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Autore: Ser Balzo    21/05/2020    1 recensioni
Ti hanno detto che la guerra è arte, e che Clove e Dan non potrebbero essere più diversi.
Ti hanno fatto vedere che occorre esercizio, pazienza e una certa dose di estro poetico, e che quella sadica assassina e quello stupido mandriano non sono altro che due patetiche pedine, due profili su una parete scalcinata, miserabili vittime di un gioco ben più grande di loro.
Ti hanno insegnato tutto questo e tu hai imparato. E hai fatto bene.
Fino ad oggi.
Perché i Settantaquattresimi Hunger Games hanno spazzato via tutto, e ora niente ha più importanza. E chiunque tu sia, se un umile pedone, un coraggioso cavallo, un disciplinato alfiere o un'implacabile regina… sai già cosa accadrà, quando ti ritroverai tra il fango e le bombe, a pregare qualunque cosa perché ti rimetta gli intestini nella pancia e ti conceda finalmente l'oblio.
Ora guarda quei due ragazzi, quelle due anime inseguite da eserciti di ombre, braccate da legioni di demoni, e chiediti: qual è la prima regola dell’arte della guerra, la più importante?
Vincere?
Quasi.
Vincere è fondamentale, ma non essenziale.
Dovresti saperlo: prima della regola uno viene la regola zero.
Resta vivo.
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clove, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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19.
Il Dio Bifronte

 


"We knew the world would not be the same.
I remembered the line from the Hindu scripture, the Bhagavad-Gita.
Vishnu is trying to persuade the Prince that he should do his duty, and to impress him
takes on his multi-armed form and says: "now I am become Death, the destroyer of worlds".
I suppose we all thought that, one way or another."

– Robert Oppenheimer
 
 
 
«Sergente» disse Lee. «Lei cosa sceglierà?»
Dall’altra parte del corridoio, Ayla si riscosse dal suo torpore. «Come?»
«Dicevo… quando toccherà a noi. Rimarrà qui o si farà cancellare la memoria?»
Ayla esitò prima di rispondere. «L’unica cosa che voglio è mettere fine a tutto questo. E l’unico modo per farlo è arrivare a Capitol City.»
Lee guardò le proprie mani poggiate sulle ginocchia. Sporche, dure, graffiate. Due piccoli blocchi di roccia scura.
«Temo che lei abbia ragione, sergente.»
Lee si chiese se dovesse aver paura. Perché non ne aveva. E non sapeva se questo dovesse confortarlo o spaventarlo a morte.
«Bravi, passerottini» disse una voce lontana. «Uscite dal nido. Sarà un piacere darvi la caccia.»
Né Lee né Ayla si diedero la pena di risponderle. Più o meno da quando era stata rinchiusa, la ragazza dall’armatura nera e gli occhi verdi aveva continuato a lanciare minacce più o meno velate a chiunque lei considerasse meritevole, senza preoccuparsi di fare distinzione tra nemici e alleati; ma ormai anche la sua riserva di rancore – che certo non era indifferente – cominciava ad esaurirsi, e il suo ringhio si stava riducendo al gracchiare di un disco rotto.
Abbaia pure. Tanto finché sei un gabbia, non—
Con un pesante scatto e un mormorio calante, le luci della stanza si spensero.
«Ma che—»
«Cosa…?»
Lee vide le sbarre della sua cella tingersi di un riflesso violaceo.
«Codice viola!» sentì lo strampalato comandante dei soldati capitolini esclamare. «Ai posti di combattimento!»
Lee non ebbe tempo di chiedersi cosa stesse succedendo. Per prima cosa, gli giunse il rumore lontano di un esplosione. Poi, con un ronzio, la serratura della porta della sua cella si sbloccò.
Lee avvicinò la mano, come se temesse che fosse tutto un test e che le sbarre fossero state elettrificate per verificare se avesse deciso di essere così sciocco da voler fuggire.
Le sbarre erano ruvide e fredde. Senza neanche fare troppo sforzo, Lee fece scivolare di lato la porta.
Ayla aveva la sua stessa espressione guardinga e stupita quando uscì anche lei dalla propria cella.
«Non so come, sergente, ma siamo liberi» disse lui, stupito e contento che anche lei fosse stata liberata.
Il sergente, però, non condivideva la sua gioia.
Lee seguì il suo sguardo.
Due occhi verdi lo stavano fissavando.



Mentre la porta si apriva, Dan realizzò che dietro ci poteva essere chiunque. Una fazione dissidente della Montagna poteva aver preso il controllo, togliendo di mezzo Pavlov; l’Esercito Regolare poteva aver ripreso la Montagna, così come i ribelli; oppure, in qualche modo, la coppia inquietante in armatura nera era riuscita a liberarsi e stava massacrando tutti quanti. Eppure, nonostante il numero di opzioni a sua disposizione, niente avrebbe potuto prepararlo a quello che comparve sulla soglia.
Era alto quasi due metri ed era completamente avvolto da una corazza molto simile a quella della squadra di Clove, ma invece del nero l’armatura aveva come colore predominante un viola denso e scuro. La faccia della figura era coperta da un elmo con la visiera a specchio, e tra le mani stringeva un fucile d’assalto dall’aria tozza e pesante.
«Cato Sullivan» disse con una voce rauca e robotica. «Il colonnello Rorke ti solleva dal tuo incarico.»
Mentre sollevava il fucile, Clove aveva già afferrato il portaprovette sul tavolo. Il siero rossastro esplose sul visore del soldato corazzato, concedendo a Cato la frazione di secondo sufficiente a puntare la propria pistola e a premere il grilletto tre volte.
Il guerriero rinculò, mentre due proiettili impattavano sul pettorale della sua corazza e uno gli graffiava la visiera. In un silenzio innaturale, qualunque cosa ci fosse sotto la visiera a specchio riprese in un attimo l’equilibrio e puntò nuovamente il fucile su Cato. Mentre premeva  il grilletto, Clove gli prese il grosso coltello da combattimento dal fodero che aveva fissato sul petto e glielo ficcò nel collo, nel sottile spazio tra il casco e la corazza. Clove lo sentì emettere uno strano gorgoglio simile ad una radio non sintonizzata, poi lo sparo del fucile la assordò e una potente gomitata la mandò distesa per terra. Ebbe il tempo di vedere il guerriero girarsi e fare un passo verso di lei, il manico del coltello ancora piantato nel collo, prima che Dan lo investisse usando il tavolo come un ariete, schiacciandolo contro il muro. Cato oltrepassò il ragazzo, spinse la canna della pistola sotto l’elmetto e sparò altre quattro volte. Il guerriero ebbe uno spasmo, emise un altro gorgolio elettrostatico e si accasciò sul tavolo, finalmente morto.
«Cosa – cosa diavolo è questo?» disse Dan, ansimando per l’adrenalina che ancora circolava a grandi quantità nel suo corpo.
Cato non disse nulla. Fissava il cadavere corazzato, la mascella contratta e il volto pallido come le luci di quella stanza.
Clove osservò la superficie lucida dell’armatura dell’avambraccio, dipinta di quella strana sfumatura violacea. Le tornarono in mente le dita di Rorke incrociate sopra la sua scrivania, il suo sguardo implacabile e i suoi discorsi sull’arte della guerra.
Hai mai sentito parlare del Battaglione Sacro?
«Porpora» mormorò.
Dan la guardò stranito. «Cosa?»
«Era un colore difficile da ottenere, nell’antichità. Per questo lo indossavano solo i più ricchi, o i corpi militari scelti. Come la Guardia Pretoriana degli imperatori romani.»
Gli occhi di Dan si abbassarono sul cadavere in armatura. «Vuoi dire che—»
«Sono loro» lo interruppe Cato. «Ho visto gli schemi di questa armatura tra i file segreti del progetto Protheus. Non so come, ma sono loro. Rorke li ha svegliati.» Batté un paio di volte le palpebre, sgomento. «È finita.»
«Aspetta» disse Dan. «Non può essere. Stando a quanto hai detto, non dovrebbero esserci supersoldati qui. E non sono venuti da fuori, dato che l’allarme segnalava un attacco interno.»
«Rorke potrebbe aver nascosto un esercito anche qui» disse Clove.
«Ok, allora se davvero l’ultima parte del piano è già in atto, perché siamo ancora qui e non ridotti in polvere dalle armi del Tredici?»
«Perché forse le testate sono in volo in questo momento ed è solo questione di minuti.»
Cato si lasciò cadere a terra, il cane della pistola appoggiato alla tempia e lo sguardo perso nel vuoto.
«Lo sapeva» mormorò. «Sapeva che avevo visto i piani. Sapeva che ci aveva provato. Forse ha usato un livello di protezione dei file non troppo complicato da aggirare proprio perché io li guardassi. Forse era una prova. Forse voleva
che io lo tradissi.»
«Sentite» disse Dan. «Forse questo Rorke sarà pure un genio del male, ma finché siamo ancora vivi vuol dire che il suo piano non è ancora giunto a compimento. E se è così, forse facciamo ancora in tempo a fermarlo.»
Clove lo fissò per un paio di lunghi secondi, poi spostò lo sguardo verso Cato.
«Il centro operativo» disse. «Sai come arrivarci?»
«Io… sì» balbettò Cato. Si rialzò in piedi, fece un respiro profondo e riacquistò la sua solita aria inattaccabile. «Andiamo.»
 


Artemisia non disse nulla. Coprì i metri che lo separavano da Lee in un tempo orribilmente breve, si tuffò su di lui e lo sbatté pesantemente a terra.
«E adesso ti ammazzo» sibilò, mentre con una mano gli artigliava la gola.
Ayla la prese e la allontanò con un ruggito da lui, mandandola a sbattere contro le sbarre della porta aperta di una cella.
«Adesso ti ammazzo io» disse, contraendo le mani a pugno e preparandosi alla lotta.
Un grido, poi una raffica di spari. Dalla curva del corridoio in fondo alla stanza sbucò correndo un soldato della montagna.
«Bastardi!» gridò correndo verso di loro, il volto deformato dalla rabbia e dal terrore. «Siete stati voi, siete stat—»
Uno squarcio rossastro gli  si aprì sul petto. L’uomo distese le braccia davanti a sé, lanciando il suo fucile in avanti, e cadde a terra morto.
Con passi lenti e pesanti, un enorme soldato coperto da un’armatura viola  avanzò nella stanza con il fucile tenuto dritto davanti a sé.
«E questo chi è?» mormorò Lee.
L’espressione di Artemisia vacillò per un momento, colta alla sprovvista da quell’enigmatica figura; poi la guerriera riprese il proprio cipiglio d’acciaio e fece un passo verso il soldato corazzato.
«Artemisia De Nor, matricola zero cinque due quattro nove nove. Sono al—»
Il proiettile che si schiantò sul suo petto le chiuse brutalmente la bocca. Artemisia crollò a terra, abbattuta dal fucile d’assalto del guerriero corazzato. Rapida e precisa, la canna dell’arma si spostò su un soldato in divisa bianca e fece nuovamente fuoco.
Ayla afferrò Lee per la manica della camicia. «Via! Via!»
Dall’altra parte della stanza c’era un altro corridoio. Ayla ebbe appena il tempo di vedere Ares raccogliere il fucile caduto al soldato della Montagna e rispondere al fuoco, poi prese Dana, se la buttò sulle spalle come gli infiniti sacchi di carbone che aveva trasportato per gran parte della sua vita e cominciò a correre più forte che poteva.



Cato apriva la fila con il fucile d’assalto sottratto al supersoldato morto, poi veniva Dan disarmato e infine Clove con la pistola di Cato.
I corridoi vuoti e silenziosi avvolti dalle luci violastre avevano un’aspetto così innaturale che Dan si chiese se non stesse di nuovo sognando. Forse era morto nell’attacco al Distretto Quattro, e tutto quello che era successo dalla spiaggia in poi non era stato altro che un delirio prodotto dagli ultimi istanti di vita del suo cervello ormai sul punto di morire. Forse era ancora lì, con il suo sangue che raggrumava la sabbia e gli occhi spalancati che ormai non vedevano più.
Più avanti, il corridoio piegava a gomito verso destra. Cato si avvicinò alla parete e strisciò verso l’angolo. Dan sentì una mano chiudersi sulla sua spalla e spingerlo con decisione verso la parete.
«Per essere uno che dovrebbe evitare che io muoia non sembri conoscere granché il tuo mestiere.»
«Siamo in due, allora.»
Clove rimase interdetta, non sapendo come interpretare esattamente quelle parole; in ogni caso, Cato la tolse dall’impiccio dichiarando che la zona più avanti era sgombra.
I tre girarono l’angolo. Il corridoio oltre la curva era esattamente identico a prima, con un grosso tubo che correva in alto a destra, le tozze teste delle rivettature che correvano verticalmente lungo le giunzioni tra un pannello di paratia e l’altro e le luci viola ad ammantare tutto in una grottesca penombra; l’unica differenza stava nella sua brusca conclusione una decina di metri più avanti, segnata da una porta d’acciaio chiusa.
«Merda» imprecò Dan.
«Non è detto che sia bloccata» replicò Cato. «E anche se fosse, le mie credenziali dovrebbero bastare ad aprirla.»
Si avvicinarono circospetti alla lastra liscia d’acciaio, che in alto aveva dipinti uno zero e un tre.
«Ok» disse Cato, analizzando il piccolo quadro comandi a fianco della porta. «È chiusa, ma posso aprirla.» Aprì una piccola tasca che aveva sull’avambraccio e passò una tessera magnetica a Dan. «Quando te lo dico, poggiala sul lettore.»
Dan annuì. Lui e Cato si scambiarono di posto, poi i due Favoriti del Distretto Due puntarono le armi contro la porta.
«Adesso» disse Cato.
Dan trattenne il respiro, poi fece quanto gli era stato detto. Il lettore emise un piccolo bip, poi la porta si aprì salendo verso l’alto.
Dall’altra parte c’era una stanza circolare. Il pavimento era ricoperto di cadaveri.
Al centro, illuminata dalle luci viola come la sua armatura, c’era una figura gigantesca, ancora più corazzata del  supersoldato che aveva cercato di uccidere Cato. In una mano teneva un’enorme spadone, la cui lama larga scendeva lentamente verso il pavimento; nell’altra stringeva il collo rotto di una soldatessa della Montagna. Al posto della visiera a specchio, il suo viso era nascosto da una maschera statuaria scolpita in un materiale ceramico dello stesso colore del marmo. Le orbite vuote fissavano senza alcuna espressione la testa della soldatessa piegata in un angolo innaturale, come se stesse cercando di capire cosa stesse tenendo tra le dita.
«Chiudi la porta» sussurrò Cato. «Adesso.»
La faccia senza occhi si girò verso di loro. La mano che teneva in alto la soldatessa si aprì, e il cadavere cadde sopra quello di un altro uomo della montagna con un piccolo tonfo carnoso.
«Dan, chiudila!»
Dan schiacciò la tessera sul lettore. «Non funziona!»
L’enorme spada si sollevò da terra. Schiacciando i corpi dei soldati sotto le sue gigantesche suole corazzate, il supersoldato prese ad avanzare contro di loro.
Cato e Clove aprirono il fuoco. I proiettili rimbalzarono contro la corazza del bestione, mentre lui continuava ad avanzare imperturbabile.
«Dan» ripeté Cato, il tono inflessibile che cominciava a incrinarsi.
Dan pulì febbrilmente il lettore con la manica della giacca, poi riappoggiò la tessera.
Il supersoldato afferrò l’impugnatura dello spadone anche con l’altra mano e lo sollevò sopra la testa, la punta che strideva mentre graffiava il soffitto.
«Stupido pezzo di merdaccia capitolina!» imprecò Dan, sbattendo ripetutamente e con violenza la tessera sul lettore.
«Cato» gridò Clove. «Dobbiamo—»
Bip.
 La porta si chiuse proprio quando il supersoldato stava accelerando il passo per attaccarli. Dan si aspettava che il gigante colpisse la porta, ma così non avvenne. Nel corridoio cadde nuovamente il silenzio.
I tre si guardarono, ansimanti.
«Stupido pezzo di merdaccia capitolina?» disse Clove, scoccando a Dan un’occhiata sarcastica.
«E sono stato anche troppo gentile.»
«Muoviamoci» disse Cato, allontanandosi dalla porta. «Ci toccherà fare il giro più lungo, ma—»
«Cato?» disse Clove, vedendo che si era bloccato.
«Oh no.» Mormorò Dan.
In fondo al corridoio, talmente immobile da non sembrare neanche viva, un altra corazza viola li stava osservando.



«Da questa parte!» gridò il tenente Baeley.
Qualcosa che era insieme logico e irrazionale disse ad Ayla che non avrebbe dovuto fidarsi di qualcuno con indosso la divisa bianca dell’Esercito Regolare, ma il suo istinto di sopravvivenza ebbe immediatamente la meglio. Corse verso di lui, il corpo esile di Dana che le sbatacchiava sulla schiena come se fosse senza vita. Fu presa dal terrore che fosse stata colpita da un proiettile vagante, così quando ebbe svoltato l’angolo si fermò e la sollevò dalla propria spalla.
Con un sollievo che le fece quasi venire le vertigini, si rese conto che la ragazzina non aveva alcun problema a poggiarsi suoi propri piedi.
«Tutto bene, sergente?» le chiese Dana.
«Sei ferita?»
«No, sergente. Mi ha portato via giusto in tempo.»
Ayla sospirò. Lo spero. «Stammi vicina.»
«Sempre.»
Qualcuno sbucò correndo dal corridoio. Ayla fece per frapporsi tra la nuova minaccia e Dana, quando si rese conto che era Penelope O’Brian.
«Penny!» esclamò Lee, stringendola in un abbraccio disperato.
«Presto, seguitemi» disse il tenente Baeley. «Il capitano conosce questa base. Sa dove—»
«Aspetta un attimo» lo interruppe Lee. «Perché mai dovremmo fidarci di te? Fuori di qui quelli come me e quelli come te si sparano a vicenda.»
«Hai detto bene» rispose di lui. «Fuori di qui.»
A sottolineare le sue parole, una nuova raffica di spari provenne dalla curva del corridoio.
Il tenente Baeley guardò Ayla dritta negli occhi. «Sergente, ora come ora la migliore speranza che abbiamo è restare uniti.»
Ayla esitò. Il suo sguardo corse sui tre volti dei ragazzi vicino a lei. La sua squadra. Tutto quello che le rimaneva.
«Facci strada, tenente.»

Proseguirono lungo il corridoio, che dopo un paio di svolte salì di livello e si allargò fino a permettere ad una decina di persone di camminare uno di fianco all’altro, se avessero voluto. Percorsero un’altra ventina di metri, poi si fermarono di fronte ad un incrocio con un altro corridoio più piccolo.
«Ok» disse il tenente Baeley, guardando in entrambi i rami dell’incrocio, «il capitano ha detto di aspettarlo qui. Diceva che sarebbe andato in cerca di armi, quindi non stupitevi se lo vedete tornare con un servizio da tè o una vecchia enciclopedia. Ma è l’unico che conosce questo posto, quindi…»
«…ce lo terremo buono» concluse Lee per lui.
«Una cosa del genere.»
«Pensavo che tutti gli ufficiali dell’Esercito Regolare conoscessero la montagna» disse Dana.
«Quelli seri di sicuro.»
«Perché, lei non lo è?»
«Ah, eccovi tenente!»
Seguito da un paio di soldati in divisa bianca, il capitano Aber avanzava baldanzoso verso di loro, un sorriso di grande soddisfazione sul volto e la sua amata spada di nuovo appesa alla cintura.
«Non è meraviglioso? L’ho ritrovata! Era in una stanza con un sacco di altri oggetti interessanti…» Il capitano accennò ad una grossa custodia che uno dei due soldati teneva in mano. «…tra cui questo.» Fece un ghigno di gioia feroce. «Non vedo l’ora di utilizzarlo contro quei marrani in armatura. Oh, vedo che avete portato con voi i prigionieri» aggiunse, notando solo in quel momento Ayla e gli altri. «Molto zelante, tenente: i miei complimenti. Anche se sorvegliarli in questa circostanze potrebbe essere… potenzialmente problematico.»
«Signore, so che quello che sto per chiederle potrebbe suonarle strano» disse Baeley. «Ma credo che dovremmo dare delle armi anche a loro.»
Il capitano lo fissò per qualche istante. «Come, prego?»
«Come ha detto lei, le circostanze sono decisamente particolari. Qualunque cosa siano, quegli affari non sembrano fare distinzione tra ribelli e capitolini. Vogliono ucciderci tutti. Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo unire le forze, anche solo per questo momento.»
I due soldati dietro Aber si scambiarono un’occhiata. Ayla tese i muscoli, pronta alla fuga in caso le cose fossero precipitate.
«Non nego che il suo ragionamento abbia il suo senso» rispose il capitano. «Ma chi ci dice che i prigionieri non rivolgano le armi contro di noi una volta finito tutto?»
«Signore, per prima cosa dobbiamo arrivarci, alla fine di tutto. Quei soldati sono pesantemente corazzati e uno di loro potrebbe facilmente tenere testa ad una mezza dozzina di noi. Qualunque aiuto, più che bene accetto, è assolutamente necessario.» Baeley si girò verso Ayla. «Se non è convinto, il sergente le dà la sua parola d’onore che non ci sparerà addosso.»
Ayla rimase in silenzio per qualche istante, poi si rese conto che da lei si attendeva una risposta. «Io – certo» balbettò. «Non avrebbe senso uccidervi adesso.»
Il capitano Aber la scrutò per una manciata di lunghi secondi. «Sta bene» disse infine. «Posso fidarmi della parola di una gentildonna che fino ad ora si è comportata più che bene nel suo non semplice ruolo di prigioniera di guerra. Ma è una sua responsabilità, tenente, quindi i prigionieri andranno con lei.»
Baeley aggrottò le sopracciglia. «In che senso, signore?»
«Nel senso che ho un piano, tenente. E perché questo piano funzioni, è necessario fare due cose: andare nella sala controllo per comunicare al Quartier Generale quanto accaduto, e verificare se nell’hangar di attracco al quinto livello ci sono ancora degli hovercraft utilizzabili con cui fuggire da qui. Lei e i prigionieri andrete all’hangar, mentre io, Daniell e Tosky…»
«È Tasky, signore» disse il soldato sulla destra alle sue spalle.
«…andremo alla sala controllo e cercheremo di comunicare con la capitale. Nel mentre voi prenderete il controllo di un hovercraft, lo rifornirete di carburante se serve e attenderete il nostro arrivo. Così potremo finalmente fuggire via da questo inferno, dritti verso casa.»
«Molto bene, signore» disse Baeley, stupito dal fatto che il piano del capitano avesse un qualche minimo di senso, «ma non sarebbe meglio restare uniti, andare al centro comandi e poi all’hangar?»
«Divide et impera, tenente» rispose il capitano.
«Signore, credo che il senso della frase sia che a dividersi siano—»
«Tenente, non questioni» lo interruppe il capitano Aber. «È probabile che incontreremo parecchia resistenza, una volta al centro comandi. Se io dovessi cadere, che ci sia almeno un ufficiale a portare avanti il nome della Terza Compagnia.»
«Signore…»
«Il tempo è poco, tenente.» Aber lanciò a Baeley una pistola mitragliatrice in uso tra i Pacificatori. «Avevo preso questa per lei, ma se vuole armare i prigionieri dovrà andare nella stanza in cui siamo stati. Deve andare avanti, girare a sinistra ed entrare nella seconda porta sulla destra. Una volta fatto, deve tornare qui, continuare per il corridoio piccolo finché non trova una piccola porta sulla sinistra. Sono le scale d’emergenza. Dovrà arrampicarsi per un po’, ma la porteranno dritto al quinto livello e all’hangar di attracco. È tutto, tenente.»
Aber irrigidì la schiena e si portò la mano tesa alla tempia. Con una certa sorpresa, Baeley si ritrovò a fare lo stesso.
«Non le dico buona fortuna, tenente, perché non ne avrà bisogno. Ci vediamo all’hangar.»
«Veda di esserci, signore.»
«Ah, non è ancora nato il bastardo che mi metterà sotto terra.» Con la sua solita teatralità, Aber sguainò la sua sciabola. «Avanti, miei prodi! Per il Presidente, per la Patria e per il bottino!»



La creatura di Rorke era parzialmente nascosta dietro uno scudo a torre grande praticamente quanto la porta alle loro spalle. Dall’altra spuntava un’impugnatura massiccia, da cui una catena scendeva a terra per fissarsi in un cilindro costellato di spuntoni.
Ora Dan ne era certo. Era impossibile che non stesse sognando.
«Perché non si muove» sibilò Clove.
«Perché non ne ha bisogno» rispose Cato. «Ci aspetta.»
Bip.
La porta dietro di loro si aprì.
Dan si girò.
La maschera con lo spadone lasciò andare il braccio del soldato della Montagna che aveva usato per aprire la porta.
Cato sollevò il fucile e sparò. Da uno dei tubi che correvano sul muro uscì un getto di azoto liquido, che investì in pieno il guerriero con lo scudo.
«Via!»
I tre si gettarono in avanti, mentre il gigante alle loro spalle faceva il suo ingresso nel corridoio.
Accecato dal getto sottozero, l’altro supersoldato fece roteare il suo grottesco mazzafrusto. Cato si abbassò, mentre gli spuntoni del cilindro perforavano l’acciaio della paratia.
Dan sentì lo spostamento d’aria dello spadone accarezzargli le spalle, poi uno schianto sul pavimento. La catena del mazzafrusto si tese, mentre il supersoldato accecato cercava di disincagliare gli spuntoni dalla parete. Dan passò sotto la catena e superò l’angolo, correndo a perdifiato.
Un ringhio strozzato, poi un tonfo.
Dan vide Clove cadere a terra, scaraventata sul pavimento dal un colpo dello scudo. Il supersoldato lasciò andare il mazzafrusto e si tolse l’elmetto incrostato di ghiaccio. Le luci violastre illuminarono un volto bianco come l’osso, attraversato da vene scure. La sclera degli occhi pareva rilucere di un bagliore elettrico e malsano, donando al loro sguardo una luce aliena e inquietante.
Se un tempo era stato un essere umano, ora certo non lo era più.
La creatura spostò il suo sguardo su Dan. Il bianco degli occhi brillava nella penombra. Dan rimase immobile, schiacciato dall’orrore di quella visione.
Una raffica di spari, e la testa pallida si trasformò in un grumo di sangue e ossa.
«Muovetevi!» gridò Cato.
Dan tese la mano verso Clove. Lei la strinse.
Poi insieme ripresero a correre, dietro a Cato e verso il cuore della Montagna.



«Non guardate giù» disse Baeley, afferrando il piolo d’acciaio della scala d’emergenza. Allungò il piede nello stretto tunnel verticale e lo poggiò su un altro piolo. «Ok, sembra reggere. Andiamo.»
«Dana, prima tu; poi voi due» disse Ayla, rivolta ai suoi tre ragazzi. «Io chiudo la fila.»
Osservò nervosa il corridoio, l’acciaio scuro del fucile d’assalto che le accarezzava la pancia. Era più leggero del vecchio fucile che le era stato dato quando si era arruolata nella Fanteria Volontaria, ma lo sentiva estraneo e scomodo tra le mani.
Se non altro, questo coso spara il doppio dei proiettili con un singolo caricatore. Non che servirà a granché, se ci ritroveremo di fronte un altro di quei bestioni.
Nella penombra violacea del corridoio, le giunse l’eco lontano di quello che sembrava un profondo lamento metallico. Un lungo brivido le fece accapponare la pelle delle braccia.
Guardò di nuovo verso la scala. Lee si era appena issato sui pioli.
Ayla non poté fare a meno di tirare un grande sospiro di sollievo quando poté finalmente accodarsi a lui, chiudendosi il portellone alle spalle.

Era abituata a stare al buio e a doversi infilare in lunghi corridoi angusti: al Giacimento, più di una volta le era capitato di doversi acquattare per strisciare in un punto piuttosto stretto di una galleria. La stessa cosa in verticale, però, era tutta un altra faccenda.
Ayla fece come aveva detto il tenente e non guardò giù; per sicurezza, evitò anche di guardare in alto, per non rischiare di rimanere schiacciata dalla vista di quanta strada rimaneva ancora da fare. Così fissò lo sguardo sul muro di fronte a sé  e si concentrò solo sul ritmo di mani e piedi, uno scalino dopo l’altro.
Nessuno parlò, durante la salita. Le luci nel tunnel erano rosse anziché viola, e il basso mormorio dei condotti di areazione era l’unico rumore presente. C’era odore di metallo e l’aria aveva uno strano retrogusto terroso, che si appiccicava sulla lingua rendendola pesante e pastosa. Ayla aveva la gola secca e le mani indolenzite, ma continuò a salire. Sopra di lei, sentiva ogni tanto i grugniti e i sospiri degli altri. Ad un certo punto credette di sentire Dana emettere un piccolo guaito, e fu terrorizzata dall’idea che stesse per cadere; ma non ci fu nessun grido, nessuna imprecazione, e i pioli continuarono a scorrerle davanti alla faccia, uno dopo l’altro.
Quando Baeley parlò, la sua voce gli fece quasi fare un sobbalzo, tanto il silenzio del tunnel era penetrato dentro di lei.
«Livello cinque. Ci siamo.»
Baeley salì sul predellino davanti al portellone, abbassò faticosamente la maniglia e spinse.
«Via libera.»
Quando oltrepassò il portellone, Ayla sentì le proprie forze ritrarsi e una grande stanchezza farsi strada nel suo corpo. Con molta fatica, ricacciò l’impulso di crollare a terra. Temeva che se si fosse seduta non sarebbe più riuscita a rialzarsi.
«Tutti bene?» chiese Baeley.
«All’incirca» disse Lee, agitando le mani arrossate dalla scalata. «Ma per gli standard di questo posto, stiamo alla grande.»
Si trovavano in un  corridoio molto simile a quello da cui avevano cominciato la salita. Più avanti, in maniera speculare al suo corrispettivo più in basso, il corridoio incrociava una galleria più grande.
«Ho come l’impressione che l’hangar sia da quella parte» disse Dana.
«Le vostre armi sono cariche?» chiese Baeley.
«Sempre» disse Penny, in quello che parve quasi un tono di sfida.
«Bene» rispose Baeley. «Allora avanziamo. Io davanti, voi ragazzi in mezzo e il sergente dietro.»
«Signore» disse Dana. «È sicuro di volerci lasciare alle sue spalle armati?»
«Sicuro? Per niente» replicò Baeley. Poi il suo sguardo si spostò su Ayla. «Ma confido che farete la cosa giusta.»
«Nessuno ti farà del male» disse Ayla. «Nel senso» aggiunse rapidamente, rendendosi conto di quello che aveva detto, «nessuno di noi le sparerà, tenente. Il vero nemico, qui, è un altro.»
Baeley annuì. «Grazie sergente. Adesso, in marcia.»
Il tenente imbracciò la sua pistola mitragliatrice e si mosse verso la galleria. Forse era uno scherzo delle luci viola, ma un momento prima che si girasse Ayla aveva avuto l’impressione di scorgere sul suo volto l’ombra di un sorriso.



 «Lo abbiamo seminato?»
«Credo di sì. Per quanto possa essere forzuto, girare con quello spadone non lo rende granché agile.»
Dan si permise il lusso di appoggiare le mani sulle ginocchia, respirando pesantemente per rifornire di ossigeno i suoi muscoli stremati dalla lunga corsa.
«La tua giacca.»
Clove lo guardava con una strana espressione divertita. Stranamente, però, nei suoi occhi non c’era l’aria di crudele sfida con cui di norma accompagnava la curva in su delle labbra.
«Cos’ha di strano?»
«Toglitela e vedrai.»
Perplesso, Dan la sfilò dalle spalle e la prese tra le mani.
«Mi sembra sempre la stessa.»
Prima che potesse fermarla, Clove gliela tolse dalle mani e la sollevò tenendola per le spalle. Solo in quel momento, Dan si rese conto che, dall’altezza delle scapole fino in fondo, un taglio netto aveva quasi diviso la sua giacca in due parti praticamente identiche.
«A quanto pare la spada di quel bestione ha regalato una modifica all’ultimo grido a questo pezzo di tela color fango. A Capitol ne andrebbero pazzi.» Gli restituì la giacca lanciandogliela addosso. «Sei stato fortunato. Non farci l’abitudine.»
Lui osservò la giacca per qualche istante, poi se la rimise addosso. Stava per rispondere a Clove, quando si rese conto che Cato era comparso dalla curva del corridoio.
«Più avanti è libero» disse. «Ci siamo.»
Clove e Dan si affrettarono a raggiungerlo. Un paio di metri dopo la curva c’era una porta, che Cato aveva aperto col suo tesserino. Oltre la soglia c’era un ampia stanza piena di massicci scaffali ripieni di casse voluminose di materiale plastico grigio. Tre carrelli elevatori erano fermi di traverso sulla corsia centrale, che conduceva ad una seconda porta. Con tutta probabilità, qualcuno li stava adoperando quando era suonato l’allarme, costringendo i loro manovratori ad abbandonarli in fretta e furia.
Cato avanzò con passo rapido tra i carrelli elevatori. Alle sue spalle, Clove e Dan non poterono fare a meno di lanciare rapide occhiate tra gli scaffalature.
«Non c’è nessuno» disse Cato, come se avesse percepito il loro nervosismo. «Sono tutti nella sala comando.»
«Ti hanno visto?» chiese Dan.
«La vedo difficile» rispose Cato, mentre attraversava l’altra porta.
«Perché sei bravo a nasconderti?»
«No.»
I tre sbucarono su un’ampia galleria. A destra, dietro due pesanti lastre d’acciaio, c’era il centro comandi.
«Perché sono tutti morti.»
Le due paratie scorrevoli che bloccavano l’accesso alla sala comandi erano chiuse, ma lì dove le due lastre d’acciaio si incontravano qualcosa aveva creato una breccia frastagliata, alta un paio di metri e larga quasi altrettanto. Ai lati della porta c’erano due postazioni di difesa protette da una barriera di sacchi di sabbia. Due soldati della Montagna erano riversi sopra di sinistra. A uno dei due mancava un braccio, mentre l’altro aveva perso l’elmetto, scoprendo la testa bionda parzialmente mangiata da un proiettile nemico. A pochi passi da loro, un guerriero in armatura viola giaceva a terra, la corazza del petto squarciata da una raffica di quella che un tempo era stata la mitragliatrice della postazione di destra, ormai ridotta ad un ammasso informe di metallo contorto e parzialmente liquefatto.
«Merda» imprecò Clove.
Dan e Cato non aggiunsero altro. In silenzio, i tre oltrepassarono la breccia.
Nel centro comandi doveva essere avvenuto uno scontro disperato e senza quartiere. I soldati della Montagna erano riversi ovunque, molto spesso ridotti a brandelli quasi impossibili da riconoscere; ma anche i supersoldati di Rorke avevano pagato un prezzo non indifferente, e costellavano il pavimento della sala come macchie viola in mezzo ad sanguinante tappeto bruno.
Cato passò vicino ad un supersoldato letteralmente ricoperto di uomini e donne della Montagna. La mano del guerriero corazzato era ancora stretta al polso di uno di loro. «Sapevano di non potersi arrendere. Non c’è stato quartiere.»
Lo sguardo di Clove venne attirato dall’albero vicino al centro della stanza. Lì, accasciato con la schiena sul tronco e due fori sfilacciati sul petto, c’era Pavlov.
Povero bastardo, pensò Clove. Ecco dove se ne vanno i tuoi patetici sogni di vivere lontano da tutto.
Il petto lordo di sangue di Pavlov ebbe uno spasmo. L’uomo era ancora vivo.
Senza rendersi conto della rapidità con cui aveva compiuto il gesto, Clove lo raggiunse e si inginocchiò davanti a lui.
Quando i suoi occhi  riuscirono a metterla a fuoco, Pavlov fece un sorriso tirato.
«Chi si rivede.»
Clove dischiuse le labbra, ma si rese conto che non aveva la minima idea di cosa dire.
Pavlov sollevò una mano e le strinse debolmente l’avambraccio. «Rorke…»
Quel nome riattivò la mente di Clove. Protheus. Il piano. Ultima Thule.
«È stato lui» disse, mettendo la sua mano sopra quella del vecchio. «Lo sappiamo. Vuole usare questi supersoldati per distruggere Panem.» Esitò, prima di continuare. «Dobbiamo fermarlo.»
Pavlov provò ad emettere una piccola risata, ma riuscì solo ad emettere un paio di liquidi colpi di tosse. «Lo sapevo che prima o poi avresti deciso di salvare il mondo.»
«Non essere idiota» scattò lei. «Cerco solo di salvarmi la pelle.»
Quando quelle parole lasciarono la sua bocca si rese conto che, per la prima volta, desiderava vivere non per vincere o vendicarsi, ma solo per vivere.
Pavlov parve intuire i suoi pensieri, perché emise un piccolo sbuffo dal naso.
«Dobbiamo comunicare con il Distretto Tredici e con Capitol City» disse lei, cercando di scacciare con le parole lo strano disagio che sentiva crescerle dentro. «Da dove possiamo farlo?»
Pavlov indicò faticosamente il grande tavolo circolare al centro della stanza.
«Da lì» mormorò.
Clove fece un rapido cenno a Cato e Dan, che si affrettarono verso il tavolo. Pavlov, però, non aveva finito di parlare.
«Ma non ce la farete. Rorke ha bloccato le comunicazioni.» Il volto di Pavlov si contrasse in una smorfia di dolore. « Ci ha chiusi tutti qui dentro. Eravamo un esperimento. La Montagna, Ianos… tutto un esperimento.»
«Aspetta – cosa?»
«Avrei dovuto capirlo. Ianos, il capo della rivolta del Distretto Due, nient’altro che un colonnello della Guardia Presidenziale… era troppo per essere vero. Ma Rorke aveva giocato bene le sue carte. Ci convinse che un piccolo sacrificio, per illudere Capitol di aver stroncato la rivolta, ci avrebbe regalato le chiavi per la Montagna: quando questo successe davvero, nessuno poteva dubitare più di lui. E in cambio della roccaforte più potente di Panem, chiese solo di lasciare a lui l’ultimo sottolivello. Non avrei mai pensato che lì sotto potessero nascondersi…»
Un accesso di tosse squassò il petto di Pavlov. Un fiotto di sangue gli imporporò il labbro inferiore.
«Prima di bloccare tutto ha avuto la cortesia di informarci di quello che stava succedendo. Ha detto che se fossimo stati così bravi da uccidere tutti i suoi avrebbe riattivato le comunicazioni e ci avrebbe lasciato in pace. Ma so che una squadra di quei mostri sta andando nella sala dei generatori. Manterrà la sua parola. Riattiverà le comunicazioni… dopo averci fatti tutti saltare per aria.»
Clove restò qualche secondo in silenzio. Avrebbe pensato dopo a processare le implicazioni di quando gli aveva detto Pavlov; in quel momento, l’unica cosa che non si poteva permettere era perdere tempo. «Quanto ci resta?»
«Il posto di guardia a difesa dei generatori hanno smesso di trasmettere un quarto d’ora fa. Una decina di minuti… forse meno.»
Clove fece un lento respiro. «Non sono tornata in vita per crepare in questo schifo di posto. Ce ne andremo di qui.»
Le sopracciglia di Pavlov si inarcarono. «Questo non me l’aspettavo. Vuoi davvero portarmi con te, Clove?»
Gli occhi di Clove si dilatarono dallo stupore. «Cosa? Io – non…»
«Tranquilla.» Pavlov tossì una risata. «Ti prendevo in giro. Un vecchio deve pure togliersi qualche sfizio, prima di andarsene…» Altri colpi di tosse. «Più avanti, fuori dalla porta, c’è un ascensore. Andate al quinto livello. Se questi affari non lo hanno fatto saltare in aria, l’hangar degli hovercraft può essere l’unico biglietto d’uscita da qui.»
Pavlov gemette. La stretta sull’avambraccio di Clove si fece disperata, poi si rilassò di colpo.
«Vivi, Clove» disse Pavlov. «È l’unica vendetta che conta.»
E detto ciò, reclinò la testa sul petto e non parlò più.
Clove abbassò lo sguardo. La sua mano libera era su quella di Pavlov. Non si era resa conto di averla stretta.
Si alzò, inebetita. Un senso di vertigine le fece girare la testa. D’un tratto le parve tutto così remoto, estraneo, quasi insignificante.
Cosa ci faccio qui?
Guardò Pavlov, seduto sotto l’albero. Se non fosse stato per i fori di proiettili e la giubba inzuppata di sangue, sarebbe stato impossibile dire che fosse morto e non semplicemente assopito.
Vivi, Clove. È l’unica vendetta che conta.
Strinse i pugni, girò i tacchi e si allontanò da lui.
Cato aveva tolto un pannello alla base del tavolo circolare e stava tentando di districare una foresta di cavi e interruttori, mentre Dan girava intorno al bordo per cercare qualche manopola o pulsante che gli consentisse di attivare lo strumento.
«Non c’è tempo» disse loro Clove. «In questo momento una squadra dei giocattoli di Rorke sta per far esplodere la Montagna. Dobbiamo andarcene.»
«E come?» chiese Dan. «Se questo stramaledetto coso non si accende, non abbiamo modo di visualizzare le planimetrie di questo posto e cercare una via d’uscita.»
«Non ce n’è bisogno. Fuori di qui c’è un ascensore. Andremo all’hangar di lancio del Livello Cinque e fuggiremo da lì.»
«Se non troviamo il modo di comunicare con Capitol e il Tredici potrebbe non esserci più, un lì» disse Cato, le mani ancora immerse tra i cavi.
«Se non muoviamo il culo sarà il qui ad essere un problema» ribatté Clove. «Quando prenderemo un hovercraft, useremo quello per comunicare.»
Cato sollevò lo sguardo. «Non è così semplice. Ma potrebbe funzionare.»
«Magnifico. Ora, per favore, ce ne andiamo da qui?»
«Potrebbe… non essere più possibile» disse Dan.
Clove si voltò verso di lui. Il suo sguardo era inchiodato alla breccia della porta.
E al guerriero con l’enorme spada che vi stava davanti.
       


Rivedere la luce fu strano. Era fioca e sporca, un bagliore color seppia di un mattino sabbioso, ma fu abbastanza per far protestare le pupille di Ayla, abituate alla luce viola degli allarmi.
Un lungo rettangolo di cielo riempiva l’apertura dell’hangar nel fianco della Montagna. Allineati davanti ad essa, una fila composta da una dozzina di hovercraft  attendeva in silenzio il loro arrivo.
«Guardate» disse Penny, avvicinandosi al velivolo più vicino e indicando un disco di metallo attaccato alla carlinga, sulla cui superficie era accesa una piccola luce led rossa.
«Esplosivo» disse Baeley. «Avranno minato tutti gli hovercraft.»
«Se li hanno minati, perché sono ancora in piedi?» chiese Lee.
«Non ne ho idea» replicò Baeley, sollevando la pistola mitragliatrice. «Diamo un’occhiata.»
Passarono a fianco di un hovercraft e poi di un altro ancora: entrambi avevano esplosivi piazzati su di loro, le piccole luci rosse fisse come demoniache capocchie di spillo.
«Potrebbe essere una trappola» disse Lee. «Aspettano che saliamo per poi farci esplodere in volo?»
«Mi sembra inutilmente complicato» rispose Penny.
«Ti darei ragione, se non avessi passato l’ultima ora a scappare da un gigante in armatura viola.»
«Guardate!» esclamò Dana, indicando una pila di casse verde scuro una decina di metri più avanti. Dietro il bordo di una di esse, faceva capolino un piede corazzato.
Erano in quattro, scoprirono quando raggiunsero le casse. Erano più piccoli di quello che li aveva attaccati nella zona di detenzione, e indossavano una corazza della stessa foggia ma più leggera. Tre di loro avevano fucili dalla foggia lunga e sottile, mentre il quarto sulla schiena portava una coppia di spade corte inquietantemente simili a quelli dell’assassina dagli occhi verdi. Riversi a terra, avevano tutta l’aria di essere morti.
«Non c’è sangue né fori di proiettili» disse Penny. «E se fossero—»
Ayla puntò il fucile sul collo di uno di loro e sparò un colpo. Il corpo sussultò, ma nessuno dei quattro si mosse.
«Non lo sono.»
Lee le lanciò uno sguardo quasi intimorito. «Accidenti, sergente.»
I cadaveri erano disposti intorno ad una valigetta corazzata. Dana scavalcò il cadavere di quello con le spade corte, si inginocchiò e la aprì con cautela. Dentro c’erano diversi selettori, ognuno dei quali aveva sopra di esso un led verde lampeggiante. Erano tutti spostati verso l’alto, ad eccezione di quello centrale, che era rosso e leggermente più grande. Il led sopra di esso era dello stesso colore, e non lampeggiava.
«È il detonatore» disse Baeley. «Tutti gli esplosivi sugli hovercraft sono armati. Basta solo muovere il selettore rosso per farli detonare.»
«Erano pronti a distruggere tutto» disse Dana. «Ma qualcosa li ha fermati. La domanda è: che cosa?»
Alle loro spalle, qualcuno tossì.
Ayla, Baeley e i tre ragazzi si voltarono, spianando le armi.
«Calmi» disse Katniss Everdeen, le mani bene in vista. «Amici.»



«Ricordatevi» disse Cato. «È grosso, ma è lento. Se lo confondiamo abbastanza, dovremmo riuscire a superarlo.»
Il bestione portò l’elsa del suo spadone all’altezza della tempia. Le orbite vuote della maschera erano puntate su Cato.
Clove sollevò la pistola.
Fatti sotto.
Il gigante fece un passo. Poi ci fu un sibilo, e il suo torace corazzato scomparve in una vampata di fuoco e luce. Lo spadone vorticò di lato come il rotore di un elicottero impazzito, una mano e un pezzo di avambraccio al seguito ancora attaccati all’impugnatura, mentre la testa schizzava in alto come un tappo di spumante e il fragore dell’esplosione rimbalzava sulle pareti del centro comando. Lo spadone cadde a terra con gran clangore, accompagnato dai tonfi sordi dei brandelli di armatura che atterravano sul pavimento. Le gambe del guerriero, ancora attaccate ad un moncone carbonizzato che un tempo era stato il tronco del suo corpo, parvero voler fare un altro passo, come se neanche la distruzione di metà del suo corpo potesse fermarlo; ma alla fine rovinarono a terra, seguendo il resto di quello che un tempo era stato un mostro apparentemente impossibile da battere.
«Ma che cavolo—» fece Dan, sbigottito.
«Ottimo colpo, Darnell!»
«Daniell…»
«Come?»
«Niente, signor capitano.»
La divisa bianca del capitano Aber – che, nonostante la lunga traversata dal Distretto Quattro fino a lì, persisteva nell’essere incredibilmente immacolata – svettava in mezzo alla breccia. Accanto a lui, il soldato Daniell lasciò cadere il lanciarazzi ormai scarico.
«Orbene, signori, vedo che siamo giunti appena in tempo» fece Aber. «Questi infingardi sanno essere alquanto resistenti.»
«Parole sante, capitano» disse Cato. «Ma dovremo rimandare i ringraziamenti. La persona responsabile di questo attacco ha intenzione di ripetere la stessa cosa a Capitol City. Dobbiamo fuggire di qui e avvertirli.»
«Lo stesso, dite?» replicò Aber, colpito da quella rivelazione. «Decisamente increscioso.»
«Tanto quanto i generatori sotto i nostri piedi che esploderanno da un momento all’altro» aggiunse Clove. «Quindi, per favore, andiamo via.»
«Non temete» disse Aber, «ho inviato una squadra al Livello Cinque a preparare un hovercraft. Il tempo di mandare un messaggio alla Quartier Generale e—»
«Non è possibile» disse Cato. «Il nemico ha sabotato le comunicazioni. Dovremo comunicare una volta fuori.»
L’espressione del capitano Aber si fece sospettosa. «Chi mi dice che non mi stiate ingannando?»
«Può provare, se vuole» disse Cato, accennando al tavolo circolare. «Ma non ci riuscirà. E una volta resosi conto che avevo ragione, l’esplosione della Montagna renderà inutile il suo zelo.»
Il capitano Aber restò in silenzio per qualche istante. «Sia, dunque» disse alla fine. «Seguitemi.»

 
 
L’inquadratura della telecamera di sicurezza sfarfallò per un momento. Le immagini bluastre restituirono i movimenti dei tre ragazzi mentre abbandonavano il comando centrale, unendosi al trio di soldati dell’Esercito Regolare per dirigersi all’hangar del Livello Cinque.
In piedi davanti allo schermo, le mani unite dietro la schiena, Rorke fece un piccolo sorriso.
«Squadra IEROS» disse. «Rapporto.»
Un fruscio elettrostatico segnò l’arrivo di una comunicazione radio.
«In arrivo, signore» disse la voce del Nero. «Dodici minuti alla Z-A.»
«Molto bene. Aggiornate una volta fatto.»
«Ricevuto. Passo e chiudo.»
Rorke scorse gli indicatori vitali degli IEROS, incolonnati uno sotto l’altro. Osservò la loro tensione inarcare le linee dell’elettrocardiogramma e spostare verso l’alto gli indici del battito cardiaco. Solo due facevano eccezione: quello del Nero, che aveva gli stessi battiti di una persona intenta a leggere al sole in una mattina d’estate, e quello di Clove, completamente piatto.
Vederla comparire negli schermi della Montagna lo aveva lasciato piuttosto sorpreso –  cosa che capitava piuttosto raramente. Quando il suo segnale si era spento, durante la missione nel Distretto Quattro, Rorke non si era turbato più di tanto: le probabilità che quella ragazza instabile si facesse uccidere di nuovo erano state calcolate e previste, e il margine di profitto dato dai suoi dati biometrici si era rivelato non così brillante ma di certo sufficiente. E invece, a quanto pareva, Clove era riuscita a resuscitare ancora una volta.
Rorke si avvicino alla scacchiera e prese in mano un alfiere. L’ipotesi più probabile era che Clove avesse subito un trauma al cranio abbastanza forte da danneggiare i nanoprocessori di controllo installati nella placca di rinforzo, senza però ucciderla. Così ora era viva, ma lui non poteva più controllarla. Una pedina libera, né bianca né nera.
Rorke fece sparire l'alfiere nel pugno e guardò lo schermo.
Il Gioco si faceva sempre più bello.




L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Poffarbacco, come direbbe qualcuno, qui le cose si fanno problematiche – o meglio, ancora più problematiche, visto che ci troviamo in un mondo dove la più grande attrattiva è un reality show dove i regazzini si trinciano tra loro. Che Rorke abbia ormai segnato il destino di Panem? Quel che è certo è che si sta divertendo un mondo a trasformare la base più potente della nazione in un parco giochi horror con giganti viola armati in maniera piuttosto pittoresca. I nostri però ne hanno passate parecchie, e ormai sono diventati piuttosto refrattari al farsi ammazzare: ce la faranno a scappare di lì prima che la Montagna si trasformi in un grazioso vulcano? E soprattutto, quanto ancora resisterà la divisa immacolata del capitano Aber?
Mentre vi arrovellate su questi fondamentali interrogativi (soprattutto il secondo) non mi resta che ringraziarvi oltremodo assai, come sempre, e augurarvi di rivederci quanto prima. Tante care cose, gambe in spalla e alla prossima!
  
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