Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Aliasor    15/06/2020    0 recensioni
Dal capitolo 7: "Ogni tanto non è male farsi alzare l’autostima da un amico. Tempo però, all'improvviso, smise di sorridere allegro per mostrare qualcosa di simile a un’aria di nostalgia ed amarezza.
Come a ricordare qualcosa che non voleva rivangare, come a riaprire una porta che voleva tenere chiusa con centinaia di lucchetti e catene.
- L’amore se dovessi trovarlo… scappa lontano. Ti pugnala al cuore e le cicatrici continuano a sanguinare… no, lascia perdere. Se trovi l’amore seguilo.-"
Breve comprensione della vita, della morte e dell'amore di alcuni individui che non possono essere definiti "esseri umani normali". Angeli, Divinità, Coboldi, Homo Sapiens, "l'Uomo Nero e la sua allegra famiglia non tanto allegra" e qualunque cosa presentino i Mondi. Il lieto fine non è sempre contemplato. Per noi è storia, per loro realtà.
Originariamente pubblicati sul mio blog.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Aveva deciso di prendersi qualche giorno di libertà dal suo lavoro a tempo pieno, aveva affidato tutto ai suoi colleghi, riempito una valigia con l’indispensabile per qualche settimana fuori, un paio di migliaia di dollari ed affittato un appartamento in periferia.

Ogni giorno per uscire si vestiva allo stesso identico modo, un pesante cappotto giallo spento, di quelli che sembravano usciti da un film d'investigazione, un cappello, occhiali da sole e una mascherina chirurgica, una di quelli che i giapponesi usano quando sono raffreddati. Nessuno degli inquilini poteva vantarsi di averlo visto in faccia nemmeno una volta.

Appena tornava nel suo appartamento, il 7-C, finiva sempre per chiudersi a guardare la televisione o a cucinarsi qualcosa, si poteva sentire un profumo straordinariamente buono; alcuni avevano iniziato a pensare fosse uno chef professionista come quelli dei programmi televisivi che andavano tanto di moda. Persino quando riceveva la visita di qualche curioso era coperto dalla testa ai piedi.

Ogni tanto sentiva bussare alla porta e ogni volta che dava un’occhiata allo spioncino non vedeva nulla. Qualche simpaticone che si divertiva a disturbare le sue ferie?

Entrò nel palazzo con in mano la spesa, aveva deciso di prepararsi qualcosa di buono, di speciale. Qualsiasi cosa si pensasse non preparava piatti troppo complessi, si limitava a usare le ricette che sua madre gli aveva insegnato quando era in vita.

« L’ascensore è rotto. La solita sfortuna.»  Biascicò con una nota di fastidio. Farsi tre piani di scale a piedi non era la cosa migliore, non che non ne avesse la forza. Semplicemente odiava quando non poteva ottimizzare il suo tempo.

Guardò l’orologio al polso della mano destra.

« Farò tardi per i cartoni animati, oggi c’è quella serie che mi piace.»  Aggiunse al suo monologo.

I cartoni animati non erano propriamente la sua passione, ma qualche rara volta riusciva a trovare qualcosa di bello da guardare. I restanti programmi che trovava in quella rete erano telegiornali di dubbio livello, giornalisti che teoricamente erano super partes che esaltavano la propria fazione come cagnolini scodinzolanti, e i già citati programmi di cucina. Era una gara allo squallore.

Solitamente quando non lavorava, in patria, si chiudeva in stanza a vedere qualche DVD, ne aveva accumulata una bella collezione col tempo. Alcuni suoi assistenti commentavano che ormai poteva quasi definirsi un esperto di cinematografia, passava da semplici commedie a opere reperibili solo e soltanto sotto forma di pizza per vecchie cineprese.

Un peccato averli lasciati quasi tutti a casa, ne avrebbe dovuto comprare uno alla prossima uscita insieme ad un paio di cuffie.

Anche perché la tizia della porta accanto non faceva altro che urlare al telefono come in crisi isterica, non riusciva nemmeno a capire una singola parola. Santo cielo, quando odiava quando la gente non faceva altro che strepitare. Si erano evoluti dallo stato di comune bestia da secoli ormai, c'era bisogno di dimostrare quanto se lo fossero meritati.

Poi, i suoi pensieri sull’evoluzionismo, vennero interrotti da una vocina proveniente dal basso. Da dietro gli occhiali da sole abbassò lo sguardo. 

« Ehilà.» 

« … Ehilà.»  Rispose al saluto della bambina.

Si chiese se i suoi genitori non le avessero insegnato a non rivolgere la parola ai tizi sospetti, sua madre Cordelia lo faceva spesso quando era piccolo. Una volta si beccò un battipanni dove non batte il sole per averle disobbedito.

« Ci dai una mano con la spesa?»  Chiese indicando una donna che, come lui poco prima, osservava il cartello sull’ascensore mentre teneva in mano delle buste della spesa.

Sfacciata e senza nessun istinto di autoconservazione della propria sicurezza. Quella bambina che razza di educazione aveva ricevuto?

Non se la sarebbe cavata nemmeno dieci minuti dove era cresciuto lui! Senza contare che lui stesso aveva una busta piuttosto pesante.

« Andiamo, sei sul metro e novanta per… sono quasi certa potresti strangolare un toro a mani nude.>>

« …Okay, perché no.» 

Ma aveva sempre apprezzato la faccia tosta.

Accompagnato dalla piccoletta si presentò alla madre, ebbe un sussulto prima di capire di chi si trattasse. Non si faceva troppe domande sul suo strano abbigliamento, aveva incontrato alcune persone con problemi della pelle costrette a vestirsi in modo simile… forse meno ridicolo, ma la base era quella. 

Si caricò tutte le buste da solo, si sentì quasi in dovere all’improvviso. Da una semplice cortesia tra abitanti della stessa palazzina si era passata a vera e propria galanteria.

Ma quella sarebbe stata la prima e ultima volta, non aveva il tempo o la voglia per farlo spesso.

« Grazie, signor… ?»  Non si era mai presentato a nessuno.

« Jungsievers.»  Rispose salendo le scale.

« Jungsievers? Un cognome strano se mi permette.» 

Scioccò la lingua cercando di non farsi sentire, era il cognome di sua madre, ovvio che non permetteva. Ma sua madre gli aveva anche insegnato che alle volte era meglio fare silenzio.

« Significa più o meno “Piccolo Sigfrido”, mamma!» 

La bambina si intromise nella discussione. Era piuttosto sveglia per la sua età, non credeva che una di… quanto? Nove? Dieci anni forse? Conoscesse il tedesco.

Forse uno dei suoi genitori era tedesco? In ogni caso si complimentò con la madre, la cultura andava sempre stimolata.

La risposta della madre lo stupì, sembrava, infatti, che la bambina avesse appreso tutta da sola prendendo un dizionario francese-tedesco e divorandoselo in un pomeriggio. 

Sembrava essere quello che chiamavano un “Talento”, o come lo chiamavano altri “Abilità Assoluta” per l’esattezza dove trattarsi di “Apprendimento Assoluto”. Un talento era come si definiva la possibilità di una persona di portare all’estremo una propria qualità, ovviamente senza fatica ed impegno restava solo un seme che non sbocciava.

I talentuosi si attestavano, in quel Mondo, a meno di cento individui.

Con meno roba tra le mani le avrebbe fatto un applauso. Si chiedeva come facessero due sole persone a mangiare tutta quella roba, sembravano riserve da disastro nucleare o terremoto, inutili al terzo piano di un palazzo.

« Siete solo voi due?»  Chiese. Gli venne naturale, quasi senza pensarci.

« Sì, solo io e la piccola. E Lei, signor Jungsievers? Vive da solo?» 

« Sono in vacanza da lavoro. Di solito convivo con quattro coinquilini, la maggior parte di loro non abbassa mai la tavoletta.»  Commentò con un particolare non richiesto e non necessario. Si poteva udire il suo tremendo fastidio.

La donna ridacchiò. Non immaginava che quel tipo potesse essere simpatico.

Raggiunto il piano posò a terra le buste, non sapeva fosse la vicina che urlava, non gli sembrava buona educazione entrare negli appartamenti altrui. Sopratutto se era la casa di una signora e di sua figlia.

E non vestito come la versione pezzente di Umperio Bogarto.

« Perché indossa tutta quella roba?»  La bambina non ebbe peli sulla lingua facendo una domanda a bruciapelo.

La madre aveva lo sguardo di chi aveva appena visto il proprio cane investito, non poteva fare domande simili agli sconosciuti! Era maleducazione!

Jungsievers piegò sulle ginocchia e la guardò faccia  faccia alla sua stessa altezza, per strada avrebbero chiamato al polizia e lo avrebbero portato via.

« Perché sono brutto, molto brutto.» 

« Come il mostro di Victor Frankenstein?» 

« … I bambini direbbero come la Bestia, ma sì. Il concetto è quello.»  Concluse leggermente sorpreso.

Jungsievers era davvero brutto sotto tutti quegli abiti, non si trattava di semplice timidezza, ma di un qualcosa che voleva nascondere alla vista di chiunque. Era la sua maledizione.

Nessuna clinica chirurgica o medico poteva cambiargli i connotati facciali, ci aveva provato, ma ogni risultato era stato inutile o temporaneo.

Detto ciò si limitò a fare un saluto e a tornare nel suo appartamento. Accese la televisione, si sedette sul divano e, calmo, commentò tra sé e sé.

« Diamine, è finito.» 

Col tempo finì per abituarsi a quella donna e alla sua strana bambina, a differenza del resto degli inquilini loro non si spaventavano o parlottavano alle sue spalle. Credevano forse fosse sordo?

Alle volte si divertiva ad apparire loro alle spalle, nonostante le dimensioni aveva avuto sempre un passo leggero come un ballerino. Ereditato dal padre, pareva.

Quello fu l’ennesimo giorno che saliva le scale, si era ritrovato a dover comprare a quella ragazzina delle caramelle, non si aspettava che una nanerottola fosse così brava a poker. Aveva anche barato nascondendo gli assi nell’impermeabile!

« Esci di qui immediatamente!» 

Sentì un litigio, stavolta era comprensibile e sapeva di chi si trattava. Si avvicinò alla porta del 6-C, era rimasta socchiusa. Strano, la signora teneva molto alla sicurezza sua e della figlia, aveva anche fatto montare una serratura extra.

Porse l’orecchio e quello che sentì non gli piacque nemmeno lontanamente. Gli provocò solo un profondo senso d’ira.

Aprì la porta ed entrò dentro a passo svelto, gli stivali facevano un pesante rumore, come un presagio.

« Stai bene, Rebecca?»  Chiese Jungsievers avvicinandosi a lei. « No, direi di no.»  Si rispose da solo guardandola.

Odiava quando un uom… no, una merda faceva una cosa del genere a una donna. Quello non era un uomo, era solo merda fumante. Un uomo non alza le mani su una donna in quel modo.

Un uomo non alza le mani su qualcuno che non si può difendere.

« Rebecca siediti, dopo cureremo quell’occhio nero, stai tranquilla. Chiameremo anche la polizia e lo denunceremo, va bene? Testimonierò io stesso.»  Disse con un tono di voce dolce, come un figlio che si rivolgeva alla madre.

Si girò verso l’uomo che l’aveva colpita. Era grosso anche più di lui, a una prima vista doveva essere sui due metri, muscoloso seppur magro, aveva la barba ispida tipica di chi non si rasava da minimo una settimana. Il naso era di un colore rosso, uguale alle sue guance e l’odore emanato era quello di un pessimo vino comprato in qualche negozietto in fallimento.

Ubriaco, eh? 

« Saresti, strambo?»  Anche la voce distorta era quella di un ubriaco, non si reggeva in piedi. << Che cazzo v…» 

Volò via contro il muro del corridoio senza nemmeno avere la possibilità di finire la domanda, il calcio che aveva ricevuto era paragonabile a quello di un soldato specializzato nel muay thai. Si era, però, impegnato nel non rompergli nulla.

Non ancora.

Si mosse verso di lui. Giunto dinanzi a lui, lo prese per il colletto della maglia sporca, alzandolo poi di peso. La bambina fece una battuta su lui che poteva strangolare un toro, la comicità stava che lui poteva strangolare un rinoceronte a mani nude come se stesse strizzando una spugna bagnata.

Usando la mano libera aprì una porta dell’ascensore e lo lasciò sospeso nel vuoto. Bastava una mossa per lasciarlo morire spiaccicato.

« La tua vita è appesa a un filo, ucciderti per me non è un niente, come calpestare una piccola formica. Sparirei nel nulla dopo tre minuti e la polizia non mi troverebbe mai, scomparirei dalla faccia della Terra. La differenza è che io sarei vivo da qualche parte, ma tu… tu, amico mio, saresti ottimo concime.»  Iniziò, il suo tono era freddo, come un cubetto di ghiaccio ficcato in gola con la forza. « Rebecca è gentile, buona, ama sua figlia. Sono sorpreso che la piccola abbia anche il tuo DNA, ma dal letame nascono i fiori. Mio padre era assente, pieno di difetti, ma non ha mai nemmeno osato pensare di alzare un dito su mia madre. Mai. La rispettava. Ora facciamo un accordo: io non ti ucciderò, non ti romperò nemmeno un osso, tu in cambio non ti farai mai più vedere. Se rifiuti, beh, te l’ho spiegato sopra. Mi pare un buon patto.» 

Ovviamente stava mentendo, appena lontano avrebbe chiamato al polizia e lo avrebbe denunciato.

Avrebbe testimoniato e lo avrebbe fatto condannare. Gli avrebbe fatto passare tutti i restanti anni della sua vita in una sudicia cella.

Dietro le lenti scure degli occhiali da sole, gli occhi brillavano di rabbia e disprezzo. Come fiamme infernali.

L’uomo annuì e lasciò che corresse verso le scale in preda al panico. Poteva scappare, ma non nascondersi. Per trovarlo aveva tutto il tempo del Mondo.

Al confronto con la sua punizione, la strage di Bet Shemesh sarebbe stata una partita di pallavolo.

Jungsievers tornò nell’appartamento e, preso un po’ di ghiaccio, inizio a medicare con delicatezza la ferita. Si sentiva uno schifo, avrebbe potuto curarla immediatamente col il Craft, ma facendolo avrebbe cancellato le prove del crimine.

Gli stava salendo su per la gola un conato di vomito. Lo tirò in giù. 

Non poteva sopportare una donna in quello stato, gli faceva tornare in mente sua madre.

« Se mia figlia chiede… inventa una scusa.» 

« Una scusa?» Chiese dubbioso. « Perdonami, ma non credo sia la cosa giusta. Ho già chiamato la polizia, arriveranno presto.»  Disse indicando il telefono mentre metteva disinfettante e garze al loro posto. « E poi sarebbero inutili, lei è intelligente. Più di me, lo ha già capito da un pezzo. A quell’età siamo… cioè sono molti sagaci.» 

Parlava per esperienza. Ah perché la vita è un ripetersi di eventi sbagliati? Gli dei non avevano pietà?

Perché ogni tanto non abbassavano lo sguardo sui mortali?

All’arrivo degli agenti, la denuncia fu fatta in una mezz’ora scarsa. L’addetto all’identificazione ebbe un po’ di problemi quando l’uomo si scoprì il volto. Rimase impietrito e quando rinvenne ebbe la tentazione di puntargli contro la pistola.

L’altro, forse di grado più alto, non giudicò. Si limitò ad aggiustarsi gli occhiali da vista sul naso, finire di segnare tutto sul suo taccuino e commentare che avrebbero fatto del loro meglio. La sua tono di voce lasciava capire che le speranze erano basse.

La legge è uguale per tutti, se sei fortunato però la legge è più giusta.

Junsievers lasciò il suo numero alla vicina, nel caso avesse avuto problemi fuori casa. Sarebbe giunto, letteralmente, in un secondo.

Passò circa una settimana e mezza. Undici giorni, otto ore, venti minuti e dieci secondi. Aveva sempre avuto un talento per calcolare lo scorrere del tempo.

Tornava la tranquillità si era cucinato una cenetta leggera, aveva guardato un po’ dei pochi programmi televisivi che non facevano schifo e, bevuto un bicchiere di vino, decise di andare a letto. Non faceva parte di quel gruppo di esseri che avevano il lusso di evitare il mangiare e il dormire, se voleva andare avanti doveva occuparsene.

Prima che potesse chiudere la luce sentì un ripetuto bussare alla porta, un ripetersi agitato. Caotico.

Aprì la porta ritrovandosi dinanzi quella piccola bambina in preda alle lacrime e al panico. Era corsa talmente velocemente da non avere più fiato.

Junsievers si abbassò prendendola con calma per le spalle, cercò di calmarla il più possibile. Se restava agitata non poteva spiegargli nulla.

« La mamma è… la mia mamma...»

Realizzò e raggelò. Si sentì pesante dentro.

Come un macigno. 

Come se lui fosse Sisifo e il macigno gli rotolasse addosso.

Corse. Corse veloce nella stanza accanto.

Come era possibile che non avesse sentito nulla? Né un urlo, né singola parola o rumore.

Che potesse essere un potere Craft inconscio? Era raro, ma non impossibile.

Un annullamento sonoro.

La porta era aperta, le serrature scassinate e rotte. Entrò e basta.

Rimase fermo qualche secondo ad osservare la scena.

Il corpo era ridotto male, aveva infierito senza pietà. Neppure la miglior pompa funebre avrebbe potuto rimetterla insieme.

Ma lui sì, non poteva resuscitare i morti, ma poteva riportare il corpo al suo stato originario. 

« “Terminus post quem”...» Avvicinò la mano al volto e, in poco, come se le lancette di un orologio fossero andate indietro, il cadavere tornò intero.

Sembrava morta in modo naturale, tranquilla, nel sonno.

Con un ultimo atto di gentilezza le posò un tovagliolo bianco sul volto.

La parte in cui faceva il bravo ragazzo era finita. Ora giungeva il momento del castigo.

L’uomo tornò nella sua diroccata casa, era ancora sporco di sangue. Voleva solo cambiarsi e scappare il più velocemente possibile da quello strambo.

Aveva pronta la valigia e aveva già chiuso le finestre. Non lo avrebbe mai trovato in tempo.

« Stai partendo, papino?»

Trasalì.

Seduto su una poltrona logora, Jungsievers, lo stava attendendo con l’aria di chi aspettava di schiacciare una mosca fastidiosa che da troppo tempo gli ronzava attorno.

Come era entrato? Aveva chiuso la porta a chiave!

La porta che era… murata…

Quando la vide rimase fermo, impossibilitato a comprendere. La porta era stata bloccata da un improvviso muro di mattoni e cemento, quando un singolo secondo prima era libera. Come una magia.

Si rigirò, pronto a fare qualcosa, ma rimase nuovamente di sasso.

Dove sedeva prima l’uomo in impermeabile, ora era presente qualcuno di diverso. Di ancora più assurdo.

A gambe divaricate, era presente un uomo a petto nudo, coperto a un lungo cappotto con pelliccia bianco latte, pantaloni di pelle neri e le mani ricoperte di anelli e orologi d’oro che stonavano con la sua collana dal lucchetto di ferro prossimo alla ruggine. Il suo volto era, infine, coperto da una maschera dalle sembianze di formica.

« Mi presento, l’ultima volta non abbiamo avuto la possibilità. Io mi chiamo Akheilos Jungsievers. Piacere. E lui è il mio socio Vertigo.» Commentò indicando con l’indice un uomo alle sue spalle.

Crack. Fu doloroso.

Urlava come un cane.

Il secondo uomo che aveva indicato, gli aveva appena rotto una gamba con un grosso martello da guerra. La sua maschera da uccello non lasciava trasparire nulla.

Si era comportato come se battesse un singolo chiodo.

« Fa male, vero? Io e Vertigo giocheremo un po’ con te. Non sembra con quel fisico magrolino, ma lui è molto forte. Con quel martello può fracassare un cranio come fosse un salvadanaio.»

« N... non dovresti lasciare che s… sia la legge a giudicarmi?» Chiese tenendosi la gamba dolorante, l’osso spaccato stava uscendo di fuori. Stava cercando di far leva sul suo senso di giustizia. << Saresti uguale a me altrimenti, no?>>

Gli calpestò l’altra gamba. Faceva più male del martello.

« Certo che farò giustizia. Nel mio nome, Akheilos il futuro Dio, io ti punisco per i tuoi peccati. Rattristati di non aver incontrato un dio gentile.» Fece una pausa. « Te lo avevo detto, no? Che ti avrei ucciso se ti fossi avvicinato di nuovo a loro, e io rispetto sempre le mie promesse.»

Brettone rimase accanto alla bambina fuori dalla casa. Si chiedeva se andasse bene farle sentire i rumori del padre che veniva torturato. Quella non era giustizia, era vendetta.

Pura e semplice vendetta.

« Se vuoi possiamo andarcen...»

« No. Voglio restare.» Rispose ferma. « Questo è mio dovere. Non posso distogliere lo sguardo.»

Una bambina incredibilmente coraggiosa. Ammirevole.

L’anziano uomo alzò il viso verso la casa, volendo imitare la piccola.

<< Akheilos è come te. Anche lui ha perso sua madre da piccolo, si ammalò di uremia. Forse per questo ha così a cuore le donne.»

« E suo padre? Era come il mio?»

« No, era un cattivo padre, ma era un brav'uomo. Non seppe per molti anni di lui, ma quando lo scoprì fece del suo meglio per crescerlo, ma alcuni non sono fatti per avere figli. Tutti noi abbiamo perso qualcuno. Chi una madre, chi un fratello, chi un figlio e chi un’amante. Per questo seguiamo Akheilos.»

La bambina non capì.

« Akheilos diventerà il Dio che tratterà tutti allo stesso modo. Per questo abbiamo scelto di condividere la sua maledizione.» Concluse toccandosi la maschera da pesce. Uno maledetto, tutti maledetti.

Come distorti moschettieri.

« E la vendetta ci farà stare meglio?»

« Mentirei se dicessi di sì. E anche se dicessi di no.»

Sophie aprì gli occhi, si era fatta un sonnellino fuori orario sulla scrivania. Questo succede quando accumuli troppo lavoro non svolto.

Prese un sorso dalla bevanda accanto al portapenne. Era ancora calda, il re o qualcun altro doveva essere passato a sostituire la tazza.

I soliti, facevano sempre cose non richieste.

Ma la sua seconda famiglia era così.

Sophie Dubois, unitasi circa 10 anni dopo la perdita dei suoi genitori all’Unione. Attualmente è contessa di Thule, stratega dell’organizzazione e ministra della cultura del regno. Passò alla storia per aver scritto le prime leggi sull’uguaglianza di genere della storia di Thule. 






Blog: Racconti di Aliasor - Home
Facebook: https://www.facebook.com/AliasorScrittore/
Instagram: https://www.instagram.com/aliasorscrittore/?hl=it
Pagina Wiki di Akheilos: https://deusexmachina.fandom.com/it/wiki/Akheilos_Jungsievers
Twitter: Aliasor (@Aliasor12) / Twitter
Tumblr: https://aliasorwebcomics.tumblr.com/

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Aliasor