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Autore: blackjessamine    15/06/2020    13 recensioni
[Ole Nissen (OC), Homer Landmann (OC)]
Certi legami hanno lo stesso calore del sole: tracciano scie luminose che rimangono impresse negli occhi anche quando la notte sembra aver impiastricciato di nero una vita intera.
Sono i legami che sanno rinsaldarsi anche negli spazi vuoti creati dalla distanza, quei legami che un nome non lo vogliono nemmeno trovare, perché sono tenuti in piedi da sorrisi che negli anni non cambiano mai.
Un Guaritore figlio del mondo.
Uno psichiatra schiavo di un'empatia fuori controllo.
Sotto lo stesso cielo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Capitolo 5
 
 
 

Ole non poteva certo dirsi un esperto di relazioni sentimentali: troppo timido, troppo impacciato, troppo preso da altro per pensare di buttarsi in prima persona in ciò che era del tutto normale per i suoi coetanei, aveva visto la propria adolescenza dipanarsi sotto i suoi occhi senza mai lasciarsi andare a quei batticuori spaventati, a occhiate languide e figuracce, incomprensioni e incontri fugaci negli angoli più appartati del castello. Non è cosa per me, si era sempre detto, soffocando sul nascere quella sottile voce che, invece, cercava di fargli notare come nel cuore della notte alcuni pensieri fossero irrimediabilmente associabili a quel mondo fatto di infatuazioni e sogni a occhi aperti, anche se la sua coscienza lo avrebbe negato sino alla morte.
Eppure, per quanto potesse dirsi inesperto, su una cosa non aveva dubbi: se una persona attraversa l’Inghilterra per fare una sorpresa a qualcuno e questa sorpresa viene svelata con un sorriso radioso e un bacio sulle labbra, la reazione di questo qualcuno non dovrebbe poter essere descritta con un passo all’indietro e un lungo, imbarazzato silenzio.
 
Homer si passò di nuovo una mano fra i capelli, allontanandoli dal viso, e lanciò un’altra occhiata spaventata a Ole. Quest’ultimo, tuttavia, se ne restò in disparte, incapace di trovare qualcosa da dire: lui con Eloise non voleva averci più niente a che fare.
Eloise, che si era aggrappata con una determinazione stoica al suo sorriso radioso, si ritrovò ben presto a fissare Homer con sguardo implorante.
“Non sei contento di vedermi?”
La voce della ragazza era appena un poco incrinata mentre i suoi occhi chiari improvvisamente incupiti da una dolorosa consapevolezza si abbassavano, incapaci di sostenere lo sguardo di Homer.
“Ma sì che sono contento. È che… non me l'aspettavo".
E Ole, che certo si aspettava quell’incursione ancor meno di quanto avrebbe potuto fare Homer, si ritrovò a tenere a bada una fastidiosa irritazione.
Lanciò una lunga occhiata a Eloise, alla pelle abbronzata del suo viso su cui il sole estivo aveva fatto nascere una manciata di lentiggini che le regalavano un aspetto molto più dolce di quanto non fosse in realtà. Osservò i capelli bruni che le ricadevano sulla spalla sinistra, e che le sue dita dotate di disgustose – perché erano oggettivamente disgustose – unghie lunghissime, smaltate di un infantile giallo Tassorosso, continuavano a tormentare. Osservò il modo affettato con cui la ragazza sbatteva le ciglia, e con un moto d’improvvisa e irruenta irritazione Ole registrò anche la sbavatura all'angolo sinistro delle labbra di quello spesso strato di sostanza viscosa color rosa. Probabilmente, una simile sbavatura doveva essere presente anche sulle labbra di Homer, ma Ole si guardò bene dal controllare: mantenere i resti della sua cena al loro posto si stava già rivelando piuttosto faticoso, non aveva nessuna intenzione di rendersi volontariamente quel compito ancor più difficile guardando la bocca di Homer sporca del lucidalabbra di Eloise Pearson.
Eloise, quella stessa ragazza che ora si stava lanciando in una risatina acuta e sciocca, avvicinandosi un po’ di più a Homer e ciarlando a voce troppo alta di come lei Homer lo conoscesse fin troppo bene, e sapesse benissimo che quel giorno l’avrebbe trovato assieme a Ole, – c’era fastidio, un terribile fastidio nascosto dietro queste parole  – e di come avesse pensato bene di presentarsi a Brighton per fargli una sorpresa. Dietro quella risata sciocca c'era anche un velo di risentimento, perché era evidente – a Ole, per lo meno: Homer, intento com'era a indossare la maschera vuota del suo abituale sorriso non poteva essersi accorto di nulla – che avrebbe voluto essere lei quella con cui Homer aveva scelto di trascorre il suo ultimo giorno in Inghilterra.
“Ho dovuto girare come una trottola per trovarvi!”
Di nuovo quella risatina sciocca, unita a un movimento inconsulto della testa, fatto solo per far ondeggiare sotto il sole la lunga coda di cavallo.
Ole si ritrovò a stringere le labbra, irritato come raramente nei suoi diciassette anni si era sentito: Eloise Pearson, quando voleva, sapeva essere la persona più insopportabile sulla faccia della terra.
Petulante, inopportuna e invadente: in una parola, assolutamente detestabile.
 
*
 
Ole non aveva sempre trovato Eloise detestabile: per la maggior parte della sua vita a Hogwarts, quella ragazza vivace era sempre stata una figura di scarsa importanza per lui. Eloise era troppo chiassosa, troppo pettegola, sempre con qualche impegno per la testa, iscritta a ogni club e associazione possibile solo per essere certa di conoscere esattamente tutto ciò che accadeva a Hogwarts: era una persona troppo diversa da Ole perché potessero andare d’accordo. Eppure, per sei anni avevano convissuto con pacifica indifferenza: Ole era troppo riservato per risultare interessante allo sguardo acuto di Eloise, ma non erano mancati i momenti in cui i due si erano trovati a lavorare assieme, soprattutto durante le lezioni di pozioni, e non c'era stato alcun incidente spiacevole.
Si erano placidamente ignorati, per lo più.
E Ole avrebbe continuato a lasciare che la coda di cavallo di lei saltellasse ai margini del suo campo visivo senza destare in lui alcuna emozione, se il professor Lumacorno non avesse tanto insistito perché Homer Landmann frequentasse il suo stupido LumaClub e fosse presente alle sue stupide festicciole.
Ole, ovviamente, con la sua goffaggine e la sua magia mediocre, con il suo papà babbano e la sua ferma risoluzione a non intraprendere una carriera nel mondo magico non riusciva a godere dei favori del professore, ma Homer, il brillante Homer, era la punta di diamante della collezione dell’uomo. E, tutto sommato, Homer poteva anche dire di non apprezzare i modi del professore, ma certo non disdegnava la compagnia di altri studenti brillanti. E se le feste in sé non rappresentavano per lui una grande attrattiva, Homer era pur sempre cresciuto con un padre intellettuale, accogliendo in casa propria personalità illustri e assistendo spesso a conferenze decisamente non adatte a un ragazzino della sua età; sua madre era un’artista famosa, e faceva tutto quanto fosse in suo potere per aiutare giovani promesse del mondo dell’arte a trovare la propria strada, aprendo spesso la sua casa a questi giovani artisti: partecipare dunque a una festa che gli permettesse di entrare in contatto con personalità importanti era un po' come tornare a casa, per lui.
Durante il loro quinto anno, Homer aveva insistito affinché Ole lo accompagnasse alla festa di Natale, ma per Ole quell’invito si era rivelato un incubo: non conosceva quasi nessuno degli altri studenti coinvolti, e quando Homer era stato prelevato da un Lumacorno raggiante per essere deposto al centro di un capannello di tizi barbuti che lo osservavano con sguardo rapace, Ole si era ritrovato da solo in un angolo della stanza, tentando di non dare troppo nell’occhio con il suo essere inequivocabilmente fuori posto. E Homer aveva passato il resto della sera dividendosi tra interessanti chiacchere con importanti studiosi e sguardi preoccupati all’amico, in un buffo tira e molla in cui il ragazzo trovava ogni volta una scusa per allontanarsi e partire alla ricerca di Ole, ben deciso a non lasciarlo solo e a fargli trascorrere una serata quantomeno piacevole.
Insomma, era stato un colossale fiasco per tutti.
Da quel momento, Ole non ne aveva più voluto sapere di quelle sciocche feste, perché detestava essere la zavorra che impediva a Homer di potersi lasciare del tutto andare a godersi appieno la vita.
 
Col tempo, i due amici avevano sviluppato una sorta di prassi consolidata: Ole e Homer trascorrevano assieme gran parte delle loro giornate, studiando con le teste chine sugli stessi libri – Homer aveva la straordinaria capacità di abbandonare ovunque il proprio materiale scolastico, senza aver mai voglia di attraversare il castello per andare a recuperarlo, non quando gli bastava accostare un po’ la sedia a quella di Ole – e poi passando ore intere a parlare di ogni cosa sotto lo sguardo benevolo del dipinto di Tosca la Buona in Sala Comune. E poi, una volta al mese, Homer rovistava nel suo baule, si infilava in abiti eleganti e piuttosto eccentrici – ma che, chissà come, contribuivano solamente a renderlo più interessante, invece di farlo sembrare un cretino imbottito di velluto verde – e domandava a Ole se fosse sicuro di non volersi unire alla festa. Puntualmente, Ole rispondeva di no, e si ritrovava a trascorrere la serata allungato sul proprio materasso, aspettando che Homer tornasse per riferirgli aneddoti divertenti sulla festa appena conclusasi.

Ole ricordava ancora benissimo la fine di febbraio dell’anno appena trascorso: Homer aveva da poco accettato quella maledetta proposta di trasferirsi a studiare in Uganda, e dopo qualche settimana di tensioni mai del tutto esplicitate, il loro rapporto era sfociata in una tregua mai sancita in maniera diretta. Avevano semplicemente smesso di parlare di Uagadou, come se quel sesto anno potesse non finire mai, e avevano cominciato a trascorrere ancor più tempo assieme, quasi volessero cercare di arginare il dolore della separazione con una frequentazione quasi simbiotica.
Homer non avrebbe voluto andare a quella cena organizzata dal professore di Pozioni: Ole aveva ricevuto da poco un manuale di chimica babbana, perché in cuor suo continuava a carezzare l’idea di seguire sì la strada che anche Homer aveva intenzione di prendere, ma senza fare domanda in alcun Ospedale Magico: del resto, era certo che non avrebbe mai raggiunto i M.A.G.O. necessari per accedervi[1]. Homer, curioso ed entusiasta com’era, si era subito appassionato all’acume e all’avanzamento delle conoscenze babbane in un ambito tanto poco preso in considerazione dai maghi – “E poi, mi piace l’idea di guardare il mondo nello stesso modo in cui lo guarderai tu”, aveva aggiunto; i due ragazzi, dunque, avevano preso l’abitudine di trascorrere i pomeriggi chiusi in biblioteca, per cercare di liberarsi il prima possibile dei compiti, salvo poi rintanarsi nel loro dormitorio – c’erano troppi sguardi curiosi e sorrisetti sprezzanti in Sala Comune – e divorare Zuccotti di Zucca e tavole periodiche alla stessa velocità.
Quella sera, Homer non avrebbe voluto interrompere quella stimolante routine, ma Lumacorno, vedendo l’esitazione sul viso di uno dei suoi studenti preferiti, si era lasciato sfuggire di aver invitato Damocles Belby[2] per il dessert. Ed era stato Ole, allora, a riconoscere tutta l’impazienza dipinta sul volto di Homer: poter chiacchierare con il pozionista che aveva rivoluzionato i laboratori del San Mungo era un’occasione troppo ghiotta perché Homer ci rinunciasse, e Ole non glielo avrebbe permesso nemmeno se questo avrebbe significato non trascorrere assieme l’ultima sera che Homer avrebbe passato in Inghilterra. Diamine, in fondo lui per primo era curioso di conoscere Damocles Belby, e avrebbe forse accettato di unirsi a Homer, se non avesse avuto paura di dover spartire il silenzio con la tappezzeria.
Homer era quindi andato alla festa, e Ole si era presto ritirato nel loro dormitorio, tirando con precisione i tendaggi attorno al baldacchino del suo letto e fissando alla struttura di legno una lampada di vetro brunito incantata per illuminare senza fiamma – in fondo non teneva così tanto al proprio futuro da rischiare di dar fuoco all’intero dormitorio in caso di un capitolo particolarmente soporifero – pronto a trascorrere la serata a carpire ogni segreto della struttura di un atomo. E per qualche ora era rimasto concentrato sui suoi studi, incurante del rumore prodotto dai compagni di dormitorio che si ritiravano, che chiacchieravano allegri o litigavano per una collezione di figurine delle Cioccorane scomparsa e ritrovata nel baule sbagliato.
Presto il chiacchiericcio venne sostituito dal sommesso russare di Nathaniel Boyle, e Ole cominciò a trovare sempre meno interessante la disamina della disposizione di neutroni ed elettroni all'interno di un atomo. Sentiva le palpebre farsi sempre più pesanti, mentre il cuscino che aveva infilato dietro la schiena per stare più comodo lo attirava, chiedendo insistentemente di scivolare a sostenergli il capo, mentre Ole cadeva nel sonno.
Ogni volta che si sentiva pronto a lasciarsi andare, però, un pensiero riagganciava la sua coscienza, costringendolo a sollevarsi un po’ più diritto e a far scivolare gli occhi su un nuovo paragrafo: era tardi, il dormitorio era silenzioso, ma Homer non aveva ancora cercato di soffocare il suono dei propri piedi scalzi sul tappeto che ricopriva la fredda pietra del dormitorio. Era sempre silenzioso, Homer, sempre attento a non disturbare, ma Ole riuscica a udirlo ogni volta. Ed era strano che non fosse ancora tornato: il professor Lumacorno, nonostante tutto, cercava sempre di fare in modo che i suoi alunni lasciassero le sue festicciole ad un orario consono. Homer, il Prefetto Landmann, era sempre pronto a dare il buon esempio e ad allontanarsi dalla festa quando il professore cominciava a suggerire che fosse meglio andare a dormire, consapevole di avere un’influenza piuttosto forte sui suoi compagni: se Homer mostrava di voler rispettare una regola, allora comportarsi da bravi studenti diventava un atteggiamento degno di imitazione, e i fuorilegge venivano improvvisamente considerati poco interessanti. I professori, pur avendolo nominato Prefetto, non si erano probabilmente accorti di quanta influenza Homer potesse avere sui compagni, o se ne sarebbero approfittati molto di più.
 
Ole stava cominciando a preoccuparsi per l’assenza prolungata di Homer, quando finalmente udì il sottile cigolio della botola[3] del dormitorio che veniva sollevata, e poi il tonfo leggero della scala che si allungava fino a toccare il tappeto ormai consunto, a segnalare che qualcuno stava per scivolare nella stanza.
Passi lievi, movimenti trattenuti per non disturbare il sonno dei compagni – Ole credeva che l’avrebbe riconosciuto ovunque, il suono di quei passi – e poi Homer scomparve oltre la porta del bagno, dove rimase a lungo. Ole, ormai dimentico del sonno, si sollevò un po’ di più contro la testata del letto, cercando di concentrarsi sulle parole stampate sulla carta lucida del suo libro, mentre in realtà tutta la sua attenzione era rivolta al suono attutito dell’acqua che scorreva nelle docce.
Quando finalmente tornò il silenzio, i passi di Homer disegnarono un percorso che andava dal bagno fino alle tende appena accostate del baldacchino di Ole.
Ci fu una sosta, una sosta lunghissima durante la quale Ole rimase immobile, senza quasi osare respirare: sentiva che, se solo avesse fatto il movimento sbagliato, Homer si sarebbe semplicemente allontanato per andare a dormire. E se si fosse semplicemente allontanato, ignorando lo spesso tendaggio che circondava il letto di Ole, qualcosa si sarebbe irrimediabilmente spezzato, almeno nel petto di Ole.
E poi, quando ormai Ole stava cominciando a saggiare i contorni taglienti di quella spaventosa consapevolezza, un sussurro lievissimo si insinuò fra i tendaggi color della terra.
“Dormi?”
Cercando di misurare i movimenti per non apparire troppo precipitoso – per non apparire come chi avesse aspettato soltanto quel sussurro per tutta la sera – Ole finse uno sbadiglio, e poi scostò le tende del letto.
Homer se ne stava immobile, un vecchio maglione infilato sopra la casacca del pigiama, i capelli più scompigliati del solito e i denti affondati nel labbro inferiore. Sembrava turbato. Homer sembrava turbato, e Ole avrebbe voluto gridare, invocare l’aiuto di chiunque – i loro compagni, la professoressa Sprite, Silente o la Regina Elisabetta, insomma, chiunque – perché vedere Homer turbato era come vedere il mondo capovolgersi, e il mondo non poteva capovolgersi senza una catastrofe a fare da leva.
Dopo un istante di esitazione, Homer si sedette in fondo al materasso di Ole, richiudendo dietro di sé i tendaggi del baldacchino ed eseguendo un complicato movimento con la bacchetta, un movimento che Ole non si era mai preso la briga di imparare, perché non credeva avrebbe mai avuto bisogno di isolare acusticamente il proprio letto senza Homer al suo fianco.
Quella era un’altra delle abitudini su cui Ole non aveva la minima intenzione soffermarsi a riflettere: se c’era qualcosa di inappropriato nel fatto che Homer, in piena notte, si intrufolasse fra i tendaggi del suo baldacchino per fare sfoggio della sua brillante conversazione e raccontare aneddoti interessanti e ridicoli sulla serata appena trascorsa, a Ole non interessava. Non gli interessava, perché Homer era capace di far sembrare ogni cosa la scelta più naturale possibile, sempre e comunque. E, in fondo, quei momenti strappati alla notte, racchiusi in un nido di velluto, protetti sai suoni esterni e illuminati da una luce calda erano momenti preziosi, momenti che li facevano sentire fuori dal mondo, al sicuro, e Ole non ci avrebbe mai rinunciato.
“Allora? Com’era questo Belby?”
Homer aggrottò la fronte, lanciando a Ole un’occhiata confusa.
“Ah, Belby”, mormorò infine.
“Come, ah, Belby? Hai parlato per una settimana di Belby, e ora te ne esci fuori con ah, Belby, come se fosse niente?”
Ole si sarebbe aspettato di trovarsi davanti un Homer entusiasta, pronto a tenerlo sveglio sino all’alba per descrivere nei minimi dettagli tutte le parole uscite dalla bocca di Belby: quell’essere laconico dallo sguardo assente non era certo l’Homer che Ole conosceva.
“Oh, lui. È stato un po’ sgarbato, sai? Lumacorno gli ha fatto leggere il mio tema sul modo in cui la magia può alterare la struttura chimica di un elemento naturale e sulle possibilità che questo aprirebbe nel campo delle pozioni, ma lui dice che prima di azzardarmi a fare queste ipotesi dovrei imparare a preparare a occhi chiusi un Distillato della Morte Vivente…”
“Allora questo Belby è un idiota”, concluse Ole, sprezzante. Homer con le pozioni se la cavava più che bene: forse non era il miglior pozionista che avesse mai rimestato sui fuochi dei sotterranei di Hogwarts, ma quel tema non aveva niente a che fare con il suo talento per le pozioni. Quel tema era un’intuizione geniale, era lo sguardo ispirato di una persona capace di guardare alle cose senza pregiudizi, con quel pizzico di brillante follia che avrebbe potuto portare, con tanto studio, a una vera e propria rivoluzione di metodo. Era ovvio che non ci si potesse aspettare da un sedicenne una perfetta padronanza della materia trattata, né tantomeno una precisione assoluta nell’inquadrare e dare corpo a quell’intuizione, ma se Belby credeva di poter cassare a priori un’intuizione per mancanza di esperienza, il problema era tutto nella sua chiusura mentale.
La risposta di Homer, comunque, fu un mugugno incomprensibile. Homer continuava ad essere turbato, ma non sembrava essere la reazione di Belby a turbarlo.
“Sicuro di star bene? Hai una faccia strana…”
Homer annuì, poi scosse la testa, si scostò i riccioli dal viso e allungò una gamba, dando un colpetto leggero al ginocchio di Ole.
“Be’, è che… credo di aver fatto una cazzata. Ho… ho baciato Eloise Pearson”.
Ho baciato Eloise Pearson.
Ole non credeva che quattro parole potessero avere un sapore tanto amaro.
“Hai… Eloise? E almeno mentre la baciavi se n’è stata zitta?”
Quello non era esattamente ciò che Ole avrebbe voluto chiedere. Ole avrebbe voluto chiedere perché, che cosa lo avesse spinto a baciarla, così all’improvviso… o, se quel gesto non era stato improvviso, ma frutto di riflessioni, sogni e fantasticherie, perché non gliene avesse mai parlato.
“Non essere cattivo”, cercò di ribattere Homer, ma sulla sua espressione preoccupata si era aperto un sorrisetto divertito. Insomma, quella di Ole non era cattiveria: Eloise non era capace di stare zitta, mai, e nessuno si sarebbe stupito se avesse continuato a blaterare idiozie anche mentre baciava Homer Landmann. O forse no, perché chiunque avesse avuto un paio di occhi si sarebbe accorto di come Eloise guardava Homer, sin da quando quest’ultimo aveva messo piede per la prima volta a Hogwarts.
Improvvisamente, Ole si ritrovò a maledire quella seconda fetta di torta ai mirtilli che si era cacciato nel piatto all’ora di cena: quella torta aveva preso a ondeggiare in maniera particolarmente spiacevole nel suo stomaco, mentre pensava a Homer che accarezzava i capelli bruni di lei, prima di chinarsi su quel suo faccino petulante…
“Non dici più niente?”
Il piede di Homer tornò a solleticare il ginocchio di Ole, che in tutta risposta si sollevò a sedere più eretto, avvicinando le gambe al petto.
“Non sapevo nemmeno che lei ti piacesse. Non mi hai mai detto niente!”
Homer scrollò le spalle, e per la prima volta quel gesto sembrò fatto per scacciare un imbarazzo del tutto fuori luogo, su di lui.
“Ma perché non ci avevo mai pensato, non è che lei mi sia mai piaciuta più di quanto mi piacciano altre persone. E… be’, forse per Belby ci sono rimasto più male di quanto mi piaccia ammettere, e quando siamo tornati in Sala Comune Eloise mi ha trattenuto a chiacchierare, e mi guardava in modo strano”.
Ti guardava come un bambino guarderebbe un castello di marzapane, proprio come ti ha sempre guardato, e tu lo sapresti, se solo le avessi mai rivolto un briciolo di attenzione.
Ole si trattenne dal puntualizzare anche questo, limitandosi a lanciare a Homer uno sguardo eloquente, che lo invitasse a proseguire.
“E sì, insomma, lo sai com’è fatta, civetta sempre con tutti”.
Civetta solo con te, con gli altri ci chiacchiera fino allo sfinimento e basta, e sapresti anche questo, se solo ogni tanto prestassi attenzione all’effetto che fai alla gente.
“E forse è stata anche un po’ adulatrice, e il mio ego ferito ci è andato a nozze”.
Ole non riuscì a trattenere un sospiro esasperato.
“Quindi l’hai baciata solo perché ti ha detto che Belby è un idiota e tu sei un genio?”
Te lo avrei detto anche io, te lo avrei detto mille e mille volte.
Homer sollevò le spalle, alzando gli occhi al soffitto.
“Io non… è successo e basta. Non vuole dire niente. Domani ce ne saremo già dimenticati tutti e due”.
Sembrava convinto. Homer sembrava davvero convinto che Eloise Pearson potesse dimenticarsi in una notte di essere stata baciata da lui: più che la persona più brillante che avesse mai conosciuto, qualche volta Homer sembrava davvero vivere con delle ali di Ippogrifo incollate agli occhi.
“Ma almeno Eloise un po’ ti piace?”
Dimmi che questo bacio non ha cambiato niente.
Ole quasi si ritrovò a sputare quella domanda tra i denti, come se si trattasse di un boccone amaro che aveva cercato di trattenere, inutilmente.
Di nuovo, Homer scosse le spalle come se volesse togliersi di dosso quel velo di imbarazzo.
“Ma non lo so. Cioè, è carina, ma non abbiamo mai nemmeno parlato seriamente… insomma, ma che importa, ci siamo solo baciati. Succede, no?”
Si guardarono per un istante, e poi, a discapito di tutta l’amarezza nella bocca di Ole, scoppiarono entrambi a ridere. Solo Homer poteva concludere un discorso del genere con un succede, no?
“E comunque, Mr. Chisseneimporta, sono pronto a scommettere la mia ultima Piuma di Zucchero che a Eloise invece importa, eccome. Nel caso non te ne fossi accorto, è cotta di te più o meno dal giorno del tuo Smistamento”.
“Che?”
Ole si ritrovò quasi ad esultare, davanti all’aria sconvolta – e vagamente disgustata – di Homer.
“Guarda che è sempre stata anche piuttosto esplicita, eh”.
“Ah”.
“Solo ah?”
“Ma sei sicuro?”
Fu il turno di Ole di alzare gli occhi al cielo, mentre cercava le parole giuste per spiegare all’amico che no, le persone non sbattono le ciglia a quel modo se non cercano di attirare l’attenzione sulla bellezza dei propri occhi. E nessuno cerca di mettere in mostra la propria bellezza se non è interessato all’apprezzamento di chi ha di fronte.
“Allora credo di aver fatto una grande cazzata”.
Homer si massaggiò la fronte, prima di decidersi ad aggiungere:
“Prima di andare a dormire, Eloise mi ha chiesto se domenica ci vediamo ai Tre Manici di Scopa. Io credevo che… insomma, dici che si aspetta un appuntamento, lei?”
La mano di Ole scattò verso il cuscino che gli sosteneva la schiena, ma si trattenne dal colpire in faccia l’amico appena in tempo.
“Davvero, io non ti capisco. È un’impresa essere così tonti anche con un cervello sveglio come il tuo, eh. Solo un genio potrebbe farcela”.
“Ole, per favore…”
Sul viso di Homer era apparsa una tale espressione implorante che Ole non ebbe cuore di continuare ad infierire.
“Be’, sì, direi che lei lo considera un appuntamento. Cosa ti aspettavi? La baci, accetti di uscirci, è ovvio che lei lo consideri un appuntamento!”
Homer sbuffò, nemmeno fosse un bambino imbronciato.
“Ma che ne so, ma io non mi aspettavo proprio niente! Perché la gente non può vivere un po’ di più alla giornata? Sarebbe tutto molto più facile…”
Cadde un altro lungo silenzio che Ole non osò interrompere: sapeva di avere un grumo di emozioni intricate e vagamente spiacevoli intente ad affondare le proprie radici alla bocca del suo stomaco, ma cercava in tutti i modi di tenerle a bada: riconoscerle, catalogarle, distenderle davanti a sé avrebbe significato dover fare i conti con delle considerazioni che, decisamente, non aveva la forza di affrontare.
“Senti, potremmo fare così: ai Tre Manici ci vieni anche tu, così io sono sicuro di non fare altre cazzate, e Eloise è contenta comunque”.
“A fare il terzo incomodo io non ci vengo, Homer. Anche perché, davvero non so come tu possa pensare che Eloise potrebbe essere contenta di ritrovarsi anche me al vostro appuntamento”.
Homer lanciò a Ole uno sguardo offeso, incrociando le braccia al petto.
“Ma io non sono sicuro di voler andare ad un appuntamento con lei!”
“E allora non andarci, no? Dille che hai cambiato idea e basta”.
Dille che non te ne frega niente di lei e dei suoi stupidi capelli lucenti o delle sue ciglia lunghissime, né della sua voce petulante o delle sue opinioni inopportune e assolutamente non richieste.
“E se ci rimane male?”
Ole distese le gambe davanti a sé, imitando la posa di Homer e incrociando le braccia al petto.
“Senti un po’, se non vuoi farla restare male, ma male davvero, devi capire che cosa vuoi tu. Le piaci, l’hai baciata… se non volessi più uscire con lei, è ovvio che ci resterebbe male, ma ci resterebbe ancora peggio se tu le dessi corda senza essere davvero interessato. Questo è il punto”.
La situazione, ormai, aveva raggiunto un picco vagamente surreale: in tre anni di amicizia strettissima, non era mai stato Ole quello che dispensava consigli sul corretto modo di relazionarsi agli altri. Ole non sapeva relazionarsi nemmeno con la sua immagine allo specchio, la maggior parte delle volte: era Homer quello che lo guidava, che lo spronava, che lo proteggeva e lo convinceva a fare qualche passo in avanti. Era assurdo, semplicemente assurdo che ora Ole si improvvisasse consulente sentimentale.
Soprattutto per convincere Homer ad avere una sana relazione con quell’oca giuliva della Pearson.
“E io che ne so se sono davvero interessato?”
Questa volta, il cuscino dietro la schiena di Ole riuscì davvero a liberarsi dalla sua morsa,  volando dritto dritto contro il viso preoccupato di Homer. Ci fu un attimo di silenzio, e poi entrambi scoppiarono di nuovo a ridere. E Homer lo rispedì al mittente, quel cuscino, slanciandosi in avanti e gettandosi su Ole per poterlo colpire meglio.
Nel mezzo di una piccola tempesta di piume, Homer si sdraiò prono, il mento posato sulle braccia incrociate e una gamba distesa contro quella di Ole. Voltò appena il capo, fissando l’amico con uno sguardo che aveva l’intensità di una fiamma. Ole cercò di sottrarsi a quello sguardo, perché era certo che non sarebbe stato in grado di creare una barriera abbastanza resistente fra la propria mente e quella di Homer. Ma sarebbe stato tutto inutile, perché sospettava che, qualche volta, Homer facesse di tutto perché i suoi pensieri fossero così rumorosi da trovare sempre, sempre sempre un ascoltatore fertile in Ole.
 
Non lo so se Eloise mi piace davvero. Però, se ora potessi scegliere, sceglierei comunque di restare sdraiato accanto a te.
 
 



 
Note:
Perdonate, davvero perdonate la lunghissima attesa.
Attesa che speravo di farmi perdonare con un capitolo molto, molto più corposo, ma alla fine ho deciso di pubblicare questa prima parte così, in modo da non sentirmi costretta a sacrificare altri dettagli nella parte successiva.
So che la prima metà di questo capitolo è un po’ poco riuscita, troppo “raccontata” e poco funzionale, ma questo capitolo arriva da una serie di cambi di direzione infinita, e non ho proprio le forze di mettermi di nuovo a modificare qualcosa: so che finirei per stravolgere di nuovo tutto, e ormai non ha più senso.
L’unica cosa positiva di tutta questa situazione, comunque, è che una buona metà del prossimo capitolo è già pronta, quindi spero, davvero spero di tornare ai miei soliti ritmi di aggiornamento per le long (quelli che avevo prima di incontrare questi due signorini, almeno).
 




 
 

[1] In realtà, non credo che un diploma a Hogwarts abbia una qualche valenza nel mondo babbano, quindi mi sono presa la libertà di immaginare che il Ministero possa rilasciare una sorta di diploma equipollente per dare a chi lo desideri la possibilità di lavorare anche in campo babbano.
[2] Inventore della Pozione Antilupo: nei libri, si evince essere stato uno studente di Lumacorno, ma non viene specificato il periodo. Mi sono presa la libertà di immaginare questo pozionista particolarmente attratto dalle pozioni curative, impiegandolo quindi al servizio del San Mungo.
[3] Da Pottermore, sappiamo che la Sala Comune di Tassorosso si trova a livello del terreno (dalle finestre si scorge l’erba del prato), è composta prevalentemente di ambienti circolari e si snoda in gallerie e cunicoli, proprio come la tana di un tasso. Non essendo in una torre, ma nei sotterranei, io mi sono presa la libertà di immaginare i dormitori ad un livello ancor più profondo, a cui si accede tramite botole e scale incantate, capaci di materializzarsi solo sotto il tocco di chi appartiene davvero al dormitorio in questione. E sì, per me è ovvio, anche se la Rowling non lo ha mai detto, che debbano esserci dei bagni in ogni dormitorio. È buonsenso, non magia.
   
 
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