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Autore: MaxB    16/06/2020    6 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ok ok ok, inutile dire che mi scuso per il megaritardo, ma il capitolo è lungo e quindi conta come due? No, vero? Dai, scusate davvero, ma ho ricominciato a lavorare il primo giugno e non avevo capitoli di riserva :( Non vogliatemene.
Sappiate che gli aggiornamenti da ora in poi saranno irregolari, purtroppo, ma ci saranno, questo è sicuro. Anche perché non vedo l'ora di approfondire i capitoli dell'ultimo libro ç.ç Muoio. -14 signori, -14!!! Se fossi Thorn saprei anche le ore.
Detto, ciò, buona lettura♥

L’Attraversaspecchi II, Gli Scomparsi di Chiardiluna, La Marmocchia-I Contratti, pagine 27-54

12. Courageux


Erano in ritardo di due minuti e trentasette secondi… trentotto… trentanove… quaranta, quando le vide.
Sua zia Berenilde, la signora Roseline e la fidanzata, una di fianco all’altra. Thorn chiuse di scatto l’orologio da taschino, celando il fastidio provocato dal loro ritardo dietro ad un’espressione neutra e compassata. Sentiva su di sé gli sguardi insistenti di alcuni funzionari, probabilmente quelli che lo odiavano di più. Il resto del pubblico era impegnato ad acclamare o esprimere il proprio disappunto per la noiosa e scontata partita che si svolgeva sotto i loro occhi. Faceva un caldo infernale, sentiva le gocce di sudore scendergli giù per la curva della schiena e venire poi assorbite dal tessuto della camicia. Indossava una giacca sopra ad essa, e come ultimo capo portava la giacca nera da intendente, con le spalline dorate e il colletto stretto. Non era solito prestare molta attenzione all’abbigliamento, ma i panni da intendente li odiava proprio. Non il ruolo che ricopriva, tantomeno il lavoro in sé, quanto l’abito. Quello lo avrebbe cambiato radicalmente, se avesse potuto.
Distolse l’attenzione da quei pensieri futili quando lanciò un’occhiata veloce ad Ofelia. Aveva il viso ferito coperto da una veletta nera. Non doveva essere molto comoda, e tenendo conto della sua goffaggine patologica, non era nemmeno indicata per aiutarla a camminare correttamente. Quando lei lo vide, gli sembrò che fosse arrossita, ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Soprattutto, non si sarebbe illuso.
Quando invece annunciarono la loro presenza, fu certo, ci avrebbe giurato, che avesse sospirato. Nemmeno lei, come lui, amava le attenzioni; lo aveva notato svariate volte nelle settimane precedenti. Si agitava, quando era osservata, mettendo ancora più in pericolo la sua incolumità. Nonostante tutto, le sembrò anche più fiera, come se si fosse raddrizzata, pronta ad affrontare la situazione di petto.
Thorn non ne dubitava, vista la sua tendenza a volersi emancipare, i suoi tentativi di prendersi sempre più libertà e la spiccata intelligenza che nascondeva sotto la timidezza e la voce sommessa. Nonostante quei tratti del suo carattere lo intrigassero, dovette ammettere suo malgrado, in quel momento aveva bisogno di una fidanzata sottomessa e soprattutto silenziosa. Sperò ardentemente che non gli giocasse qualche brutto scherzo.
Thorn aggrottò le sopracciglia ancora di più quando vide Archibald fare l’occhiolino ad Ofelia, in lontananza, per poi posare il suo sguardo immotivatamente divertito su di lui, come a sfidarlo. Con sua somma soddisfazione, Ofelia vide l’ammiccamento, ma non vi badò minimamente.
La sciarpa, tuttavia, costituiva un’altra fonte di preoccupazione. Le si era attorcigliata al piede, dove una sciarpa non dovrebbe decisamente stazionare. Quell’indumento dotato di vita propria lo aveva più volte innervosito, ma anche incuriosito. In alcune occasioni gli era stata incredibilmente utile per discernere lo stato d’animo di Ofelia: quando era abbastanza brava da nascondere i sentimenti che le passavano sul volto, ci pensava la sciarpa a palesarglieli. Eppure, in quel caso, non era di alcun aiuto. Anche qualcosa di più.
La folla che la fissava con insistenza, quelle attenzioni non gradite, la veletta che le oscurava la vista, la sciarpa che le complicava l’avanzata, forse persino la sua stessa presenza… Thorn diede per scontato che sarebbe caduta.
E così accadde. Sull’ultimo gradino, quando le mancava un nonnulla per arrivare sana e salva al suo fianco, Ofelia inciampò. Lui era lì, pronto. Si poteva quasi dire che non aspettasse altro.
Thorn allungò senza esitazione una mano per afferrarle il braccio. Dosò la propria forza, prestò un’enorme attenzione ai suoi modi per cercare di essere il meno brusco possibile e al tempo stesso rimetterla stabilmente in piedi. Sapeva bene che, oltre al viso, Ofelia era stata colpita anche nel resto del corpo. In particolare sul costato, dove le costole incrinate le facevano talvolta sfuggire delle mute smorfie di dolore. Ammirava il suo stoicismo, il fatto che non si lamentasse mai. In quello erano più simili di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
Notò l’occhiata gelida di sua zia Berenilde e l’esasperazione della zia Roseline, ma lui non era affatto turbato da quell’incidente. Aveva ormai accettato quella parte di Ofelia come una peculiarità impossibile da modificare, non come un difetto da correggere. In qualche modo, faceva parte di lei quanto la sciarpa che non si toglieva mai e gli occhiali le cui lenti cambiavano colore in base al suo umore.
La mano era ancora sul braccio di Ofelia nonostante lei non rischiasse più di cadere, quando le risate attraversarono il giardino dell’oca. Thorn sentì un calore di tipo diverso nel corpo, che quasi fece sembrare fresca la temperatura dell’ambiente. Odiava i contatti, toccare gli altri lo ripugnava, però… con Ofelia provava l’opposto. Si sentiva spinto verso di lei da qualcosa di indecifrabile, invece che respinto. Doveva stare attento per quello: se non fosse stato padrone di sé avrebbe cercato il suo contatto più di quanto fosse lecito. In ogni caso, non spostò la mano.
Era convinto, anzi, sicuro quanto un risultato algebrico, che quelle sensazioni non fossero ambivalenti. Non era certo cosa Ofelia pensasse di quei momenti di vicinanza che lui non aveva mai sperimentato prima, ma di sicuro non era impaziente di approfondirli. Non suscitavano in lei le stesse reazioni. Ne aveva avuto la conferma dopo il discorso spiacevole intrattenuto all’intendenza: Ofelia non voleva nessun tipo di contatto con lui.
Arginò quella marea di pensieri disordinati e intollerabili per concentrarsi sul motivo della loro presenza lì.
Faruk era assente e smemorato come sempre, cosa che fece crescere in Thorn un’ondata di intolleranza e insofferenza. Era uno spirito di famiglia, era il detentore del potere assoluto al Polo, la sua parola era legge, ogni suo desiderio un ordine, e se ne andava in giro tutto il giorno a bighellonare, senza nemmeno essere conscio di chi avesse attorno o di chi condividesse con lui le notti. La cosa lo disgustava, era un modo di vivere che aborriva e non capiva.
A dimostrazione di ciò, Faruk domandò con sguardo vitreo: - Chi è?
Thorn non si fidava di lui, non più di quanto si fidasse di Archibald. Era talmente volubile… Il fatto che fossero lì per trattare della lettura del libro e ottenere addirittura protezione per sua zia e Ofelia era un controsenso. Che non si ricordasse chi era lui era un conto, ma scordare persino chi era Berenilde? Inconcepibile, lui e quello spirito di famiglia erano del tutto incompatibili. Era appena arrivato e già non vedeva l’ora di andarsene.
A proposito di ora, sentì l’impulso meccanico di prendere l’orologio da taschino per quantificare quanto tempo avesse perso inutilmente fino a quel momento, ma si trattenne. A stento.
Cercò di non stringere le dita nervose a pugno mentre assisteva alla scenetta lenta e priva di senso che si svolgeva di fronte a lui in quel momento: Faruk che non capiva nemmeno dove fosse e cosa stesse facendo, mentre l’aiuta-memoria, un cugino dell’ambasciatore, gli spiegava pazientemente cosa fosse in procinto di accadere. La testa gli pulsava. La forza psichica di Faruk non lo disturbava più di tanto, la tediosità della situazione era causata da altri fattori: la presenza di Archibald, irriverente e fuori luogo come sempre, l’incompetenza stessa di Faruk, l’eccessiva pazienza tutti, la lascività delle favorite coperte di diamanti. Era tutto… disorganizzato. Impreciso.
Intollerabile.
Quando nessuno gli rispose, quantomeno a Faruk sovvenne qualcosa. – Dov’è l’aiuta-memoria?
Il suo tono di voce era indolente e svogliato quanto la sua flemma.
- Sono qui, mio signore!
Quanto meno l’aiuta-memoria, sebbene fosse imparentato con quell’anticonformista pigro e negligente di Archibald, sapeva qual era il suo posto e sapeva svolgere il suo lavoro. Aggiornò impeccabilmente il sire Faruk sul motivo di quell’udienza e su chi fossero i presenti. Archibald come sempre fece il suo teatrino, cosa che avrebbe fatto sfuggire a Thorn una smorfia se il disagio dell’essere lì, in quel momento, quando aveva una miriade di altre cose da fare, non avesse prevalso. Il tono annoiato di Faruk, che poneva le domande come se gli costasse un sforzo, lo fecero imbestialire interiormente. Lo spirito di famiglia non era l’unico a desiderare di non essere lì.
Thorn trattenne a stento l’impazienza quando, con estrema calma, come chi ha tutto il tempo del mondo a disposizione, Faruk prese il taccuino che l’aiuta-memoria gli porgeva e si mise a leggere quelle informazioni che aveva scritto lui stesso. Archibald, come aveva fatto notare l’assistente di Faruk, gli aveva ripetuto la questione solo quella mattina. Quella mattina! Per Thorn era inconcepibile il concetto di “dimenticanza”. Ricordava interi discorsi risalenti alla sua infanzia, figuriamoci se avrebbe mai potuto scordare ciò che quella mattina aveva detto e udito.
Per ingannare i suoi nervi, il tempo, l’attesa, per costringersi a non fare una strage lì e in quel momento, nonostante odiasse la violenza, Thorn si concentrò sulle parole fastidiose dello spirito di famiglia.
- I Draghi sono morti – disse, leggendo le parole scritte dalla sua stessa mano.
- Berenilde appartiene al clan dei Draghi.
- Dov’è Berenilde?
Un sillogismo. Sembrava un ragionamento infantile, come quando si cerca di insegnare ad un bambino un calcolo elementare. Non che Thorn avesse mai provato l’esperienza, ma si ricordava che era così che all’inizio gli era stata insegnata la prima nozione matematica. Era una specie di deduzione logica, troppo fallace e imprecisa per portare ad un assioma, ad una teoria certa e verificabile o ad una condizione assoluta.
Se i Draghi erano morti, e Berenilde faceva parte dei Draghi, allora anche Berenilde era morta.
Ovviamente il sillogismo faceva acqua da tutte le parti, ma era un primo tentativo razionale di intendere un concetto. Ergo, Faruk era molto, molto più indietro di quanto desse addirittura a vedere. Il che era tutto dire.
Quando però la zia Berenilde avanzò per posare una mano sul viso di Faruk, la pazienza di Thorn si esaurì. La presenza psichica dello spirito, che si era allargata quando si era reso conto di chi fosse Berenilde e del fatto che forse era morta, defluì come un’onda. La cosa fu inversamente proporzionale per Thorn.
Non erano lì per guardarsi negli occhi o giocare agli innamorati. Soppresse la minuscola radice di pensiero che si insinuò nella sua mente, spingendolo a chiedersi se Ofelia lo avrebbe mai accarezzato, guardato, considerato allo stesso modo. Non era il luogo, né il momento. E non era nemmeno una domanda a cui volesse dare una risposta.
Thron prese e consultò l’orologio da taschino, disapprovando la quantità di tempo sprecato per nulla. Quando il coperchio scattò, fu come se i presenti si fossero svegliati da un incantesimo.
Era ora. Anche qualcosa di più.
Faruk fu lento come al solito mentre aggiungeva qualche scarabocchio inarticolato sul suo taccuino. Eppure trovò comunque la presenza mentale necessaria per porgere a Berenilde le condoglianze. Ogni tanto il sire aveva qualche sprazzo di lucidità e consapevolezza, ma troppo poco spesso per destare la comprensione e l’indulgenza di Thorn.
Quest’ultimo fu sollevato quando Berenilde prese in mano la situazione, conducendo il discorso. La zia era frivola talvolta, troppo interessata alla vita di corte per i suoi gusti, ma Thorn si fidava di lei. Era l’unica in cui riponeva fiducia. Non lo aveva mai deluso, nemmeno una volta, sebbene avesse dovuto farle cambiare opinione in più di un’occasione. Non era facile tenerla sotto controllo, in fondo era una donna determinata che faceva valere la propria indipendenza, ma non avrebbe mai tradito Thorn. Lui avrebbe potuto giurarci. Ed era un’alleata molto, molto potente.
Le doveva tutto. Persino il fidanzamento con Ofelia era opera sua. Merito suo.
Quando Berenilde disse che lui stava per prendere moglie e che dunque la prosecuzione della stirpe dei Draghi era assicurata, Thorn fece saettare lo sguardo in basso, di lato, per cogliere l’espressione di Ofelia. La veletta nera le celava il volto, ma non gli sfuggì l’irrigidimento che l’attanagliò. Non aveva lasciato spazio ai dubbi quando gli aveva detto che non aveva intenzione nemmeno di consumare il matrimonio, figuriamoci avere figli. Tanto meglio, lui non aveva alcun interesse per i marmocchi, anzi.
Eppure, una minuscola parte di sé, calcolabile in un quindicesimo, parlando per frazioni, si chiedeva come sarebbe stato essere padre. Padre dei figli di Ofelia. Forse era un ventesimo, quella porzione cerebrale che si interrogava al riguardo, perché riuscì a seppellirla facilmente. Bastava pensare alle grida di un neonato per rinsavire.
Lui ed Ofelia non avrebbero avuto figli. A giudicare da tutte le sue reazioni, sarebbe stato già tanto se fossero riusciti a conversare, qualche volta; e solo grazie alla spiccata curiosità di Ofelia, così nuova per lui. Nessuno si azzardava mai ad incalzarlo con le domande.
Thorn continuò a fissare l’orologio, contando secondo per secondo, sperando che il supplizio finisse presto. La folla mormorava “bastardo” in tono sorpreso, persino sbalordito, sicuramente disgustato e oltraggiato. Ci era talmente abituato che quasi non se ne accorse. Faceva dannatamente caldo intorno al palco, sentiva rivoli di sudore colargli giù per la schiena, la fronte imperlata d’acqua, i capelli appiccicosi. Voleva una doccia, urgentemente, e voleva che tutti si dessero una mossa. Fosse stato per lui, avrebbero finito tredici minuti prima, ben due minuti dopo l’arrivo delle signore. Due minuti, ecco il tempo che ci voleva.
Non quindici minuti e quarantadue secondi. E non erano nemmeno arrivati a scalfire il vero problema. Intollerabile.
Thorn non avrebbe mai creduto di dirlo, ma finalmente Archibald prese la parola, in maniera inaspettatamente capace e sensata, portando la conversazione sui giusti binari: l’amicizia che aveva offerto a Berenilde e Ofelia. Alleanza diplomatica, a voler essere precisi. L’amicizia non si accostava alla burocrazia, tantomeno agli intrallazzi di corte e agli inciuci politici. Archibald trattò anche la questione principale, quella che dava a Thorn ancora più fastidio dell’accordo con l’ambasciatore: la richiesta di protezione da parte di Faruk, a corte.
Il suo corpo si tese allo spasimo. Senza quasi rendersene conto, strinse ancora di più il braccio di Ofelia. Invece che darle appoggio e sostegno, con quel contatto sembrava quasi che fosse lui ad aver bisogno di stabilità. La posa di Faruk, la sua noia, il suo disinteresse… tutto lo infastidiva. E lo preoccupava. Se c’era qualcuno di imprevedibile, era proprio lo spirito di famiglia, malleabile in base alla giornata e dalla mentalità duttile e limitata.
Thorn ebbe un cattivo presentimento; non si accorse nemmeno dell’occhiata che Ofelia lanciò al suo braccio, lì dove lui la stava afferrando.
- La lettrice. Ho scritto qui che Berenilde mi avrebbe portato una lettrice. Dov’è?
Purtroppo, quel sovrano svogliato ed eccepibile si concentrava sempre sui dettagli sbagliati. Incompetente.
Come guardando la scena al rallentatore, Thorn impresse involontariamente nella sua mente ogni dettaglio di ciò che accadde. L’aiuta-memoria indicò Ofelia, lei intrecciò le dita in un gesto che Thorn non seppe interpretare, e Faruk richiuse il taccuino. Si chinò, si avvicinò ad Ofelia, talmente alto che sembrava quasi dovesse inginocchiarsi per riuscire a guardarla negli occhi. Thorn dovette farsi violenza per non mettersi a fare da scudo tra lei e lo spirito di famiglia. Non gli piaceva affatto quella prossimità. Come se non bastasse, Faruk si arrogò di diritto di interagire con lei. Le sollevò la veletta che la copriva il volto, la scrutò, se con interesse o noia non era dato saperlo.
Thorn si chiese se in realtà Faruk non avesse perso di nuovo la memoria, e si stesse interrogando su chi fosse la donna di fronte a sé. Forse si chiedeva come mai avesse il volto scarno e un po’ malridotto. I pensieri di Faruk erano insondabili quanto i suoi. Thorn sperò solo che non la considerasse abbastanza interessante da volerla come una delle sue favorite. Se avesse potuto, l’avrebbe rapita e nascosta da qualche parte purché nessuno, tantomeno quel… quell’essere inaffidabile la sfiorasse.
L’unica cosa chiara era che la pressione psichica di Faruk la destabilizzava. La sentì quasi trasecolare di fianco a sé, attraverso il braccio che ancora stringeva. Le stava nuocendo con la sola forza della sua mente. Doveva allontanarla da lì.
- È sciupata.
Il tono deluso e stupito di Faruk fece provare a Thorn una rabbia così violenta che si sorprese di se stesso. Era come ricevere un pugno nello stomaco. O un’artigliata. Lui sapeva bene cosa si provasse, ma si stupì scoprendo come un sentimento, una cosa talmente impalpabile e irrazionale, potesse essere più brutale del dolore fisico. Ofelia non era sciupata. E se lo era, allora lui era direttamente un rottame, con le sue cinquantasei cicatrici. Si offese lui per lei, sebbene intuisse che Ofelia non aveva bisogno di difensori.
Aveva imparato a sue spese che la fidanzata diceva ciò che pensava direttamente, senza filtri, con grande convinzione e… sincerità. Non stava zitta di fronte a nulla e nessuno.
- E poi non mi piacciono i marmocchi.
Senza sorprendersi, Thorn la sentì prendere un profondo respiro, come a volersi calmare o allontanare la potenza mentale di Faruk. O forse per prendere coraggio. Thorn non era in grado di interpretare i suoi stati d’animo alla perfezione, e a giudicare dal fatto Ofelia non faceva mai ciò che ci si aspettava facesse, non sarebbe mai stato in grado di decodificarli. Eppure sapeva con certezza che non sarebbe stata zitta. Non era una marmocchia, e soprattutto, sapeva benissimo difendersi da sola. Lottare da sola. Imporsi. E lo faceva bene. Anche qualcosa di più.
Quando espirò, Ofelia lanciò un’occhiata alla zia Roseline, che le stava facendo dei gesti, quasi si aspettasse la sua approvazione. La trattazione non si stava svolgendo come previsto, era assolutamente necessario riportarla nella giusta ottica, considerarla correttamente.
- Forse non sarò grande, ma non sono più una marmocchia.
Ofelia non era grande fisicamente, ed era giovane, molto giovane. Lui e lei avevano per la precisione sei anni, quattro mesi e due giorni di differenza. Era giovane. Ma non così giovane. Comunque, nonostante le avesse pronunciate con un tono così basso da essere udito a stento, come la maggior parte delle volte, Thorn fu colpito da quelle parole. Sottintendevano molto più di quanto fosse percepibile, bastava leggere tra le righe. Quello era un monito, non per Faruk, non solo per lui, almeno, ma per tutti loro.
Lui compreso.
Nessuno doveva azzardarsi a chiamarla marmocchia, o a non tenerla in considerazione.
Purtroppo, quella dichiarazione di indipendenza si perse nel nulla. Faruk, infatti, ricominciò a parlare di tutt’altro, tirando fuori dal taccuino disordinato e spiegazzato, dai bordi asimmetrici che turbavano Thorn, un disegnino del tutto insignificante che sembrava fatto da un bambinetto incapace. Lo spirito di famiglia asserì che fosse Artemide. Thorn si sforzò di non aggrottare ancora di più le sopracciglia. Aveva visto Artemide di persona, le aveva parlato giusto il tempo di apprezzare il suo pragmatismo e la sua dedizione al lavoro, senza distrazioni. Artemide sì che era uno spirito di famiglia. E non assomigliava per nulla a quello scarabocchio. Lanciando un’occhiata ad Ofelia, capì che doveva pensarla allo stesso modo.
Faruk però continuò imperterrito. – E così, fanciulla di Artemide, pare che sappiate leggere il passato degli oggetti.
Ofelia sospirò malinconicamente, stupendo Thorn. – Ahimè, è l’unica cosa che so fare decentemente con le mie dieci dita.
Era sincera, si evinceva dal suo tono di voce che Ofelia era pienamente convinta di quell’asserzione. Thorn, in un certo senso, non poteva darle torto. Era goffa e distratta, maldestra, le sue dita non sarebbero servite a molto come artigiana, scribacchina, cuoca o qualsiasi altro mestiere. Eppure… Thorn immaginò di essere accarezzato da quelle dita, vide quei polpastrelli sempre coperti dai guanti accarezzargli il volto, le cicatrici, in un gesto tenero. Avrebbe voluto che le sue dita venissero adoperate anche per quello, non solo per leggere, ma non sarebbe stato possibile. Mai.
In ogni caso, c’era una questione molto più urgente da trattare: la conversazione stava finalmente convergendo verso il punto giusto, e allo stesso tempo sbagliato. La lettura del Libro non c’entrava con Ofelia; non direttamente, almeno.
- Non dovete dispiacervi – disse Faruk, per una volta troppo presente a se stesso. Non era un caso se si ricordava di quella questione. Il Libro era l’unica cosa che gli interessasse davvero, l’unica a cui fosse ancorato. L’unica che ricordasse. Lo prese dal mantello, quasi porgendolo ad Ofelia. – Potreste, per esempio, leggere il mio Libro.
Non lei.
In qualche modo Thorn la vide protendersi verso quel Libro, quel gigantesco volume da cui lui aveva cercato così ardentemente di tenerla lontano. Per quanto si volesse servire delle sue mani, o meglio, del suo dono per riuscire nell’impresa e affrancarsi dalla nomea di bastardo, non avrebbe mai lasciato che lei lo leggesse, accollandosi il rischio del fallimento. E tutte le relative conseguenze. Strinse l’orologio da taschino come se fosse il suo baricentro, il suo punto di equilibrio, e lui fosse su un baratro.
Non lei.
Poteva anche essere ambizioso e non tenere in conto il parere o le emozioni altrui, ma non era un egoista. Quello mai. E non sacrificava nessuno, se non se stesso. Ofelia non doveva in alcun modo leggere quel Libro, per quanto lei stesso forse lo desiderasse. Se per curiosità morbosa, deformazione professionale o semplice atto di ribellione verso di lui, non lo avrebbe mai capito.
- Non lei – disse infine, con voce atona, inflessibile, così priva delle emozioni che lo laceravano dentro lasciandogli ulteriori cicatrici, di un tipo del tutto diverso.
Thorn tirò il braccio di Ofelia forse troppo bruscamente, animato dal bisogno di metterla in salvo. Le fece scudo con il proprio corpo, come se questo potesse in qualche modo farla scomparire, o proteggerla dalle pretese di Faruk. Non avrebbe permesso che si immolasse al posto suo, senza nemmeno sapere la posta in gioco. L’avrebbe difesa come aveva fatto per tutto quel tempo, nonostante i metodi fossero stati dubbi e contestabili.
- Io – aggiunse poi, come per spingere definitivamente Faruk a concentrarsi su di lui.
Finalmente Faruk alzò gli occhi incontrando i suoi, apparendo confuso e un po’ inebetito. Quello spirito era tutto tranne che sveglio e presente, era ridicolo che un tale individuo governasse. Era un miracolo se l’arca non era stata travolta dall’anarchia.
- Sarò io a leggere il Libro – ripeté, per togliere a Faruk ogni dubbio e fargli dimenticare la presenza di Ofelia. Attirare su di sé tutta l’attenzione, buona o cattiva che fosse. – Quando avrò ereditato il potere di mia moglie, fra quattro mesi e nove giorni, e avrò imparato a servirmene. È nel contratto.
Cacciò il formicolio che sentì da qualche parte al pronunciare le parole “mia moglie” associate ad Ofelia, e mise via l’orologio da taschino. Non era un tipo romantico, il romanticismo era una perdita di tempo futile e incomprensibile, ma credeva nel matrimonio come istituzione che riconosceva un legame assoluto tra due individui. Un legame indissolubile tra lui e Ofelia, che lei lo volesse o no…
Tirò fuori dalla stessa tasca in cui aveva messo via l’orologio il contratto appena menzionato, estraendolo con un colpo secco e stizzito. La sua mente operava su più fronti, ma il fatto che una piccola parte della sua attenzione fosse impegnata a pensare costantemente ad Ofelia lo infastidiva. E spaventava. La stava ancora tenendo ferma dietro di sé, ma non era chiaro se lo facesse perché temeva che lei si spostasse di sua spontanea volontà o perché voleva solamente prolungare il contatto. Le implicazioni della seconda opzione erano destabilizzanti, per uno come lui, che odiava toccare qualsiasi cosa o persona. Poteva passare per un gesto possessivo, ma non era che un tentativo di protezione dalle conseguenze che nessuno, lì, avrebbe potuto immaginare, in caso di fallimento nella lettura. Tantomeno la fidanzata.
Infatti, sentì Ofelia irrigidirsi, così vicino a lui, sicuramente mentre traeva la conclusione sbagliata. Lo avrebbe odiato ancora di più, però l’importante era che non avesse colpi di testa e restasse al suo posto, al sicuro.
Facendosi violenza, Thorn finalmente arrivò dritto al punto. Per quanto la cosa gli facesse ribrezzo, si abbassò a chiedere a Faruk un favore di cui lui non era nemmeno convinto. – Siete disposto a prendere la mia fidanzata e mia zia sotto la vostra protezione fino al giorno delle nozze? Nonché tutti gli Animisti che verranno al Polo, in modo da intrattenere con loro i migliori rapporti diplomatici?
In attesa della risposta, Thorn percepì Ofelia agitarsi leggermente dietro di lui, e la zia inquietarsi, nonostante il sorriso di facciata. Sperò solo che la sua stretta non facesse in qualche modo male ad Ofelia e alle sue ferite. La più minuscola parte irrazionale e insensata di sé sperò che Faruk respingesse la richiesta. Sapeva, però, che in quel caso le cose sarebbero state più difficili del previsto.
Thorn desiderò ardentemente prendere il suo orologio da taschino mentre Faruk leggeva il contratto, con molta calma. Invece rimase fermo immobile, sentendo le articolazioni contrarsi per via della rigidità della postura. Quando alla fine il sire si alzò, superandolo in altezza di una testa, Thorn si sentì… piccolo. Una cosa che non gli capitava mai, se non in presenza di quello spirito di famiglia gigantesco. Non gli piacque essere dalla parte dei più bassi. Cercò di non pensare al fatto che Ofelia doveva sentirsi sempre in quel modo.
Alla fine sentenziò: - Se sa solo leggere, e io non posso chiederle di leggere, che le farò fare? Accetto nella mia cerchia solo persone capaci di distrarmi.
Per una frazione di secondo Thorn quasi impallidì. Adocchiò le favorite alle sue spalle, sapendo che Faruk accettava di buon grado quel tipo di distrazioni. Gli parve, all’improvviso, tutto un enorme errore. Stava gettando Ofelia nella tana del lupo. Faruk era imprevedibile. L’imprevedibilità era pericolosa.
Nell’attimo in cui quei pensieri lo spiazzarono, Ofelia si mosse, rimettendosi di forza al suo fianco, costringendolo a lasciarle il braccio. Stupefatto, la guardò con insistenza, ma l’attenzione della fidanzata era completamente rivolta a Faruk.
Stava per sferrare, Thorn lo sapeva, un altro dei suoi madornali colpi di testa.
- Non sono molto brava a distrarre, ma posso rendermi utile. Su Anima gestivo un museo, potrei aprirne uno qui. Un museo è come una memoria. È come il vostro taccuino.
Thorn era impallidito.
Ofelia, la sua futura moglie, quello scricciolo di donna che era più bassa di lui di due teste e aveva una voce così labile da essere a stento udibile, aveva davvero proposto con tono fermo e una determinazione ferrea allo spirito di famiglia del Polo, in grado di polverizzarti il cervello con la sola presenza, di gestire un museo?!
Thorn non seppe se essere ammirato o infuriato, ma una cosa era certa: era attonito. Nessuno, mai, era stato in grado di sbalordirlo in quella maniera. E nessuno, mai, si era azzardato a prendere la parola in quel modo di fronte a Faruk. Quest’ultimo non era molto indulgente nei confronti di chi non lo assecondava.
Gettò lo sguardo verso sua zia Berenilde, che aveva completamente perso il sorriso. Se la situazione non fosse stata tanto drammatica, e se lui non fosse stato così poco propenso all’umorismo, l’avrebbe fatto ridere la sua espressione di orrore, con la maschera caduta.
Il pubblico rumoreggiava sommessamente, pensandola come lui: nessuno si prendeva certe confidenze con Faruk, sapeva bene cosa accadeva a chi lo contrariava.
Contrariamente alle sue abitudini, Faruk sembrò quasi interessato. Di sicuro non infastidito, nonostante Thorn non ne fosse affatto rasserenato. Avrebbe voluto riprendere Ofelia per il braccio, principalmente per spostarla se fosse stato necessario, e secondariamente per poterla toccare ancora.
- Che tipo di museo gestivate? – chiese infatti lo spirito di famiglia, non proprio interessato ma di sicuro non annoiato come poco prima.
- Di storia primitiva – si affrettò a rispondere Ofelia, illuminandosi d’un tratto. Thorn la osservò dall’alto, incuriosito di fronte a quello slancio di entusiasmo. Non l’aveva mai vista così, e il fatto che la sua gioia fosse causata dal poter parlare del museo che gestiva in precedenza gli diede molto su cui riflettere. – Tutto ciò che ha a che fare con il vecchio mondo. Naturalmente posso adattarmi alle vostre risorse storiche.
Se lui era la matematica e la burocrazia, Ofelia era la storia e la letteratura. Non proprio materie accostabili.
Faruk sembrò davvero interessato, cosa che la fece quasi sorridere, facendo sorgere in Thorn un certo tormento. Con lui non aveva mai quell’espressione, tutt’altro. Possibile che fosse la sua stessa presenza a renderla arcigna? Nemmeno con Archibald era tanto fredda e scostante. Avrebbe dovuto darsi da fare sul serio per farle cambiare idea su di lui, una cosa che non aveva mai fatto e mai gli era sembrata necessaria. Farsi accettare e conoscere per essere approvato da lei, per renderla felice… da dove derivavano quei desideri?
- Storia, quindi – sentenziò Faruk, riportandolo al presente. – Perfetto, piccola di Artemide, mi racconterete storie. Sarà il prezzo della protezione che accordo a voi e alla vostra famiglia. Vi nomino vicenarratrice.
La gaiezza di Ofelia si spense come se le avesse proposto di sposarlo lì, seduta stante. O di bruciare tutti i libri che conosceva. Di sicuro quella nomina non era ciò che Ofelia si aspettava, e Thorn si rese conto che forse avrebbe dovuto metterla in guardia. Quasi mai lo spirito di famiglia capriccioso concedeva precisamente quello che gli veniva richiesto, se non in momenti di eclatante distrazione e sbadataggine.
Ofelia non avrebbe gestito nessun museo. Eppure, Thorn non poté fare a meno di essere ammirato dal suo tentativo coraggioso. Anche qualcosa di più.
Tendeva a dimenticarlo, ma quella fidanzata che la zia gli aveva trovato era tutt’altro che ordinaria; nonostante fosse timida e silenziosa, non era anodina. Era sopravvissuta ben più di qualche giorno alla vita al Polo, era stata addirittura picchiata, accusata di tentato omicidio, costretta sotto mentite spoglie… e si era lamentata molto meno di quanto sarebbe stato sopportabile.
Ofelia era forte, questo lo sapeva già. Tenace, decisa.
Era anche coraggiosa. Non lo avrebbe mai dimenticato. Non aveva mai conosciuto qualcuno come lei.
 
Il palco si riempì ben presto di nobili, a seguito dell’incoronazione di sua zia. Una cosa talmente ridicola da rasentare l’assurdo. Che senso aveva incoronarla? Non era una regina, e non era nemmeno l’unica donna con cui Faruk si intrattenesse. Thorn tentò di tenere a bada i pensieri, che tendevano a correre a briglia sciolta quando era nervoso. Ofelia era come sparita, e ce ne voleva per perderla d’occhio, visti i guai che combinava. I cortigiani lo pressavano da tutte le parti, senza un minimo di rispetto per ciò che la buona etichetta chiamava “spazio personale”. Si concentrò sulla lettura del contratto che il cancelliere gli porse, per distrarsi. E anche perché doveva assolutamente assicurarsi che le parole riportate sul foglio di carta fossero accurate e precise, ne andava della sicurezza di Ofelia. Lo lesse in circa quattro secondi, rivolgendo al mittente un cenno affermativo del capo. Lui aveva già memorizzato ogni singola parola, ma ordinò lo stesso al dattilografo lì a fianco di inviargliene una copia all’intendenza, per metterla agli atti. Il foglio che aveva in mano, invece, lo tenne. Lo avrebbe dato ad Ofelia, sperando di farle cosa gradita.
Fece vagare di nuovo lo sguardo sull’ampio spazio, cercando Ofelia. Seguì il percorso che doveva aver seguito, giù per le scale e poi… in un luogo un po’ più appartato? Guidato dall’istinto, la trovò subito, accanto alla zia Roseline, senza più la veletta sul cappello, visibilmente contrariata. Lei lo stava guardando a sua volta, cosa che fece provare a Thorn una strana sensazione allo stomaco; ma appena notò che lui aveva il viso rivolto verso di lei, Ofelia si girò, con il chiaro intento di ignorarlo.
Thorn aggrottò le sopracciglia.
Come se non bastasse, vide un’altra figura incedere verso la fidanzata, rotonda e decisamente pericolosa. Cunegonda, la Miraggio che ormai era caduta in disgrazia. All’intendenza aveva diverse pratiche aperte a suo nome, e doveva porle alcune domande circa la sua attività. Insomma, non era proprio finanziariamente e burocraticamente pulita. Il fatto che stesse parlando con Ofelia la rendeva ancora più colpevole, agli occhi di Thorn. Non voleva che la fidanzata si mischiasse con persone deplorevoli e pericolose, soprattutto data l’attività deprecabile che Cunegonda svolgeva.
La Miraggio millantava di sapere tanto, tutto di tutti, quando in realtà conosceva i fatti superficialmente, e per la maggior parte infarciva le notizie di menzogne; ma qualche fondo di verità veniva sempre a galla. Doveva accorrere in aiuto di Ofelia.
Scese le scale di gran carriera, diretto verso la fidanzata e sua zia, ma fu intercettato dal suo segretario, sudato quanto lui. Il fatto che fosse andato fino a lì per cercarlo significava solo guai, Thorn lo sapeva. Lanciando un’ultima occhiata ad Ofelia, fece cenno al suo segretario di seguirlo, senza appurare se lo stesse facendo o meno.
In un angolo più o meno riparato lo ascoltò mentre gli menzionava un processo che era stato anticipato e di cui aveva urgente bisogno che Thorn approfondisse i dettagli, data la delicatezza delle parti prese in causa. Un processo che avrebbe sicuramente suscitato scalpore, un altro caso di corruzione sventata. Thorn sapeva che si sarebbe attirato addosso più odio di quanto già non avesse, ma se c’era qualcosa che tollerava ancora meno dei contatti fisici, questa era la disonestà. L’ipocrisia.
Quando ebbe finito, aveva ormai perso di vista Ofelia. Thorn congedò il segretario, che non gli propose nemmeno di tenere il fascicolo relativo al processo: sapeva che l’intendente aveva una Memoria infallibile. Aveva già imparato ogni singola parola di quel verbale, non gli serviva altro.
Tenendo in mano il foglio dattiloscritto che aveva sottratto al cancelliere e al dattilografo, si diresse verso il posto in cui aveva avvistato Ofelia prima dell’interruzione. Si rese conto solo il quel momento che in realtà lei non aveva alcun bisogno di ricevere la sua copia del contratto proprio lì, ma erano diversi i motivi per cui voleva fornirglielo. In primis, voleva avere l’occasione di parlare con lei, e quello gli sembrava un buon espediente. Come seconda cosa, voleva guadagnarsi la sua fiducia, mostrarle che la metteva a parte dei progetti che la riguardavano, che si curava di lei. A modo suo. Terzo, era il caso che lei tenesse quel foglio per sbandierarlo sotto il naso del molestatore di turno, Faruk compreso. E molestatori, arrivisti, approfittatori, ce ne sarebbero stati tanti.
Quando arrivò alle spalle di Ofelia, però, il moto di sollievo impercettibile che provò nel vederla lì, perché non se n’era andata, venne soppiantato da un fastidio feroce e viscerale. Era un misto di rabbia, insofferenza, disgusto, nervoso. Thorn sapeva che il termine preciso era gelosia, ma non voleva pensare alle implicazioni di quell’emozione.
Di fronte ad Ofelia non c’era più Cunegonda, che non si vedeva nei paraggi, bensì Archibald. Thorn avrebbe quasi preferito che Ofelia parlasse ancora con la Miraggio, a voler essere sinceri. Il cilindro malandato, la redingote indossata malamente e senza precisioni, i buchi nel tessuto, tutto l’insieme asimmetrico dell’ambasciatore bastava a fargli venire il ribrezzo. Il fatto che stesse parlando con la sua fidanzata, lui, così poco raccomandabile con le signore, gli fece temere il peggio.
Ofelia non lo voleva perché si era invaghita di lui come le altre quattrocentottantanove conquiste? Quattrocentoottantanove e mezzo, ad essere precisi.
Non avrebbe permesso mai e poi mai che Archibald riuscisse nel suo intento. Ofelia non poteva cadere vittima di quello spudorato immorale e… disordinato. L’avrebbe protetta, a costo di battersi fisicamente, o usare gli artigli. Cercò di non pensare al fatto che, in parte, voleva proteggerla per se stesso, non per la sua felicità o reputazione.
Era stato talmente silenzioso che né Ofelia né la signora Roseline si erano accorte del suo avvicinamento. L’ambasciatore invece non diede segno di averlo notato, eppure Thorn vide il suo sguardo saettare verso di lui velocemente. Gli parve che il sorriso impertinente si fosse allargato sul suo volto ammiccante, ma Archibald non lo interpellò, non avvisò le altre del suo arrivo, e non lo incluse nella conversazione.
Si esibì in una specie di numero di giocoleria, raccogliendo il cilindro che giaceva ai suoi piedi, per poi farlo volteggiare in aria e rimetterselo sul capo. Thorn pensò che alla fin fine, stropicciato e strappato com’era, quel cappello sarebbe stato meglio a terra, in effetti. Non aveva idea di cosa avessero parlato fino a quel momento le signore e l’ambasciatore, ma il commento che seguì le azioni da clown non lo rassicurarono per nulla.
- Non ho incontrato molte persone qui che si preoccupassero del mio interesse. Grazie, ambasciatore.
Quelle parole gli fecero male più di tante altre che Ofelia gli aveva rivolto, ben più algide e ferali. Il fatto che le stesse dicendo a quell’individuo invece che a lui gli rendeva intollerabile persino stare lì. Se il sentimento che nutriva nei confronti di Ofelia fosse stato meno invadente, forse se ne sarebbe andato. Ma il bisogno di sapere cosa stesse accadendo lo trattenne.
- Oh, non ringraziatemi. Più vi informo e più il vostro debito verso di me cresce. Un giorno vi presenterò il conto.
Archibald gongolava, lanciandogli di tanto in tanto occhiate furtive e ferine. Stava godendo nel torturarlo. Anche se Thorn non reagì in alcun modo, dimostrandosi indifferente come se in realtà l’ambasciatore avesse detto ad Ofelia che stava per piovere, non poté fare a meno di irrigidirsi. Sapeva bene a che conto alludeva Archibald, più volte lo aveva visto elargire favori in cambio di pagamenti… in natura. Specialmente se la fanciulla era promessa in sposa o sposata con qualche suo nemico. Ancor più se era illibata.
Ofelia, quanto meno, sembrava stupita. L’aveva presa in contropiede. – Che debito, che conto? Mi avete offerto la vostra amicizia.
Ofelia non era stupida, Thorn questo lo aveva capito bene, ma non poteva fare a meno di chiedersi se l’arca in cui era nata, il modo in cui era cresciuta, non l’avessero resa un po’… sempliciotta. Aveva capito che su Anima, su cui erano praticamente tutti parenti, non esistevano intrighi di corte, ma diamine, Ofelia doveva aver ormai compreso il funzionamento del Polo. Nessuno, mai, elargiva amicizie e favori gratuitamente. C’era sempre un tornaconto personale dietro le buone azioni. O quelle che sembravano tali. Davvero Ofelia credeva che Archibald sarebbe diventato suo amico in modo disinteressato?
- Appunto – fece notare Archibald, estasiato. – Amici cari e borsa del pari. Non vi preoccupate, ci prenderete talmente tanto gusto che vi affretterete a indebitarvi di nuovo.
Le implicazioni di quell’asserzione fecero inorridire Thorn. Il pensiero che Ofelia potesse davvero… con Archibald… più volte… Intollerabile. Lo scenario lo bloccò sul posto, anche se sapeva che avrebbe dovuto palesare la sua presenza già diverse battute prima. Eppure, in un angolo remoto della sua mente, la scena in cui Ofelia si concedeva come pagamento cambiò tinte, e Archibald venne soppiantato da lui. Non si soffermò troppo su quella fantasia, però si vide velocemente cedere sotto le attenzioni di Ofelia.
Avrebbe voluto cancellare quella… quei… quegli impulsi. La sua minuscola e imprevedibile fidanzata aveva fatto cadere un muro in lui, quello del controllo totale e assoluto su pensieri ed emozioni. E aveva risvegliato un istinto che non credeva nemmeno di possedere, e che trovava ripugnante quando vedeva qualche coppia amoreggiare in un angolo appartato. Ofelia lo aveva spinto non solo a non considerare uno scenario del genere uno scempio, ma addirittura a desiderarlo.
Fortunatamente la zia Roseline lo distrasse. Ofelia sembrava… atterrita. Si era finalmente resa conto di che razza di individuo approfittatore fosse l’ambasciatore? Sua zia sembrava molto più sveglia di lei, sotto quell’ambito.
- Te l’avevo detto di evitare brutte frequentazioni! Signor ambasciatore, controllerò personalmente che manteniate le distanze da mia nipote!
L’avvertimento non servì a rassicurare granché Thorn. Aveva imparato a sue spese che Ofelia non si poteva trattenere. Era più indipendente di quanto si sarebbe mai aspettato.
Archibald doveva pensarla come lui, perché sembrava più che mai divertito. Gli si illuminarono gli occhi, e Thorn ebbe il cattivo presentimento che avesse preso le parole della signora Roseline come una sfida. Ci mancava solo quello per eccitarlo ulteriormente.
- Siete una persona che apprezzo, signora Roseline, quindi mi dispiace contraddirvi, ma non potrete avere sempre la signorina sott’occhio. E nemmeno voi, intendente.
Con quelle ultime parole, Thorn ebbe la conferma del suo sospetto: anche se parlava con la sua fidanzata e la zia di quest’ultima, gli avvertimenti e le provocazioni erano rivolte a lui. Infame, infida serpe…
Ofelia si voltò talmente di scatto che la costola le provocò una fitta di dolore decisamente acuta, a giudicare dalla smorfia e dal modo in cui impallidì. Era talmente sbadata! Avrebbe voluto prenderle il braccio come sul podio, per aiutarla a stabilizzarsi, quanto meno, ma capì che non era il caso. Origliare non era proprio educato, e lui se n’era sempre infischiato di convenzioni ed etichette; però Ofelia ci teneva, e facendo qualche gesto inconsulto avrebbe solo peggiorato la situazione. Certo, c’era da dire anche che in realtà non aveva voluto interrompere la conversazione, anche quello era un gesto cortese, all’incirca.
Da quando in qua, però, lui si preoccupava di certe cose come il galateo e le buone maniere? Non erano fondamentali, nell’ottanta percento dei casi erano solo una perdita di tempo. Sentì l’impulso di prendere l’orologio da taschino, ma si trattenne. Presto se ne sarebbe andato, e non voleva sprecare un secondo del tempo che aveva con Ofelia. Chissà quando l’avrebbe rivista.
Nonostante il caldo soffocante, e la presenza rivoltante di Archibald, niente lo avrebbe fermato dal prendersi quegli ultimi momenti con la fidanzata, che lei lo volesse o no. Si vergognò di se stesso per quei pensieri infondati e quelle emozioni incontrollate, ma non poté fare a meno di lasciar fluire tutto. Ignorò tutto e tutti, tranne lei.
- Sono venuto a portarvi il vostro contratto.
- Vi prego di non fare commenti – rispose lei, con tono acido, prendendogli in malo modo il foglio dalle mani.
Per quanto lui si sforzasse di essere… tollerabile, lei sembrava non impiegare il minimo sforzo per rendersi amabile. E nonostante tutto, lui era lì, per lei. Si sarebbe fatto maltrattare gratuitamente, se fosse servito. L’unica cosa che non riusciva ad accettare era il fatto che nei suoi confronti sembrava sempre insofferente, invece tollerava Archibald, che pure era più meschino e fasullo.
Thorn tirò fuori un argomento che sapeva l’avrebbe interessata, quasi prendendosi una rivincita su Archibald, anche se lui non avrebbe capito. Ormai aveva intuito quali cose interessassero Ofelia, comprenderla non era più così impossibile. D’altro canto, ogni volta che lo credeva, lei compiva un’azione del tutto imprevista, facendolo ricredere su tutto.
- Vi informo anche che sono riuscito ad avere un collegamento radiotelegrafico con la vostra famiglia. Li ho rassicurati sulla vostra salute e convinti a rimandare l’arrivo.
Come a voler confermare di proposito le sue elucubrazioni di poco prima, Ofelia non si mostrò sollevata, o grata. Indignata, quello sì. Cosa doveva fare, con lei?
- Non vi è venuto in mente che mi avrebbe fatto piacere essere presente al collegamento radiotelegrafico? Da quando siamo partiti i miei genitori non hanno ricevuto nessuna delle nostre lettere e noi non abbiamo ricevuto nessuna delle loro. Avete una vaga idea dell’isolamento in cui siamo precipitate io e mia zia?
Thorn aggrottò la fronte. Più che dal tono irritato e più alto del solito, novità sia per lui che per Ofelia, Thorn fu colpito da ciò che le sue parole comportavano. Le avrebbe fatto piacere sentirli? Isolamento? Lui non poteva neanche lontanamente immaginare di cosa stesse parlando Ofelia, o di quanto fosse profonda la mancanza che sentiva. Lui non aveva mai avuto una famiglia, figuriamoci qualcuno che sentisse nostalgia di lui. Erano dei concetti che proprio non comprendeva.
Aveva sbagliato ancora una volta, credendo di fare bene. O aveva fatto bene, ed era la fidanzata che funzionava al contrario?
In ogni caso, una cosa era certa. – Ho dovuto affrontare questioni più urgenti -. Ed era vero. Ofelia si rendeva conto di che caos avrebbe scatenato un arrivo imprevisto della sua famiglia? A malapena riusciva a garantire protezione a lei, figuriamoci ad un numero illogicamente spropositato di Animisti! – Con i tempi che corrono la presenza qui di membri della vostra famiglia sarebbe un pericolo per noi e per loro. Farò in modo che le vostre prossime lettere vengano inoltrate correttamente.
Questo, almeno, poteva concederglielo.
Eppure Ofelia non si placò, non si rassegnò, non si arrese. Sembrava davvero indignata. – E il vostro contratto? Ho il diritto di prenderne conoscenza o non sono affari miei?
Thorn increspò ancora di più le sopracciglia. Era abituato a sarcasmo, insulti, malelingue, diffamazioni, calunnie, violenza fisica, ma i commenti aspri di Ofelia gli facevano male come niente era mai riuscito a fargliene. Infilò una mano nella tasca interna dell’uniforme, desiderando potersela togliere. Faceva così caldo che sentiva i capelli appiccicati alla testa. Ne estrasse una busta, che pose ad Ofelia.
- Per voi ho un facsimile. Non separatevene mai e mettetelo sotto il naso di Faruk ogni volta che serve.
Sperava davvero che con quei due contratti insieme, il suo e quello di Ofelia, la protezione del gineceo e la vigilanza di sua zia, la fidanzata potesse essere al sicuro.
Ofelia fece cadere il foglio quando lo estrasse dalla busta, com’era prevedibile, ma Thorn non si spazientì. La osservò con calma mentre leggeva tutto, parola per parola, citandolo mentalmente mano a mano che lei proseguiva, come se lo stessero leggendo insieme. Vide i suoi occhiali scurirsi, ma non ne capì il motivo. Aveva cominciato a comprenderla, ma era ben lontano dal poterla prevedere.
Quando finì di leggere, sembrava più determinata che mai. Ofelia gli lanciò un’occhiata in tralice, che lo ferì nel profondo. Sembrava… disgustata. A dimostrazione di ciò, come per provocarlo o infierire, si girò verso Archibald, che era rimasto in silenzio a godersi il battibecco. Gongolante.
- Un giorno pagherò il conto. Lasciate che sia io a scegliere come, farò in modo che sia equo.
Thorn avrebbe voluto rabbrividire nonostante l’afa. Il sorriso vittorioso e superbo dell’ambasciatore, l’odio di Ofelia, le implicazioni e le varie possibilità di quella risposta… come aveva potuto sbagliare così tanto, quando aveva solo cercato di proteggerla?
Archibald si toccò allegramente il cappello. – Sono impaziente di vedere il conto, fidanzata di Thorn! – infierì. – Nel frattempo mi congedo. Sono stato lontano da Chiardiluna troppo tempo e quando il gatto non c’è, i topi ballano.
Mentre l’ambasciatore piroettava su se stesso, pronto ad andarsene, finalmente, la signora Roseline gli bloccò la strada. Thorn si augurò che lo facesse passare e andare via quanto prima, perché faticava a tenere a bada quegli artigli che tanto ripudiava e che in quel momento, gonfi di tutto quello che era successo fino ad allora, bramavano solo il sangue di quell’impudente funzionario.
Si concentrò su Ofelia, mentre Archibald provava a sedurre persino la casta signora Roseline. Gli interessava poco di quella scena: Thorn stava scrutando Ofelia, attento a non perdersi nemmeno una sua espressione, che dallo sdegno e dalla determinazione passò alla confusione e allo sgomento. Quando Archibald se ne andò, la vide preoccuparsi per la zia, stupita di fronte al suo cedimento con quell’individuo. Era una donna premurosa, Ofelia, questo lo aveva capito. Nel prendersi cura di chi amavano, in fondo, loro due erano simili, solo che lei non se ne rendeva conto. Thorn non aveva mai avuto nessuno da amare, se non la zia, che era l’unica che si fosse mai interessata a lui. Non si reputava un brav’uomo, un altruista, ma fedele sì. Integro, sì. Leale, anche.
Ma era solo, lo era sempre stato, e non aveva avuto modo di dimostrare quelle qualità, forse le uniche umane che possedesse. Voleva davvero che Ofelia lo vedesse.
La signora Roseline, ancora stordita, alla fine si allontanò, cosa che non avrebbe mai fatto se fosse stata nel pieno delle sue facoltà mentali. Era un chaperon molto zelante. Li aveva lasciati soli. Thorn prese l’orologio da taschino per calcolare quanto tempo avessero trascorso insieme, e quanti pochi attimi gli mancassero prima di andarsene. Con l’orologio in mano guardò Ofelia dall’alto, coprendola con la sua ombra.
Il vestito bianco che sua zia Berenilde le aveva donato era… apprezzabile. Era in contrasto con la massa scura dei lunghi capelli ricci e con il cappello nero, ma a Thorn non dispiacque come le calzava. Decise di distrarsi, stava diventando disgustoso persino ai suoi stessi occhi con quelle osservazioni così umane.
- Credo che allearvi con Archibald sia stata una pessima idea – commentò per attirare la sua attenzione, caricando l’orologio da taschino.
Ofelia alzò la testa verso di lui, allungando il collo come ogni volta che tentava di guardarlo negli occhi. In quei momenti gli sembrava estremamente vulnerabile. Non voleva ammettere che la considerava tenera. In fondo, era ancora arrabbiata.
- Bene – sancì, anche se dal tono traspariva che non le andasse bene nulla. - È tutto quello che avete da dirmi?
- No.
Ne aveva così tante, di cose da dirle, ma non sapeva nemmeno come fare, figuriamoci da che punto partire. C’era però una cosa che voleva assolutamente farle sapere, anche se non capiva perché. Forse per farsi perdonare di tutte le volte che l’aveva sottovalutata, o screditata, o che aveva dubitato di lei. Forse per farle capire che l’apprezzava, che la considerava forte, che una donna come lei, piccola e all’apparenza fragile, non faceva altro che destabilizzarlo, stupirlo. Intrigarlo. Forse perché voleva che in qualche modo, leggendo tra le righe, capisse che gli piaceva.
Gli piaceva più di quanto fosse lecito e tollerabile, logico, per uno come lui.
Increspò ancora di più le sopracciglia, mentre la scrutava, incerto su come dirlo. Ofelia sembrava pronta ad incassare qualsiasi cosa, forse si aspettava una sgridata, o che qualcuno la rimettesse al suo posto. Ma Thorn, per quanto lei gli rendesse la vita complicata, non la voleva diversa per nessun motivo al mondo. Non l’avrebbe mai costretta a fare ciò che non voleva. Non avrebbe mai tentato di cambiarla. Non l’avrebbe rimproverata perché aveva la forza, la volontà di essere se stessa senza vergogna alcuna, e per la sfida che lanciava a quel mondo falso e corrotto.
Lei si accorse della sua titubanza, e si spazientì. Per una volta, era lui quello lento. L’orologio che ancora teneva in mano gli rammentò che il tempo scorreva, e non poteva rimanere lì con lei, a scrutarla, a parlare, sebbene stesse solo ricevendo parole acri, per sempre. Ma lo avrebbe voluto. Anche qualcosa di più.
- Svelatemi dunque i vostri pensieri fino in fondo. E facciamola finita.
Thorn non se lo fece ripetere due volte. Sarebbe stato vergognoso e deplorevole. Non doveva interrogarsi troppo su come formulare la frase, lui era diretto, e non sarebbe cambiato facilmente. – Ciò che avete fatto prima sul palco è stato coraggioso.
La tensione gli aveva reso la voce pesante, più grave del solito. Non era riuscito a far trapelare la sua ammirazione per l’intraprendenza di Ofelia. Sperò che potesse leggere tra le righe, al di là del suo livore, e carpire la sua sincera approvazione.
Senza attendere risposta, senza più guardarla, ripose l’orologio al suo posto e se ne andò senza voltarsi.
La vista del volto di Ofelia esterrefatto e a corto di parole, però, lo seguì a lungo, nel suo cammino per tornare al lavoro.
Per una volta era stato lui a prenderla in contropiede. Sperava che potesse essere di buon auspicio per il futuro.
Anche qualcosa di più.
 
 

 
 
Bonus (che in realtà era quello che volevo approfondire nel capitolo, ma sarebbe stato troppo breve)
L’Attraversaspecchi II, Gli Scomparsi di Chiardiluna, La Lettera, pagine 66-68

Erano passate quattro settimane e cinque giorni dall’ultima volta che l’aveva sentita.
La mancanza della sua voce e della sua presenza lo stava facendo innervosire, nonostante Thorn chiamasse regolarmente la zia per accertarsi della sua salute e di quella delle sue ospiti. Anche se Ofelia stava bene, come gli riferiva la zia, sembrava del tutto inadatta alla vita di corte e alle feste mondane. Questo, almeno, era ciò che essa sosteneva. A Thorn non poteva importare di meno se la sua fidanzata indossava vestiti alla moda o non voleva cambiare montatura degli occhiali, così antiquata, a sentire la zia, o se la sciarpa che si ostinava a portare appresso le facesse fare sempre brutte figure.
Thorn si irritava con la zia per la vaghezza e l’insignificanza delle notizie amene che gli riportava, ma la verità era che ce l’aveva con Ofelia per non essersi mai fatta sentire. E ce l’aveva con se stesso per quello spasmodico desiderio di voler quantomeno ascoltare la sua voce, se non vederla.
Nei giorni successivi all’incontro con Faruk aveva spesso rimembrato la loro ultima conversazione, con la sua ammissione del fatto che Ofelia era stata coraggiosa. Non poteva dimenticare, ovviamente, ma la cosa che proprio non voleva archiviarsi nella sua Memoria e saltava fuori ogni giorno, spesso più volte, era l’espressione della fidanzata: era ben lontana dall’anelare a stare ancora con lui, o conversare ancora con lui.
Thorn sperava proprio che le fosse passata. Era irragionevole essere ancora arrabbiati, quel che era fatto era ormai fatto, non cancellabile. Erano concordi circa il fatto che fossero partiti con il piede sbagliato, ne avevano convenuto, ma non c’era stata occasione di approfondire quella discussione. Oltretutto, era una discussione chiusa e archiviata.
Quel giorno, dopo aver finito di redigere un verbale con ben otto minuti di anticipo, Thorn non poté fare a meno di indugiare in quei pensieri. Non poteva più permettersi di tentennare e continuare a pensare al… ai… a Ofelia. A cosa stava pensando, cosa stava facendo, soprattutto con chi si stava vedendo. Non sarebbe andato da nessuna parte in quel modo, e ne avrebbe risentito anche il suo lavoro, il suo rendimento professionale. Da quello che aveva potuto imparare da Ofelia, era una ragazza… una donna sincera. Non sembrava portare molto rancore, aveva le sue idee ed era determinata, tenace. Tutte qualità che Thorn si era reso conto di apprezzare, quanto meno in lei.
Aveva davvero un buon cuore, per quanto quel pensiero fosse strano, se derivante da lui. Voleva sentirla.
Voleva ascoltare la sua voce, per lo meno al telefono. Voleva che gli raccontasse qualcosa, anche di stupido, di ameno e futile, giusto per fargli capire che si fidava. Si fidava di lui. Le veniva tanto facile parlare con l’ambasciatore senza odiarlo, perché doveva essere diverso con lui?
Scacciò quel pensiero prima che la gelosia lo attanagliasse. Quanto meno, Thorn era onesto con se stesso. Una volta che accettava qualcosa come assodato, non la negava, non la nascondeva. Lui provava davvero un interesse, provava qualcosa per Ofelia, qualcosa di nuovo che nemmeno lui si spiegava, ma… era una sensazione piacevole; quando lei non era ostile. Davvero, stranamente, piacevole. Anche qualcosa di più.
Prese la decisione al volo, dato che gli avanzavano ancora sei minuti e quarantaquattro secondi prima dell’appuntamento successivo. Impugnò la cornetta.
L’avrebbe chiamata.
La centralinista che rispose al telefono chiese, in modo efficiente, con chi dovesse metterlo in contatto. Thorn le diede le indicazioni del caso senza presentarsi o salutare, e la centralinista obbedì.
Quando sentì di nuovo suonare la cornetta, questa volta consapevole che avrebbe risposto Ofelia, con ogni probabilità, Thorn si sentì agitato. All’ultimo secondo quasi si pentì di quella decisione, un evento inconsueto, per uno come lui, sempre coscienzioso, presente e padrone di ogni cosa.
Non sapeva cosa aspettarsi da quella telefonata.
Un lieve clic e un leggerissimo ronzio gli fecero capire che Ofelia aveva raccolto la telefonata. Era già un passo avanti.
- Pronto? – chiese, perfettamente padrone del tono di voce.
Gli rispose il silenzio. Per un attimo pensò che ci fosse un’interferenza, e l’attimo dopo temette che Ofelia avesse fatto cadere la comunicazione.
- Pronto? – incalzò.
- Avete cambiato segretario?

Thorn aggrottò le sopracciglia, non potendo evitare di chiedersi quali strane macchinazioni stesse producendo il cervello iperattivo della fidanzata. Avrebbe trovato più consono un “vi odio, cosa volete?”, che un quesito sul segretario. Fu così preso alla sprovvista da quella domanda insensata che rispose di getto, senza porsi alcun interrogativo.
- No. Che c’entra lui?
- Ho appena parlato con una donna.
Che fosse…? No, era impossibile che Ofelia fosse gelosa. Non teneva così tanto a lui, di questo era, purtroppo, certo. L’insinuazione lo fece comunque mettere sulla difensiva. E lo spinse a dare una spiegazione. – Era una centralinista. La torre di Faruk e l’intendenza non sono collegate dalla stessa centrale telefonica e non abbiamo sistemi automatici.
Era un argomento talmente neutro che Thorn sperava proprio che Ofelia cambiasse discorso. D’accordo che alla fine voleva solo sentire la sua voce, ma di certo non mentre parlavano di centralini telefonici. Il silenzio che gli arrivò risuonò un po’ perplesso, ma Thorn non diede ulteriori delucidazioni e attese una risposta dall’altra parte.
- Volevate dirmi qualcosa?
Il tono di Ofelia non era propriamente… ostile. Era una cosa positiva, no? Stava… continuando la discussione. Thorn era talmente poco avvezzo a certe faccende da trovarle tediose. Si sarebbe dovuto studiare un manuale per capire come si intavolavano conversazioni.
Quel pensiero irrazionale gli fece capire con orrore quanto si stesse sforzando per lei, per piacerle. Che cosa ridicola. Eppure, non riusciva proprio sbarazzarsi di quei pensieri. Non stava cambiando se stesso per lei, quello no, lo aveva giurato a se stesso ogni volta che qualcuno lo aveva ferito e lo aveva rifiutato, ma… era come se con lei volesse mostrare il meglio di sé. Che c’era dell’altro. Anche se impacciate e confuse, non gli dispiacevano le loro conversazioni. Ofelia era l’unica a non averlo mai giudicato. Se non quando aveva scoperto la verità, nel peggiore dei modi.
Stava a lui rimediare. Glielo doveva.
Doveva essere onesto. - Spero che abbiate voi qualcosa da dirmi. Non ho più avuto vostre notizie da quando vi siete traferita nel gineceo.
In un millesimo di secondo Thorn si rese conto che la risposta a quella domanda avrebbe significato tutto. Ofelia avrebbe riattaccato? Probabilmente lo odiava. Avrebbe descritto qualche avvenimento come se nulla fosse? Lo aveva perdonato. Avrebbe ribattuto qualcosa in tono piccato? Era ancora arrabbiata. Gli avrebbe detto che gli mancava?
Ridicolo. Illogico. Thorn quasi si perse la sua risposta da quanto si infuriò con se stesso.
- Non c’è niente che abbiate bisogno di sapere.
- Siete sempre arrabbiata con me – concluse. Avrebbe quasi potuto predirlo. Forse Ofelia, dopotutto, era un pochino rancorosa. Toccava a lui farle riguadagnare la ragione, in ogni caso. – Eppure pensavo che ci fossimo chiariti. Ci siamo trovati d’accordo sul fatto che entrambi eravamo partiti col piede sbagliato.
Dall’altro capo della cornetta il respiro di Ofelia si fece pesante, come se lei stesse lottando con se stessa per stare calma. Non era proprio un buon segno, ma lui non intendeva demordere. Che senso aveva essere ancora in collera?
- No, Thorn. Vi siete trovato d’accordo da solo.
Suo malgrado, quella frase lo innervosì. Quella fidanzata era completamente irragionevole.
- Dovete considerare…
- Ascoltatemi bene.
Thorn si zittì, sorpreso. In quel momento capì che aveva preso un granchio, bello grosso anche. Ofelia non aveva la minima intenzione di riconciliarsi. Probabilmente non aveva nemmeno pensato a lui in quelle settimane, se non per maledirlo, forse. Per la prima volta in vita sua, ebbe timore delle parole che qualcuno stava per rivolgergli.
- Vi ho compianto sinceramente perché credevo che il matrimonio l’avesse organizzato Berenilde e noi fossimo le sue marionette. Ora ho capito che c’è sempre stata un’unica marionetta: io. Posso accettare l’idea che abbiate voluto sposarmi solo per le mie mani, ho visto il mondo in cui siete cresciuto, ma non vi perdonerò mai di averlo saputo da una bocca diversa dalla vostra.
Era il discorso più lungo che le avesse mai sentito fare, con la voce forte e chiara, sorda nonostante il mormorio. Thorn si rese conto che era davvero meglio che Ofelia parlasse a bassa voce per la maggior parte del tempo: il suo tono non era fragile come lui aveva pensato, come tutti credevano. Era forte come lei, potente. Autoritario, persino, e la cosa lo destabilizzò più delle parole acri in sé, perché non era abituato a sentirsi rivolgere accuse simili.
O forse, si rese conto, tanti gli parlavano in quel modo, ma lui non se n’era mai curato. Non gli era mai interessato. Per questo le parole di Ofelia non facevano solo male, ma doppiamente male. L’ennesima potenza del dolore, senza possibilità di estrarne la radice.
Capì però che Ofelia esigeva la sincerità. Forse l’avrebbe addirittura perdonato, forse, forse assecondato, se le avesse detto sin dal principio qual era il suo scopo, cosa mirava ad ottenere con quel matrimonio combinato. Forse, solo forse, lo avrebbe accettato, se fosse stato anche veritiero e trasparente circa il fatto che le sue… prospettive erano cambiate, da quando lei era entrata, volente o nolente, nella sua vita. Non era abituato a dover condividere, a mettere gli altri a parte dei suoi piani, progetti e pensieri. Nemmeno con sua zia Berenilde lo faceva. Con Ofelia, comprese, sarebbe stato fondamentale farlo.
Aveva sbagliato in pieno, e aveva avuto la pretesa di chiudere la faccenda senza nemmeno capire come lei la pensava. Non avrebbe sbagliato una seconda volta.
Thorn si rese conto che dall’altro lato della cornetta non giungeva alcun rumore, nemmeno il più flebile respiro, come se Ofelia avesse trattenuto il fiato mentre lui elaborava. Alla fine, però, meno avvezza al silenzio di lui, riprese la parola.
- Avete sentito quel che ho detto o devo ripeterlo?
Non sarebbe durata al Polo, eh? Thorn trovò tragicamente comica la situazione, dato che in quel momento era lei a metterlo alle strette.
- Non lo ripetete.
Non lo avrebbe sopportato.
- Bene. C’è altro prima che riattacchi?
Non avrebbe sopportato nemmeno di chiudere la conversazione in quel modo, mentre entrambi rimuginavano, lei nel gineceo e lui all’intendenza, su quella spiacevole telefonata. Poteva forse chiudersi così, ma l’argomento non lo era. Lo sarebbe stato solo quando avessero parlato faccia a faccia.
Doveva vederla.
Ne andava del loro matrimonio, si disse.
Bugiardo.
- Penso che dovreste venire qui – le rispose dopo un attimo, cercando di raccogliere le idee. E aggiunse: - Preferibilmente da sola.
Le zie, o anche solo una zia, sua o di lei che fosse, avrebbero solo complicato le cose. Erano le zie impiccione la causa per cui lui voleva vedere Ofelia da sola. Le zie.
Non perché voleva un po’ di… una parvenza di intimità con lei.
Bugiardo, ancora.
- Come?
Ofelia era brillante, in certi momenti, più arguta di chiunque altro. Eppure, in altri momenti era ottusa e lenta di comprendonio come un bambino.
- Vi sto dando appuntamento – chiarì, professionalmente. – Un appuntamento ufficiale da futuro marito a futura moglie. Siete ancora in linea?
Non era sicuro di poter ripetere nuovamente quelle parole, sperava proprio che avesse sentito.
- Sì, sì, vi sento – bofonchiò lei, un po’ risentita e un po’… attonita? L’aveva presa alla sprovvista? Non sembrava propriamente disgustata all’idea. Ma Thorn non era bravo ad interpretare gli stati d’animo altrui dal tono di voce, specialmente se si trattava di Ofelia. – Ma perché vederci? Vi ho appena detto…
- Molto semplicemente, - minimizzò, interrompendola, - non possiamo permetterci di essere nemici. Mi state complicando la vita col vostro rancore, - eccome se gliela stava complicando, - dobbiamo assolutamente riconciliarci. Io non posso entrare nel gineceo. Venite a trovarmi all’intendenza, insultatemi, schiaffeggiatemi, rompetemi un piatto sulla testa, se volete, poi non parliamone più.
Thorn non avrebbe mai e poi mai pensato che tali parole potessero uscire dalla sua bocca con tale facilità e convinzione. Non le aveva quasi pensate, erano fluite di getto. Ed erano vere. Piuttosto di sapere che Ofelia era ancora arrabbiata si sarebbe fatto picchiare. Si immaginò davvero seduto lì, com’era, con gomiti sulla scrivania e il mento appoggiato sulle mani, mentre riceveva senza nemmeno sobbalzare il colpo inferto alle sue spalle da Ofelia, con un piatto in mano. Non la immaginava capace di compiere un tale gesto, ma si vedeva immobile, arrendevole, pronto ad incassare.
Ofelia era forse l’unica persona al mondo della quale non era disposto a tollerare l’arrabbiatura perenne. Non era proprio in grado di sopportarlo.
Tra tutte le ferite e i danni morali che gli erano stati inferti con malvagità, l’ira di Ofelia, la sua disapprovazione nei suoi confronti, era la più dolorosa in assoluto. Avrebbe fatto di tutto per riconciliarsi. Si sarebbe prestato davvero come zerbino.
Si affrettò a prendere l’agenda, con il bisogno impellente di fissare un appuntamento con lei. Di riflesso, si incastrò la cornetta contro la spalla e tirò fuori anche l’orologio da taschino, che aprì di fronte a sé, mentre sfogliava in fretta le pagine dell’agenda, tutte riempite fitte di appuntamenti.
- Scegliete voi il giorno. Per me andrebbe bene giovedì. Diciamo… tra le undici e mezzo e mezzogiorno. Posso segnarlo sull’agenda?
Non aveva mai concesso una mezz’ora a nessuno. Nemmeno ai funzionari più illustri o alla zia. Ofelia avrebbe dovuto esserne onorata.
In risposta, ottenne solo la linea caduta.
 
Thorn rimase immobile con la cornetta premuta contro l’orecchio per un lungo minuto, cercando a fatica di metabolizzare quanto appena accaduto. Ofelia aveva accettato?
Cosa volevano dire quei battiti regolari della linea caduta? O meglio, interrotta?
Decise che glielo avrebbe chiesto all’appuntamento. Si chiese cosa scrivere sull’agenda. “Appuntamento con la fidanzata”? “Riconciliazione pre-matrimoniale”? No, quest’ultima suonava estremamente fraintendibile. Optò per scrivere solo “Ofelia”.
Rimise a posto l’orologio da taschino, sistemò i gemelli e il colletto della camicia, si lisciò i capelli.
Tornò padrone di se stesso.
Cercò di tornare padrone di se stesso.
Per la prima volta nella sua vita, non era padrone di nulla.
Prime in lista, delle sue emozioni.
 
Ofelia non si presentò all’appuntamento.
Thorn l’attese per trentacinque minuti, con l’anta dell’armadio aperta, una caffettiera calda sulla scrivania e due tazzine. Il caffè le piaceva, di quello era certo. Ricordava ancora quando aveva bevuto il suo, una notte di tanto tempo prima.
Troppo tempo prima.
Fumò la pipa, e attese.
Sistemò la scrivania già perfettamente in ordine, impeccabile, simmetricamente ineccepibile, e attese.
Si rassettò i vestiti già stirati e inamidati, e attese.
Controllò persino di aver scritto correttamente giorno e ora, e che corrispondessero a quella precisa data.
Thorn attese.
Invano.
Passati i trentacinque minuti, ben cinque più di quanto avesse preventivato, si rimise al lavoro, chiamando il segretario per dargli alcuni ordini.
A fine giornata, quando anzi erano le prime ore del nuovo giorno, Thorn si sedette sul divanetto di pelle logoro, sotto la finestra che dava sull’esterno. Attese la fine della notte, la fine della sua notte, ma Ofelia non arrivò. La aspettò proprio lì dove lei una volta lo aveva trovato seduto, quando era andata a trovarlo; quando ancora non lo odiava; quando lo assillava con le sue inesauribili domande.
Ofelia non arrivò. Il cuore di Thorn risprofondò nell’oblio da cui quei sentimenti appena sbocciati come un fiore lo avevano fatto riemergere. Fece più male del solito, più male che in passato, più male di quando era piccolo e certe cose ancora non le poteva somatizzare.
Fece un male atroce.
 
Thorn si rialzò dal divanetto, chiuse l’anta dell’armadio e si sedette alla scrivania, pronto per un altro giorno di lavoro.
Fumò un’altra pipa, lesse il giornale e bevve il caffè, si lavò nel piccolo bagno attiguo. Stava per aprire la porta al primo appuntamento del mattino quando si fermò.
Senza esitazione, riaprì l’anta dell’armadio.
Ormai non gli importava più delle convenzioni, Ofelia poteva andare a trovarlo quando voleva. Avrebbe annullato ogni appuntamento.
Bastava che andasse da lui. Gli bastava vederla.
 
Ofelia non andò. Non richiamò.
E Thorn continuava ad attendere. Paziente.
  
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