspettare un
bel po’ prima della sua benedizione, giacché Padre
aveva un tal groppone in
gola, da non riuscir a parlare?”
Momolo
stentava, invece, immaginandosi il genitore di marmo come
le statue degli dei, dei generali romani e degli eroi greci.
“E
quando nacque Dionora … Ah! Padre per poco non
inciampò sulla
toga al suo rientro da Nepanto, tanto era ansioso di vederla e d’assicurarsi
ch’io stessi bene …”
Sì,
quello Momolo se lo ricordava, così come la fitta di gelosia
che gli aveva trapassato il suo cuoricino di seienne alla vista di
Padre
sorridere tutto orgoglioso sulla culla di Dionora. Traditore,
avrebbe voluto rimproverargli il bambino, manco più
mi badi? E per cosa? Per
questo macaco spelato?
E
naturalmente il biscugino Zuan Francesco doveva pure lui mettersi a procreare e
di fatti due anni dopo
nasceva il piccolo Agustin e a Momolo venne una crisi di pianto,
quando, non
capendo la differenza tra padre e padrino, credette che Padre per
davvero non
ne volesse più sapere di lui e su
quest’inquietudine a Carlino il Turco non
parve vero di soffiarci sopra, confidandogli come Padre avesse avuto
intenzione
di venderlo ai Genovesi alla stregua di una scimmia.
“Madre!
Padre non mi vuole più bene! Mi vuol vendere ai Genovesi!
Non sono una scimmia!”
“Ma
no, Momolin, che dici?”
“E
allora, perché sta sempre dietro a loro e a me niente? Odio
lui, odio quei ladri ramarri dei miei nipoti e cugini! E se
… e se vendesse
loro ai Genovesi?”
Non li
odiava, tutt’altro; Momolo scoprì man mano che le
numerose
sue amie (zie, ndr.) o cugine ne scodellavano uno all’anno,
che i bambini gli
piacevano, almeno dopo che la balia li aveva ripuliti e fasciati. A tal
punto
si divertiva a giocare con loro che s’azzardò un
giorno durante la pennichella
del dopopranzo estivo ad imitare la balia. Non visto, Momolo era
entrato nella
stanzetta dove il neonato Agustin dormiva ignaro ed estrattolo dalla
culla,
s’era slacciato prima i lacci del farsetto e poi della
camicia giudicando per
il rasoio di Occam che se Stin poppava dalla tetina della balia, poteva
benissimo
riuscirci dalla sua e che altrimenti ce l’aveva a fare?
Se a
Momolo codesto mistero dell’anatomia sfuggiva, al fantolino
no di certo, anzi, riconoscendosi gabbato da quella falsa promessa di
pappa,
strillò talmente forte il suo sdegno da svegliare
l’intera Ca’ Miani e sfortuna
decretò che il primo a giungere sul luogo del misfatto fosse
appunto Padre.
Per la
prima volta in vita sua, Momolo ebbe di lui una paura
fottuta.
“Beata
te, con me si comportava da tartaro!”, bofonchiò
il
quindicenne Momolo, giocherellando con i ciuffi morbidi di Gasparo.
“Sempre una
critica, sempre una predica da rifilarmi … Non riuscivo mai
a compiacerlo! A
volte mi chiedo, se fosse mai stato felice della mia nascita
…”
(lettera
indirizzata al N.H. Batista
Morexini da sua sorella N.D. Leonora Morexini Miani, da Feltre, luglio
1486)
Carissimo
e generoso fratello,
Cento,
mille baci alla mia nipotina, la bellissima Maria e le mie
felicitazioni alla dolce mia sorella Morexina vostra moglie
[…] Dalla vostra
lettera comprendo come la piccina v’abbia rubato il cuore
– è giusto, qualcuno
dovete pur viziare […] Quanto alla nostra famigliola,
godiamo tutti di buona
salute e della protezione della Vergine Dolcissima, tranne la siora
nostra Mare
che si lamenta del clima feltrino, a lei insopportabile: malgrado il
Palazzo
Pretorio ci offra le adeguate comodità, Feltre si presenta
talmente fredda che
pure in estate sembra d’esser in primavera e la sera si sta
bene con uno
zendale di cotone pesante […] Riguardo alle mie condizioni,
non v’angustiate:
voglia la Madonna, quest’autunno c’arricchiremo
d’un puttino o d’una puttina. Il
mio sior marido e la siora nostra Mare mi tengono avvolta in seta e
piume; in
particolare il mio illustrissimo consorte neanche quando rimasi grossa
del
Luchin mi trattò con tale premura, pare faccia a gara per
indovinare ogni mio
desiderio e ogni sera prima di coricarci mi bacia le mani,
benedicendomi per la
gioia che gli sto regalando. D’altro canto, però,
è anche tutto un’agitazione –
credo per via della mia età - talvolta mi piglia una gran
voglia di scuoterlo e
intimargli di calmarsi, che il fantolino lo debbo fare io e non lui,
che ho sì trenta e quattro
anni ma non son vecchia e decrepita e che se proprio mi vuol aiutare,
compia il
dover suo di Podestà e riappacifichi una buona volta questi
Feltrini, che a
seguito della peste altro non pensano di ringraziare Dio, San Vetor e
Santa
Corona d’esser sopravvissuti se non scannandosi a vicenda in
tristi e
sanguinose contese […] Oggi poi
parlerò con Mastro Isepo e suo
figlio Vetor, falegnami, per la questione della culla […]
Crestina
gli afferrò la mano, costringendolo a guardarla negli
occhi, i medesimi di Padre, grigi come il mare d’inverno.
“Mathuzhèlo
(stupidotto, ndr.) mio! Padre ti voleva molto, molto bene, ma lui non
era
Madre.”
“Che
significa?”, inquisì intrigato
l’adolescente.
“Un
padre deve badare all'educazione ed al mantenimento dei suoi
figli, prezioso pegno di continuità, e sovraintendere alla
loro riuscita in
società; alla madre vanno lasciati i sentimenti e la
partecipazione affettiva.”
Momolo
storse la bocca, affatto d’accordo. “Che
jotonia!”, grugnì
scettico.
“Così
va il mondo.”
“E
chi l’ha deciso?”
Crestina
sospirò, conscia che quando il fratellastro partiva col
piede polemico, la conversazione correva al litigio.
“Io”,
dichiarò solenne il quindicenne, “quando
avrò figli, li
educherò come un padre e allo stesso tempo li
amerò come una madre! E a chi
m’intralcia o mi critica, gli caccio la testa dentro un
gàtolo [4] e poi
vedremo, se il mondo lo giudicherà ancora strano!”
La
trentenne nobildonna scosse il capo, bonaria, lasciandolo
blaterare al vento.
[lettera
indirizzata al N.H. Antonio
Trum q. sier Stae dal N.H. Anzolo Miani q. sier Lucha, dicembre]
Carissimo
amico e fratello,
prego
Iddio, i Missieri Sen Bastian e Sen Rocho e la loro
protezione su di voi e la vostra famiglia. Mi perdonerete gli sghembi
scarabocchi, gettati in pressa e senza forza di controllare quanto e
come
scrivo. Dopo settimane di strenua lotta, il morbo è infine
riuscito stanotte a
rubarsi via il nostro piccolo Marco Antonio. “Sior
Pare”, mi chiedeva in un
sussurro, “sono stato abbastanza buono per il
Paradiso?” E mentre pregavamo, la
sua manina, ch’io stringevo, perse ad ogni parola di vigore,
finché non divenne
lassa e fredda ed io seppi che d’ora in avanti Marco Antonio
avrebbe seduto
sulle ginocchia della Madre di Dio. Volesse Egli per questi attimi
avermi
creato donna! Potrei piangere senza pudore alcuno assieme alla mia
povera e
infelice consorte, strapparmi i capelli e urlare al Cielo
l’ingiustizia di ciò,
che non posso né voglio accettare malgrado la gran moria di
gente che ci ha
circondato e che credevamo per sempre finita . Non è mai ovvio, né naturale per un
padre seppellire un figlio!
Ancora potei reggere lo strazio della perdita dei miei due fratelli
– scesi
nella tomba giovani e in forze – ma di un fanciullo
sì tenero? Di un figlio? Marco
Antonio era così buono, così innocente, se invero
è un castigo divino perché il morbo non si porta via chi se lo merita? Potrei compilare per giorni
liste piene
zeppe d’indegni … Perdonate! Perdonate! Perdonate
se v’affliggo, con qualcuno
avevo bisogno di sfogarmi, non oso oberare la povera mia siora mojer
d’ulteriori pene, ma questa lama in petto
m’assassina. Almeno, unica mia
consolazione, sono riuscito a rimpatriare da Barutto in tempo per
abbracciare
il mio puttino un’ultima volta.
(lettera
indirizzata al N.H. Antonio
Trum q. sier Stai dal Podestà e Capitano di Feltre, il N.H.
Anzolo Miani q, sier
Lucha, novembre 1486)
Io
più contemplo questo bimbo e più rimango commosso
e sbalordito
dinanzi alla potenza e misericordia di Dio, che dopo il lutto
atrocissimo ci ha
benedetto di un altro figliolo, nato di domenica quasi a sottolineare
la
santità del dono offertoci. Non fraintendete: Marco Antonio
rimarrà nel nostro
cuore, è il nostro piccolo angioletto adesso e spero lo
sarà anche del suo
fratellino. Vedeste come mi guarda! Ha gli occhietti neri, grandi e
intensi dei
Morexini, s’agita, strilla e non vuole che lo si fasci,
schifa la balia ed
esige solo la poppa della madre. Lo amo già moltissimo e
prego Missier Domine
Iddio e Missier Sen Isepo di guidarmi nuovamente nel mio difficile
compito di
padre. Non credevo poter ritrovare gioia a questo mondo, dopo la morte
di Marco
Antonio […] Il parto s’è svolto in gran
fretta, sia ringraziata la verzene
Sancta Malgarita d’Antiochia, quasi il nostro figliolo
scalpitasse di venir al
mondo. La levatrice è arrivata appena in tempo e ci ha
confermato di com’egli galda
di eccellente robustezza e di come abbia tutto ciò che serve
al suo posto. La
mia illustrissima consorte dopo quattro giorni ha di nuovo le gote
latte e
rosa, fresca come la brezza montana. Le suggerisco di riposarsi ma lei
non
m’ascolta e pensa solo ad organizzare il battesimo. Abbiamo
pensato
d’appellarlo o Nicolò, come il mio sior Barba e il
fratello primogenito e l’avo
della mia siora mojer; o Hironimo, come l’altro mio sior
Barba e l’altro
fratello della mia colendissima sposa. Io preferisco Nicolò,
in famiglia ha più
importanza. Quanto alle altre questioni […]
Item.
Alla fine l’abbiamo registrato Hironimo ché la
moglie qua
non sente ragioni, m’accusa d’aver deciso per
cinque e il sesto è suo. Inoltre è nato il giorno di San Girolamo dottor e quindi lei dice "esser destino". Non fu
vero, Carlo l’ho nomato per onorare il mio fu missier
Morexini, ché a mia
memoria non s’ebbe mai un “Carlo” in
famiglia nostra. Ma né al vento né alle
donne si comanda e va bene così.
Item.
Marco vi ringrazia per il regalo per il suo compleanno,
un’eccellente idea la vostra onde distrarlo dalla delusione
di non essere più
l’ultimogenito, se ne va in giro con certi musi lunghi e per
sicurezza con
Hironimo s’accompagna soltanto in mia presenza, non sia mai
lo sottoponga per
gelosia a qualche malagrazia.
Item.
A ringraziamento di Dio e la Madonna, a spese mie ho deciso
di finanziare il progetto per quelle fontane con serbatoio per
approvvigionamento idrico di cui v’accennavo, che per varie
questioni ancora
non sono state costruite e che invece gioverebbero alla
città sia in utile che
in ornamento. Si discuteva di commissionare la facciata agli scultori i
maestri
Tullio et Piero Lombardo […]
Item.
Pur nella gioia s’annida il fiele, alla Signoria
m’auguro
siano giunti puntuali i miei rapporti circa i sospetti movimenti del
Ducha
d’Austria ai confini - attendo istruzioni.
A
voi mi raccomando e invoco la benedizione di Dio sulla vostra
casa.
Vostro
perpetuo amico e fratello, padre fortunato, Anzolo Miani
scrisse.
(lettera
indirizzata al N.H. Batista Morexini
dalla sua matrigna N.D. Ysabeta Contarini relicta Morexini, da Feltre,
17
novembre1487)
[…]
a dì 17 con nostra infinita pena e grandissimo dolore,
seppelliamo in Feltre questa mia ultima nipote, nomata Emilia.
Già vi confidai
mesi addietro le mie preoccupazioni, quando mia figlia vostra sorella
mi
comunicò d’esser nuovamente grossa, malgrado mi
fossi più volte e con
insistenza raccomandata d’usar prudenza con suo marito vostro
cognato, non
essendo lei d’età consigliabile per affrontar un
altro parto, in particolar
modo dopo nostro nipote Hironimo ch’è
già si può dir un miracolo per la svelta
e facile nascita, nonché per la robustezza di membra e
salute, miracolo che non
s’è ripetuto con sua sorella Emilia, talmente
piccola e fragile che subito la
battezzammo temendo non passasse la notte. Un poco c’eravamo
illusi potesse
sopravvivere notando incoraggianti miglioramenti, ahimè non
fu così e oggi s’è
disposta la sepoltura e una messa per l’animuccia sua
innocente. In casa
abbiamo pianto tutti a lungo e doppia sarebbe per noi stata la doglia
se non
fosse alleggerita da Hironimo, cognonimato
“Momolo”, che ignaro di quanto
accaduto seguita ad esser un puttino vivace e felice, rallegrando
questo nostro
cuor in lutto[...] Malgrado la fine della guerra contro il Duca d'Austria, ancor nulla dell'arrivo del nuovo podestà, sier Hironimo Capelo. Ormai l'inverno s'appropinqua e già fioccano le prime nevicate. Pertanto, se non per Natale, sicuramente festeggeremo assieme la Pasqua [...]
(lettera
indirizzata alla N.D. Ysabeta
Contarini relicta Morexini da sua figlia N.D. Leonora Morexini Miani,
da Lepanto,
1491)
[…]
Il Momolo vi saluta con tutto l’affetto del suo cuoricino.
Pur
tenerello, si rammenta assai bene di voi e mi domanda spesso vostre
notizie. Sa
esprimere qualsiasi concetto, forte e chiaro, e recita, correttamente,
il Pater
Noster e l’Ave Maria; è un piacere ascoltarlo.
S’inventa poi tante di quelle
storielle e scherzi d’animare i lunghi pomeriggi in giardino.
Dalle fantesche
greche ha perfino appreso molti vocaboli e si fa capire da loro. Sta
visibilmente crescendo: se sopravvivrà a questi anni
incerti, a Dio piacendo
verrà su un assai bel giovane, un po’ scuro di
carnagione né tantissimo alto
tuttavia forte di corporatura e vigoroso, le gambe belle dritte, le
spalle già
si vedono ampie e avrà fianchi stretti – Dio possa
oltre alla bellezza fisica
conferirgliene una ugualmente spirituale, tanto da farne di lui un buon
cristiano! Il suo magister è di lui piuttosto soddisfatto,
sostiene che quando
vuole ha ingegno e una lingua pronta. […] Marchetto vi
scrive ogni giorno; il
mio sior marido vostro zenero gli ha regalato il suo primo calamaio di
corno,
completo d’inchiostro, penne e carta e Luchin vi
darà oltre alle sue letterine
quelle di Carlino, così possiate sentirli crescere accanto a
voi […]
(lettera
indirizzata alla N.D.
Crestina Miani da Molin dalla sua matrigna N.D. Leonora Morexini Miani
da Zante,
ottobre 1493)
[…]
Mi chiedi con grande ansietà di tuo fratello Momolo e ti
dirò
questo: che sta crescendo nel puttino più dolce e bello di
cui si possa sperare
esser genitore. È sorprendente quanto sia di spirito vivace
e curioso; impara
in fretta e a memoria senza difficoltà –
purtroppo, però, solo se la lezione
gli garba o non c’è santo presso cui si possa
intercedere. Le sue orazioni le
recita alla perfezione, oltre al Pater Noster, l’Ave Maria
ora conosce il
Credo, Salve Regina, Qui abitat e molte altre preghiere cui io e la
siora
vostra avia ci prodighiamo d’insegnargli quotidianamente. Per
l’Avvento, a Dio
piacendo, saprà leggere il latino senza interrompersi e
senza strafalcioni di
pronuncia; conosce a menadito molte poesiole e canzonette sia in lingua
veneziana che greca, con cui ci diletta dopo cena. Possiede una robusta
inclinazione
verso la matematica, il tuo sior Pare mio marido per gioco lo interroga
con
alcune somme e sottrazioni così, al volo, che Momolo risolve
con grande
facilità. Si diverte a giocare all’aria aperta,
anche se i dispetti dei suoi
coetanei lo fan star male, e trova molto spasso
nell’accompagnare in barca i tuoi
fratelli a pescare o in spiaggia a raccogliere conchiglie.
Dal
tuo sior Pare mio marido ha ereditato l’attitudine ad
organizzare ogni attività fino al dispotico se non lo si
ferma. Vuol far tutto
lui e non accetta né consigli né aiuti.
[…]
Ogni
giorno Momolo mi chiede di te e pretende notizie dettagliate,
s’accende del medesimo fuoco del tuo sior Pare se lo
s’ignora e non accetta “no” o
“non adesso” o “più
tardi” per risposta. Perfino progetta d’imbarcarsi
per
Veniexia e di visitarvi alla Pasqua Teofania, mi elenca tutto il
necessario per il
viaggio e vuole che venga anche l’Orsolina. […] Scrivimi
ogni cosa su Dionora, come sta crescendo, mi dispiace assaissimo
perdermi
questi suoi primi anni. Non dimenticarti d’estendere i miei
saluti anche al tuo
sior marido Thomà mio zenero, al suo sior fradelo sier
Timotheo e al loro avo
sier Francesco e non ultima alla tua madona la siora Gracimana Trivixan
relicta
da Molin.
***
Sier
Antonio Trum q. sier Stae, nipote del fu Serenissimo e in
quell’anno Savio di Consiglio, incuteva di primo acchito una
certa soggezione: non
molto alto ma di membra robuste, di non bella faccia, pareva un orso
eppure, se
preso in disparte, possedeva il medesimo carattere generoso e
accattivante del
suo illustre barba, pur indurito dalle necessità del tempo.
Prima di
divenire cognato di Padre, già tra i due esatti coetanei
vigeva una fortissima amicizia, nata dalla mutuae tra i Trum e i Miani
per la
muda di Candia e di Rodi, dove i primi possedevano solidi appoggi, ora
famigliari – la madre di Antonio, madona Maria, era una
Contarini del ramo
candiota – ora d’amicizie accuratamente coltivate
dal nonno sier Lucha Trum e i
suoi quattro figli, Nicolò, Donado, Antonio e Stae.
Pertanto, i lunghi anni di
collaborazione commerciale li avevano avvicinati al punto da
considerarsi
fratelli ancor prima d’imparentarsi tramite il matrimonio con
Andriana Trum e
anche dopo la sua morte di parto, sier Antonio seguitò a
frequentare Ca’ Miani,
più che altro per la nipote Crestina cui ricopriva di mille
amorevoli
attenzioni – l’adorava. [5]
“Scherzosamente,
Anzolo mi definiva un mercante sedentario,
giacché pur conoscendo a menadito i diritti e regolamenti
commerciali e il
codice nautico, soltanto una volta in vita mia misi piede su di una
galea e mi
bastò per tutta la vita! Fortunatamente, tuo padre mi prese,
a modo suo, sotto
la sua ala … Anzolo apparteneva alla vecchia scuola, in cui
le mani dei patrizi
sono incallite dal remo prima che dal ferro.”
Seduto
a gambe penzoloni su di un pozzo, Toniolo osservavano
attento, il mento appoggiato sui pugni. Il sole ancora non scaldava
eppure
ovunque pullulava di gente. La curiosità morbosa per
l’esilio di sier Jacomo
Foschari figlio di Sua Serenità Missier il Doge e la
spensierata baldoria per
la visita dell’Imperatore Friedrich III e
dell’Imperatrice Leonor d’Avis erano
episodi ormai relegati al passato, riprendendo ciascuno le rispettive
attività
con la solita dovizia di formichine operose.
Quei
giorni Piazza San Marco era ricoperta di un considerevole
numero di piccole tavole e di bandiere ornate degli stemmi della
famiglia del
capitano-commerciante, il finanziatore della spedizione e reclutatore
delle
duecento e più anime che a fine luglio si sarebbero
imbarcate con lui alla
volta dei vari porti mediterranei e oceanici.
Anche
il signor padre di Toniolo, sier Stae Trum, v’era tra
questi, installato dietro il suo banco assieme ai suoi barba Donado e
Antonio,
valutando i candidati con precise domande e aggiudicandoli la mansione
che
avrebbero ricoperto nella galea nonché la paga in anticipo,
differenziandosi
infatti Venezia dall’uso straniero d’impiegare
forzati e schiavi ai suoi remi e
pertanto gloriando la propria flotta col nome di “galee
libertà”. L’araldo
pubblico aveva avvisato da parecchi giorni la popolazione e una folla
di poveri
ma robusti diavoli dalla Terraferma, Slavonia e Dalmazia
s’era raggruppata a
semicerchio, in attesa del proprio turno.
Poiché
il codice nautico aveva già regolato la maggior parte dei
problemi e dei casi, ai fratelli Trum non rimaneva che ingaggiare
rapidamente
l’equipaggio, incominciando per loro un febbrile periodo di
attività e se di
suo li si vedeva poco in casa, adesso ancor meno. Onde raccogliere i
fondi
necessari per finanziare l’impresa e acquistare la merce
prevista nel
capitolato d’appalto, oltre alla fraterna stavolta i Trum
avevano ricorso ad
una mutuae coi Miani e di fatti nel banco accanto stavano assieme a
loro sier
Lucha e suo fratello sier Hironimo Miani, molto probabilmente
discutendo
dell’attrezzatura e della squadra di calafati e maestri
d’ascia da reclutare
per l’ottimo e constante mantenimento della galea. Infatti,
se al loro ritorno
i Trum non voleva esser tenuti responsabile di danni o
d’avarie, essi doveva
controllare accuratamente l’attrezzatura del naviglio
consegnatogli
dall’Arsenale. Dulcis in fundo, i patrizi avrebbero chiamato
di nuovo il notaio
per sistemare i loro affari privati, salutato sier Stae sua moglie
madona Maria
Contarini da Candia e i suoi figlioli Bastian e Andriana e poi
buondì fino a
Natale, giacché onde meglio badare alle operazioni di
carico, nelle ultime due
settimane i fratelli Trum non avrebbero potuto per un solo istante
abbandonare
l’imbarcazione. Quell’anno di grazia 1452, poi, il
loro fratello Nicolò e i
nipoti Phelippo e Zuane non avrebbero viaggiato, troppo impegnati nei
loro
uffici a Palazzo Ducale, e quindi mancando d’aiuti dovevano
lavorare il doppio
in preparazione alla partenza.
“Toniolo,
venite qua! Lesto!” , chiamò Stae Trum suo figlio
decenne, che
trasalendo dalla sorpresa balzò giù per
raggiungere il banco paterno.
“Comandate,
sior Pare?”
“Il
viaggio a giugno per Tana del nostro caro amico e socio sier
Lucha si prospetta assai impegnativo; pertanto ha pensato
d’aggregare ai
Signori di Poppa della Trona il suo figliolo, Zanzetto, invece di
portarselo
seco.”
Toniolo
si morse il labbro inferiore, scoccando un’occhiata
scettica al suo esatto coetaneo dietro a sier Lucha Miani, un giovinetto
silenzioso dal
capo perpetuamente chino (almeno in presenza del padre) magrolino e
agile,
olivastro di volto e le gote arrossate dal sole e dal vento. Come molti
cadetti
o figli di cadetti, s’imbarcava per via della
possibilità di ottenere una borsa
di studio, nel frattanto che, a spese della Signoria, gli
s’insegnava il mestiere
di marinaio e commerciante.
“Zanzetto
è sì un paggio, ma essendo già stato
l’anno scorso a
Barutto sa il fatto suo e quindi vi terrà egregia
compagnia.” Tradotto tenerlo
d’occhio che non impacciasse le manovre o
s’esibisse in momarie, giacché sier Stae
non aveva né tempo né voglia di badare a lui.
Anzi, Toniolo nutriva il sospetto
che già suo padre si stesse pentendo di averlo arruolato e
che quello sarebbe
equivalso per lui al primo e ultimo viaggio verso Candia. Oh beh,
almeno
avrebbe visitato i suoi parenti materni.
Toniolo
ingoiò saliva amara, non contento di quella sua nuova
balia.“Ci saluteremo alla partenza?”, gli chiese
con un sorriso forzato.
“Se
non mi crepi prima”, dichiarò scocciato Zanzetto,
beccandosi
un pronto scappellotto da sier Lucha Miani. “Sarà
un piacere”, si corresse,
ghignando verde.
Il
giorno della partenza arrivò per Toniolo troppo in fretta e
in
quell’alba di fine luglio otto galee si apprestavano a
lasciare la laguna, le
vele così alte che oltrepassavano il tetto delle case.
“Adjutorium
nostrum in nomine Domini.”
“Qui fecit caelum et
terram!”
“Dominus vobiscum.”
“Et cum spiritu tuo.”
“Oremus.
Propitiare, Domine, supplicationibus nostris, et benedic
navem istam dextera tua sancta et omnes qui in ea vehentur, sicut
dignatus es
benedicere arcam, Noë ambulantem in diluvio: porrige eis,
Domine, dexteram
tuam, sicut porrexisti beato Petro ambulanti supra mare; et mitte
sanctum
Angelum tuum de caelis, qui liberet, et custodiat eam semper a
periculis
universis, cum omnibus quae in ea erunt: et famulos tuos, repulsis
adversitatibus, portu semper optabili, curusque tranquillo tuearis,
transactisque, ac recte perfectis negotiis omnibus, iterato tempore ad
propria
cum omni gaudio revocare digneris: Qui vivis et regnas in saecula
saeculorum.”
“Amen!”,
si segnò Toniolo in mezzo al resto dei Signori di Poppa
intanto che il cappellano di bordo deambulando per la corsia centrale
benediceva nave e uomini.
Ciascun
membro dell’equipaggio si trovava precisamente al suo
posto, indaffarato; i balestrieri a supporto dei fanti in piedi lungo
l'impavesata; il pilota al castello di prua, il timoniere nella sua
navicella,
mentre centosettanuno remi, in gruppo di tre, agli ordini del comito
incominciarono
a battere l’acqua ritmicamente. Davanti a loro, decine di
piccole lance
s’affannavano a rimorchiare le grandi galee attraverso il
passaggio del Lido .
Un
vento favorevole li aveva benedetti e una volta superato il
porto, i rematori lasciarono i banchi e aiutarono gli altri marinai a
issare le
vele del trinchetto, della mezzana e dell’albero maestro e le
galee
incominciarono tosto ad acquistare velocità,
finché i contorni di Venezia si
persero all’orizzonte, fondendosi con la linea piatta del
mare. I gagliardi,
giovanissimi gabbieri più ossa che muscoli, si arrampicavano
e scendevano con
abilità d’acrobata lungo le corde, talora
rimanendo sospesi come scimmie alle
sartie.
“Sai
che diceva il nostro illustrissimo ammiraglio, il
Capitano Generale da Mar sier Piero Loredan?”, [6]
confessò Zanzetto ad un
sofferente Toniolo, aiutandolo a distendersi sulla branda dentro il
pizzuolo, là dove avrebbero condiviso pasti e sonno
col Patron e i
suoi ufficiali. Zanzetto, afferrato Toniolo per la mandibola lo
costrinse a
guardarlo negli occhi così da mantenere un punto fisso e non
soffrire la nausea
causata dal mal di mare. Quanto a quella per il puzzo di freschin e di
sudore
animale e umano, a quella non sussisteva alcun rimedio.
“N-no
…?”, sbrodolò sbiancando Toniolo,
stringendo la coperta al
petto, le budella sconquassate dalle oscillazioni della galea.
“Induritevi alla fatica e alla
sofferenza acciocché sappiate esporre la vostra vita per la
difesa e la
prosperità della Signoria!” Quindi duri
ai banchi e sopporta senza tanti
piagnistei e se osi vomitarmi addosso stanotte, ti rifilo uno stramuson
che
manco più ti riconosci allo specchio!”
Toniolo
deglutì, intimidito.
Zanzetto
grugnì in approvazione. “Vedrai che poi
t’abitui”, gli
disse più dolcemente, afferrandogli la mano cui Toniolo
s’aggrappò come un
naufrago ad un pezzo di legno. “L’importante
è che camminando fissi un punto
dritto davanti a te, così da stabilizzarti. Ah, non
scordarti d’indossare una
bereta, a meno che tu non voglia stramazzare al suolo. Il sole del
Levante non
perdona. Poi, qualunque cosa, non hai che da chiedermi!” e
sorrise, contagiando
anche il suo coetaneo.
Fino
a Parenzo e a Pola, in Istria, le galee avrebbero viaggiato
assieme anche per rifornirsi di acqua, di legname, di viveri e di
montoni.
Dopodiché, sorpassata Corfù, avrebbero seguito la
rotta per la Morea arrivando
a Negroponte e lì sarebbe avvenuto il vero addio,
dividendosi ognuna verso la
propria rotta: verso Candia e Rodi per far scorta
dell’eccellente vino e
dell’uva passa di cui i popoli del nord impazzivano; verso il
Mar Nero e Tana
per ammassare le stive di pellicce, pelli, pesce salato, caviale e
tutti i
prodotti d’Oriente trasportati dall’India o dalla
Cina dalle carovane
dell’Asia.
Trentacinque
giorni di navigazione prima d’attraccare a La Canea,
per poi proseguire a Retmino ed infine a Candia, l’omonima
capitale dell’isola.
Sull’infinito mare blu intenso dell’Egeo
frusciavano le onde schiumose sotto la
chiglia, correndo le galee di Candia e Rodi incalzate dal vento e si
faceva il
paesaggio costiero sempre più brullo e d’un ocra
intenso, così come la luce
solare vivacizzava ogni colore, rendendolo quasi accecante.
Trentacinque
giorni in cui Toniolo e Zanzetto, dopo l’iniziale
ostilità, impararono a conoscersi fino a divenire
inseparabili, dove stava uno
compariva l’altro e a Candia egli presentò il
piccolo Miani ai suoi barba
Contarini come “il più caro amico ch’io
abbia mai avuto a questo mondo.”
Le
malelingue battevano, ovviamente. Le amicizie delle
galee,
contro cui il Consiglio dei Dieci tuonava, meditando in qual momento
Dio, come
nella Bibbia, avrebbe sfogato la sua collera contro certi vizi
lì assai
frequenti, fomentati da una ciurma giovane (non si reclutava oltre i
trentacinque anni) e seminuda per la maggior parte del giorno.
Momolo
non aveva mai dato credito a tali dicerie, pur non
sfuggendogli i toni rilassati e complici tra Padre e sier Antonio,
diversi
perfino da quelli che il genitore riservava a Madre. Un
uomo, se
assennato, si morde la lingua dinanzi ad una donna. Tra di loro,
invece, non
sussiste alcun freno. E se il Momolo tradiva qualche
scetticismo,
l’Hironimo confermava ché i discorsi tra lui,
Marco e Piero Contarini e i suoi
amici difficilmente li avrebbe potuti riferire a Madre o Helena senza
imporporarsi imbarazzatissimo.
Sicuramente,
la vita marinaresca non aveva reso Padre un gran
gentiluomo: la pelle brunita; i capelli castani schiariti e un poco
rovinati
dalla salsedine; le mani più callose di alcuni patrizi suoi
pari; sboccatissimo
nella collera, superstizioso (il verde non lo indossava neanche sotto
tortura),
goloso di panbiscotto ammorbidito nel vino e ogni volta che da piccino
Momolo
l’abbracciava, giurava di cogliere l’odore salso
del mare sulla sua pelle e
paesaggi esotici affioravano immediatamente alla sua mente. Prima di
sposarsi,
molto spesso, nei bei giorni d’estate, di conserva coi suoi
amici remava la sua
gondoletta e faceva con essi a gara a chi arrivasse per primo alla
Chiesa del
Lido. Oppure, nelle piscine (o bagni) formatisi a causa del moltiplicarsi degli edifici e dell'interramento, lui ed i suoi coetanei si sfidavano a gare di nuoto oppure di lotta libera nei ginnasi, in gare di salto, di corsa o di tiro dell’arco a seconda
dell’inclinazione del
giorno. Passatempi che Hironimo aveva ereditato e che
anch’egli praticava con
gusto.
Abituato
ad essere obbedito senza discussioni e ad esprimersi in
concetti chiari e concisi, a Padre la galanteria e la diplomazia
rimasero
grandi sconosciute fintanto che esercitò la mercatura
navale. D’altronde, in
galea non servivano a nulla, non quando s’intraprendevano
insidiosi viaggio di
quattro mesi fin quasi di un anno e mezzo, con la claustrofobica
compagnia di
una ciurma composta dai più indigenti della Repubblica,
sotto la disciplina
ferrea del mare, con l’ansia del cargo e la paura
ogniqualvolta s’avvistava una
vela foresta, seguita immediatamente dalla furia
dell’arrembaggio.
“In
quel momento, un amico fidato accanto è tutto, che ti guardi
le spalle e che ti sproni fino alla morte”, gli
raccontò sier Antonio, in vena
di confidenze e come biasimarlo? Era la festa di matrimonio tra Marco
ed Helena,
aveva ecceduto di malvasia e marzemino e la malinconia
l’aveva colto,
lamentando l’assenza del padre dello sposo e amico carissimo.
Momolo,
improvvisatosi suo confessore, lo lasciava parlava a ruota libera.
“In quel
momento, sei tu e il tuo avversario. Non hai nessun luogo dove fuggire
o
nasconderti, sei prigioniero tra il legno e il mare e lì
è la tua vita o la
loro …”, e incominciò a narrargli di un
abbordaggio così come l’aveva saputo da
suo cugino il fu sier Zuane Trum, anch’egli un amico intimo
di Padre.
“Duri
ai banchi! Duri ai banchi!”
Dal
ponte di comando Zuane Trum, sopracomito, intimava urlando ai
rematori per avvertirli di mollare la presa ai remi e di tenersi
saldamente
ancorati alle panche, in vista dell’imminente impatto.
Appena
avvistate le piccole ma agilissime navi dei pirati berberi,
non scorgendo via di fuga e piuttosto di lasciarsi attaccare il figlio
di
Nicolò Trum aveva deciso di speronare quella maestra per
primo, cogliendola
alla sprovvista. Le sue galee sorelle avrebbero poi stretto il loro
cerchio di
morte, creando un’unica piattaforma di combattimento.
Il
cannone di corsia centrale e quelli di piccolo calibro sulla
rembata avevano tenuto i pirati sufficientemente distanti per
coordinare la
manovra, tuttavia le sollecitazioni delle bocche di fuoco stavano
scuotendo
troppo la galea, rischiando di danneggiarla più
dell’attacco delle fuste
nemiche.
“Tenete
pronte le falci e quando le saremo contro tagliatele le
manovre! Preparate i vasi di calce e polvere! Stoppe imbevute di pece,
resina e
zolfo - veloci! I balestrieri mirino alle vele! I fanti pronti a
respingere
ogni tentativo d’abbordaggio!” e rivolgendosi
concitatamente al cappellano di
bordo: “Quanto a voi, Padre, assolveteci dai nostri peccati e
benediteci per la
battaglia!”
“…
quando le galee collidono, vedi doppio e ti rimbomba ogni
organo interno che te li senti uscire dalla bocca. Non ragioni
più, sai solo
che hai in mano una scure, una daga o qualsiasi oggetto tagliente e a
guisa di
macellaio ti getti all’urlo di Marco! Marco! perché
se quei
cani ti rubano il cargo, eh!, o in fondo al mare o in fondo ai Pozzi,
per
debiti ci finisci … Mio cugino, buonanima, contrariamente ai
signorini
d’oggigiorno che se ne stanno al sicuro a poppa, scendeva in
prima fila coi suoi
e tuo padre non era da meno, per un amico non avrebbe esitato prendersi
una
freccia in pancia al posto suo … ”
E
via! Uno, due, tre, in una claustrofobica rissa di corpi, scudi,
picche e scuri; gli schizzi di sangue volavano alti assieme a grida e
bestemmie,
ad arti tranciati in netto, gole sgozzate e budella fuoriuscite, unite
al tanfo
di carne bruciata ed escrementi – Avanti! Marco! Marco! Nella
speranza che
tutto finisse presto, gli occhi brucianti dal sangue, sudore e
salsedine …
Zuane
Trum aveva perduto il conto contro quanti avesse affondato
la lama, o di quante avessero scalfito il suo corsaletto a botta,
imbrattato da
capo a piedi di sangue viscido e schiumoso. Le orecchie gli
fischiavano,
rendendolo sordo ad ogni stimolo esterno se non quello
d’avventarsi sul
prossimo avversario, senza concedersi il lusso neanche di premersi il
naso
gocciolante da un pugno finito male, leccando via con la lingua.
“Sopracomito,
indietreggiate!”
L’uomo
cercò affannato con le orecchie la sorgente di quella voce,
come solgono fare i ciechi così da evitare colpi vigliacchi
e morte certa.
Un
diciottenne Anzolo, sbucato chissà dove, con dei fanti
stavano
gettando sul parapetto vasi di sapone molle e i pirati, scivolando,
offrivano
con divina facilità la gola alle spade e scuri veneziane.
“Che
diceva sier Zuane di Padre?”
“Lo
descriveva come un compagno leale e generoso, ma spietato
peggio d’un turco coi nemici.” E da parte di colui
che li odiava a morte,
avendogli ucciso barbaramente il cugino Zuane a Negroponte,
corrispondeva essa
ad un’esauriente descrizione sulla ferocia dimostrata da
Padre contro chiunque
attaccasse lui e la famiglia.
Momolo
gli credeva, da arrabbiato Padre lo terrorizzava al limite,
accendendosi d’ira come il fuoco greco e se Madre non
intercedeva,
ammorbidendolo, in più occasioni sarebbero volati (nel suo
caso) rimproveri ben
peggiori di quelli già tremendi che doveva incassare.
O sarebbe
volata direttamente gente, come quella volta, durante la
pressa dei dì del Carlevar, in cui spintonarono Madre per
terra e Padre,
afferrato il fellone per la gola, l’aveva costretto a
domandarle perdono. Come
avessero evitato una conseguente denuncia, mistero.
“Devi
capire, Momolo, che tuo padre non era una persona di natura
violenta, lo diventava quando si sentiva minacciato. Purtroppo, in
galea
incancrenisci codesto difetto.”
“E
allora, quando stava … tranquillo? Non lo ricordo mica
affabile, io.”
“Vero,
possedeva un’anima nervosa e inquieta …
Però in una cosa
v’assomigliate.”
“In
che?”
“Una
linguaccia lunghissima. An, possedeva una fantasia di poeta
nell’insulto! Poi, sai Momolo, credo si
sia ingentilito una volta
abbandonato il remo.”
“Uhm.”
“Non
sei convinto?”
Momolo
sospirò, guardando infelice la sala addobbata a festa,
laddove i giovani, indossate le maschere e abbandonando i rispettivi
genitori e
parenti alle eccellenti vivande, s’erano portati al centro
per improvvisare
gaie danze e civetterie maliziose. Al tavolo degli sposi Marco stava
litigando
ridendo con Lucha e Giorgio suo cognato, intenti a strappargli il
bicchiere
dalle mani. “Basta vino, hai da lavorare stasera!”
In altre
circostanze, il diciassettenne sarebbe stato tra i più
chiassosi animatori, sennonché al momento delle
felicitazioni (grazie a Dio
ancor da sobri e digiuni) la mancanza di Padre gli s’era
palesata largamente,
intristendogli il cuore.
“Sembra
quasi un contrappasso che l’abbia colto una morte
sì
violenta”, asserì il ragazzo, ingollando il vino
in un sol sorso.
A
quell’affermazione Trum non seppe come controbattere.
“Sier
Antonio”, domandò all’improvviso Momolo,
afferrando
un’albicocca e tormentandola agitato. “Da tempo
desideravo chiedervelo: vi
sovvenite del cifrista Antonio Landi? Quello … quello che
s’accordò con Zuam
Batista Trivixan e il Marchese di Mantoa?”
L’uomo
annuì lentamente, cauto.
“Credete
… credete Padre abbia incontrato tale destino,
giacché
anche lui …? Insomma, in quell’anno i Dieci
avevano firmato il mandato di
arresto di Zorzi Valla con l’accusa di spiare per il Triultio
…”
“Il
magister Zorzi fu rilasciato lo stesso ottobre per
insufficienza di prove”, gli rammentò severo il
Savio di Consiglio.
“E
se invece fosse stato perché nel frattanto aveva fornito dei
nomi? Se tra questi nomi ci fosse stato Padre? Se … se
l’avessero impiccato a
mo’ di monito? Non era la politica allora dei Dieci, per
scoraggiare la fuga di
notizie?” ansimò ansioso.
Quel
dubbio l’aveva tormentato negli ultimi sei anni, dopo aver
assistito all’impiccagione post-mortem del segretario Antonio
Landi.
Una turpe
e vergognosa faccenda: Zuam Batista Trivixan, residente
da quattro anni a Mantova e segretario di Francesco Gonzaga, durante le
sue
visite a Venezia visitava spesso in casa il segretario del Senato
Antonio
Landi, settantenne, così da informare il Marchese di Mantova
su alcuni segreti
di Stato, in particolare sul motivo esatto per cui la Signoria aveva
revocato
la condotta al Gonzaga. Ora, codesto Trivixan frequentava una
cortigiana cui
incautamente s’era lasciato sfuggire alcuni dettagli di
quell’intrigo e la
donna, ovviamente, aveva a sua volta riferito il tutto
all’altro suo cliente,
il segretario degli imprestiti, Hironimo di Amadi cui non era parso
vero di
sporger denuncia ai Capi dei Dieci. Arrestati i traditori, Antonio
Landi venne
torturato senza alcun riguardo per la sua veneranda età e di
fatti egli morì
straziato dai ferri; non soddisfatti e piccati di non averlo potuto
decapitare
in Piazzetta, i Dieci avevano deciso allora che il corpo del Landi
venisse
rivestito col suo comeo da segretario e, legatolo in modo che dalla
folla fosse
ben riconosciuto, lo impiccarono ad una forca eretta in Piazza.
Hironimo di
Amadi ottenne in premio due fonteghi alle farine e la cortigiana cento
ducati.
A Momolo
quel macabro e chiaro monito riportò alla mente quel
maledetto 18 agosto dello stesso anno dell’arresto di Giorgio
Valla, professore
di retorica originario di Piacenza, studente dell’umanista
neoplatonico
Costantino Lascaris e precettore dei figli del fu duca Francesco
Sforza. Si era
scoperto, dopo otto mesi di carcere e numerosi interrogatori
corroborati da
robusta tortura, che la colpa risiedeva nel suo allievo Placidio
Amerino, il
quale l’aveva incastrato, nascondendosi dietro
l’amicizia di lunga data tra il
suo maestro e il luogotenente del Re di Francia, Gian Giacomo
Trivulzio, quest’ultimo
il vero artefice di quell’intrigo finalizzato a scoprire i
maneggi tra la
Serenissima e il duca Ludovico il Moro. Valla per un soffio aveva avuto
salvo
il collo, mentre il suo discepolo, malgrado le suppliche di clemenza ai
Dieci,
condannato a morte per spionaggio. Gran bell’amico
s’era rivelato il Trivulzio,
che l’aveva sfruttato per impiantargli addosso un suo
informatore, cacciandolo
nei guai con la Signoria!
In ogni
modo, il sospetto che forse, magari, Padre avesse potuto …
“Per
qual motivo, sentiamo, avrebbe dovuto Anzolo lavorare per il
Triultio?”, berciò adirato sier Antonio, la fronte
corrugata. “Così poca stima
nutri nei suoi confronti, da pensarlo un gretto venale che si vende al
primo
minchione che gli sgancia danari? Tuo padre finanziò di
tasca propria molte
opere pubbliche; in prima fila combatté sia sul Po sia
assieme a Guido de’
Rossi contro quei cani degli Austriaci, in pieno inverno nel Passo di
Celazzo
con la neve fino alle ginocchia e nel bel mezzo di una bufera! E tu
credi che
si sarebbe a tali porcate abbassato?”
“Molti
cosiddetti fedelissimi e boni marcheschi hanno calato le
braghe o per paura o per avidità, servendo oggi la Signoria
e l’indomani
tradendola!”
“Sacramento,
ragazzo! Se non fossi suo figlio ti spaccherei il
muso!” e da come sier Antonio s’alzò
dalla sedia, Momolo sospettò la veridicità
di quella minaccia.
Fortunatamente
per ambedue, sier Batista Morexini li raggiunse,
sedendosi strategico tra i due litiganti.
“Via
con la malinconia!”, riempì loro di vino le coppe
l’allora
Savio di Terraferma, improvvisandosi Ganimede a scapito del povero
servitore
cui aveva sottratto la caraffa. “Momolo, le feste esistono
per scappar via dai
noiosi vecchioni, mica per punzecchiarli riesumando antiche
reminescenze, le
quali, come lo sterco, a furia di rivangare puzzano di
più.”
“La
perdonanza, sior Barba e anche a voi, sier Antonio”, ammise
il
ragazzo, studiando mesto il liquido dorato. “Non avrei dovuto
imbastire certi
discorsi …”
Captando
il visibile malessere nel nipote, sier Batista
s’informò
da sier Antonio: “Di che conversavate?”, pur
intuendone benissimo il tema.
Il Savio
di Consiglio sbuffò snervato. “Momolo qui
teorizzava una
correlazione tra l’arresto di Zorzi Valla e la morte di
Anzolo”, riassunse
brutalmente sintetico.
“A
bèmpo! Che monae vai blaterando?”
Paonazzo
in volto, il diciassettenne pur a malincuore difese la sua
ipotesi: “Il mio bisnonno Marco finì sotto
processo per corruzione a Corfù e
mio nonno Lucha esiliato per un anno da Veniexia per aver fatto parte
di una
strana setta. Forse, forse possediamo un sangue disonesto
…”
I due
Savi si scoccarono un’occhiata compassionevole.
“Momolo,
guardami bene dritto negli occhi”, posò sier
Batista le dita sotto il mento del
nipote, costringendolo a sollevare la testa. “Anche mettendo
caso che tuo padre
fosse stato un traditore, credi sul serio che la Signoria
l’avrebbe fatto
assassinare così, di nascosto, con metodi da Borja? No, come
opera con tutti,
l’avrebbe condotto in Senato e lì
giudicato, publice e non
nell’ombra, e sempre davanti agli occhi di Dio e degli
uomini, se colpevole,
giustiziato o esiliato!”
“Sì
ma i fuoriusciti, quelli sì che li assassinano di nascosto
…”
“Per
evitare casus belli e solamente se non riescono a rapirli e a
riportarli qui, a Veniexia, ond’essere giudicati dalla sua
buona giustizia”,
tagliò corto sier Batista. “Quanto a tuo padre,
ripetendo il mio discorso al
funerale, s’è trattato di un tentativo di furto o
comunque della diffusa
criminalità notturna …”
La musica
di una piva d’impose tra i tre, chetandoli.
“Oppure
siete voi il colpevole”, alluse sornione sier Antonio nel
tentativo di scacciar via la depressione generata da quella
conversazione.
“Anzolo l’odiavate perché ogni volta vi
batteva nelle regate e nelle gare di nuoto e voi,
pregno di quella boria imparata dai Portoghesi, non tolleravate che uno
delle
Cha’ Nuove umiliasse voi delle Cha’ Vecie e
Apostoliche.”
“Zò,
lustrissimo sior Toniolo, la senilità v’ha
sbattuto la
padella in testa?”, inalberò scioccato sier
Batista. “Che asinerie andate
ragliando? Al quel cancaro del mio cugnà volevo bene. Anche
quando mi batteva
nelle gare. Certo, ancor mi domando come quella santa di mia sorella lo
sopportasse, ma tra moglie e marito non ci mettere il dito,
no?”
“Ma
se veniste alle mani e vi buttaste giù in canale!”
Il Savio
di Terraferma bevve un lungo sorso di malvasia. “Non mi
ricordo”, nicchiò e sier Antonio ghignò
feroce.
“Ma
sì, stavamo assistendo ad una momaria e ad un certo punto,
uno
dei personaggi affermò come al mondo non esistesse donna
più brutta di sua
moglie. Al che, alzandovi, esclamaste che invece esisteva ed era mia
cugina
Orsetta, talmente brutta da trasformare il vino in aceto e che solo un
cieco,
un infoiato o povero in canna avrebbe avuto il coraggio di
sposarla!”
“Io
questo ho detto?”
“Sì,
pur aggiungendo che ormai vista l’età doveva aver
la mona
asciugata e che piangevi la sorte di colui che se lo sarebbe scorticato
in
carne viva, fottendola …”
“Ma
va là!”
“Carissimo,
eravate talmente ubriaco che avreste ingiuriato anche
il Papa, l’intera curia romana e loro madri, se, arrabbiati,
non v’avessimo
chetato prima. Imbriago spòlpo geravate, vui!”
“An
sì?”
“Oh
sì. E quando Anzolo s’erse a difesa
dell’onore di mia cugina,
gli elargiste il gesto della fica urlandogli: Squattrinato
come sei, te
la scoperesti anche domani pur di mettere legna in camino e una toppa
alle
braghe tue, an, Miani? Pezzente!”
“Oh,
gran mercé”, si dolse sier Batista, pizzicandosi
la radice
del naso e tuttavia a Momolo non sfuggì
l’arricciamento divertito della sua bocca.
“V’accapigliaste
alla stregua di due lavandaie. Voi ad un certo
punto tagliaste i lacci delle calze ad Anzolo, per prenderlo a
scudisciate con
la vostra scarpa, dandogli del rematore greco, sennonché
Anzolo vi diede a sua
volta una tallonata sui vostri cogliombari e tentò
d’annegarvi in canale,
dandovi della puttana. Ancora mi domando come evitaste l'arresto in quell'occasione!”
Momolo
tappò una scrosciante risata con la bocca, ricavandone un
misto tra singhiozzo e grugnito e pure sier Batista, ilare,
batté il pugno sul
tavolo e assieme a sier Antonio Trum i tre uomini divennero paonazzi in
faccia
dal gran ridere, al punto d’asciugarsi le lacrime agli occhi.
“An
sì, adesso mi sovvengo della zuffa. Ma quelle parole in fede
mia mai le pronunciai! Ve lo giuro sulla tomba di mia
suocera!”, protestò
ansimando sier Morexini, prendendo fiato. “Il mio sior barba
Francesco, Momolo,
le sberle che non mi diede Anzolo finì per darmele
lui!”, esclamò ilare.
Attirata l’attenzione del coppiere, lo istruì di
servirli d’un altro vino,
rosso scuro e corposo, appellato Lacrime di Cristo.
“Che
poi, Toniolo, voi non me la raccontate giusta: perché
v’incavolaste? In fondo, in tutta Veniexia era risaputo come
Orsetta Trum
vostra cugina pareggiasse in beltà a Gorgone Medusa! Non
foste voi, a Palazzo
Ducale, a commentare durante la sua festa di matrimonio col
Grillo: Alegreza
per otto dì et grameza per sempre?” [7]
Sier
Antonio per poco non mancò di soffocarsi col vino,
ridendosela alla grossa.
Ristabilito
l’umore spensierato e frivolo da festa nuziale, Momolo
si concesse di lasciarsi contagiare e coinvolgere in quei lazzi
triviali, pur
contenendo a fatica la sorpresa nell’apprendere quel lato di
Padre, di solito
descritto all’unanimità come serio, poco incline
agli scherzi e rispettoso del
prossimo e della legge.
Quant’è
bella giovinezza invero.
Continua
…
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Nomi di
città e isole in veneziano /italiano:
Barutto =
Beirut; Antona = Southampton; Ventona = Winchester;
Candia = Creta;
Bruza = Bruges
Come
accennato nell’introduzione del capitolo, la parte 2 non
tarderà ad essere pubblicata. Infatti il capitolo era venuto
un qualcosa di
mostruoso, 50 pagine circa. Siccome Hoel non desidera venir accusata
della
morte degli altrui occhi, ha deciso di dividerlo. Quindi state in
campana.
l nuoto era di antica tradizione presso i Veneziani. Da un codice si ha questo passaggio: "Angelus Heremita, anno 1312, cum esset fere annorum 100, respondit, quod bene vidit dictam piscinam et ibi intus se balneavit". Nelle isolette lagunari si formavano piscine e laghetti a causa dell'interramento e del moltiplicarsi degli edifici. Lì nuotavano i ragazzi e alcune di queste piscine erano usate al posto dei bagni, supponiamo quelli termali visto che comunque si trattava d'acqua salsa. Uno di queste piscine più famose era quello di San Daniele, dove c'è attualmente l'Arsenale.
Inoltre, nel quadro "Miracolo della Croce caduta nel canale di San Lorenzo" di Gentile Bellini (1500), si vedono dei natanti utilizzare stili di nuoto quali lo stile libero e rana.
Ci siamo
molto divertiti a scrivere questo capitolo, soprattutto
perché buttato così, senza dover seguire la trama
tranne per le riflessioni che
s’allacciano al capitolo precedente. Spero di averle rese
bene, soprattutto
dall’ottica maschile.
Queste
digressioni possono sembrare superflue, ma come anticipato,
in questa storia ci sono due narrazioni qui: quella prettamente storica
e
quella intimistica, per dire. Il Nostro sta tirando le somme, si sta
guardando
indietro e cercando di far pace con se stesso. Le lettere sono di mia invenzione, utilizzando però come modello delle loro sorelle coeve, scritte tra famigliari.
In ogni
modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto, a prestissimo
col numero 14!
Un
po’ di noticine:
[1] il motivo per cui Anzolo si
arrabbiò
così tanto, fu perché, come previo avvocato e
giudice, ben conosceva questo
metodo esser usato dai pasticceri per adescare i bambini e ragazzini
per
prostituirli dopo averli portati in retrobottega. I pasticceri, assieme
ai
barbieri, fungevano spesso da mezzani nella prostituzione maschile.
[2] che Giovanni Foscari facesse un
po’ la
cresta sui noli (dazi) ci è confermato dalle lettere di
lamentela ai consoli
veneziani a Londra da parte di Marino Dandolo, costretto a pagare 17
ducati sui
panni venduti a Siracusa.
[3] le vicende narrate da Anzolo riassumono
le Guerra delle Rose tra i Lancaster e gli York, la prima fase vinta da
Edoardo
IV York, il quale istallatosi sul trono, aveva riaperto immediatamente
i
commerci, specialmente con Venezia a seguito dei vergognosi eventi
della
“caccia al Lombardo” a Londra, dove molte case di
mercanti italiani vennero
brutalmente saccheggiate. Infatti, a causa della guerra e delle
tensioni tra
mercanti e i locali, molti Genovesi e Napoletani avevano smesso di
commerciare
con l’Inghilterra e anche i Veneziani furono lì
per lì d’imitarli, specie a
seguito delle angherie del sindaco di Southampton John Payne (Zuanne
Peine nel
capitolo) che raddoppiava impunito i dazi e li ostacolava in generale.
Edoardo
IV mise subito in chiaro con la Signoria, promettendo severi
provvedimenti a
chiunque osasse molestare i Veneziani. In ogni modo, loro se ne stavano
o sulla
galea o nei fonteghi o a casa dei loro conterranei fissi, a Southampton
sappiamo essere i Priuli e i Pisani per certo. Le tappe di solito erano
almeno
tre: Londra, Winchester per le sue fiere e appunto Southampton. Essendo
l’Inghilterra un mercato ancor più profittevole
rispetto a Bruges e Anversa, le
galee si trattenevano di più, fin quasi ad un anno. Altri
eventi menzionati
sono le tensioni tra il nuovo re Edoardo IV e il Conte di Warwick
(Conte di
Varvici) “The King’s Maker” colui che
aiutò gli York a vincere contro i
Lancaster. Il Conte voleva sposare Edoardo o ad Anna di Valois o a Bona
di
Savoia (sì, proprio la Bona che andò in sposa a
Galeazzo Maria Sforza), ma
Edoardo s’era innamorato follemente di Elizabeth Woodville in
Grey (Yxabela
Greia), vedova lancasteriana. Si sposarono segretamente appunto nel
1464 con
disastrose conseguenze.
[4]
gàtolo =
collettore in muratura posto sotto la
pavimentazione dei percorsi cittadini. Fogna, in soldoni.
[5] Lo supponiamo da questo fatto: Antonio
Tron, al momento della morte nel 1524, nominò suo erede il
suo pronipote
Gaspare di Tommaso da Molin e di Cristina Miani, lasciandogli in
eredità una
grandissima somma di danari, mentre ai cugini Luca e Marco Tron, solo
un “zerto
stabele a Rialto, conditionato si harano fioli”.
Quanto
alla sua poca dimestichezza nella marina, lo ammette lui
stesso quando giustifica al Senato il suo rifiuto di sostituire Angelo
Trevisan
come Capitano Generale da Mar; noi vogliamo credere all’uomo
e non perché gli
fu chiesto in un periodo delicatissimo, il 1511 appunto. Tuttavia, ci
par
ugualmente strano, visto che i Tron fecero i soldi appunto coi commerci
e suo
nonno Luca Tron e suo padre Eustachio (Stae o Stai) Tron stavano
più a Creta
che a Venezia, in un continuo su e giù, tant’era
vero che Eustachio si sposò
perfino con una Contarini del ramo cretese. Fino a prova contraria,
concediamo
il beneficio del dubbio. Almeno è stato onesto, dai.
[6] Pietro Loredan, fu
Capitano
Generale da Mar e Provveditore d’Armata, uno dei migliori
comandanti della
Serenissima: vincitore dei Genovesi a Modone; dei Turchi a Gallipoli;
del Re
d’Ungheria a Motta di Livenza; conquistatore della
Dalmazia e colui
che, dopo aver respinto i Milanesi a Brescia, per poco non aveva preso
a calci
nel deretano il Carmagnola, intimandogli di cessare i suoi
tentennamenti e
d’ingaggiare il nemico, come puntualmente avvenne a Maclodio.
Fu il grande
avversario politico di Francesco Foscari. Questa sua riconosciuta
grande
abilità militare gli costò il dogato,
perché gli avversari politici durante i
ballottaggi per l’elezione ducale, fecero pesare la sua
eccellenza militare a
sfavore del successo nell’elezione, dicendo che il Loredan
sarebbe stato molto più
utile come capitano che come doge. A peggiorare la rivalità
tra le due
famiglie, Foscari e Loredan, fu il sospetto d’avvelenamento
di Pietro L. da
parte del Francesco F. e ai processi del ’52 e ’56
di suo figlio Jacopo F. a
capo dell’accusa, nel Consiglio dei Dieci, ci furono
rispettivamente il figlio
e il nipote di Pietro L., Giacomo e Francesco Loredan che persuasero
poi il
Senato ad approvare l’abdicazione dello stesso Doge.
Nicolò Miani di Marco, zio
di Angelo, giocò un ruolo attivo in ambedue le vicende,
prima come consigliere
dei Dieci (fu lui ad aprire l’inchiesta, interrogando il
testimone circa
l’omicidio d’Almorò Donà) poi
nella Zonta. (maggiori informazioni la vicenda
Foscari-Loredan, vedi “Jacopo Foscari”, nota del
Capitolo IX)
[7] questa è proprio vera. Narra
il
Sanudo: Questo Doxe (Nicolò Tron) maridò
una sua
fiola brutissima in sier Hironimo Contarini q. sier Francesco ditto
“Il Grillo”
et fo fatto belle feste in Palazo, la quale andò a marido in
bucintoro. […] E’
da saper sier Antonio Trum q. sier Stai, nepote del Doxe, andava
dicendo:
“Alegreza per otto dì et grameza per
sempre.”
Che
cavaliere!