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Autore: Mahlerlucia    07/06/2020    1 recensioni
Il mondo intero ama la libertà, eppure ogni creatura ama le sue catene.
Questo è il primo paradosso e il nodo inestricabile della nostra natura.
(Aurobindo Gosh)
[Semi x Shirabu]
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eita Semi, Kenjiro Shirabu, Tendo Satori
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Anime/Manga: Haikyuu!!
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life
Rating: Arancione
Avvertimenti: Lime, What if? Spoiler!, Tematiche delicate
Personaggi: Eita Semi, Kenjirō Shirabu
Pairing: #SemiShira
Tipo di coppia: Yaoi





 
Double life


Part 2: A hard day's night
 
 

it's been a hard day's night, and I've been working like a dog
It's been a hard day's night, I should be sleeping like a log
But when I get home to you I'll find the things that you do
Will make me feel al right... 


 
Shinjuku Ni-Chome
 

Le corde della sua vecchia Gibson non sembravano essere sufficientemente tese, il ché rendeva alcuni accordi poco fluidi ed armoniosi. Eita si era ripromesso da diverse settimane di sostituirle quanto prima; ma tra lavoro, famiglia e spossatezza generale, aveva procrastinato sino a quella sera. Avrebbe dovuto trovare in fretta una soluzione, dato che di lì a poco si sarebbe esibito assieme ai Raijin e non poteva assolutamente permettersi il lusso di fare magre figure. Del resto, non era un mistero per nessuno degli addetti ai lavori la costante presenza di talent scout o discografici in cerca di nuove leve da istruire a dovere per la grande industria discografica.
Considerando quanto la musica passasse troppo spesso in secondo piano a discapito degli interessi dell’economia mondiale, Semi Eita non aveva alcuna intenzione di dar loro soddisfazione concedendosi alla prima offerta contrattuale che avrebbe mai potuto ricevere. Conosceva abbastanza bene quell’ambiente da poter differenziare la fiducia da riporre in una casa discografica piuttosto che in un’altra. E solitamente, più risultavano essere blasonate e meno c’era da dar loro corda. I calderoni e le folle oceaniche costituite prevalentemente da ragazzine con gli ormoni in subbuglio non erano mai rientrati tra i suoi obbiettivi primari; così come lavorare come impiegato ministeriale governativo durante le ore diurne. Ma questo era tutt’altro discorso.

Accese l’ennesima sigaretta, sperando che la band che stava avendo la sfortuna di udire in sottofondo terminasse al più presto di esibirsi. Non tanto perché non vedesse l’ora di calcare il palcoscenico per dare sfogo a tutta la sua sete di libertà unita al suo amore per la musica; in verità, non riusciva a tollerare come quei tizi stessero suonando cover di celebri brani pop e commerciali in chiave strumentale. Semi non poteva far a meno di storcere contemporaneamente naso e bocca ad ogni “baby” o “I need you” proferiti; a suo avviso risultavano di una banalità sconcertante, oltre che terribilmente stucchevoli.
Sospirò, lasciandosi ancora una volta torturare interiormente dai dubbi in merito alla presenza di Kenjirō nella grande sala del locale in cui la fetta di popolazione edochiana più disinibita si stava dilettando in chiacchiere, commenti, bevute di gruppo e preliminari che sarebbero quasi sicuramente proseguiti in luoghi ben più appartati. Chissà come avrebbe reagito al cospetto di tanta sfrontatezza, nonostante avesse già messo piede in quel posto in almeno un altro paio di occasioni.

Si alzò da quella poltrona logora e decisamente anacronistica per recuperare l’altrettanto datato posacenere. Spense quello che rimaneva del mozzicone e afferrò il telefono. Solamente due messaggi, uno di Nami e l’altro di Reon. Nessuna traccia di Shirabu, così come di Satori. Nel momento in cui si soffermò a pensare a quest’ultimo, si ricordò di non avere sue notizie da diversi giorni, se non almeno una settimana. L’ultima forma di contatto tra loro era stata una mail alla quale aveva allegato le immagini di alcuni prodotti naturali fruibili nel suo negozio, chiedendogli se avesse voglia di acquistarli; lo aveva persino invitato a chiedere a Shirabu o a sua sorella, senza mezze misure. Da allora i suoi accessi al web erano stati sempre più radi e fugaci.
Nami voleva mostrargli i suoi ultimi acquisti on-line in fatto di moda. Un abito bordeaux con le maniche a sbuffo le conferiva un’aria da gothic lolita che non lo entusiasmava particolarmente. Ma d’altronde, sapeva bene di essere stato lui stesso la principale causa della sua conversione al lato “oscuro” della musica come mero stile di vita. Suo padre glielo rinfacciava ogniqualvolta era costretto a tornare a casa per le feste comandate o, più semplicemente, per volere di sua madre. Oramai aveva spuntato tutte le opzioni presenti nella lista delle scuse più o meno plausibili per dirle che non si sarebbe potuto presentare a tale cena o all’arrivo di chissà quale facoltoso zio d’America. Nulla poteva più negare che l’unico filo che ancora lo legava alla famiglia era proprio la piccola Nami.

“Cosa?!”

L’improvvisa esclamazione fece voltare all’unisono gli altri componenti della band, considerato che si erano oramai abituati ai suoi momenti di prolungato silenzio riflessivo. Per quanto potesse apparire spesso pedante e logorroico, aveva sempre avuto bisogno dei suoi spazi all’interno dei quali poter far circolare liberamente i pensieri e, soprattutto, le preoccupazioni più imminenti.
Nemmeno si rese conto delle tre paia di occhi rigorosamente puntate su di lui, tanto era preso emotivamente da ciò che aveva appena letto sulla schermata del suo iPhone. Nami stava per uscire con un ragazzo che aveva avuto modo di conoscere nel corso dell’ultimo anno di scuola superiore. Un tipo di buona famiglia, ma affidabile in “amore” quanto i sottosegretari con cui aveva avuto a che fare negli ultimi – e per nulla semplici – mesi lavorativi.
Strabuzzò gli occhi più volte, sperando di non aver letto davvero quel nome. Cercò rifugio nel bagno, allo scopo di trovare un minimo di privacy per poterle lasciare un vocale utile ad esprimere la sua totale disapprovazione per quella storiella da quattro soldi che non aveva alcun senso di esistere. Ma non ebbe il tempo di dare il via al suo prezioso sfogo, poiché venne interrotto dai suoi compagni. Di lì a pochi minuti sarebbe iniziato il loro personale live show.
Imprecò poggiando entrambe le braccia ai bordi di quel lavandino che di certo non era stato igienizzato al meglio. Fissò il suo riflesso in quello specchio scheggiato e sospirò a pieni polmoni. Abbassò lo sguardo su quella croce latina che da tempo portava appesa al collo, specie nelle sue serate a Shinjuku. Un controsenso nei confronti della sua comunità LGBT, ma non per lui. Per quanto si sentisse libero, le sue origini europee lo legavano ancora alla famiglia e alle sue diversità culturali. Nelle vene di sua madre scorreva sangue irlandese e una forte fede cattolica. Questo non le aveva mai impedito di insegnare ai suoi figli quanto fosse importante saper scindere il culto religioso dalle proprie ideologie, senza necessariamente dover rinnegare una di esse.

Tentò di sistemarsi alla meno peggio la folta chioma color cenere, ma senza ottenere nessun risultato soddisfacente. Raggiunse il palco a seguito degli altri componenti dei Raijin. L’adrenalina conquistata lo fece tornare rapidamente in sé, a partire dal saluto urlato a gran voce al pubblico presente e dall’invocazione all’amore per la sua musica, ma quella vera.
Si concesse qualche secondo per sondare il terreno, e nello specifico, per constatare se qualcuno di suo particolare interesse avesse palesato la propria presenza o meno.
Il suo sorriso confermò ogni cosa, lasciandogli finalmente la possibilità di concedersi alle godurie di quella lunga notte da vivere ancora appieno.
 
***
 
Shirabu si era presentato con il suo consueto largo anticipo. Non si era mai completamente fidato degli orari indicati dai volantini o dai siti internet dei locali, dato che le diverse band erano solite prendersi un po’ di tempo in più rispetto a quello che veniva loro inizialmente concesso. Non c’era nulla di male in questo e molti gestori lo permettevano senza alcun indugio, specie perché erano proprio loro i primi a ricavarne profitto.
Attese per diversi minuti all’entrata, stordito ed incredulo di fronte al primo gruppo che gli era capitato a tiro. Una cover band di quelle senza un briciolo d’inventiva personale se non quella di credere che cantare vecchi successi pop in chiave più “adirata” potesse attirare le folle, specie quelle composte da ragazzine o dai fanatici degli artisti originali.
Cercò di distrarsi guardandosi attorno ed evitando di cadere nelle provocazioni che di tanto in tanto gli giungevano dai frequentatori più assidui di quel posto. Qualcuno ci provava senza alcun pudore, altri si concedevano almeno l’iter più “largo”, a cominciare dalle presentazioni e da alcune domande da chat adolescenziali. In ogni caso, il discorso veniva stoppato ancor prima che potesse rivelare a completi sconosciuti di aver concluso da poco un arduo turno di ben dodici ore in un affollato reparto di Oncologia Pediatrica. Niente che potesse avere a che fare con quegli individui, e questo era sicuramente un gran vantaggio più per loro che per uno specializzando in pieno burnout.

Non sfuggì alla sua attenzione un piccolo tavolo per due rimasto vuoto esattamente alla sinistra del palco; con ogni probabilità doveva essere quello che Eita aveva fatto riservare per lui. No, non si sarebbe mai potuto sedere in quel punto strategico e in completa solitudine; non avrebbe mai retto i suoi occhi puntati addosso, così come gli sguardi di coloro che insinuavano che tra i due ci fosse qualcosa di più utilizzando termini e gesti indecenti. Era già successo in passato e questo aveva portato a lunghe discussioni i cui argomenti non dipendevano da nessuno.
Decise di tenere le dovute distanze, pur mantenendo vivo il desiderio di potersi godere l’esibizione del suo ex senpai. Nel momento in cui un’improbabile presentatrice dai lunghi dread multicolore annunciò l’imminente arrivo dei Raijin, riportò la sua attenzione al centro dell’ampia sala di quel locale dimenticato dagli dèi. I tre musicisti – con cui troppo spesso s’intratteneva al telefono nei rari momenti che potevano passare assieme – si presentarono salutando con ampi movimenti delle braccia; si nascosero dietro ai loro strumenti per lasciar subito campo libero al loro leader indiscusso. Eita indossava una lunga giacca di pelle scura dalla cui apertura s’intravedeva una camicia quasi completamente sbottonata e color prugna, una paio di jeans sdruciti e degli anfibi capaci di far apparire i suoi piedi grossi il doppio di quello che erano in realtà. Immancabile, come sempre, quella sorta di collana da cui pendeva il crocifisso regalatogli da sua madre. L’ennesimo mistero appartenente alla sua mente ingarbugliata, considerando quanto si stesse sforzando di evitare di tornare dalla sua famiglia, soprattutto nell’ultimo periodo.

“Buonasera Shinjuku! Beh... scusate, se parto così posso anche sembrate uno dei BTS in pieno delirio da tour mondiale, ma in realtà non mi sovveniva un saluto più originale. Dai, mi conoscete ormai... ve ne ho proposti tanti e stasera va così. Che ne dite di rifarvi un po’ le orecchie con della buona musica? I Pink Floyd possono andar bene? Che dite?”

Piuttosto che quel fracasso di poc’anzi, per me puoi pure procedere.
Qualcuno applaudì, altri sembravano straniti dall’insolito atteggiamento mostrato dal cantante; altri ancora sottolinearono quanto l’esibizione precedente non fosse stata affatto malvagia. Questione di gusti e di pretese personali.
Kenjirō trovò inusuale persino la scelta di iniziare la scaletta con “High hopes”, piuttosto che con la ben più trascinante “Another brick in the wall”. Seguirono diversi celeberrimi brani dei Led Zeppelin, dei Guns N’ Roses, dei Metallica, dei Queen, dei Beatles e persino di Sting, giusto per conciliare i momenti dedicati alla chitarra acustica. Aveva saltato a piè pari gli Oasis, da sempre tra i suoi preferiti in assoluto. Ok, di sicuro c’era qualcosa sotto e avrebbero avuto modo di parlarne con calma una volta terminata tutta quella baraonda del sabato sera.

Un attimo prima di tornare a nascondersi dietro le quinte, Semi si voltò nell’angolino in cui il futuro medico pensava di essersi rifugiato senza rischiare di essere visto.
Chiaramente, si sbagliava di grosso, visto l’occhiolino ed il gesto eloquente con cui gli fece notare che poco più tardi si sarebbero visti in privato per poter trascorrere il resto di quel fine settimana insieme, come entrambi bramavano senza averlo mai ammesso apertamente. L’orgoglio aveva quasi sempre preso il sopravvento sulla realtà dei fatti, concedendo qualche spazio aperto solo tra le lenzuola. Esattamente dove avevano imparato a non poter più fare a meno l’uno dell’altro.
 
***
 
“Andiamo con la mia auto.”

“Scordatelo. Puzzi d’alcol e non sei affidabile.”

“Perché, scusa... tu hai bevuto succo d’arancia mentre mi aspettavi con tanta ansia?”

Kenjirō si arrestò e si aprì in un sorriso fasullo quanto quello che stava per dire. Non che per Eita fosse un mistero, tutt’altro. Ormai era in grado di riconoscere tutti i meccanismi di difesa dietro i quali era solito barricarsi il suo kōhai di un tempo, senza nemmeno doversi sforzare più del dovuto. A discapito di questo, spesso era arrivato a chiedersi se per Shirabu fosse lo stesso, pur continuando a sostenere che fosse il suo stesso muro emotivo ad impedirgli di vedere oltre la sua frangetta simmetricamente perfetta. Ma era davvero così?

“In realtà non ho ordinato un bel niente, se proprio lo vuoi sapere. Dopo il turno massacrante di oggi, ci manca giusto che mi metta a guidare con una tasso alcolemico superiore al consentito. E comunque... non ti ho aspettato con ansia nemmeno per un istante. Sono venuto solo per evitare che mi tampinassi di-”

“Ah-ah, certo. Continua pure con questa pantomima che avrò sentito... quante volte? Un centinaio? Un migliaio? Eppure fai di tutto per esserci quando te lo chiedo!”

“Non è vero!”

Shirabu riprese rapidamente a camminare in direzione della sua vettura parcheggiata a poche decine di metri di distanza. Finse di non dar più retta a chi pensava di potersi arrogare il diritto di leggergli nel pensiero, fintanto che quest’ultimo non gli si parò davanti palesando la classica postura da supereroe dei nostrani, con gambe larghe e braccia conserte. Si limitò ad osservarlo per pochi istanti, in evidente imbarazzo. Abbassò lo sguardo cercando di proseguire oltre; ma nell’attimo in cui si ritrovò al suo fianco, Eita lo strattonò per il gomito sino a portarlo a pochi centimetri dal suo naso.
Il cantante lo sorprese con un nuovo sorriso beffardo, pronto a sparare le sue dovute sentenze di fronte alle ovvietà che l’altro faticava ancora ad ammettere; nemmeno dovesse confessare di aver commesso chissà quali gravi peccati d’amore.

“Ok, ora che hai testato la tua incredibile forza, puoi anche lasciarmi andare!”

“Ti lascerò andare e ti concederò persino di guidare... quando finalmente ti deciderai ad ammettere la verità.”

“Non so di cosa tu stia parlando.”

“Certo che lo sai! Sei più prezioso di una qualsiasi ragazza che fa la preziosa. Sappilo!”

Le stelle che sentì e vide per il dolore provocato dal pestone rifilatogli lo costrinsero a zittirsi e a trovare una nuova tattica per poter in qualche modo recuperare terreno. Kenjirō si stava infervorando seriamente e, pertanto, non c’era più possibilità di appellarsi a della semplice ironia di fondo.

“Non riesci nemmeno a leggere in senso positivo quello che ti ho appena detto?!”

“Le tue affermazioni sono sempre piene di doppi sensi e battute degne di uno scaricatore di porto. Per cui non m’interessano, sappilo!”

“Ok, allora un’ultima domanda. Vale per il posto guida fino a casa mia.”

“E chi ti dice che voglia venire a casa tua?”

“lo dico io. Vado con la domanda e guai a te se m’interrompi ancora!”

Shirabu decise di assecondarlo con la speranza di uscire il prima possibile da quella situazione divenuta oramai insostenibile. Di fondo vi era anche un’umana curiosità che stava tentando di camuffare come meglio poteva, onde evitare di mostrarsi eccessivamente accondiscendente e “dipendente”.

“Perché sei venuto stasera?”

“Perché forse... sei stato tu ad invitarmi?! Scusa, eh... ma è proprio domanda idiota!”

“Potevi anche rifiutare.”

“E dovermi subire i tuoi piagnistei? Ti ho già detto che l’ho fatto solo per evitare questo!”

Eita si limitò a sorridere amaramente scuotendo la testa. Socchiuse gli occhi per poi sollevarli verso l’ampia distesa di stelle che sovrastava le loro teste. Non si vedeva nessuna nube all’orizzonte e, per un solo frangente, non riuscì a fare a meno di paragonare la loro relazione a quel cielo limpido e solenne, capace di andare oltre le piccole tempeste che di tanto in tanto potevano naturalmente intercorrere tra loro.
Infilò entrambe le mani nelle tasche della sua appariscente giacca in pelle, giusto per darsi un tono; non appena sfiorò il vecchio accendino fu precocemente vinto dal desiderio di fumare. Tentò di resistere, anche se nell’ultimo periodo stava diventando sempre più difficile a causa dello stress lavorativo a cui doveva quotidianamente sottostare.

“Va bene, d’accordo. Faccio finta di crederci. Ora andiamo?”

“E io che pensavo che volessi farti l’ultima fumatina della serata!”

Che diamine! Ma sei un veggente?
Semi digrignò appena i denti sentendosi totalmente colto in fallo, quasi fosse stato sottoposto ad una radiografia completa. Quando voleva, Kenjirō era capace di non lasciarsi scappare nessun dettaglio, specie quelli a cui era particolarmente interessato. E di sicuro Eita rientrava tra le sue più grandi passioni, per quanto fosse impresa ardua – se non impossibile – riuscire a farglielo ammettere apertamente.

“Nah, mi puzzerebbe l’alito per... beh, per quello che dobbiamo fare dopo.”

“Cioè?!”

“Contare i francobolli della mia collezione!”
 
***
 
Shirabu si era talmente abituato al subbuglio presente nell’appartamento del compagno da aver imparato con tempo a non indignarsi più del necessario. Ma quella notte fu diverso: ogni cosa era stata debitamente sistemata al proprio posto e sembrava persino che fosse stato tirato tutto a lucido. No, non riusciva proprio ad immaginarsi Eita alle prese con spray igienizzanti, mangia polvere ed emulsioni per parquet. Eppure, era stato proprio così.
Si avvicinò al piccolo kotatsu posto al centro della sala e raccolse le riviste di musica stropicciate e cariche di post-it. Sotto a queste vi erano dei quotidiani e degli articoli raccolti dal web. Tutto si poteva dire su Semi, tranne che non si tenesse costantemente informato sui più angusti temi di attualità, come la sua prassi lavorativa richiedeva.
Su una di quelle riviste, in particolare, era stata pubblicata una foto riguardante una sua esibizione dell’estate precedente, nel pieno del festival del Miyagi. Portava i capelli appena più corti, una t-shirt aderente e un paio di jeans che lasciavano ben poco spazio all’immaginazione per quanto fossero attillati. La sua attenzione ricadde su un piccolo e – all’apparenza – insignificante dettaglio: le scarpe che aveva messo per l’occasione. Un vecchio paio di All Stars color prugna piuttosto scolorite, con ogni probabilità le stesse che indossava spesso durante gli allenamenti informali alla Shiratorizawa.
Le ha ancora, non ci posso credere!

L’odore di nicotina riuscì a riportarlo alla realtà, così come gli spifferi d’aria che entravano dalla portafinestra lasciata aperta. Chiese a gran voce di chiudere, ma non ricevette risposta. Si avvicinò al terrazzo per fare da sé, ma fu trascinato all’esterno senza avere il tempo e la possibilità di difendersi. Si ritrovò seduto su di un divanetto in vimini; un tocco molto vintage che probabilmente aveva previsto lo zampino di quel vulcano di Nami.
Seduto al suo fianco, Eita si stava crogiolando in una serie di smorfie che sciorinava senza alcuna remora. Strizzò la punta del naso del futuro pediatra tra indice e medio, finendo per scoppiare a ridere senza contegno nel momento in cui quest’ultimo cominciò a protestare.

“Ti stai divertendo?”

“Se t’incazzi... ancora di più!”

“Allora ti annuncio ufficialmente che non sono per nulla incazzato!”

“Bene, mi fa piacere.”

Si liberò rapidamente della sigaretta per potersi dedicare completamente a lui. Si avvicinò ed iniziò a baciarlo partendo dalla punta di quel naso ormai preso d’assalto; arrivò alle sue labbra rendendo quel contatto man mano sempre più audace. Kenjirō non oppose molta resistenza, conscio di attendere a sua volta quel momento da fin troppi giorni. Socchiuse gli occhi lasciandosi trasportare dai movimenti delle loro lingue, così come dal tocco delle sue mani calde sul collo e sulla schiena.
Nel frangente durante il quale Eita si allontanò per riprendere fiato, Shirabu avvertì il desiderio immediato di ricominciare il prima possibile. Ma come al solito Semi doveva perdersi in chiacchiere.

“Questo ci voleva proprio.”

“Sì, un bel bacio al sapore di nicotina.”

“... e alcol. Non dimenticarlo.”

Il futuro pediatra prese la saggia decisione di non cadere in quell’ennesima provocazione. Si alzò in piedi e con un unico cenno del capo chiese implicitamente di poter tornare dentro. Nel suo sguardo non vi era più alcuna forma di resistenza o di protesta; quello che oramai era diventato evidente nel suo bassoventre fece poi il resto per lasciar intuire quali fossero le sue reali esigenze del momento. Non che si discostassero poi molto da quelle che erano le sue, detto con tutta la sincerità plausibile.
 
***
 
Qualche ora più tardi un raggio di sole decise di piantonarsi sul viso di Shirabu con l’obiettivo di strapparlo dal suo sonno sereno e tardivo. Non doveva essersi addormentato prima delle quattro, dato che a seguito di quello che era successo tra loro si erano soffermati a lungo a chiacchierare. La sua famiglia, Nami, Tendō, il suo lavoro, i progetti con la band... Eita aveva fatto di tutto per dilungare i tempi rispetto a quella domanda che avrebbe voluto porgli con sentito interesse.
 
 
“E a te come vanno le cose in ospedale?”

“Ah, beh... come al solito.”

“È una risposta un po’ generica, onestamente.”

“Cosa pretendi che ti risponda?”

“Magari con quello che senti davvero. Vivi a stretto contatto con bambini gravemente malati, non può essere tutto 'nella norma'. Non lo è nemmeno per me che lavoro in un posto pieno di gente capace di farmi venire il latte alle ginocchia ogni tre secondi, figurati tu che-”

La sua mano minuta gli tappò la bocca prima che potesse dire qualcosa d’inopportuno senza nemmeno rendersene pienamente conto.

“Quanto parli! Ma ti rendi conto di che ora è? E dopo tutto quello che abbiamo fatto!”

“Quande bie di fuga stai gergando... ”

Eita cercò di articolare quelle ultime parole nonostante la pressione delle sue dita. Non aveva alcuna intenzione di dargliela vinta, soprattutto con tanta facilità.
Fu ben lieto di poter constatare di esserci riuscito nel momento in cui Shirabu lo liberò per mettersi a sedere sul materasso anteponendo alla sua imminente confessione un sospiro che parve già comunicare molto più di quello che il diretto interessato potesse aspettarsi.

“Hai idea di quanto sia meglio ‘farti venire il latte alle ginocchia’, come dici tu, piuttosto che sentirti completamente inutile... impotente... e devastato ogni volta che ti riferiscono che per quel determinato bambino non c’è più niente da fare? Sai cosa significa ogni giorno alzarsi dal letto per andare a lavorare in un ambiente in cui si lotta continuamente contro la morte di creature innocenti? Parli, parli... ma non sai un cazzo, Eita Semi!”

“Non ho mai avuto la pretesa di sapere, ma solo quella di capire se avessi bisogno di un po’ di conforto...”

Kenjirō cercò di contenere la propria emotività fino alla fine, ma dovette arrendersi a quelle infide lacrime che cominciarono imperterrite a sgorgare dai suoi grandi occhi color nocciola. Tentò persino di non farsi vedere, ma Eita fu sufficientemente rapido da impedirgli di voltarsi per poi stringerlo forte a sé. Avvertì quell’esile corpo tremare tra le sue braccia mentre i suoi singhiozzi si facevano sempre più fragorosi e frequenti. Gli carezzò la nuca nel tentativo di rasserenarlo, per quello che gli era possibile in una situazione tanto delicata e fortunatamente a lui ignota.
Il più giovane si lasciò finalmente andare ricambiando quell’abbraccio che per lui valeva oro. Si accoccolò al compagno iniziando giocosamente ad arrotolare una ciocca di quei suoi capelli ribelli tra le sue dita.

“Mi prometti una cosa?”

“Cosa?”

“La prossima volta che verrò ad un tuo live... mi dedicherai ‘Wish you were here’? Meglio ancora se lo farai in maniera plateale!”

“Sei serio?”

“Certo! Perché non dovrei esserlo, scusami?”

“Volevo togliermi ogni dubbio. Comunque, va bene. Affare fatto, Doctor!”
 
 
Non aveva alcun dubbio sul fatto che Eita avrebbe mantenuto quella lodevole promessa, così come del suo costante supporto anche nei momenti che non avrebbero potuto fisicamente condividere.
Si voltò a guardarlo, mentre ancora dormiva russando debolmente. I lunghi capelli dalla doppia tintura erano sparsi in maniera disordinata sul guanciale, assieme al suo braccio destro; un deposito di piccoli e grandi tatuaggi dalle più svariate origini e dai significati legati ai momenti più importi della sua ancor giovanissima vita. Le ali che portava sulla schiena, invece, erano la massima rappresentazione del suo concetto di libertà. Non per niente erano state realizzate in seguito all’ennesima discussione con quel padre con cui non riusciva a creare un feeling nemmeno sforzandosi con tutto sé stesso.

Ripensò a loro due su quel letto nel corso della nottata precedente, a come aveva riso nel momento in cui Eita aveva iniziato a fargli il solletico per tenerselo buono a fronte dell’ennesima discussione che stava per prendere piede; sentì ancora una volta le labbra premere sulle sue in attesa di ricevere risposta, le sue mani che slacciavano i bottoni dei suoi pantaloni con una lentezza che non si sarebbe mai aspettato; le sue dita che lo preparavano a quel rapporto che li avrebbe portati oltre le loro quotidiane preoccupazioni almeno per qualche ora.
Rivide il suo sguardo estasiato mentre si muoveva dentro di lui con una veemenza a mano a mano sempre maggiore, ma stando sempre accorto nell’evitare di causargli dolore e disagio. Avvertì ancora una volta quella spinta finale che lo portò all’orgasmo, alla liberazione definitiva da ogni rimostranza, alla fuoriuscita di quel sentimento che si teneva dentro sin dal primo anno di liceo, da quando per la prima volta si era ritrovato a condividere gli allenamenti con quel ragazzo dai capelli bizzarri, ma dal fascino catalizzante ed irresistibile.
E poi di nuovo la sua bocca sul sesso turgido, le sue mani tra i suoi capelli, sul suo petto, sui suoi capezzoli... ovunque. Le sue parole irripetibili per la loro bellezza e per la loro intimità. Nomignoli e riferimenti che sbandierati fuori da quelle quattro mura gli sarebbero costati cari, ma che per l’occasione non potevano essere assolutamente evitati.
La sua voglia inarrestabile di parlare, di raccontarsi, di ascoltarlo anche dopo avergli concesso tutto quello che poteva concedergli... Non poteva chiedere altro, non poteva essere presuntuoso e pretenzioso sino a questo punto. Non con lui, almeno.

“Buongiorno!”

Kenjirō era talmente impelagato nei suoi pensieri da non essersi reso conto che Eita era sveglio e che lo stava fissando da diversi minuti senza proferire parola. Ma forse per lui era giunto finalmente il momento di accendere l’interruttore.

“Ah, buongiorno! Non mi ero accorto che fossi sveglio. Eppure, considerando quanto russi...”

“Io non russo!”

“Oh sì, caro mio. E pure parecchio!”

“Dimostramelo!”

“Ho le registrazioni!”

Si scambiarono un sguardo carico di bonario senso di sfida, prima di scoppiare definitivamente a ridere insieme come non capitava da diverso tempo a quella parte.
Shirabu si chinò su di lui e gli diede un bacio a stampo sulle labbra, prima di alzarsi con l’intento di dirigersi verso il bagno per una meritata doccia.

“Eita.”

“Dica.”

“Grazie.”

Il cantante tentò l’impossibile per non mostrare l’imbarazzo in cui era inevitabilmente caduto. D’altronde, ricevere un riconoscimento del genere da parte di Shirabu non era di certo un avvenimento che poteva essere annoverato tra le consuetudini della vita. Si passò una mano tra i capelli, tossì per schiarirsi la voce e alla buon’ora si decise a replicare a quella semplice parola che doveva essere costata molto in termini emotivi e caratteriali.

“Grazie a te.”









 

Angolo dell'Autrice


Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno voglia di leggere e recensire questa mia easy-long! :)

Rieccomi con i miei adoratissimi #SemiShira! Vi erano mancati... dite la verità! XD
Questa sarà una easy-long di soli due capitoli. Nel primo si parlerà della vita diurna e delle “catene” che questa comporta, mentre nel secondo mi soffermerò a parlarvi delle diverse abitudini notturne dei due protagonisti.
Questa storia NON è un sequel delle precedenti one-shots che avevo dedicato a Semi e Shirabu.

Parte 2°: A hard day’s night.
Come potrà essere la notte successiva all’ennesima giornata di duro lavoro? Bella incasinata e rockeggiante, ovviamente! Semi si ritrova alle prese con le beghe amorose di sua sorella Nami poco prima di esibirsi. Live show a cui si presenterà anche il nostro Shirabu, ovviamente. Ed è proprio quest’ultimo che si rende conto che per Semi la serata non è spensierata come di consueto, anche se faticherà ad ammetterlo. E lo stesso varrà anche per lo stesso futuro pediatra. Anzi, per lui la questione è persino più delicata, visto e considerato che lavora come specializzando in ospedale, a diretto contatto con bambini ricoverati nel reparto di Oncologia. La serata prosegue fuori dal locale, tra strada, casa, terrazzo e camera da letto, tra battibecchi, carezze, baci e... qualcosa di più, ovviamente! Mica prevedevano di mettersi a giocare a briscola, suvvia! XD
P.S. Nami Semi è un mio OC. Un peperino tutta suo fratello (ringrazio come sempre le fanartist che seguo per il ‘prototipo’). Tutti i riferimenti riguardanti la famiglia di Semi sono frutto della mia fantasia.
P.P.S. Shinjuku Ni-Chome (o 2 Chome) è un noto quartiere LGBT di Tokyo.
P.P.P.S. Per il nome della band (Raijin) ringrazio Johanna per il prezioso suggerimento lasciatomi su Facebook. Questo nome era già stato utilizzato per la band si Semi anche nella one-shot “Il mio gioco preferito”.

Il testo è scritto in terza persona e al tempo passato. La parte di testo decentrata e con font diverso corrisponde ad un flashback di Shirabu.
Il testo della canzone che riporto nella prima parte di questo capitolo è ‘A hard day’s night’ dei Beatles. Dal titolo del brano ho ricavato anche il titolo della storia.

Grazie ancora a chiunque passerà di qua. **

A presto,

Mahlerlucia


 
   
 
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