Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Hoel    20/05/2020    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 20.09.2021

***********************************************************************************************************************

 

 

 

 

 

Capitolo Tredicesimo, parte prima

Confiteor

(Onora il Padre …)

 

 

 

 

“Com’era egli?

“Lo ignoro. Cioè, conosco a menadito il suo cursus honorum, però di lui come persona … io non ho mai capito chi fosse …”

“Che differenza fa? Era comunque tuo padre, non ti bastava?”

Già.

Chi era Padre?

Quante volte dopo la sua morte Hironimo se l’era chiesto, meditando se veramente avesse conosciuto l’uomo in padre o solo uno dei tanti ruoli da lui ricoperto.

Sempre gli era stato dipinto come uomo energico e dinamico, capace di passare con disinvoltura dal comando di una galea a quello di una città, dai tribunali ai fonteghi, dal dibattito nelle assemblee di Palazzo Ducale alla dura vita di un accampamento.

Chi era però sul serio Padre? Il capitano, il podestà, il mercante, il massaro della Zecca, il camerlengo, l’avvocato, il giudice o il senatore?

Quindici anni erano trascorsi dall’atroce giorno in cui Hironimo aveva riconosciuto il cadavere penzolante del genitore su quella scala a Rialto; quindici anni in cui egli aveva cercato sia di fuggire la sua ombra che d’aggrapparsi disperato ad essa.

Chi eri per me, Padre?

I ricordi più recenti l’amareggiavano, riportandolo agli sguardi delusi del genitore dinanzi agli scarsi risultati scolastici; alle scudisciate sul sedere per ogni singola marachella o disobbedienza; alla fredda formalità dei loro dialoghi e i severi monologhi, durante le esecuzioni in Piazzetta tra S. Todero e S. Marco, sulla Santa Trinità veneziana ovver: Dio, la Legge e lo Stato. Punizioni e divieti ogni santissimo giorno che Domine Iddio metteva in terra condito da quel “briccone” insopportabile - no a questo, no a quello; stai dritto e non gobbo; smettila di piangere; parla schietto e non tartagliare; lascia perdere le tue cugine; i tuoi cuginetti non sono piavoli (bambolotti, ndr.) con cui giocare; non mentire; non rubare i bussolai dalla cucina; non parlare se prima non ti s’interpella; non voglio gatti o cani in letto; non rispondere sgarbato; obbedisci ai tuoi anziani, e bla, e bla, e blablabla …

Costui era stato Padre negli ultimi anni, quando Hironimo aveva incominciato a rispondere: Perché? ad ogni ordine, ad ogni ipse dixit, ad ogni cosa che non capiva e che desiderava che Padre gliela spiegasse, giacché il suo cervello di fantolino credeva fermamente in una sua onniscienza e infallibilità alla pari del Padre nei Cieli.

Perché devo darti del “voi”, signor Padre?

Perché così ci si rivolge tra patrizi e soprattutto ai tuoi genitori.

Perché?

Perché così stanno le cose.

Perché?

Perché vuoi forse parlare come il popolino?

E perché allora voi mi date del “tu”?

Perché, si chiedeva l’allora Momolo, Padre doveva sempre andar via da Ca’ Miani, anche quando non lo trattenevano più gli affari di Palazzo? Perché non poteva seguirlo?

Perché quando lo vedeva con Madre, Momolo percepiva una fitta acuta, un grandissimo astio nei suoi confronti - voi lasciate sempre sola Madre durante il giorno; io le faccio compagnia in vostra assenza; voi non avete alcun diritto di starle accanto, lei è mia! Mia! Mia! Perché, Padre, talvolta neppure voglio il Luchin, Carlino e Marchetto vicino a lei?

Gliel’aveva letta negli occhi, codest’ostilità? Oppure egli avevo scorto la sua quando s’intrufolava spaventato in letto di Madre, lamentando un incubo e scalzando il genitore da esso, oppure quando in altana Momolo le sedeva davanti mentre lei merlettava a mazzette e Padre non si poteva avvicinare per imbastire quei discorsi, che solo tra marito e moglie dovevano stare?

Quando incominciarono ad essere gelosi l’un dell’altro? Momolo per Madre veniva sempre prima, anche del consorte. D’altronde, non le aveva Padre sottratto i maggiori per avviarli gradualmente alla vita pubblica? Dunque, le lasciasse il minore, ancora suo.

O …

O quando fu Momolo ad incominciare a preoccuparlo? Come il Missier Grando, Padre quando si trattava di lui sembrava possedere occhi e orecchie ovunque, beccandolo puntualmente in castagna, colpevolissimo.

Me lo fate crescere storto, questo rimproverava Padre spesso a Madre. Perché Momolo frignava per un nonnulla, diceva; si fidava di chiunque, scorgeva bontà dove non esisteva e solo ora Hironimo capiva come mai l’avesse riempito di ceffoni, quando aveva scoperto, di ritorno da scuola, la focaccina alla cannella regalatagli dal pasticcere dietro promessa di ritornarvi più spesso [1].

 

“Chi te l’ha data? Chi? Perdio, parla! Chi t’ha dato questa focaccina?”

“Non lo so, sior Pare, non lo so!”

“Anzolo, per l’amor di Dio, smettetela di scuoterlo così, lo spaventate!”

“Non t’ho insegnato niente? An, stupido? Quante volte t’ho ripetuto, che non si parla, né si accetta niente da chicchessia se non dalla tua famiglia? Ma a chi parlo, io? Al muro? E smettila di piangere, no sta far la pittima, e dimmi chi è stato a regalarti quella focaccina o quant’è vero Iddio ti rinchiudo nello sgabuzzino del fontego per tutta la notte!”

“Stavo rincasando da scuola, non mi ricordo dove stesse …”

“E non hai aspettato Menego? O Baldissera? Ma ascolti o fai finta? Tu hai d’aspettarli a scuola, cosa stava pensando quel tuo cervello da gallina? Lo sai, testa di rapa, cosa fanno ai bambini che se ne vanno in giro a zonzo da soli e che danno confidenza a chi non devono? An? Lo sai, oco bauco?”

 

Storto perché Momolo al competitivo e aggressivo mondo dei “veri uomini” preferiva il locus amenus in cui Madre era Imperatrice e Padre era l’Ospite, pieno di luce calda, di colori morbidi come le tele del Zorzon. Il suo pomeriggio ideale consisteva nel stare sull’altana assieme a Madre, Crestina, Eudokia, Zanetta e Orsolina e a madona Maria Foscarini Miani, spingendo il girello di Dionora o Agustin o Marco Antonio, le orecchie piene del loro cicaleggio. Grande festa poi quando veniva sua zia, l’amia Morexina con i cuginetti, allora si preparavano i biscotti, il panunto col lattemelle e frutta di stagione e Momolo giocava con loro, specialmente con Maria Morexini la quale gli mostrava orgogliosa le sue bambole, vestite alla milanese, alla fiorentina, alla fiamminga e una perfino alla turca. Gli piaceva un po’ meno, ecco, quando l’altre cugine - Anzol, Magdalena e Querina Morexini - lo costringevano o a perdere a carte o peggio ancora a scegliere chi tra le due possedesse le bambole più belle – domanda trabocchetto, giacché avrebbe ottenuto il broncio perpetuo di una o dell’altra e i conseguenti dispetti; in quel frangente, Momolo pigliava per mano il suo cuginetto Carlo e in fuga strategica e si rifugiavano dietro a Madre.

Dopo la morte di Padre, Hironimo si comportò in maniera diametralmente opposta, disprezzando ogni mollezza e atteggiamento sensibile e compassionevole quasi si fosse convito che ad uccidere il genitore, al posto della corda, fosse stato il suo rifiuto del mondo, per vivere nel suo, di mondo. Ciononostante, quando molto alterato, il suo spirito s’acquietava di nuovo accanto a Madre o all’Orsolina, tenendole i fili di lana quando sferruzzava berrette ai ferri.

 

“Sior Pare?”

“Dimmi.”

“Ho scoperto, che il mastro tessitore è un uomo.”

“Sì ben, e dunque?”

“Dunque, visto che non è solo negozio da femmine, posso imparare senza che voi mi rimproveriate.”

“Davvero? E perché vuoi apprendere a lavorare la lana?”

“Primo, perché se dovrò aiutare i miei fratelli a valutare i panni di lana prodotti nelle filande, come faccio a sapere se ci stanno imbrogliando, rifilandoci tessuti di seconda qualità, se non conosco il loro mestiere? Oppure, come posso pagarli adeguatamente se non so la fatica dietro? Terzo, perché quando l’Orsolina mi confeziona una bereta, sono contento. Vorrei anche io far contente le persone e imparare qualcosa che porti a creare invece di distruggere. Sior Pare, è sbagliato?”

“No, Momolo, non è affatto sbagliato.”

 

Chi era Padre? Il nemico.

Chi era Padre? Il difensore.

Chi era Padre? Atlante con l’ingrato peso dell’esser genitore.

Eppure, non era sempre stato così. La sfortuna volle che padre e figlio si separassero in cattivi termini, tra contrasti e incomprensioni, però Hironimo dal più profondo dell’anima credeva con ostinato ardore che esistette un tempo in cui egli per lui fu il suo Momolo, un tempo in cui, mentre Padre compilava questo o quel rapporto o controllava i conti, sulle sue ginocchia egli si sentiva invincibile, un re.

E gli confidava i suoi pensieri senza paventare rimbrotti o sminuimenti.

Con questa missione, il preservamento della memoria di Padre e la ricostruzione del mosaico che fu Anzolo Miani, Hironimo nel corso degli anni aveva raccolto con certosina scrupolosità ogni indizio sulla vita del genitore, letto e collezionato ogni cartiglio, interrogato ogni persona che l’aveva conosciuto, in cerca di tracciare un disegno definito e rispondere all’annosa domanda: chi era mio Padre?

Di nascosto dai famigliari, da Madre istessa, sotto il suo letto a cassettoni a San Vidal egli celava una cartella di marocchino rosso con dentro il frutto delle sue ricerche, da Hironimo consultata in quei giorni in cui invero si sentiva una nave senza nocchiero in gran tempesta.

 

***

 

 (lettera del N.H. Anzolo Miani di Lucha a suo fratello maggiore il N.H. Marco Miani, Rettore di Sciro, 1464)

 

 

Carissimo amico e fratello, compagno fedele e confidente,

mi conforta apprendere come il viaggio da Negroponte a Schiro si sia concluso felicemente, senza ritardi né intoppi e un poco confesso invidiarvi i caldi raggi del sole di cui sicuramente starete godendo. Approfittate dunque della buona aria e del clima favorevole, che vi possa giovare ai polmoni, avendomi la siora nostra Maregna riferito quanto ancora voi soffriate di sporadici attacchi di tosse. Vi rammento di portarle, al vostro ritorno, di quel salutare olio di iperico ivi prodotto: ella lo gradirà e i suoi nervi con lei e non assorderà più la povera Orsolina.

Vi scongiuro di riguardarvi: anche se quest’anno potremo raderci la barba, il lutto della morte del nostro dolcissimo fratello Vorzilio corrisponderà per me ad una piaga ognora aperta e il sapervi distante da casa e per di più ammalato mi angoscia. Non strapazzatevi; nutritevi adeguatamente, dormite le giuste ore e pur praticando svaghi all’aria aperta, non in eccesso da mancarvi il fiato.

Quanto al resto della nostra famiglia, le cose stanno così: il nostro sior Pare ancora risiede a Pola, totalmente assorbito dal suo nuovo incarico di Provveditore della legna dell’Istria e della Dalmatia; le lettere scritteci dalla siora Maregna confermano la sua salute, le solite noie e disagi legati al ruolo, qualche novità locale e basta. Suppongo quindi portarsi bene, ché niente nuove buone nuove. Il sior barba Nicolò ugualmente poco lo si vede, si direbbe dormir quasi a Palazzo e rimprovera spesso nostro cugino Thomà di non imitarne lo zelo lavorativo, trascorrendo troppo tempo ai fonteghi come se si trattasse d’un gran crimine l’aiutarmi. Inoltre, la moglie del nostro germano aspetta un altro figlio, naturale voglia restarle un poco più accanto e dopo la Marietta egli spera ricever da lei un maschio. Il sior barba Hironimo si dileggia nelle ore morte o nello studio a legger di filosofia e teologia o in chiesa a San Vidal, al Monastier di la Caritae e dagli Agostiniani di Santo Stephano. Ultimamente mi reco con lui da quest’ultimi, rafforzando il mio latino e, avessi figli, già ho deciso a quali tutori affidarli ché i Domenicani, vi confesso, m’incutono un certo timore. Nostra nipote Marietta e nostro cugino Nane-Chéco crescono sani, di eccellente costituzione e appetito e assai rumorosi ma temo un poco per quest’ultimo, essendo il sior barba Hironimo d’età più nonno che padre, non vorrei lo viziasse troppo; per il momento Nane-Chéco resta in cuna e in custodia della siora amia Maria e come crescerà, si vedrà.

Per me, colmo il vuoto della vostra assenza tra i fonteghi, le visite alle filande e i libri di diritto, ché non mancherà la mia occasione di servire concretamente la Signoria, oltre in galea, e voi ben sapete quanto m’irriti trovarmi impreparato in qualsiasi compito affidatomi.

Item, sto seguendo molto da vicino i nostri ordini di lana inglese – lo spazio di galea acquistato ci garantisce un buon carico; stendendo il contratto con sier Zuane Foschari, mi chiese questi se avessi voluto rivenderla a Tunisi e /o a Siracusa – contro l’opinione di Padre ho rifiutato poiché lavorando in loco detta lana nelle filande otterremo maggior introiti, senza contare che il Foschari pur sarà uomo d’onore, ma in galea la legge è lui e non posso controllare i noli addebitatimi. Padre ed io abbiamo navigato e commerciato a sufficienza da riconoscere immediatamente i metodi dei contrabbandieri -  tra le righe ciò ho fatto intendere a sier Foschari: non s’atteggi da furbo con me. [2]

Al momento, dopo essersi trattenuti due mesi a Londra e passata la fiera di Vintona, la Foschara di sier Zuane Foschari e la Malipiera e la Squercia del vicecapitano sier Stephano Malipiero si trovano ad Antona e lì finalmente avremo il nostro cargo. Aspetto novembre con impazienza, quando rimpatrieranno a Veniexia.

Conosco bene i vostri scetticismi riguardo quest’insolito investimento, ma credetemi che contrariamente a molti altezzosi la lana inglese la considero invece d’eccellente qualità e testura, resistente e di prezzo economico pur aggiungendo i costi di viaggio e ciò giustifica i miei sforzi ed ansie -  il vostro prestito è ben garantito. Vi ricordate il panno acquistato per curiosità dall’ultima spedizione di Fiandre? Teneva talmente caldo da poter vestir estivamente sotto, impermeabile tutt’al più. Senza contare che anche a Florenza e a Millan la usano per confezionare panni d’eccelsa qualità, sicché garanzia assicurata.

Il N.H. Priuli residente fisso ad Antona – cui mi sono raccomandato, anticipando il Foschari e anche il Malipiero - mi spiegava che di lana in Ingaltera ne producono in sovrabbondanza, ma non son capaci di lavorarla appropriatamente, cioè non con la maestria dei tessitori e tintori italiani sicché ad Antona hanno costruito una “Casa della Lana” apposta per venderla a noi e agli altri mercanti stranieri - Aragonesi, Fiamminghi, Anseatici e qualche Scandinavo. Di Genovesi e Napoletani sempre di meno - mi riferiva il N.H. Priuli le lamentele di un grossista alla Casa - colpa della guerra tra Eboracensi e Lancastrensi e degli stolti che essa mai uccide. Meno male che la Signoria vostra è tenace e non si è lasciata intimorire - dice costui - da quattro scalzacani che pensano di campare mangiando aria. Si riferisce quest’inglese ai saccheggi delle case dei Lombardi a Londra e delle furberie di Zuanne Peine, fu sindaco di Antona. Per nostra fortuna, il nuovo Re eboracense è molto ansioso di ristabilire i commerci con la Signoria nostra e fa il tutto per riportare l’ordine e punire i sudditi ribelli, che non ci molestino né ci impongano noli al di là di quelli convenuti.  

Parrebbe, dunque, fratello carissimo, che questa mia idea di tentare la sorte in Ingaltera possa dare i suoi frutti: il cargo soddisferà le nostre esigenze e potrebbe essere l’anno della ventura.

Vi scriverò quanto prima e prego la Madonna che sempre stenda su di voi il Suo manto materno,

Vostro fratello Anzolo

 

Item. Giuntami nuova, dai consoli nostri a Londra il N.H. Priuli ha appreso e mi riferisce come detto Re sia maldisposto nei confronti del Conte Varvici, ché questi gli vuol imporre moglie francese quando lui la vuol borgognona; pur il Conte ha già accarezzato il Roy di Francia o per la sua figliola madona Anna o per la sorella della Reyna, madona Bona di Savoia. Si vocifera però che il Re tutto è preso d’amore per una nobildonna della fazione sconfitta, madama Yxabela Greia, la quale è vedova con due figlioli, e di come sia il Conte che il Consiglio Privato non favoriscano tale unione, se la pigli il Re come amante ma come Reyna eia non digna est. Item, il N.H Priuli teme come il Conte, se ulteriormente infastidito, potrebbe anche disertare il Re per servire il rivale sconfitto e sarebbe grande disgrazia per l’attuale Re e per noi, di nuovo privati di un mercato tanto profittevole come quello inglese, dovesse la Signoria giudicare nuovamente Antona porto pericoloso per le nostre galee.

Novembre però arriverà presto e per allora saremo a posto. [3]

 

 

“In certi periodi, in casa lo si vedeva o poco niente, specie negli anni della guerra contro Frara. Ciononostante, la sua presenza la percepivi eccome. S’informava spesso di noi, la siora Mare gli scriveva lunghe e dettagliate lettere; tant’è vero che, rincasando, quando conversavamo e mi chiedeva dei miei progressi nelle letture e nel ricamo, mi sembrava che Padre non fosse mai partito”gli confidò Crestina un pomeriggio.

Momolo era venuto a salutare lei e i nipoti Dionora e Gasparo prima della partenza per Treviso, dove Lucha si sarebbe diretto in virtù di camerlengo e non avendo egli ancora famiglia propria, Madre aveva suggerito a Momolo e a Marco d’accompagnarlo così da familiarizzarsi coi futuri incarichi che l’attendevano. Avrebbero viaggiato da soli, Madre doveva seguire la distribuzione e la catalogazione delle merci nei fonteghi e Momolo di conseguenza stava sguazzando nell’angoscia, mai veramente separato dalla genitrice fino a quel momento e, non sapendo dove sbattere la testa, s’era rintanato a casa della sorellastra, l’unica a non rifilargli il solito ritornello del “non adesso”, “non ho tempo”. Persino il barba Batista, sempre disponibile, da quando l’avevano eletto Savio di Terraferma pareva la laguna averlo inghiottito.

Ignorava gli esatti come, dove e perché, però ad un tratto i due avevano incominciato a discorrere di Padre: il sole piacevole li aveva condotti sull’altana del palazzo, dove Crestina prediligeva cucire ed insegnare tale arte alla figlia Leonora detta Dionora e, forse a seguito delle lagnanze della sua sorellastra circa le assenze del marito Thomà, ecco che lei aveva correlato i due uomini e Momolo ne aveva approfittato infido per interrogare avidamente la donna, Gasparo sulle sue ginocchia intento a mangiucchiare un piavolo di pezza.

 

(lettera indirizzata dalla N.D. Leonora Morexini Miani a suo marito Capitano di Galee della Marca e dell’Istria, il N.H. Anzolo Miani, 1482)

 

 

[…] La Tina mi scrive dal convento come le suore la stiano impegnando in pie opere di carità, la quale ella offre a Dio onde gli piaccia di preservarvi dai pericoli della guerra. Mi manca molto il suo chiacchierio e le giornate trascorse lietamente in giochi, quant’è strano visitarla in parlatorio! Approverete di sicuro la scelta del convento: le suore non seguono una regola né troppo severa né troppo lasca, anzi paiono dimostrare grande benevolenza verso i talenti della Tina e le insegnano con zelo le virtù della matrona cristiana, invece di nutrire invidia come solgono spesso indulgere coloro che si monacano per costrizione […] Ogni giorno Luchin e Carlino recitano per la salute di V.S. delle deliziose Ave Maria e con molto fervore pregano Missier Sen Bastian che vi protegga dalle febbri malariche. Il Luchin v’allega qua la sua prima letterina […] Marc’Tonin sempre chiede di voi e il Marchetto sta imparando a camminare col girello e non sta mai fermo […] Giunta ci è la nuova della presa di Comacchio da parte di V.S. e ben siamo orgogliosi di voi […]

 

 

(lettera indirizzata dalla N.D. Leonora Morexini Miani a suo marito Capitano di Galee della Marca e dell’Istria, il N.H. Anzolo Miani, 1483)

 

 

[…] comprendo la vostra penna esser legata da segretezza assoluta, spero che voi e le vostre fuste restiate saldi e al sicuro per tutta la durata di quest’impresa. I vostri figlioli pregano assai il Signore per il vostro ritorno e ogni giorno Luchin e Carlino m’accompagnano per le opere di carità. Altro non si può fare, vige una gran confusione per via della scomunica, pur la Signoria è implacabile col clero veneziano: scelgano la loro lealtà, se Veniexia o Roma. Più a riguardo non vi so dire, la nostra anima è in pace col Signore Il Quale vede ogni cosa, anche le doppiezze dei suoi ambiziosi servi che, come il primo che sedette a Roma, Lo rinnegano in terra ignorando come Egli li rinnegherà in Cielo. La Tina vi saluta e vi mando, tra gli oggetti da voi richiestimi, un fazzoletto da lei cucito. I piccini mi chiedono di scrivervi di ogni dettaglio delle loro giornate; pregano per l’incolumità vostra e delle vostre galee e altre cinguettii che voi ben conoscete esser tipici dell’età loro.

 

 

“Com’era Padre con te?”

“Molto affettuoso, attento ad ogni mia necessità e pur non capendo di ricamo, conscio però quanto in esso mi dilettassi, mi portava in Merceria e lì mi diceva: compra tutto ciò che t’aggrada! Credeva che non me ne rendessi conto, quando mi contemplava triste, forse gli ricordavo mia madre o forse l’avvicinarsi del tempo della separazione”, disse la nobildonna, intorcolando con arte le mazzette in un’agile danza ipnotica. Ridacchiò: “Talvolta Padre me lo ricordo anche un po’ impacciato con me, come ogni uomo che non concilia più la sua bambina con la donna adulta che diviene”, e all’insistenze di Momolo di fornirgli maggiori dettagli ella negò col capo, non potendogli descrivere senza violare un segreto esclusivamente femminile. “Era gelosissimo e sospettoso di Thomà, gli aizzò dietro i miei barba Antonio e Sebastian, no sastu?”

 

 

(lettera indirizzata al N.H. Antonio Trum q. sier Stae dal Provveditore del Polesine di Rovigo, il N.H. Anzolo Miani q. sier Lucha, 1488)

 

 

Carissimo amico, fratello mio,

ho accolto con sollievo la pronta guarigione di vostro fratello Sebastian; vi prego d’aggiungere i miei saluti e complimenti al vostro germano Lucha, che mi dicono distinguersi a Palazzo, in questo si può ben vantare d’assomigliare al quondam vostro Serenissimo barba Nicolò […] Come vi scrissi, il ponte di pietra – “del Sale” – è completato, ad uso ed ornamento della città; simile, il nuovo Palazzo Pretorio si finirà presto cosicché la Fiera del 17 agosto possa suscitar ancor più entusiasmi e introiti per la città e Ruigo ne ha assai bisogno […] Tra le altre cose, fratello carissimo, se non v’incomoda troppo, un unico favore vi chiederei poiché il mio ufficio mi vieta d’assentarmi qua dal Polexine. Vorrei se per cortesia voi v’informaste con tatto e discrezione su Thomà figlio del fu sier Thomà da Molin “Murlon” da la Madalena. Poiché costui ben persiste nel suo proposito di maritarsi con mia figlia, io ho da sapere chi egli sia realmente, delle sue occupazioni civili e frequentazioni private, quale sia insomma il suo vero animo nei confronti della mia Tina. Nulla quaestio sulla sua famiglia – la conosco bene, solido credito, grandi elemosinieri, di buone qualità, molto cattolici e suo nonno, sier Francesco, un vero galantuomo – ma di questo Thomà niente. Capirete, fratello carissimo, che maritare una figlia non è come ammogliare un figlio; una nuora la si può raddrizzare, se falla verso il marito. Ma un genero? Mia figlia da sposata non m’apparterrà più, se il marito dovesse rivelarsi una bestia solo tramite la Quarantia potrei riaverla indietro e in quali condizioni? Per amore della vostra nipote e fiozza e per l’amore che portavamo per la defunta Andriana, vi prego d’aiutarmi a proteggere questa nostra perla, ché darla ad un indegno ci rende ad egli uguali e Dio non ci fa uomini né la legge ci conferisce i poteri e le libertà degli uomini, onde permettere che una donna venga strapazzata, men che meno se sangue del nostro sangue.

 

Tu molto probabilmente non te lo ricordi, avevi tre anni appena. Al termine della festa nuziale, quando venne il momento di congedarmi da Padre per seguire mio marito in casa sua, ecco, m’inginocchiai come conveniva e, afferrategli ambedue le mani, gli dissi: Padre, voi sapete quanto vi ami e vi rispetti, dell’immensa gratitudine ch’io nutro per voi per avermi messa al mondo, cresciuta ed educata, facendomi buona veneziana e buona cristiana. Padre mio, se v’ho offeso, se v’ho deluso, se mi son comportata indegnamente verso di voi, vi scongiuro, in nome di Dio e della Beata Sempre Vergine Maria, di perdonarmi ogni mancanza nei vostri confronti e di benedirmi in questa nuova parte della mia vita.” Ci crederai, Momolo, che dovetti aspettare un bel po’ prima della sua benedizione, giacché Padre aveva un tal groppone in gola, da non riuscir a parlare?”

Momolo stentava, invece, immaginandosi il genitore di marmo come le statue degli dei, dei generali romani e degli eroi greci.

“E quando nacque Dionora … Ah! Padre per poco non inciampò sulla toga al suo rientro da Nepanto, tanto era ansioso di vederla e d’assicurarsi ch’io stessi bene …”

Sì, quello Momolo se lo ricordava, così come la fitta di gelosia che gli aveva trapassato il suo cuoricino di seienne alla vista di Padre sorridere tutto orgoglioso sulla culla di Dionora. Traditore, avrebbe voluto rimproverargli il bambino, manco più mi badi? E per cosa? Per questo macaco spelato?

E naturalmente il biscugino Zuan Francesco doveva pure lui mettersi a procreare e di fatti due anni dopo nasceva il piccolo Agustin e a Momolo venne una crisi di pianto, quando, non capendo la differenza tra padre e padrino, credette che Padre per davvero non ne volesse più sapere di lui e su quest’inquietudine a Carlino il Turco non parve vero di soffiarci sopra, confidandogli come Padre avesse avuto intenzione di venderlo ai Genovesi alla stregua di una scimmia.

 

“Madre! Padre non mi vuole più bene! Mi vuol vendere ai Genovesi! Non sono una scimmia!”

“Ma no, Momolin, che dici?”

“E allora, perché sta sempre dietro a loro e a me niente? Odio lui, odio quei ladri ramarri dei miei nipoti e cugini! E se … e se vendesse loro ai Genovesi?”

 

Non li odiava, tutt’altro; Momolo scoprì man mano che le numerose sue amie (zie, ndr.) o cugine ne scodellavano uno all’anno, che i bambini gli piacevano, almeno dopo che la balia li aveva ripuliti e fasciati. A tal punto si divertiva a giocare con loro che s’azzardò un giorno durante la pennichella del dopopranzo estivo ad imitare la balia. Non visto, Momolo era entrato nella stanzetta dove il neonato Agustin dormiva ignaro ed estrattolo dalla culla, s’era slacciato prima i lacci del farsetto e poi della camicia giudicando per il rasoio di Occam che se Stin poppava dalla tetina della balia, poteva benissimo riuscirci dalla sua e che altrimenti ce l’aveva a fare?

Se a Momolo codesto mistero dell’anatomia sfuggiva, al fantolino no di certo, anzi, riconoscendosi gabbato da quella falsa promessa di pappa, strillò talmente forte il suo sdegno da svegliare l’intera Ca’ Miani e sfortuna decretò che il primo a giungere sul luogo del misfatto fosse appunto Padre.

Per la prima volta in vita sua, Momolo ebbe di lui una paura fottuta.

“Beata te, con me si comportava da tartaro!”, bofonchiò il quindicenne Momolo, giocherellando con i ciuffi morbidi di Gasparo. “Sempre una critica, sempre una predica da rifilarmi … Non riuscivo mai a compiacerlo! A volte mi chiedo, se fosse mai stato felice della mia nascita …”

 

 

(lettera indirizzata al N.H. Batista Morexini da sua sorella N.D. Leonora Morexini Miani, da Feltre, luglio 1486)

 

Carissimo e generoso fratello,

Cento, mille baci alla mia nipotina, la bellissima Maria e le mie felicitazioni alla dolce mia sorella Morexina vostra moglie […] Dalla vostra lettera comprendo come la piccina v’abbia rubato il cuore – è giusto, qualcuno dovete pur viziare […] Quanto alla nostra famigliola, godiamo tutti di buona salute e della protezione della Vergine Dolcissima, tranne la siora nostra Mare che si lamenta del clima feltrino, a lei insopportabile: malgrado il Palazzo Pretorio ci offra le adeguate comodità, Feltre si presenta talmente fredda che pure in estate sembra d’esser in primavera e la sera si sta bene con uno zendale di cotone pesante […] Riguardo alle mie condizioni, non v’angustiate: voglia la Madonna, quest’autunno c’arricchiremo d’un puttino o d’una puttina. Il mio sior marido e la siora nostra Mare mi tengono avvolta in seta e piume; in particolare il mio illustrissimo consorte neanche quando rimasi grossa del Luchin mi trattò con tale premura, pare faccia a gara per indovinare ogni mio desiderio e ogni sera prima di coricarci mi bacia le mani, benedicendomi per la gioia che gli sto regalando. D’altro canto, però, è anche tutto un’agitazione – credo per via della mia età - talvolta mi piglia una gran voglia di scuoterlo e intimargli di calmarsi, che il fantolino lo debbo fare io e non lui, che ho sì trenta e quattro anni ma non son vecchia e decrepita e che se proprio mi vuol aiutare, compia il dover suo di Podestà e riappacifichi una buona volta questi Feltrini, che a seguito della peste altro non pensano di ringraziare Dio, San Vetor e Santa Corona d’esser sopravvissuti se non scannandosi a vicenda in tristi e sanguinose contese […]  Oggi poi parlerò con Mastro Isepo e suo figlio Vetor, falegnami, per la questione della culla […]

 

Crestina gli afferrò la mano, costringendolo a guardarla negli occhi, i medesimi di Padre, grigi come il mare d’inverno. “Mathuzhèlo (stupidotto, ndr.) mio! Padre ti voleva molto, molto bene, ma lui non era Madre.”

“Che significa?”, inquisì intrigato l’adolescente.

“Un padre deve badare all'educazione ed al mantenimento dei suoi figli, prezioso pegno di continuità, e sovraintendere alla loro riuscita in società; alla madre vanno lasciati i sentimenti e la partecipazione affettiva.”

Momolo storse la bocca, affatto d’accordo. “Che jotonia!”, grugnì scettico.

“Così va il mondo.”

“E chi l’ha deciso?”

Crestina sospirò, conscia che quando il fratellastro partiva col piede polemico, la conversazione correva al litigio.

“Io”, dichiarò solenne il quindicenne, “quando avrò figli, li educherò come un padre e allo stesso tempo li amerò come una madre! E a chi m’intralcia o mi critica, gli caccio la testa dentro un gàtolo [4] e poi vedremo, se il mondo lo giudicherà ancora strano!”

La trentenne nobildonna scosse il capo, bonaria, lasciandolo blaterare al vento.

 

 

[lettera indirizzata al N.H. Antonio Trum q. sier Stae dal N.H. Anzolo Miani q. sier Lucha, dicembre]

 

Carissimo amico e fratello,

prego Iddio, i Missieri Sen Bastian e Sen Rocho e la loro protezione su di voi e la vostra famiglia. Mi perdonerete gli sghembi scarabocchi, gettati in pressa e senza forza di controllare quanto e come scrivo. Dopo settimane di strenua lotta, il morbo è infine riuscito stanotte a rubarsi via il nostro piccolo Marco Antonio. “Sior Pare”, mi chiedeva in un sussurro, “sono stato abbastanza buono per il Paradiso?” E mentre pregavamo, la sua manina, ch’io stringevo, perse ad ogni parola di vigore, finché non divenne lassa e fredda ed io seppi che d’ora in avanti Marco Antonio avrebbe seduto sulle ginocchia della Madre di Dio. Volesse Egli per questi attimi avermi creato donna! Potrei piangere senza pudore alcuno assieme alla mia povera e infelice consorte, strapparmi i capelli e urlare al Cielo l’ingiustizia di ciò, che non posso né voglio accettare malgrado la gran moria di gente che ci ha circondato e che credevamo per sempre finita . Non è mai ovvio, né naturale per un padre seppellire un figlio! Ancora potei reggere lo strazio della perdita dei miei due fratelli – scesi nella tomba giovani e in forze – ma di un fanciullo sì tenero? Di un figlio? Marco Antonio era così buono, così innocente, se invero è un castigo divino perché il morbo non si porta via chi se lo merita? Potrei compilare per giorni liste piene zeppe d’indegni … Perdonate! Perdonate! Perdonate se v’affliggo, con qualcuno avevo bisogno di sfogarmi, non oso oberare la povera mia siora mojer d’ulteriori pene, ma questa lama in petto m’assassina. Almeno, unica mia consolazione, sono riuscito a rimpatriare da Barutto in tempo per abbracciare il mio puttino un’ultima volta.

 

 

(lettera indirizzata al N.H. Antonio Trum q. sier Stai dal Podestà e Capitano di Feltre, il N.H. Anzolo Miani q, sier Lucha, novembre 1486)

 

 

Io più contemplo questo bimbo e più rimango commosso e sbalordito dinanzi alla potenza e misericordia di Dio, che dopo il lutto atrocissimo ci ha benedetto di un altro figliolo, nato di domenica quasi a sottolineare la santità del dono offertoci. Non fraintendete: Marco Antonio rimarrà nel nostro cuore, è il nostro piccolo angioletto adesso e spero lo sarà anche del suo fratellino. Vedeste come mi guarda! Ha gli occhietti neri, grandi e intensi dei Morexini, s’agita, strilla e non vuole che lo si fasci, schifa la balia ed esige solo la poppa della madre. Lo amo già moltissimo e prego Missier Domine Iddio e Missier Sen Isepo di guidarmi nuovamente nel mio difficile compito di padre. Non credevo poter ritrovare gioia a questo mondo, dopo la morte di Marco Antonio […] Il parto s’è svolto in gran fretta, sia ringraziata la verzene Sancta Malgarita d’Antiochia, quasi il nostro figliolo scalpitasse di venir al mondo. La levatrice è arrivata appena in tempo e ci ha confermato di com’egli galda di eccellente robustezza e di come abbia tutto ciò che serve al suo posto. La mia illustrissima consorte dopo quattro giorni ha di nuovo le gote latte e rosa, fresca come la brezza montana. Le suggerisco di riposarsi ma lei non m’ascolta e pensa solo ad organizzare il battesimo. Abbiamo pensato d’appellarlo o Nicolò, come il mio sior Barba e il fratello primogenito e l’avo della mia siora mojer; o Hironimo, come l’altro mio sior Barba e l’altro fratello della mia colendissima sposa. Io preferisco Nicolò, in famiglia ha più importanza. Quanto alle altre questioni […]

Item. Alla fine l’abbiamo registrato Hironimo ché la moglie qua non sente ragioni, m’accusa d’aver deciso per cinque e il sesto è suo. Inoltre è nato il giorno di San Girolamo dottor e quindi lei dice "esser destino". Non fu vero, Carlo l’ho nomato per onorare il mio fu missier Morexini, ché a mia memoria non s’ebbe mai un “Carlo” in famiglia nostra. Ma né al vento né alle donne si comanda e va bene così.

Item. Marco vi ringrazia per il regalo per il suo compleanno, un’eccellente idea la vostra onde distrarlo dalla delusione di non essere più l’ultimogenito, se ne va in giro con certi musi lunghi e per sicurezza con Hironimo s’accompagna soltanto in mia presenza, non sia mai lo sottoponga per gelosia a qualche malagrazia.

Item. A ringraziamento di Dio e la Madonna, a spese mie ho deciso di finanziare il progetto per quelle fontane con serbatoio per approvvigionamento idrico di cui v’accennavo, che per varie questioni ancora non sono state costruite e che invece gioverebbero alla città sia in utile che in ornamento. Si discuteva di commissionare la facciata agli scultori i maestri Tullio et Piero Lombardo […]

Item. Pur nella gioia s’annida il fiele, alla Signoria m’auguro siano giunti puntuali i miei rapporti circa i sospetti movimenti del Ducha d’Austria ai confini -  attendo istruzioni.

A voi mi raccomando e invoco la benedizione di Dio sulla vostra casa.

Vostro perpetuo amico e fratello, padre fortunato, Anzolo Miani scrisse.

 

 

 

(lettera indirizzata al N.H. Batista Morexini dalla sua matrigna N.D. Ysabeta Contarini relicta Morexini, da Feltre, 17 novembre1487)

 

[…] a dì 17 con nostra infinita pena e grandissimo dolore, seppelliamo in Feltre questa mia ultima nipote, nomata Emilia. Già vi confidai mesi addietro le mie preoccupazioni, quando mia figlia vostra sorella mi comunicò d’esser nuovamente grossa, malgrado mi fossi più volte e con insistenza raccomandata d’usar prudenza con suo marito vostro cognato, non essendo lei d’età consigliabile per affrontar un altro parto, in particolar modo dopo nostro nipote Hironimo ch’è già si può dir un miracolo per la svelta e facile nascita, nonché per la robustezza di membra e salute, miracolo che non s’è ripetuto con sua sorella Emilia, talmente piccola e fragile che subito la battezzammo temendo non passasse la notte. Un poco c’eravamo illusi potesse sopravvivere notando incoraggianti miglioramenti, ahimè non fu così e oggi s’è disposta la sepoltura e una messa per l’animuccia sua innocente. In casa abbiamo pianto tutti a lungo e doppia sarebbe per noi stata la doglia se non fosse alleggerita da Hironimo, cognonimato “Momolo”, che ignaro di quanto accaduto seguita ad esser un puttino vivace e felice, rallegrando questo nostro cuor in lutto[...] Malgrado la fine della guerra contro il Duca d'Austria, ancor nulla dell'arrivo del nuovo podestà, sier Hironimo Capelo. Ormai l'inverno s'appropinqua e già fioccano le prime nevicate. Pertanto, se non per Natale, sicuramente festeggeremo assieme la Pasqua [...]

 

 

(lettera indirizzata alla N.D. Ysabeta Contarini relicta Morexini da sua figlia N.D. Leonora Morexini Miani, da Lepanto, 1491)

 

 

[…] Il Momolo vi saluta con tutto l’affetto del suo cuoricino. Pur tenerello, si rammenta assai bene di voi e mi domanda spesso vostre notizie. Sa esprimere qualsiasi concetto, forte e chiaro, e recita, correttamente, il Pater Noster e l’Ave Maria; è un piacere ascoltarlo. S’inventa poi tante di quelle storielle e scherzi d’animare i lunghi pomeriggi in giardino. Dalle fantesche greche ha perfino appreso molti vocaboli e si fa capire da loro. Sta visibilmente crescendo: se sopravvivrà a questi anni incerti, a Dio piacendo verrà su un assai bel giovane, un po’ scuro di carnagione né tantissimo alto tuttavia forte di corporatura e vigoroso, le gambe belle dritte, le spalle già si vedono ampie e avrà fianchi stretti – Dio possa oltre alla bellezza fisica conferirgliene una ugualmente spirituale, tanto da farne di lui un buon cristiano! Il suo magister è di lui piuttosto soddisfatto, sostiene che quando vuole ha ingegno e una lingua pronta. […] Marchetto vi scrive ogni giorno; il mio sior marido vostro zenero gli ha regalato il suo primo calamaio di corno, completo d’inchiostro, penne e carta e Luchin vi darà oltre alle sue letterine quelle di Carlino, così possiate sentirli crescere accanto a voi […]

 

 

(lettera indirizzata alla N.D. Crestina Miani da Molin dalla sua matrigna N.D. Leonora Morexini Miani da Zante, ottobre 1493)

 

[…] Mi chiedi con grande ansietà di tuo fratello Momolo e ti dirò questo: che sta crescendo nel puttino più dolce e bello di cui si possa sperare esser genitore. È sorprendente quanto sia di spirito vivace e curioso; impara in fretta e a memoria senza difficoltà – purtroppo, però, solo se la lezione gli garba o non c’è santo presso cui si possa intercedere. Le sue orazioni le recita alla perfezione, oltre al Pater Noster, l’Ave Maria ora conosce il Credo, Salve Regina, Qui abitat e molte altre preghiere cui io e la siora vostra avia ci prodighiamo d’insegnargli quotidianamente. Per l’Avvento, a Dio piacendo, saprà leggere il latino senza interrompersi e senza strafalcioni di pronuncia; conosce a menadito molte poesiole e canzonette sia in lingua veneziana che greca, con cui ci diletta dopo cena. Possiede una robusta inclinazione verso la matematica, il tuo sior Pare mio marido per gioco lo interroga con alcune somme e sottrazioni così, al volo, che Momolo risolve con grande facilità. Si diverte a giocare all’aria aperta, anche se i dispetti dei suoi coetanei lo fan star male, e trova molto spasso nell’accompagnare in barca i tuoi fratelli a pescare o in spiaggia a raccogliere conchiglie.

Dal tuo sior Pare mio marido ha ereditato l’attitudine ad organizzare ogni attività fino al dispotico se non lo si ferma. Vuol far tutto lui e non accetta né consigli né aiuti. […]

Ogni giorno Momolo mi chiede di te e pretende notizie dettagliate, s’accende del medesimo fuoco del tuo sior Pare se lo s’ignora e non accetta “no” o “non adesso” o “più tardi” per risposta. Perfino progetta d’imbarcarsi per Veniexia e di visitarvi alla Pasqua Teofania, mi elenca tutto il necessario per il viaggio e vuole che venga anche l’Orsolina. […] Scrivimi ogni cosa su Dionora, come sta crescendo, mi dispiace assaissimo perdermi questi suoi primi anni. Non dimenticarti d’estendere i miei saluti anche al tuo sior marido Thomà mio zenero, al suo sior fradelo sier Timotheo e al loro avo sier Francesco e non ultima alla tua madona la siora Gracimana Trivixan relicta da Molin.

 

***

 

 

Sier Antonio Trum q. sier Stae, nipote del fu Serenissimo e in quell’anno Savio di Consiglio, incuteva di primo acchito una certa soggezione: non molto alto ma di membra robuste, di non bella faccia, pareva un orso eppure, se preso in disparte, possedeva il medesimo carattere generoso e accattivante del suo illustre barba, pur indurito dalle necessità del tempo.

Prima di divenire cognato di Padre, già tra i due esatti coetanei vigeva una fortissima amicizia, nata dalla mutuae tra i Trum e i Miani per la muda di Candia e di Rodi, dove i primi possedevano solidi appoggi, ora famigliari – la madre di Antonio, madona Maria, era una Contarini del ramo candiota – ora d’amicizie accuratamente coltivate dal nonno sier Lucha Trum e i suoi quattro figli, Nicolò, Donado, Antonio e Stae. Pertanto, i lunghi anni di collaborazione commerciale li avevano avvicinati al punto da considerarsi fratelli ancor prima d’imparentarsi tramite il matrimonio con Andriana Trum e anche dopo la sua morte di parto, sier Antonio seguitò a frequentare Ca’ Miani, più che altro per la nipote Crestina cui ricopriva di mille amorevoli attenzioni – l’adorava. [5]

“Scherzosamente, Anzolo mi definiva un mercante sedentario, giacché pur conoscendo a menadito i diritti e regolamenti commerciali e il codice nautico, soltanto una volta in vita mia misi piede su di una galea e mi bastò per tutta la vita! Fortunatamente, tuo padre mi prese, a modo suo, sotto la sua ala … Anzolo apparteneva alla vecchia scuola, in cui le mani dei patrizi sono incallite dal remo prima che dal ferro.”

 

Seduto a gambe penzoloni su di un pozzo, Toniolo osservavano attento, il mento appoggiato sui pugni. Il sole ancora non scaldava eppure ovunque pullulava di gente. La curiosità morbosa per l’esilio di sier Jacomo Foschari figlio di Sua Serenità Missier il Doge e la spensierata baldoria per la visita dell’Imperatore Friedrich III e dell’Imperatrice Leonor d’Avis erano episodi ormai relegati al passato, riprendendo ciascuno le rispettive attività con la solita dovizia di formichine operose.

Quei giorni Piazza San Marco era ricoperta di un considerevole numero di piccole tavole e di bandiere ornate degli stemmi della famiglia del capitano-commerciante, il finanziatore della spedizione e reclutatore delle duecento e più anime che a fine luglio si sarebbero imbarcate con lui alla volta dei vari porti mediterranei e oceanici.

Anche il signor padre di Toniolo, sier Stae Trum, v’era tra questi, installato dietro il suo banco assieme ai suoi barba Donado e Antonio, valutando i candidati con precise domande e aggiudicandoli la mansione che avrebbero ricoperto nella galea nonché la paga in anticipo, differenziandosi infatti Venezia dall’uso straniero d’impiegare forzati e schiavi ai suoi remi e pertanto gloriando la propria flotta col nome di “galee libertà”. L’araldo pubblico aveva avvisato da parecchi giorni la popolazione e una folla di poveri ma robusti diavoli dalla Terraferma, Slavonia e Dalmazia s’era raggruppata a semicerchio, in attesa del proprio turno.

Poiché il codice nautico aveva già regolato la maggior parte dei problemi e dei casi, ai fratelli Trum non rimaneva che ingaggiare rapidamente l’equipaggio, incominciando per loro un febbrile periodo di attività e se di suo li si vedeva poco in casa, adesso ancor meno. Onde raccogliere i fondi necessari per finanziare l’impresa e acquistare la merce prevista nel capitolato d’appalto, oltre alla fraterna stavolta i Trum avevano ricorso ad una mutuae coi Miani e di fatti nel banco accanto stavano assieme a loro sier Lucha e suo fratello sier Hironimo Miani, molto probabilmente discutendo dell’attrezzatura e della squadra di calafati e maestri d’ascia da reclutare per l’ottimo e constante mantenimento della galea. Infatti, se al loro ritorno i Trum non voleva esser tenuti responsabile di danni o d’avarie, essi doveva controllare accuratamente l’attrezzatura del naviglio consegnatogli dall’Arsenale. Dulcis in fundo, i patrizi avrebbero chiamato di nuovo il notaio per sistemare i loro affari privati, salutato sier Stae sua moglie madona Maria Contarini da Candia e i suoi figlioli Bastian e Andriana e poi buondì fino a Natale, giacché onde meglio badare alle operazioni di carico, nelle ultime due settimane i fratelli Trum non avrebbero potuto per un solo istante abbandonare l’imbarcazione. Quell’anno di grazia 1452, poi, il loro fratello Nicolò e i nipoti Phelippo e Zuane non avrebbero viaggiato, troppo impegnati nei loro uffici a Palazzo Ducale, e quindi mancando d’aiuti dovevano lavorare il doppio in preparazione alla partenza.

“Toniolo, venite qua! Lesto!” , chiamò Stae Trum suo figlio decenne, che trasalendo dalla sorpresa balzò giù per raggiungere il banco paterno.

“Comandate, sior Pare?”

“Il viaggio a giugno per Tana del nostro caro amico e socio sier Lucha si prospetta assai impegnativo; pertanto ha pensato d’aggregare ai Signori di Poppa della Trona il suo figliolo, Zanzetto, invece di portarselo seco.”

Toniolo si morse il labbro inferiore, scoccando un’occhiata scettica al suo esatto coetaneo dietro a sier Lucha Miani, un giovinetto silenzioso dal capo perpetuamente chino (almeno in presenza del padre) magrolino e agile, olivastro di volto e le gote arrossate dal sole e dal vento. Come molti cadetti o figli di cadetti, s’imbarcava per via della possibilità di ottenere una borsa di studio, nel frattanto che, a spese della Signoria, gli s’insegnava il mestiere di marinaio e commerciante. 

“Zanzetto è sì un paggio, ma essendo già stato l’anno scorso a Barutto sa il fatto suo e quindi vi terrà egregia compagnia.” Tradotto tenerlo d’occhio che non impacciasse le manovre o s’esibisse in momarie, giacché sier Stae non aveva né tempo né voglia di badare a lui. Anzi, Toniolo nutriva il sospetto che già suo padre si stesse pentendo di averlo arruolato e che quello sarebbe equivalso per lui al primo e ultimo viaggio verso Candia. Oh beh, almeno avrebbe visitato i suoi parenti materni.

Toniolo ingoiò saliva amara, non contento di quella sua nuova balia.“Ci saluteremo alla partenza?”, gli chiese con un sorriso forzato.

“Se non mi crepi prima”, dichiarò scocciato Zanzetto, beccandosi un pronto scappellotto da sier Lucha Miani. “Sarà un piacere”, si corresse, ghignando verde.

Il giorno della partenza arrivò per Toniolo troppo in fretta e in quell’alba di fine luglio otto galee si apprestavano a lasciare la laguna, le vele così alte che oltrepassavano il tetto delle case.

“Adjutorium nostrum in nomine Domini.”

“Qui fecit caelum et terram!” 

“Dominus vobiscum.”

“Et cum spiritu tuo.”

“Oremus. Propitiare, Domine, supplicationibus nostris, et benedic navem istam dextera tua sancta et omnes qui in ea vehentur, sicut dignatus es benedicere arcam, Noë ambulantem in diluvio: porrige eis, Domine, dexteram tuam, sicut porrexisti beato Petro ambulanti supra mare; et mitte sanctum Angelum tuum de caelis, qui liberet, et custodiat eam semper a periculis universis, cum omnibus quae in ea erunt: et famulos tuos, repulsis adversitatibus, portu semper optabili, curusque tranquillo tuearis, transactisque, ac recte perfectis negotiis omnibus, iterato tempore ad propria cum omni gaudio revocare digneris: Qui vivis et regnas in saecula saeculorum.”

“Amen!”, si segnò Toniolo in mezzo al resto dei Signori di Poppa intanto che il cappellano di bordo deambulando per la corsia centrale benediceva nave e uomini.

Ciascun membro dell’equipaggio si trovava precisamente al suo posto, indaffarato; i balestrieri a supporto dei fanti in piedi lungo l'impavesata; il pilota al castello di prua, il timoniere nella sua navicella, mentre centosettanuno remi, in gruppo di tre, agli ordini del comito incominciarono a battere l’acqua ritmicamente. Davanti a loro, decine di piccole lance s’affannavano a rimorchiare le grandi galee attraverso il passaggio del Lido .

Un vento favorevole li aveva benedetti e una volta superato il porto, i rematori lasciarono i banchi e aiutarono gli altri marinai a issare le vele del trinchetto, della mezzana e dell’albero maestro e le galee incominciarono tosto ad acquistare velocità, finché i contorni di Venezia si persero all’orizzonte, fondendosi con la linea piatta del mare. I gagliardi, giovanissimi gabbieri più ossa che muscoli, si arrampicavano e scendevano con abilità d’acrobata lungo le corde, talora rimanendo sospesi come scimmie alle sartie.

“Sai che diceva il nostro illustrissimo ammiraglio, il Capitano Generale da Mar sier Piero Loredan?”, [6] confessò Zanzetto ad un sofferente Toniolo, aiutandolo a distendersi sulla branda dentro il pizzuolo, là dove avrebbero condiviso pasti e sonno col Patron e i suoi ufficiali. Zanzetto, afferrato Toniolo per la mandibola lo costrinse a guardarlo negli occhi così da mantenere un punto fisso e non soffrire la nausea causata dal mal di mare. Quanto a quella per il puzzo di freschin e di sudore animale e umano, a quella non sussisteva alcun rimedio.

“N-no …?”, sbrodolò sbiancando Toniolo, stringendo la coperta al petto, le budella sconquassate dalle oscillazioni della galea.

Induritevi alla fatica e alla sofferenza acciocché sappiate esporre la vostra vita per la difesa e la prosperità della Signoria!” Quindi duri ai banchi e sopporta senza tanti piagnistei e se osi vomitarmi addosso stanotte, ti rifilo uno stramuson che manco più ti riconosci allo specchio!”

Toniolo deglutì, intimidito.

Zanzetto grugnì in approvazione. “Vedrai che poi t’abitui”, gli disse più dolcemente, afferrandogli la mano cui Toniolo s’aggrappò come un naufrago ad un pezzo di legno. “L’importante è che camminando fissi un punto dritto davanti a te, così da stabilizzarti. Ah, non scordarti d’indossare una bereta, a meno che tu non voglia stramazzare al suolo. Il sole del Levante non perdona. Poi, qualunque cosa, non hai che da chiedermi!” e sorrise, contagiando anche il suo coetaneo.

Fino a Parenzo e a Pola, in Istria, le galee avrebbero viaggiato assieme anche per rifornirsi di acqua, di legname, di viveri e di montoni. Dopodiché, sorpassata Corfù, avrebbero seguito la rotta per la Morea arrivando a Negroponte e lì sarebbe avvenuto il vero addio, dividendosi ognuna verso la propria rotta: verso Candia e Rodi per far scorta dell’eccellente vino e dell’uva passa di cui i popoli del nord impazzivano; verso il Mar Nero e Tana per ammassare le stive di pellicce, pelli, pesce salato, caviale e tutti i prodotti d’Oriente trasportati dall’India o dalla Cina dalle carovane dell’Asia.

Trentacinque giorni di navigazione prima d’attraccare a La Canea, per poi proseguire a Retmino ed infine a Candia, l’omonima capitale dell’isola. Sull’infinito mare blu intenso dell’Egeo frusciavano le onde schiumose sotto la chiglia, correndo le galee di Candia e Rodi incalzate dal vento e si faceva il paesaggio costiero sempre più brullo e d’un ocra intenso, così come la luce solare vivacizzava ogni colore, rendendolo quasi accecante.

Trentacinque giorni in cui Toniolo e Zanzetto, dopo l’iniziale ostilità, impararono a conoscersi fino a divenire inseparabili, dove stava uno compariva l’altro e a Candia egli presentò il piccolo Miani ai suoi barba Contarini come “il più caro amico ch’io abbia mai avuto a questo mondo.”

 

Le malelingue battevano, ovviamente. Le amicizie delle galee, contro cui il Consiglio dei Dieci tuonava, meditando in qual momento Dio, come nella Bibbia, avrebbe sfogato la sua collera contro certi vizi lì assai frequenti, fomentati da una ciurma giovane (non si reclutava oltre i trentacinque anni) e seminuda per la maggior parte del giorno.

Momolo non aveva mai dato credito a tali dicerie, pur non sfuggendogli i toni rilassati e complici tra Padre e sier Antonio, diversi perfino da quelli che il genitore riservava a Madre. Un uomo, se assennato, si morde la lingua dinanzi ad una donna. Tra di loro, invece, non sussiste alcun freno. E se il Momolo tradiva qualche scetticismo, l’Hironimo confermava ché i discorsi tra lui, Marco e Piero Contarini e i suoi amici difficilmente li avrebbe potuti riferire a Madre o Helena senza imporporarsi imbarazzatissimo.

Sicuramente, la vita marinaresca non aveva reso Padre un gran gentiluomo: la pelle brunita; i capelli castani schiariti e un poco rovinati dalla salsedine; le mani più callose di alcuni patrizi suoi pari; sboccatissimo nella collera, superstizioso (il verde non lo indossava neanche sotto tortura), goloso di panbiscotto ammorbidito nel vino e ogni volta che da piccino Momolo l’abbracciava, giurava di cogliere l’odore salso del mare sulla sua pelle e paesaggi esotici affioravano immediatamente alla sua mente. Prima di sposarsi, molto spesso, nei bei giorni d’estate, di conserva coi suoi amici remava la sua gondoletta e faceva con essi a gara a chi arrivasse per primo alla Chiesa del Lido. Oppure, nelle piscine (o bagni) formatisi a causa del moltiplicarsi degli edifici e dell'interramento, lui ed i suoi coetanei si sfidavano a gare di nuoto oppure di lotta libera nei ginnasi, in gare di salto, di corsa o di tiro dell’arco a seconda dell’inclinazione del giorno. Passatempi che Hironimo aveva ereditato e che anch’egli praticava con gusto.

Abituato ad essere obbedito senza discussioni e ad esprimersi in concetti chiari e concisi, a Padre la galanteria e la diplomazia rimasero grandi sconosciute fintanto che esercitò la mercatura navale. D’altronde, in galea non servivano a nulla, non quando s’intraprendevano insidiosi viaggio di quattro mesi fin quasi di un anno e mezzo, con la claustrofobica compagnia di una ciurma composta dai più indigenti della Repubblica, sotto la disciplina ferrea del mare, con l’ansia del cargo e la paura ogniqualvolta s’avvistava una vela foresta, seguita immediatamente dalla furia dell’arrembaggio.

“In quel momento, un amico fidato accanto è tutto, che ti guardi le spalle e che ti sproni fino alla morte”, gli raccontò sier Antonio, in vena di confidenze e come biasimarlo? Era la festa di matrimonio tra Marco ed Helena, aveva ecceduto di malvasia e marzemino e la malinconia l’aveva colto, lamentando l’assenza del padre dello sposo e amico carissimo. Momolo, improvvisatosi suo confessore, lo lasciava parlava a ruota libera. “In quel momento, sei tu e il tuo avversario. Non hai nessun luogo dove fuggire o nasconderti, sei prigioniero tra il legno e il mare e lì è la tua vita o la loro …”, e incominciò a narrargli di un abbordaggio così come l’aveva saputo da suo cugino il fu sier Zuane Trum, anch’egli un amico intimo di Padre.

 

“Duri ai banchi! Duri ai banchi!”

Dal ponte di comando Zuane Trum, sopracomito, intimava urlando ai rematori per avvertirli di mollare la presa ai remi e di tenersi saldamente ancorati alle panche, in vista dell’imminente impatto.

Appena avvistate le piccole ma agilissime navi dei pirati berberi, non scorgendo via di fuga e piuttosto di lasciarsi attaccare il figlio di Nicolò Trum aveva deciso di speronare quella maestra per primo, cogliendola alla sprovvista. Le sue galee sorelle avrebbero poi stretto il loro cerchio di morte, creando un’unica piattaforma di combattimento.

Il cannone di corsia centrale e quelli di piccolo calibro sulla rembata avevano tenuto i pirati sufficientemente distanti per coordinare la manovra, tuttavia le sollecitazioni delle bocche di fuoco stavano scuotendo troppo la galea, rischiando di danneggiarla più dell’attacco delle fuste nemiche.

“Tenete pronte le falci e quando le saremo contro tagliatele le manovre! Preparate i vasi di calce e polvere! Stoppe imbevute di pece, resina e zolfo - veloci! I balestrieri mirino alle vele! I fanti pronti a respingere ogni tentativo d’abbordaggio!” e rivolgendosi concitatamente al cappellano di bordo: “Quanto a voi, Padre, assolveteci dai nostri peccati e benediteci per la battaglia!”

 

“… quando le galee collidono, vedi doppio e ti rimbomba ogni organo interno che te li senti uscire dalla bocca. Non ragioni più, sai solo che hai in mano una scure, una daga o qualsiasi oggetto tagliente e a guisa di macellaio ti getti all’urlo di Marco! Marco! perché se quei cani ti rubano il cargo, eh!, o in fondo al mare o in fondo ai Pozzi, per debiti ci finisci … Mio cugino, buonanima, contrariamente ai signorini d’oggigiorno che se ne stanno al sicuro a poppa, scendeva in prima fila coi suoi e tuo padre non era da meno, per un amico non avrebbe esitato prendersi una freccia in pancia al posto suo … ”

 

E via! Uno, due, tre, in una claustrofobica rissa di corpi, scudi, picche e scuri; gli schizzi di sangue volavano alti assieme a grida e bestemmie, ad arti tranciati in netto, gole sgozzate e budella fuoriuscite, unite al tanfo di carne bruciata ed escrementi – Avanti! Marco! Marco! Nella speranza che tutto finisse presto, gli occhi brucianti dal sangue, sudore e salsedine …

Zuane Trum aveva perduto il conto contro quanti avesse affondato la lama, o di quante avessero scalfito il suo corsaletto a botta, imbrattato da capo a piedi di sangue viscido e schiumoso. Le orecchie gli fischiavano, rendendolo sordo ad ogni stimolo esterno se non quello d’avventarsi sul prossimo avversario, senza concedersi il lusso neanche di premersi il naso gocciolante da un pugno finito male, leccando via con la lingua.

“Sopracomito, indietreggiate!”

L’uomo cercò affannato con le orecchie la sorgente di quella voce, come solgono fare i ciechi così da evitare colpi vigliacchi e morte certa.

Un diciottenne Anzolo, sbucato chissà dove, con dei fanti stavano gettando sul parapetto vasi di sapone molle e i pirati, scivolando, offrivano con divina facilità la gola alle spade e scuri veneziane.

 

“Che diceva sier Zuane di Padre?”

“Lo descriveva come un compagno leale e generoso, ma spietato peggio d’un turco coi nemici.” E da parte di colui che li odiava a morte, avendogli ucciso barbaramente il cugino Zuane a Negroponte, corrispondeva essa ad un’esauriente descrizione sulla ferocia dimostrata da Padre contro chiunque attaccasse lui e la famiglia.

Momolo gli credeva, da arrabbiato Padre lo terrorizzava al limite, accendendosi d’ira come il fuoco greco e se Madre non intercedeva, ammorbidendolo, in più occasioni sarebbero volati (nel suo caso) rimproveri ben peggiori di quelli già tremendi che doveva incassare.

O sarebbe volata direttamente gente, come quella volta, durante la pressa dei dì del Carlevar, in cui spintonarono Madre per terra e Padre, afferrato il fellone per la gola, l’aveva costretto a domandarle perdono. Come avessero evitato una conseguente denuncia, mistero.

“Devi capire, Momolo, che tuo padre non era una persona di natura violenta, lo diventava quando si sentiva minacciato. Purtroppo, in galea incancrenisci codesto difetto.”

“E allora, quando stava … tranquillo? Non lo ricordo mica affabile, io.”

“Vero, possedeva un’anima nervosa e inquieta … Però in una cosa v’assomigliate.”

“In che?”

“Una linguaccia lunghissima. An, possedeva una fantasia di poeta nell’insulto!  Poi, sai Momolo, credo si sia ingentilito una volta abbandonato il remo.”

“Uhm.”

“Non sei convinto?”

Momolo sospirò, guardando infelice la sala addobbata a festa, laddove i giovani, indossate le maschere e abbandonando i rispettivi genitori e parenti alle eccellenti vivande, s’erano portati al centro per improvvisare gaie danze e civetterie maliziose. Al tavolo degli sposi Marco stava litigando ridendo con Lucha e Giorgio suo cognato, intenti a strappargli il bicchiere dalle mani. “Basta vino, hai da lavorare stasera!”

In altre circostanze, il diciassettenne sarebbe stato tra i più chiassosi animatori, sennonché al momento delle felicitazioni (grazie a Dio ancor da sobri e digiuni) la mancanza di Padre gli s’era palesata largamente, intristendogli il cuore.

“Sembra quasi un contrappasso che l’abbia colto una morte sì violenta”, asserì il ragazzo, ingollando il vino in un sol sorso.

A quell’affermazione Trum non seppe come controbattere.

“Sier Antonio”, domandò all’improvviso Momolo, afferrando un’albicocca e tormentandola agitato. “Da tempo desideravo chiedervelo: vi sovvenite del cifrista Antonio Landi? Quello … quello che s’accordò con Zuam Batista Trivixan e il Marchese di Mantoa?”

L’uomo annuì lentamente, cauto.

“Credete … credete Padre abbia incontrato tale destino, giacché anche lui …? Insomma, in quell’anno i Dieci avevano firmato il mandato di arresto di Zorzi Valla con l’accusa di spiare per il Triultio …”

“Il magister Zorzi fu rilasciato lo stesso ottobre per insufficienza di prove”, gli rammentò severo il Savio di Consiglio.

“E se invece fosse stato perché nel frattanto aveva fornito dei nomi? Se tra questi nomi ci fosse stato Padre? Se … se l’avessero impiccato a mo’ di monito? Non era la politica allora dei Dieci, per scoraggiare la fuga di notizie?” ansimò ansioso.

Quel dubbio l’aveva tormentato negli ultimi sei anni, dopo aver assistito all’impiccagione post-mortem del segretario Antonio Landi.

Una turpe e vergognosa faccenda: Zuam Batista Trivixan, residente da quattro anni a Mantova e segretario di Francesco Gonzaga, durante le sue visite a Venezia visitava spesso in casa il segretario del Senato Antonio Landi, settantenne, così da informare il Marchese di Mantova su alcuni segreti di Stato, in particolare sul motivo esatto per cui la Signoria aveva revocato la condotta al Gonzaga. Ora, codesto Trivixan frequentava una cortigiana cui incautamente s’era lasciato sfuggire alcuni dettagli di quell’intrigo e la donna, ovviamente, aveva a sua volta riferito il tutto all’altro suo cliente, il segretario degli imprestiti, Hironimo di Amadi cui non era parso vero di sporger denuncia ai Capi dei Dieci. Arrestati i traditori, Antonio Landi venne torturato senza alcun riguardo per la sua veneranda età e di fatti egli morì straziato dai ferri; non soddisfatti e piccati di non averlo potuto decapitare in Piazzetta, i Dieci avevano deciso allora che il corpo del Landi venisse rivestito col suo comeo da segretario e, legatolo in modo che dalla folla fosse ben riconosciuto, lo impiccarono ad una forca eretta in Piazza. Hironimo di Amadi ottenne in premio due fonteghi alle farine e la cortigiana cento ducati.

A Momolo quel macabro e chiaro monito riportò alla mente quel maledetto 18 agosto dello stesso anno dell’arresto di Giorgio Valla, professore di retorica originario di Piacenza, studente dell’umanista neoplatonico Costantino Lascaris e precettore dei figli del fu duca Francesco Sforza. Si era scoperto, dopo otto mesi di carcere e numerosi interrogatori corroborati da robusta tortura, che la colpa risiedeva nel suo allievo Placidio Amerino, il quale l’aveva incastrato, nascondendosi dietro l’amicizia di lunga data tra il suo maestro e il luogotenente del Re di Francia, Gian Giacomo Trivulzio, quest’ultimo il vero artefice di quell’intrigo finalizzato a scoprire i maneggi tra la Serenissima e il duca Ludovico il Moro. Valla per un soffio aveva avuto salvo il collo, mentre il suo discepolo, malgrado le suppliche di clemenza ai Dieci, condannato a morte per spionaggio. Gran bell’amico s’era rivelato il Trivulzio, che l’aveva sfruttato per impiantargli addosso un suo informatore, cacciandolo nei guai con la Signoria!

In ogni modo, il sospetto che forse, magari, Padre avesse potuto …

“Per qual motivo, sentiamo, avrebbe dovuto Anzolo lavorare per il Triultio?”, berciò adirato sier Antonio, la fronte corrugata. “Così poca stima nutri nei suoi confronti, da pensarlo un gretto venale che si vende al primo minchione che gli sgancia danari? Tuo padre finanziò di tasca propria molte opere pubbliche; in prima fila combatté sia sul Po sia assieme a Guido de’ Rossi contro quei cani degli Austriaci, in pieno inverno nel Passo di Celazzo con la neve fino alle ginocchia e nel bel mezzo di una bufera! E tu credi che si sarebbe a tali porcate abbassato?”

“Molti cosiddetti fedelissimi e boni marcheschi hanno calato le braghe o per paura o per avidità, servendo oggi la Signoria e l’indomani tradendola!”

“Sacramento, ragazzo! Se non fossi suo figlio ti spaccherei il muso!” e da come sier Antonio s’alzò dalla sedia, Momolo sospettò la veridicità di quella minaccia.

Fortunatamente per ambedue, sier Batista Morexini li raggiunse, sedendosi strategico tra i due litiganti.

“Via con la malinconia!”, riempì loro di vino le coppe l’allora Savio di Terraferma, improvvisandosi Ganimede a scapito del povero servitore cui aveva sottratto la caraffa. “Momolo, le feste esistono per scappar via dai noiosi vecchioni, mica per punzecchiarli riesumando antiche reminescenze, le quali, come lo sterco, a furia di rivangare puzzano di più.”

“La perdonanza, sior Barba e anche a voi, sier Antonio”, ammise il ragazzo, studiando mesto il liquido dorato. “Non avrei dovuto imbastire certi discorsi …”

Captando il visibile malessere nel nipote, sier Batista s’informò da sier Antonio: “Di che conversavate?”, pur intuendone benissimo il tema.

Il Savio di Consiglio sbuffò snervato. “Momolo qui teorizzava una correlazione tra l’arresto di Zorzi Valla e la morte di Anzolo”, riassunse brutalmente sintetico.

“A bèmpo! Che monae vai blaterando?”

Paonazzo in volto, il diciassettenne pur a malincuore difese la sua ipotesi: “Il mio bisnonno Marco finì sotto processo per corruzione a Corfù e mio nonno Lucha esiliato per un anno da Veniexia per aver fatto parte di una strana setta. Forse, forse possediamo un sangue disonesto …”

I due Savi si scoccarono un’occhiata compassionevole. “Momolo, guardami bene dritto negli occhi”, posò sier Batista le dita sotto il mento del nipote, costringendolo a sollevare la testa. “Anche mettendo caso che tuo padre fosse stato un traditore, credi sul serio che la Signoria l’avrebbe fatto assassinare così, di nascosto, con metodi da Borja? No, come opera con tutti, l’avrebbe condotto in Senato e lì giudicato, publice e non nell’ombra, e sempre davanti agli occhi di Dio e degli uomini, se colpevole, giustiziato o esiliato!”

“Sì ma i fuoriusciti, quelli sì che li assassinano di nascosto …”

“Per evitare casus belli e solamente se non riescono a rapirli e a riportarli qui, a Veniexia, ond’essere giudicati dalla sua buona giustizia”, tagliò corto sier Batista. “Quanto a tuo padre, ripetendo il mio discorso al funerale, s’è trattato di un tentativo di furto o comunque della diffusa criminalità notturna …”

La musica di una piva d’impose tra i tre, chetandoli.

“Oppure siete voi il colpevole”, alluse sornione sier Antonio nel tentativo di scacciar via la depressione generata da quella conversazione. “Anzolo l’odiavate perché ogni volta vi batteva nelle regate e nelle gare di nuoto e voi, pregno di quella boria imparata dai Portoghesi, non tolleravate che uno delle Cha’ Nuove umiliasse voi delle Cha’ Vecie e Apostoliche.”

“Zò, lustrissimo sior Toniolo, la senilità v’ha sbattuto la padella in testa?”, inalberò scioccato sier Batista. “Che asinerie andate ragliando? Al quel cancaro del mio cugnà volevo bene. Anche quando mi batteva nelle gare. Certo, ancor mi domando come quella santa di mia sorella lo sopportasse, ma tra moglie e marito non ci mettere il dito, no?”

“Ma se veniste alle mani e vi buttaste giù in canale!”

Il Savio di Terraferma bevve un lungo sorso di malvasia. “Non mi ricordo”, nicchiò e sier Antonio ghignò feroce.

“Ma sì, stavamo assistendo ad una momaria e ad un certo punto, uno dei personaggi affermò come al mondo non esistesse donna più brutta di sua moglie. Al che, alzandovi, esclamaste che invece esisteva ed era mia cugina Orsetta, talmente brutta da trasformare il vino in aceto e che solo un cieco, un infoiato o povero in canna avrebbe avuto il coraggio di sposarla!”

“Io questo ho detto?”

“Sì, pur aggiungendo che ormai vista l’età doveva aver la mona asciugata e che piangevi la sorte di colui che se lo sarebbe scorticato in carne viva, fottendola …”

“Ma va là!”

“Carissimo, eravate talmente ubriaco che avreste ingiuriato anche il Papa, l’intera curia romana e loro madri, se, arrabbiati, non v’avessimo chetato prima. Imbriago spòlpo geravate, vui!”

“An sì?”

“Oh sì. E quando Anzolo s’erse a difesa dell’onore di mia cugina, gli elargiste il gesto della fica urlandogli: Squattrinato come sei, te la scoperesti anche domani pur di mettere legna in camino e una toppa alle braghe tue, an, Miani? Pezzente!

“Oh, gran mercé”, si dolse sier Batista, pizzicandosi la radice del naso e tuttavia a Momolo non sfuggì l’arricciamento divertito della sua bocca.

“V’accapigliaste alla stregua di due lavandaie. Voi ad un certo punto tagliaste i lacci delle calze ad Anzolo, per prenderlo a scudisciate con la vostra scarpa, dandogli del rematore greco, sennonché Anzolo vi diede a sua volta una tallonata sui vostri cogliombari e tentò d’annegarvi in canale, dandovi della puttana. Ancora mi domando come evitaste l'arresto in quell'occasione!”

Momolo tappò una scrosciante risata con la bocca, ricavandone un misto tra singhiozzo e grugnito e pure sier Batista, ilare, batté il pugno sul tavolo e assieme a sier Antonio Trum i tre uomini divennero paonazzi in faccia dal gran ridere, al punto d’asciugarsi le lacrime agli occhi.

“An sì, adesso mi sovvengo della zuffa. Ma quelle parole in fede mia mai le pronunciai! Ve lo giuro sulla tomba di mia suocera!”, protestò ansimando sier Morexini, prendendo fiato. “Il mio sior barba Francesco, Momolo, le sberle che non mi diede Anzolo finì per darmele lui!”, esclamò ilare. Attirata l’attenzione del coppiere, lo istruì di servirli d’un altro vino, rosso scuro e corposo, appellato Lacrime di Cristo. 

“Che poi, Toniolo, voi non me la raccontate giusta: perché v’incavolaste? In fondo, in tutta Veniexia era risaputo come Orsetta Trum vostra cugina pareggiasse in beltà a Gorgone Medusa! Non foste voi, a Palazzo Ducale, a commentare durante la sua festa di matrimonio col Grillo: Alegreza per otto dì et grameza per sempre?” [7]

Sier Antonio per poco non mancò di soffocarsi col vino, ridendosela alla grossa.

Ristabilito l’umore spensierato e frivolo da festa nuziale, Momolo si concesse di lasciarsi contagiare e coinvolgere in quei lazzi triviali, pur contenendo a fatica la sorpresa nell’apprendere quel lato di Padre, di solito descritto all’unanimità come serio, poco incline agli scherzi e rispettoso del prossimo e della legge.

Quant’è bella giovinezza invero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

*************************************************************************************************************

Nomi di città  e isole in veneziano /italiano: Barutto = Beirut;  Antona = Southampton; Ventona = Winchester; Candia = Creta; Bruza = Bruges

 

Come accennato nell’introduzione del capitolo, la parte 2 non tarderà ad essere pubblicata. Infatti il capitolo era venuto un qualcosa di mostruoso, 50 pagine circa. Siccome Hoel non desidera venir accusata della morte degli altrui occhi, ha deciso di dividerlo. Quindi state in campana.

l nuoto era di antica tradizione presso i Veneziani. Da un codice si ha questo passaggio: "Angelus Heremita, anno 1312, cum esset fere annorum 100, respondit, quod bene vidit dictam piscinam et ibi intus se balneavit". Nelle isolette lagunari si formavano piscine e laghetti a causa dell'interramento e del moltiplicarsi degli edifici. Lì nuotavano i ragazzi e alcune di queste piscine erano usate al posto dei bagni, supponiamo quelli termali visto che comunque si trattava d'acqua salsa. Uno di queste piscine più famose era quello di San Daniele, dove c'è attualmente l'Arsenale.

Inoltre, nel quadro "Miracolo della Croce caduta nel canale di San Lorenzo" di Gentile Bellini (1500), si vedono dei natanti utilizzare stili di nuoto quali lo stile libero e rana.

Ci siamo molto divertiti a scrivere questo capitolo, soprattutto perché buttato così, senza dover seguire la trama tranne per le riflessioni che s’allacciano al capitolo precedente. Spero di averle rese bene, soprattutto dall’ottica maschile.

Queste digressioni possono sembrare superflue, ma come anticipato, in questa storia ci sono due narrazioni qui: quella prettamente storica e quella intimistica, per dire. Il Nostro sta tirando le somme, si sta guardando indietro e cercando di far pace con se stesso. Le lettere sono di mia invenzione, utilizzando però come modello delle loro sorelle coeve, scritte tra famigliari.

In ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto, a prestissimo col numero 14!

 

 

Un po’ di noticine:

 

[1] il motivo per cui Anzolo si arrabbiò così tanto, fu perché, come previo avvocato e giudice, ben conosceva questo metodo esser usato dai pasticceri per adescare i bambini e ragazzini per prostituirli dopo averli portati in retrobottega. I pasticceri, assieme ai barbieri, fungevano spesso da mezzani nella prostituzione maschile.

[2] che Giovanni Foscari facesse un po’ la cresta sui noli (dazi) ci è confermato dalle lettere di lamentela ai consoli veneziani a Londra da parte di Marino Dandolo, costretto a pagare 17 ducati sui panni venduti a Siracusa.

[3] le vicende narrate da Anzolo riassumono le Guerra delle Rose tra i Lancaster e gli York, la prima fase vinta da Edoardo IV York, il quale istallatosi sul trono, aveva riaperto immediatamente i commerci, specialmente con Venezia a seguito dei vergognosi eventi della “caccia al Lombardo” a Londra, dove molte case di mercanti italiani vennero brutalmente saccheggiate. Infatti, a causa della guerra e delle tensioni tra mercanti e i locali, molti Genovesi e Napoletani avevano smesso di commerciare con l’Inghilterra e anche i Veneziani furono lì per lì d’imitarli, specie a seguito delle angherie del sindaco di Southampton John Payne (Zuanne Peine nel capitolo) che raddoppiava impunito i dazi e li ostacolava in generale. Edoardo IV mise subito in chiaro con la Signoria, promettendo severi provvedimenti a chiunque osasse molestare i Veneziani. In ogni modo, loro se ne stavano o sulla galea o nei fonteghi o a casa dei loro conterranei fissi, a Southampton sappiamo essere i Priuli e i Pisani per certo. Le tappe di solito erano almeno tre: Londra, Winchester per le sue fiere e appunto Southampton. Essendo l’Inghilterra un mercato ancor più profittevole rispetto a Bruges e Anversa, le galee si trattenevano di più, fin quasi ad un anno. Altri eventi menzionati sono le tensioni tra il nuovo re Edoardo IV e il Conte di Warwick (Conte di Varvici) “The King’s Maker” colui che aiutò gli York a vincere contro i Lancaster. Il Conte voleva sposare Edoardo o ad Anna di Valois o a Bona di Savoia (sì, proprio la Bona che andò in sposa a Galeazzo Maria Sforza), ma Edoardo s’era innamorato follemente di Elizabeth Woodville in Grey (Yxabela Greia), vedova lancasteriana. Si sposarono segretamente appunto nel 1464 con disastrose conseguenze.

[4] gàtolo = collettore in muratura posto sotto la pavimentazione dei percorsi cittadini. Fogna, in soldoni.

[5] Lo supponiamo da questo fatto: Antonio Tron, al momento della morte nel 1524, nominò suo erede il suo pronipote Gaspare di Tommaso da Molin e di Cristina Miani, lasciandogli in eredità una grandissima somma di danari, mentre ai cugini Luca e Marco Tron, solo un “zerto stabele a Rialto, conditionato si harano fioli”.

Quanto alla sua poca dimestichezza nella marina, lo ammette lui stesso quando giustifica al Senato il suo rifiuto di sostituire Angelo Trevisan come Capitano Generale da Mar; noi vogliamo credere all’uomo e non perché gli fu chiesto in un periodo delicatissimo, il 1511 appunto. Tuttavia, ci par ugualmente strano, visto che i Tron fecero i soldi appunto coi commerci e suo nonno Luca Tron e suo padre Eustachio (Stae o Stai) Tron stavano più a Creta che a Venezia, in un continuo su e giù, tant’era vero che Eustachio si sposò perfino con una Contarini del ramo cretese. Fino a prova contraria, concediamo il beneficio del dubbio. Almeno è stato onesto, dai.

[6] Pietro Loredan, fu Capitano Generale da Mar e Provveditore d’Armata, uno dei migliori comandanti della Serenissima: vincitore dei Genovesi a Modone; dei Turchi a Gallipoli; del Re d’Ungheria a Motta di Livenza; conquistatore della Dalmazia  e colui che, dopo aver respinto i Milanesi a Brescia, per poco non aveva preso a calci nel deretano il Carmagnola, intimandogli di cessare i suoi tentennamenti e d’ingaggiare il nemico, come puntualmente avvenne a Maclodio. Fu il grande avversario politico di Francesco Foscari. Questa sua riconosciuta grande abilità militare gli costò il dogato, perché gli avversari politici durante i ballottaggi per l’elezione ducale, fecero pesare la sua eccellenza militare a sfavore del successo nell’elezione, dicendo che il Loredan sarebbe stato molto più utile come capitano che come doge. A peggiorare la rivalità tra le due famiglie, Foscari e Loredan, fu il sospetto d’avvelenamento di Pietro L. da parte del Francesco F. e ai processi del ’52 e ’56 di suo figlio Jacopo F. a capo dell’accusa, nel Consiglio dei Dieci, ci furono rispettivamente il figlio e il nipote di Pietro L., Giacomo e Francesco Loredan che persuasero poi il Senato ad approvare l’abdicazione dello stesso Doge. Nicolò Miani di Marco, zio di Angelo, giocò un ruolo attivo in ambedue le vicende, prima come consigliere dei Dieci (fu lui ad aprire l’inchiesta, interrogando il testimone circa l’omicidio d’Almorò Donà) poi nella Zonta. (maggiori informazioni la vicenda Foscari-Loredan, vedi “Jacopo Foscari”, nota del Capitolo IX)

[7] questa è proprio vera. Narra il Sanudo: Questo Doxe (Nicolò Tron)  maridò una sua fiola brutissima in sier Hironimo Contarini q. sier Francesco ditto “Il Grillo” et fo fatto belle feste in Palazo, la quale andò a marido in bucintoro. […] E’ da saper sier Antonio Trum q. sier Stai, nepote del Doxe, andava dicendo: “Alegreza per otto dì et grameza per sempre.”

Che cavaliere!

 

 

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Hoel