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Autore: Miss Demy    13/06/2020    13 recensioni
C'è un'età per l'amicizia, per l'affetto fraterno, per le confidenze, e un'età per l'Amore capace di far scalpitare i cuori e mandare in tilt il cervello.
Tra l'amicizia e l'Amore, alcune volte il passo può essere breve, altre impiega più di dieci anni. E se razionalmente non fosse giusto? Ascolta il tuo cuore, non c'è nient'altro che tu possa fare.
Dal cap.1:
Un colpo di tosse li destò da quella pericolosa lite.
Voltandosi verso l’arco che collegava il salone al resto dell’appartamento, gli occhi spalancati e imbarazzati di Hana li osservavano. Non era l’unica.
Setsuna, aveva assistito. Era curiosa di ascoltare come il suo fidanzato avrebbe giustificato quella scena che lo vedeva ancora in ginocchio, tra le gambe dischiuse di Usagi, cingendole la vita e con il viso a pochi centimetri di distanza da quello della ragazzina. Che nervi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mamoru/Marzio, Nuovo personaggio, Setsuna/Sidia, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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Capitolo 5: Flashback - parte prima
 
«Avanzo mangiando e… Dama!» esclamò Usagi, battendo le mani mentre la sua bocca si apriva in una espressione di soddisfazione. Guardò di fronte a sé. Hiroshi nella sua polo aragosta annuiva, una curva sulle labbra sottili ad accentuare le rughe d’espressione attorno alla bocca e agli occhi. 
«Hai vinto ancora una volta» affermò con tono pacato riposizionando le pedine sui quadrati neri della scacchiera. «Brava, Usagi.» 
Era troppo tranquillo. «Secondo me mi hai lasciata vincere ancora una volta» sentenziò strofinando le mani sul cotone azzurro della lunga gonna. Il suo entusiasmo lasciò posto alla deludente consapevolezza. Uffa.
«No. Ma che dici, Usagi-chan, non avevo riflettuto sul fatto che mangiando la tua pedina ti avrei lasciato lo spazio per arrivare a Dama.»
A parere di lei, non era stata una semplice distrazione. «Dai, ti do la rivincita» gli rispose distendendo la fronte per rinforzare il tono magnanimo, e portò una mano sul tavolo per aiutarlo a completare la sistemazione delle pedine bianche.

Come una spettatrice teatrale, Hana rimase a osservarli poggiata allo stipite della porta del salone. Di fronte a sé, l’ampia vetrata faceva da sfondo al tavolo quadrato a scacchiera. Usagi muoveva una pedina e, nell’attesa della mossa avversaria, guardava attraverso il vetro che mostrava il parcheggio retrostante del palazzo.
Quell’immagine le apparve una chiave per ritornare indietro nel tempo.

«Hanno suonato, va’ ad aprire» le aveva ripetuto la sua mente, ma a lei non era importato. Quel suono acuto prima o poi avrebbe smesso di riecheggiare invadente, l’avrebbe lasciata in pace, sdraiata nel buio della sua camera da letto dopo aver capito che non aveva senso fare nulla, se non stringere al seno il gatto di peluche con la mezza luna sulla fronte. Era il preferito di Lei, se lo trascinava ovunque. “Luna!” La sua vocina che parlava a quel pupazzo albergava nella memoria come un tormento. Lei non era più lì a riempire il silenzio con le sue filastrocche e le scenette che metteva in atto insieme a Luna solo per lei: la sua mammina. I ricordi squarciavano l’anima come coltelli affilati attraverso le immagini che affollavano la sua testa, infrangendo il suo cuore senza sosta. Il campanello aveva suonato ancora. Lei aveva sospirato. Che ore erano? La sveglia sul comodino aveva segnato le 11:00.
“Devi combattere, devi farlo per tuo figlio, lui ha bisogno di te.” 
Poteva essere Mamoru, chi altro avrebbe continuato a insistere? Lui aveva sicuramente dimenticato le chiavi di casa, quel periodo aveva messo a dura prova anche un ragazzo assennato come suo figlio. Doveva farsi forza per lui. Aveva preso un profondo respiro per rilasciarlo all’aria, cercando di continuare ad affrontare la realtà.
«Buongiorno, mi scusi per il disturbo, sono Ikuko Tsukino, la sua nuova vicina di casa» aveva pronunciato dietro un sorriso la donna dai lunghi capelli blu di fronte a lei. «Mio marito e io ci siamo trasferiti ieri sera qui accanto, mi faceva piacere presentarmi.» Gli occhi nocciola della nuova inquilina erano rimasti in cerca di empatia. «Anche a mio marito avrebbe fatto piacere conoscervi ma, se avessi atteso la fine dei suoi impegni lavorativi, credo avremmo fatto questa presentazione a Natale.» Aveva sperato di apparire socievole, di riempire il silenzio stimolando una frase, ma lei era rimasta spiazzata, incapace di ricambiare gentilezze. 
Una voce l’aveva distratta nuovamente dalla sua realtà ovattata. «E io sono Usagi. Ciao!» Era una bambina, sbucata da dietro l’ampia gonna lunga di Ikuko. I suoi occhi azzurro cielo le illuminavano il viso paffuto; il vestito, dalle maniche a sbuffo color carta da zucchero, aveva reso la sua carnagione chiara ancora più delicata; portava i capelli biondi in due codini alti, simili agli odango. Era la moda del momento, lei lo sapeva bene. Guardarla sorridere le aveva pugnalato il cuore.
“Perché tutto questo?” si ripeteva come una nenia. Avrebbe voluto dire di andare via, che non stava molto bene, o magari sperava che quelle due figure di fronte a sé intuissero che il suo abito nero non rappresentava una scelta casuale.
«Prego, entrate pure, io sono Hana Chiba» le era apparsa la frase più consona da proferire.
Usagi aveva aperto la bocca, come se fosse entrata in un negozio di giocattoli, appena aveva notato il tavolo in noce con la superficie a scacchiera di fronte l’ingresso del salone. «Oh… che bello!» ed era corsa a osservarlo da vicino, sedendo sulla sedia predisposta per uno dei due giocatori. Aveva poggiato il braccio sul tavolo, a mo’ di cuscino per la guancia e aveva iniziato a spostare alfieri e Re, a caso, seguendo un percorso immaginario.
«Usagi!» Ikuko aveva cercato di richiamarla, scusandosi per il comportamento della figlia, ma lei non gli aveva dato la stessa importanza. In quel periodo non le importava più di nulla.
«Non si preoccupi, la lasci giocare, quella scacchiera è stata acquistata per mio marito ma non ha più tempo per esercitarsi.» E neanche più voglia di partecipare al torneo di scacchi al quale si era iscritto prima della tragedia. «Purtroppo non è in casa altrimenti anche lui avrebbe avuto il piacere di conoscervi.» Aveva usato una frase di circostanza ma sapeva che neppure Hiroshi aveva interesse per qualcosa. Ultimamente stava poco in casa, affrontava il dolore lontano da quel luogo intriso di ricordi. Lei lo comprendeva ma non le importava più neppure di attraversare il dolore insieme a lui. Nulla aveva più veramente un senso.
Parlare con Ikuko l'aveva distratta dal proprio mondo, per qualche istante si era sentita più leggera. Quella bimba aveva continuato a parlare agli scacchi come se fossero state persone; tutte le bambine avevano questo modo di trattare le bambole o i peluche, lei lo ricordava. Usagi aveva attirato l’attenzione con la sua vocina stridula, mentre continuava a divertirsi muovendo entrambi i colori degli alfieri. Dalla sua prospettiva, era apparsa avvolta da una luce calda proveniente dall’esterno.
«Beh, allora vorrà dire che organizzeremo una cena a casa mia non appena i nostri mariti riusciranno a essere liberi.» Ikuko lo aveva proposto con gentilezza. Lei aveva percepito la voglia nella sua vicina dagli occhi castani di istaurare un buon rapporto di vicinato. Avevano aspetti in comune, come mariti sempre assenti e bambine-
Era il caso di scusarsi e mandarle via.
«Hana, giochi con me?» Usagi aveva voltato lo sguardo, i suoi occhi avevano fatto capolino dalla guancia che, premuta sul braccio, appariva più paffuta. Quelle iridi erano sembrate un tutt’uno con quel vestito azzurro. Le era sembrata un angelo. Per un istante le era piaciuto credere che non fosse stato un incontro casuale, in un momento altrettanto casuale, con parole pronunciate a caso. Forse era tutto ciò che il suo cuore aveva bisogno di immaginare. Quegli occhi erano restati fissi sui propri, la continuando a supplicarla; si sentì in colpa per ciò che stava per dire. Qualcosa di inspiegabile l'aveva spinta a ricredersi.
«Mi spiace, tesoro, ma io non so giocare» aveva deciso di rispondere accennando un sorriso. Era una bambina dolce, non aveva colpe.
Il silenzio imbarazzante aveva sicuramente indotto Ikuko a parlare. «Hana, è stato un piacere conoscerla, noi adesso andiamo a casa, si è fatto tardi.» La donna aveva richiamato l’attenzione della figlia ma lei aveva scosso la testa, le lunghe ciocche erano vibrate all’aria. «No, aspetta, voglio capire come si gioca con questi. Hana, posso restare?»
Il cuore di Hana si era sciolto a quella lamentela, uno strano calore l’aveva riscaldata a quella richiesta; qualcosa dentro di lei aveva sentito il bisogno di accontentare quella bambina. «Non si preoccupi, se vuole può rimanere qui, tra un po’ rientrerà mio figlio, lui sa giocare.»
Hana era rimasta per tutto il tempo seduta sul divano a fissare Usagi immersa nel mondo degli scacchi. A volte gli alfieri saltavano, altre si trascinavano sulla scacchiera, altre ancora assumevano la sua voce. A volte quella bimba si sentiva osservata e si voltava verso di lei donandole un sorriso prima di ricominciare a giocare.
Mamoru era rientrato poco dopo. La aveva trovata persa in quella immagine di fronte a sé. 
«Mamma, ma questa bambina è la figlia dei nuovi vicini…» Lui l’aveva incrociata la sera precedente nell’androne del palazzo. Lei aveva annuito, guardandolo con occhi lucidi. Mamoru si era seduto accanto a lei stringendola a sé. «Stai bene?» le aveva domandato con tono preoccupato. Lei aveva annuito, accarezzandogli una guancia sbarbata. «Si chiama Usagi» gli aveva chiarito.
«Ciao Usagi.» Mamoru aveva attratto la sua attenzione e le aveva mostrato la lingua in una smorfia divertente. Usagi aveva sussultato a quel gesto inaspettato. Aveva sicuramente provato vergogna, voltando la testa verso la vetrata come a volersi nascondere. Lei l’aveva scorta sorridere tra sé dal riflesso della vetrata prima di si girarsi verso di lui, offrendogli una linguaccia accompagnata da un effetto sonoro. «Uhm…»
Alla vista di quegli occhi socchiusi per concentrarsi meglio sull’espressione dispettosa di chi si difende rincarando la dose, lei aveva trovato la forza per accennare un sorriso. Per un attimo aveva realizzato di essersi distolta dal pensiero di quella vocina che, dentro la sua testa, continuava a chiamarla mamma e bere tè con i peluche. Per un po’ si era sentita meno vuota.
«Gioca con lei, Mamo-chan.» Lo aveva sussurrato con uno sguardo eloquente e, in quegli occhi blu sofferti di chi aveva pianto per un mese intero, era certa che suo figlio avesse letto una richiesta d’amore. Amore per ciò che ancora aveva nel cuore. Amore per ciò che si illudeva di non dover lasciare andare. «E mi raccomando, lasciala vincere, è solo una bambina.»
 
«Amore, va tutto bene?» Hiroshi la riportò alla realtà. Di fronte a sé, lui e Usagi la fissavano. 
«Oh sì, sai che mi piace guardarvi giocare.»
«Hana, vengo ad aiutarti con il pranzo!» L’orologio al polso di Hiroshi segnava le 12:00; Usagi si rese conto che era trascorsa già un’ora dalla prima partita. 
«Oh, no, Usa-chan, continuate pure, e poi voglio che per ora non fai molti movimenti. La ferita è ancora fresca.» E suo figlio era appena partito per il week end con Setsuna. Voleva evitare di dover affrontare eventuali imprevisti fino al suo rientro. 
Hana voltò lo sguardo per ritornare alla quotidianità. C’erano le zucchine da bollire e le patate da pelare. Per un istante la coccarda blu sulla cornice attirò la sua attenzione dalla mensola della parete attrezzata. All’interno del portafoto, Hiroshi in una camicia nera sorrideva stringendola a sé con un braccio, mentre l’altra mano alzava in alto uno scacco d’argento a forma di Re per essersi classificato secondo al torneo di scacchi. Al suo fianco, Mamoru teneva le mani sulle spalle di Usagi, posta davanti a lui. Entrambi indossavano le magliette bianche sulle quali lei aveva fatto stampare in azzurro Team Hiroshi. Apparivano felici. Rifletté sul fatto che quella foto era stata scattata circa un anno dopo il giorno in cui Usagi aveva varcato per la prima volta l’ingresso di casa andandosi a sedere al tavolo a scacchiera. 
Negli anni, Usagi non aveva imparato a giocare, se non a dama, ma la sua ingenua insistenza a imparare, aveva permesso a suo marito di ritornare a sedersi a quel tavolo per insegnarle, finendo con il riprendere ad esercitarsi. Lo aveva incoraggiato a partecipare al torneo, lei era così curiosa di assistere a una vera e propria gara di scacchi. Aveva fatto sì che lui ritornasse a vivere il dolore in quella casa; senza saperlo, le aveva restituito il suo Hiroshi-chan.
Usagi era entrata in quella casa quando il sole si era spento e le tenebre avevano trovato stabile dimora nei loro cuori. Non era stato semplice, l’oscurità era sempre presente però quando lei arrivava, era come se portasse con sé quella luce calda che le aveva visto quella lontana mattina di agosto di dieci anni prima. Quella volta, le era sembrata provenire dalla vetrata, pronta ad avvolgere quella bambina, e invece la luce Usagi la portava con sé, era parte di lei. Quell’immagine aveva un valore che andava oltre l’apparenza, aveva voluto incorniciarla ed esporla per ricordarlo. Nella vita spesso si cade, si perde, ma con fatica e tempo è possibile ricominciare a vivere. Accarezzò il vetro con il pollice, dando l’idea che volesse rimuovere pulviscoli di polvere depositati in superficie, e si avviò in cucina a preparare le patate al forno. Usagi ne era ghiotta ed era appena stata dimessa dall’ospedale; viziarla con i suoi cibi preferiti le sembrava una buona idea. 

 
 
 
 
Ritornò a casa dopo pranzo per riposare un po’. Il borsone ancora sul suo letto chiedeva di essere svuotato. Usagi lo fissò poggiando la schiena alla fresca parete della sua camera. L’oggetto dalla forma rettangolare restava in attesa, un fascio di luce fioca proveniente dalla finestra ne rischiariva i coniglietti bianchi ai lati, morendo sulle stelle e i cuori del suo copriletto. Aprire la cerniera e togliere i vestiti, beauty case e libri dal suo interno avrebbe significato che la brutta esperienza in ospedale era terminata quel venerdì mattina. 
 
Mamoru l’aveva riaccompagnata a casa, nonostante Hiroshi e Hana avessero insistito per andare a prenderla e portarla con loro. Neppure lei era riuscita a convincerlo adducendo che era da tre giorni che le era rimasto accanto, che poteva andare a casa a prepararsi per il week end.
Aveva portato quel borsone dalla camera di degenza all’auto, e dal parcheggio fino all’appartamento, per non farle fare il minimo sforzo. Lo aveva adagiato sul letto come aveva suggerito lei. Aveva mantenuto uno sguardo serio, a tratti rammaricato, forse pensieroso. Lei avrebbe voluto chiedere per comprendere cosa lo turbasse, eppure era rimasta in silenzio insieme a lui. Ritrovarsi in compagnia di Mamoru alimentava una sensazione di pace e benessere, il silenzio permetteva di creare una sintonia che non voleva perdere. 
Dalla notte sull’altura di periferia, aveva iniziato a osservarlo con attenzione; il senso di protezione che le trasmetteva attraverso i piccoli gesti lo facevano apparire avvolto da un’aura sensuale; quella consapevolezza le era rimasta addosso, rimarcata dalla sua capacità di fissarsi su ciò che avrebbe dovuto non evidenziare. Invece, inevitabilmente, Mamoru contribuiva a instillarla, alimentandola ogni giorno con nuovi gesti dolci e affettuosi, acquisendo nei suoi pensieri una nuova luce che le scioglieva il cuore, che glielo incendiava quando lui la fissava o le sorrideva. 
La aveva resa più taciturna in sua presenza, incapace di fare dispetti e linguacce, e timorosa di apparire una bambina che arrossiva quando incrociava i suoi occhi. Che guaio!
«Alzo io la serranda, non fare sforzi» aveva esordito nella penombra della camera. 
«Mi raccomando, Usako, disinfetta la ferita e applica un cerotto nuovo ogni giorno» le aveva detto dopo, porgendole una boccetta e uno scatolo di cerotti larghi da medicazione. «Io resterò via solo tre giorni.» E, con quella frase, gli occhi di Mamoru si erano incupiti. «Ma tu chiamami se stai male.» E il suo tono aveva voluto farsi presenza nonostante la lontananza.
Si era limitata a distendere le labbra, mentre i suoi occhi erano rimasti incatenati a quelli blu di lui. Chissà se Mamo-chan aveva scorto il dispiacere nel doverlo lasciare andare. Aveva annuito. 
«Non ti preoccupare, Mamo-chan, piuttosto, pensa a divertirti e a rilassarti. Io starò bene, ci saranno Hana e Hiroshi con me. Magari riprendiamo a giocare a dama.»
Aveva pensato a un modo per ingannare il tempo fino al suo ritorno, espedienti per non avvertire sempre di più quella mancanza che già in quel momento si era fatta ingombrante. Non avrebbe voluto farlo stare in pensiero, avrebbe preferito vederlo sorridere, scorgere luce in quegli occhi profondi e rattristati. Avrebbe desiderato accarezzargli una guancia. In passato lo avrebbe fatto con spontaneità ma in quel momento si sentiva bloccata, compromessa. 
Lui era rimasto di fronte a lei, in silenzio ancora una volta, la aveva guardata negli occhi, dandole l’impressione di volerle gridare qualcosa che, tuttavia, non aveva trovato il coraggio di pronunciare. O forse era mera suggestione per ciò che lei stessa voleva implorare a quel volto serio ma dolce. 
La suoneria del telefono di lui aveva infranto l’atmosfera strana che sembrava averli inchiodati l’uno di fronte all’altra. Mamoru aveva abbassato le palpebre, il suo respiro si era fatto più intenso, come a trattenere un sospiro, prima di prendere il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e guardare il display. Aveva silenziato quella musica, ritornando a guardarla. Aveva disteso un braccio e le aveva accarezzato la nuca. «Devo andare, Usa, Setsuna mi sta aspettando.» 
Setsuna… lui era di Setsuna. Lui amava Setsuna. Quella consapevolezza l’aveva colpita come una mazza al centro del cuore. Aveva compreso che tutti quei pensieri non avrebbero portato a nulla di buono, solo a tormenti irrisolvibili. Aveva cercato di razionalizzare. Che sciocca che era stata. Lui era premuroso con lei perché l’aveva vista sola, ferita, perché aveva dovuto operarla. Ecco la spiegazione a tanta dolcezza. Eppure quell’aura sensuale gli era rimasta attorno, e lei non aveva saputo come scacciarla via. Setsuna. 
«Fai buon viaggio, Mamo-chan» gli aveva risposto prima di abbassare lo sguardo, temendo che lui avesse potuto leggere sul suo viso il desiderio di restare ancora un po’ insieme a lui. Aveva voltato le spalle, accompagnandolo verso l’uscio di casa. Sulla porta d’ingresso, si era arrestata. L’energia di quella presenza tra poco si sarebbe dissolta e, con essa, il profumo caldo e ambrato di lui. Si era voltata, lui era a un passo da lei con gli occhi rivestiti da una patina di dispiacere che attendevano di incrociare i suoi. Non parlò e, nel silenzio, ancora una volta, aveva permesso allo specchio della propria anima di rivelare che quei giorni in ospedale le avevano permesso di legarsi a lui ancora di più. 
Perché le era rimasto accanto, giorno e notte? Perché le aveva dedicato premure e sorrisi? Perché le aveva fatto credere di essere importante per lui? Perché non era abbastanza importante quanto lo fosse lui per lei? Non sapeva se Mamo-chan fosse stato capace di leggere quelle lettere scritte dall’anima, aveva visto solo che lui restava in attesa. Quelle iridi blu parlavano ma lei non riusciva a decifrare, eppure qualsiasi parola sarebbe apparsa senza senso, forse fuori luogo. Aveva disteso una mano sulla guancia di lui, volendo mutare quella malinconia, percepire un contatto tra di loro prima che lui se ne andasse.
A quel tocco, Mamoru aveva abbassato le palpebre, quasi a volerlo intensificare attraverso le sensazioni che gli trasmetteva; lei lo aveva visto abbandonarsi a esso. Aveva voltato la guancia ancora sul palmo di Usagi, come una carezza, finché le labbra avevano premuto su quella mano che custodiva il suo viso. Non la aveva baciò ma lei aveva avvertito un’espressione di conforto ritrovato. Il cuore aveva iniziato a bruciarle, il desiderio di stringerlo a sé era aumentato.  
«Adesso vai, Mamo-chan…» aveva sussurrato trattenendo un dolore all’anima. Lui aveva annuito mantenendo gli occhi chiusi, poi si era scostato da quel tocco e l’aveva fissata per un istante prima di lasciare l’appartamento. Non era riuscito a parlare. 
Di nuovo sola, aveva rilasciato un sospiro all’aria, catturando quel che restava della scia dell’odore di Mamoru. Aveva portato i palmi al viso, come a nascondersi dalle proprie emozioni e da quella dura realtà, ritrovando sulla mano che aveva accarezzato il volto di lui il suo profumo. Aveva pensato che sarebbe scoppiata a piangere, eppure il vuoto che provava dentro le aveva prosciugato persino le lacrime. Si era diretta a passo svelto verso la sua camera, dalla finestra lo aveva osservato raggiungere l’Audi. Lui aveva sollevato la testa verso di lei, i loro sguardi si erano incrociati di nuovo. Lei non aveva alzato la mano per salutarlo, lui neanche. Eppure, nel silenzio, aveva percepito che gli occhi di lui le avevano voluto parlare e, di rimando, dal proprio cuore gli aveva urlato: “Mi mancherai, Mamo-chan.”
 
Tirò verso il basso la zip del borsone, la stoffa grigia della camicia da notte fu la prima a emergere da quella apertura. Ripose tutto. Si sdraiò a letto; non riusciva a restare supina ma la ferita era ancora fresca e quando provava a girarsi avvertiva dolore. Si innervosì. Il ticchettio della sveglia a forma di uovo scandiva la sua solitudine. Le lancette segnavano le 18:00. Chissà che cosa stava facendo Mamoru in quel momento… 
Era con Setsuna, le ricordò la sua mente. 
L’immagine di lui che baciava quella bellissima donna dai capelli lunghi scuri e dai modi aggraziati apparve vivida. Strizzò le palpebre, volendo cancellare quel pensiero istintivo. Il cuore iniziò a bruciare, un’agitazione accresceva sempre di più dentro le sue viscere.
“Ragiona, Usagi, lo sai bene che sta con Setsuna, è da due anni che stanno insieme. Perché adesso fai così?” Eppure ciò non bastava per spegnere quel fuoco che le bruciava dentro. Le lacrime iniziarono a bagnarle le ciglia per poi rigarle le tempie e morire tra i capelli. Pianse. 
“Perché sono gelosa” si rispose.


 

Il punto dell'autrice:

A distanza di otto anni, dopo aver revisionato i capitoli precedenti, finalmente ritorno su questo fandom con questa fanfiction che per diverso tempo chiedeva alla mia mente di essere continuata. 
I primi quattro capitoli mi rendo conto che sono molto focalizzati su Usagi e Mamoru, a discapito di altri personaggi principali o coppie. Da questo capitolo cercherò di mettere in luce anche gli altri. Ho preferito spezzare il capitolo perché vorrei dare spazio alla coppia Setsuna e Mamoru (e ai pensieri di lui) durante il loro week end e, se lo avessi fatto qui, credo avrei appesantito la lettura.
Per me non è stato semplice riprendere e reimpostare la storia, anche per quanto riguardo l'arco temporale, che fino al cap. 4 è stato molto veloce. Non volevo mostrare i giorni della degenza in ospedale perchè, come avrete potututo intuire, qualcosa che ha cambiato un po' entrambi è accaduta. Usagi ha acquisito e confermato una nuova consapevolezza, e Mamoru... chissà. I tre giorni in ospedale saranno comunque mostrati sotto forma di flashback, per ora voglio che siano avvolti da un alone di mistero (e non di mera lacuna) che permetterà di leggere il proseguo con più interesse.
Come ho già annunciato sulla mia pagina facebook, ho intenzione di pubblicare un capitolo al mese, sperando che in tal modo io possa essere costante con gli aggiornamenti, ma per il capitolo 6, parte seconda di questo, credo di farcela entro fine mese.
Questo capitolo rappresenta un esperimento per migliorare alcuni aspetti della storia. Spero abbiate potuto apprezzarlo e spero in un vostro commento, per me importante e prezioso come sempre.
Un abbraccio,

Demy


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