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Autore: Lady I H V E Byron    21/06/2020    0 recensioni
(DescendantsXKingdom Hearts crossover)
Auradon è stata distrutta da creature oscure chiamate Heartless: i sopravvissuti decidono di divenire custodi dell'arma chiamata Keyblade per difendere ciò che è rimasto loro. Ma dovranno superare una prova...
(Un AU in cui gli eventi ed i personaggi di "Descendants" si incrociano con quelli di Kingdom Hearts. Un AU dove i personaggi di Descendants hanno vissuto nei mondi dei loro genitori fino ad essere condotti o abbandonati da essi su Auradon o nell'Isola degli Sperduti. Un AU dove Auradon non è un regno, ma un mondo. Un AU in cui, ad ogni capitolo, verrà raccontata la storia di ognuno dei personaggi principali di Descendants.)
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Organizzazione XIII, Riku, Sora, Terra, Yen Sid
Note: AU, Cross-over, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Jay's Dive Into The Heart

https://www.youtube.com/watch?v=yq_9-uJOCGs

A Jay piaceva nuotare. Anche fare immersioni.
Ma non era proprio acqua quella in cui stava sprofondando.
Era l’Oscurità.
Ma sentiva qualcosa, sulla sua pelle, che gli dava l’impressione di essere in acqua.
“Dove mi trovo…?” pensò, mentre riapriva gli occhi.
Sentiva i lunghi capelli castani solleticargli le guance. Chad e Doug, con l’inizio degli allenamenti con il Keyblade, avevano deciso di tagliarseli, ma lui non voleva. Gli piacevano lunghi. Anche se, di tanto in tanto, si impigliavano nei bottoni della tenuta di allenamento.
Una luce gialla proveniente dal basso lo spinse a voltarsi: era una piattaforma d vetro colorato. C’era lui, con i suoi amici Mal, Evie e Carlos, Jasmine e sua madre.
Atterrò su di esso con delicatezza.
-È forse questo… il Tuffo nel Cuore…?- mormorò, guardandosi intorno.
Il buio gli metteva i brividi. Quel buio in particolare.
Era da solo. E senza armi. Ma se riusciva a superare quella prova, avrebbe ottenuto il suo Keyblade.
Yen Sid non aveva detto nulla su cosa avrebbero affrontato. Solo che sarebbero entrati ognuno nel proprio cuore e superato delle prove. Avrebbero affrontato loro stessi, da un certo punto di vista.
Il loro cuore proponeva loro gli ostacoli da superare.
-Possa il vostro cuore essere la vostra chiave guida.- aveva detto, prima che ognuno di loro iniziasse il proprio Tuffo nel Cuore.
Jay pensò a quella frase.
-Ma cosa vorrà dire? Mah. A volte quello parla per indovinelli.-
Alzò lo sguardo: non era da solo, in quella piattaforma.
Vide di fronte a sé una sagoma familiare.
-Mamma?!-
Sua madre. La concubina di suo padre.
Come la ricordava. Con i suoi lucidi capelli neri color della notte, gli occhi pieni di amore e affetto ed un sorriso dolce che poteva addolcire un cuore di pietra. Ma non un cuore oscuro come quello di Jafar.
-Di cosa hai più paura?-
-Cosa? Che domanda è? Cosa fai qui, mamma? Io ti ho vista, nella sfera del Castello dell’Oblio! Eri morta! Come puoi essere qui?-
Lei non rispose: continuava a fissare il ragazzo, ma era come se stesse fissando il vuoto. Il suo sguardo era dolce, ma assente.
-Mamma…? Stai bene…?-
Jay era confuso. Perché sua madre non stava rispondendo? Perché non si stava muovendo? Se fosse stata quella vera, avrebbe abbracciato subito il figlio.
Fu lui a fare il primo passo, ma le sue braccia oltrepassarono il corpo della donna di fronte a lui.
Solo allora comprese: quella non era sua madre.
-Oh, ecco a cosa si riferiva Yen Sid…- si morse entrambe le labbra; rispose alla domanda della “madre” –Essere incapace di proteggere i miei amici.-
La donna svanì. Esattamente come era “svanita” il giorno in cui era stata annunciata la sua scomparsa, al Palazzo Reale. Come se non fosse mai esistita. Per colpa di suo padre Jafar.
Infatti, Jay lacrimò. Perdere sua madre era stato un colpo troppo forte per lui. Era un bambino, allora, ma portava ancora quel peso nel petto. E scoprire che era stato suo padre a portarla via da lui non faceva altro che aggravarlo.
Accanto alla piattaforma era comparso un sentiero fatto anch’esso di pietre colorate. Conduceva verso un’altra piattaforma, pieno di vetrate gotiche.
C’era sempre raffigurato lui, sulla piattaforma. Quella piattaforma era il suo cuore. E ciò che lo legavano alla Luce, nonostante fosse il figlio di una persona malvagia che aveva ceduto all’Oscurità.
Notò un’altra sagoma familiare a lui.
-Jazy?!-
Jasmine. Così la chiamava, quando era piccolo.
La sua migliore amica dell’infanzia. Per lui come una sorella maggiore. Lei era sempre premurosa con lui. Esattamente come lui era premuroso con i suoi amici.
Come sua madre poco prima, anche lei lo stava osservando con sguardo dolce, ma assente.
-Cosa è più importante per te?- domandò.
Lui non indugiò sulla risposta.
-I miei amici.-
Doveva salire sull’ultima piattaforma. L’ultima domanda.
Vide un bambino. Lo stesso bambino che notava nelle sue fughe dal Palazzo Reale che riusciva a rubare della frutta dai banchi senza farsi vedere. Lo ammirava. Per lui era il simbolo della libertà. Senza regole, senza restrizioni, senza obblighi. Eri padrone di te stesso.
Yen Sid gli aveva rivelato che il suo nome era Aladdin. Sora, l’Eroe del Keyblade, lo aveva aiutato più di una volta contro gli Heartless, contro Jafar e salvare Jasmine. Anche lui era grato a Sora.
Ma Jay lo ricordava ancora bambino. Aladdin, Jasmine, sua madre, li aveva visti esattamente come li ricordava.
-Cosa ti aspetti dalla vita?- gli domandò Aladdin bambino.
Molte cose, avrebbe risposto Jay. Ma una risposta ce l’aveva.
-Essere una persona migliore di mio padre. E tornare, anche per un giorno, ad Agrabah.-
Aladdin scomparve. E una porta apparve al suo posto. Ma di fronte a Jay era apparso anche un oggetto etereo, quasi trasparente: una frusta.
“Sei a metà del tuo viaggio, Jay…” disse una voce, nella sua mente “Il viaggio che hai deciso di percorrere per vendicarti di tuo padre per la sorte subita da te e tua madre. La vendetta conduce all’Oscurità.”
-Lo so, ma non posso permettere che lui agisca impunemente per quello che ha fatto!-
“Un’altra persona ha compiuto giustizia al tuo posto. Ma lui ancora non è stato eliminato del tutto. Se le vostre strade si rincroceranno, dovrai compiere una scelta.”
-Una scelta?-
La voce tacque.
-Andata…- sospirò il ragazzo.
Notò la porta.
-Beh, tanto vale buttarsi…-
La aprì, restando accecato da una luce brillante.
La prima prova del Tuffo era superata. Doveva affrontare l’ultima. La più ardua.
Jay riaprì gli occhi: si trovava in un ampio salone. Pieno di tappeti ed arazzi. E statue dorate.
Ed un trono in mezzo.
-Sono a casa?- si stupì.
Era nel Palazzo Reale di Agrabah. Era nel suo mondo d’origine.
Quel luogo gli fece ritornare in mente i momenti che passava in compagnia di Jasmine: il sultano permetteva ad entrambi di giocare nella sala del trono. Il sultano era sempre stato buono con Jay. Lo trattava come un figlio. E Jay aveva sempre ammirato il sultano.
Toccò una colonna: amava ancora il liscio del marmo. Fu una sensazione quasi nostalgica, collegata a quando giocava a nascondino con Jasmine.
Non aveva toccato quelle pareti di marmo da quasi dieci anni.
Rise, ma versò anche qualche lacrima di nostalgia.
Gli mancava Agrabah. Non avrebbe mai pensato che gli mancasse la sua vecchia vita. Amava la vita che conduceva ad Auradon e non gli dispiaceva quella attuale, ma aveva come sotterrato il suo cuore ad Agrabah. Era il suo mondo d’origine, dopotutto. Erano solo suo padre Jafar, quel chiacchierone di Jago e la costrizione all’interno del palazzo le uniche macchie nella sua vita. Ma Jasmine, il sultano, sua madre, erano le sue luci che occultavano quelle macchie.
-Ti mancava, non è vero?-
Quella voce lo fece sussultare e distogliere dai suoi pensieri del passato.
Nello stesso punto in cui era solita apparire Jasmine, ogni volta che giocavano a nascondino, apparve un ragazzo vestito di nero ed un turbante piumato sulla testa.
In mano, aveva un bastone a forma di serpente.
Ma non era suo padre a tenerlo. Era lui stesso.
Aveva visto se stesso, negli stessi abiti del padre.
Anche l’altro se stesso stava sfiorando il marmo con le dita delle mani.
-E dire che, se il precedente sultano nostro nonno avesse riconosciuto nostro padre come suo figlio, tutto questo poteva essere nostro…- sibilò l’altro Jay, con voce maliziosa, esattamente come suo padre Jafar –Anzi, se non ti avesse esiliato, avrebbe convinto il sultano a sposare Jazy con noi e divenire sultani a nostra volta.-
Aveva visto anche questa realtà, nella sfera del Castello dell’Oblio. Una realtà in cui lui si era sposato con Jasmine, ma Jafar era comunque riuscito ad uccidere il suo stesso figlio, la nuora ed il consuocero per governare su Agrabah.
Se Xehanort non gli avesse proposto un piano per ottenere quel tipo di potere che tanto ambiva.
Jay arretrò, sospetto. Quel ragazzo aveva il suo stesso volto, ma non poteva essere lui.
-Chi sei tu…?-
-Come chi sono? Io sono te.- fece un giro su se stesso, per pavoneggiarsi di fronte al vero Jay –Non mi dona la mia mise da sultano? Forse è un po’ larga, ma almeno sono libero di muovermi come voglio. Niente da dire sul tuo completo, comunque. Solo… non è idoneo per un legittimo sultano.-
-E chi ti dice che sia il legittimo sultano di Agrabah?- ribatté il vero Jay –L’uomo che chiamavo padre era un figlio bastardo. E i bastardi non devono governare Agrabah. E anche io sono un bastardo, dopotutto. No, le cose vanno bene così come sono.-
L’altro strizzò lievemente gli occhi, serio.
-Jay, da quanto non metti piede ad Agrabah? Dieci anni?- sibilò, avvicinandosi a lui –Su cosa ti basi per dire queste cose? Sulle parole di uno stregone? Cosa ti fa credere che le cose stiano bene, ad Agrabah? Guarda qui fuori.-
Si erano affacciati dal grande balcone. Jay e Jasmine giocavano sempre lì, quando il sultano riceveva diplomatici o sudditi, o, altrimenti, chiamava la madre di Jay e faceva accompagnare i bambini nella stanza della principessa.
Dieci anni prima, Jay vedeva sempre un’Agrabah fiorente, in pace.
Ma, in quel momento, vide un’Agrabah completamente in rovina, vuota, come se fosse scoppiata una guerra interna.
-La nostra “sorella” Jazy sta per sposare un tizio a cui non importa divenire sultano. Uno cresciuto dalla strada, oltretutto!- rivelò l’altro Jay, indicando la città –Lui non ama le prigioni. Vuole essere libero! Ma credi che nostra sorella glielo permetta? O il sultano? Lo costringeranno a seguire regole che non rispetterà. La sua responsabilità sarà tale da farlo cadere nel dubbio e nell’oppressione. Sarà completamente incapace di governare Agrabah, a tal punto da farla insorgere dall’interno. Questa che vedi, è un’Agrabah governata dall’uomo che ha eliminato nostro padre! L’eroe della città! Uno straccione, un topo di strada! Se fosse nelle nostre mani…-
-…potrebbe persino essere peggio…- concluse Jay, sgomento da quello spettacolo; guardò l’altro, un misto tra rabbia e paura –No, non credo a quello che dici. La città che vedo di fronte… può essere solo come poteva diventare se Aladdin e Sora non avessero fermato mio padre. Aladdin non è incapace, lo so.-
-Oh…- aveva usato un tono da falso innocente –Dici così solo perché ha aiutato un Eroe del Keyblade contro un malvagio?- strinse sempre più la presa sul bastone -Svegliati, Jay. Combattere un male non ti rende automaticamente degno di governare un’intera città.-
-E nemmeno disporre di un potere distruttivo, come quello di nostro padre.- Jay si era fatto sempre più cupo.
-Chi ha il potere, comanda. È la prima regola.-
-Ma non ti rende un buon sovrano.-
-Bisogna anche avere sangue reale.- si era avvicinato a quello vero, mettendo una mano sulla sua spalla -Ed è quello che abbiamo anche noi, Jay. Nostro nonno era un sultano. E noi siamo suoi nipoti. La città è nostra di diritto.-
Gli aveva persino indicato l’anello che portava al dito: l’anello di Jafar. Entrambi i Jay lo avevano.
Per uno segno di orgoglio e diritto di regnare su Agrabah, per l’altro solo come monito per adempiere la sua vendetta e per ricordarsi del suo mondo d’origine.
-No, il diritto spetta a Jasmine.- disse quello vero, distogliendo lo sguardo dall’anello -Io non sono ambizioso come mio padre. Non saprei nemmeno da dove cominciare. No, è meglio così. Jasmine sarà una regina migliore di me. E con Aladdin al suo fianco la città non può fare altro che prosperare. Lo so perché lo sento. E lo sai anche tu.-
La stretta sul bastone si faceva sempre più forte. Come lo sguardo dell’altro Jay sempre più deluso.
-Tu ancora resisti!- esclamò, battendo quel bastone per terra; si scatenò un’onda d’urto che fece cadere quello vero –Avrai quello che ti spetta, Jay!- sibilò, avvicinandosi a lui -E lo vorrai a tutti i costi, che ti piaccia o no!- agguantò quello vero e gli mise il bastone a pochi centimetri dagli occhi; gli occhi del bastone si erano illuminati di rosso, con delle spirali bianche. Erano magnetiche. Il vero Jay avvertì la tentazione di osservarli senza sbattere le palpebre.
-Tornerai ad Agrabah e rivendicherai il tuo posto al trono.- sibilò l’altro Jay; quella voce entrò nella testa del vero.
-Tornerò ad Agrabah…- ripeté, con voce atona e piatta -…e… rivendicherò…-
Non poteva finire la frase: sarebbe stato alla mercé di se stesso.
Ma quello era il suo cuore. E quella non era la vera Agrabah. Ogni giorno temeva cosa sarebbe capitato alla sua città, con il potere che suo padre aveva ottenuto dall’uomo chiamato Xehanort.
Quella città era solo il riflesso dei suoi timori.
Lo aveva compreso dal primo momento in cui l’aveva notata. Yen Sid, giorni prima, gli aveva mostrato Agrabah, su sua richiesta. Aveva visto Jasmine, Aladdin, il sultano, persino il Genio amico di Aladdin. Erano sereni. E la città era tutt’altro che in rovina.
Con quel pensiero in testa, Jay riuscì a chiudere gli occhi ed a spezzare l’incantesimo del bastone.
-No!- esclamò, dando un calcio all’altro e toccando la sua mano.
L’altro Jay scattò all’indietro, urlando di dolore: la sua mano era ustionata, a causa di un incantesimo di fuoco di quello vero.
-Possa il tuo cuore essere la tua chiave guida…- Jay aveva raccolto il bastone a serpente –Ora ho capito cosa intendeva il mio maestro. Ho visto la vera Agrabah. È in pace. E Jasmine… non l’ho mai vista così felice in tutta la sua vita. Ho tenuto quella visione nel cuore. Ed è stato il mio cuore a dirmi che quello che ho visto era vero. Niente che abbia a che vedere con la tua illusione! O la tua maledetta magia!-
Aveva alzato il bastone per aria, con lo scopo di distruggerlo. L’altro stava implorando con lo sguardo di non farlo.
Ma il bastone si era completamente illuminato: questo fermò il vero Jay.
Stava mutando forma: la coda si stava incrociando con il suo polso, formando un’elsa ed un’impugnatura. E la testa del serpente si era fatta leggermente più grande ed aveva aperto la bocca, mostrando le zanne.
Un Keyblade.
Il suo Keyblade.
Aveva superato un’altra prova.
Questo fece infuriare l’altro Jay.
-Credi che questo inconveniente mi fermi, Jay?!- esclamò, deluso –Hai dimenticato che io sono te?! E se tu hai dei poteri, li ho anche io! Ma io sono più potente di te!-
I suoi occhi erano diventati gialli e le pupille si erano strette verticalmente. E mentre parlava, una lingua strana era uscita dalla sua bocca, una lingua biforcuta.
Stava diventando più grande e la sua pelle era sempre più squamosa.
Jay arretrò di un passo, terrorizzato: l’altro Jay si era trasformato in un cobra gigante. Come aveva fatto lui stesso contro il ragazzo di nome Axel, nella sua avventura nel Castello dell’Oblio.
Lì aveva scoperto di detenere i poteri del fuoco.
Ma in quel momento stava per affrontare se stesso in forma di cobra gigante.
-Andiamo, Jay!- si disse, per darsi forza e coraggio –Puoi farlo anche tu! Lo hai fatto una volta e lo puoi fare di nuovo!-
Cercò di concentrarsi, pensando ai sentimenti che aveva provato quel giorno. Alla rabbia, in particolare. Non ci riusciva. La paura di se stesso lo stava deconcentrando.
Jay-cobra si era avvicinato a quello vero con uno scatto, e, con lo stesso movimento, sferrò un attacco di fauci.
Il vero Jay saltò all’indietro, evitando l’attacco.
Non era la prima volta che impugnava una spada: sperò che l’addestramento con la spada, ad Auradon, desse i suoi frutti. Ma quel Keyblade era pesante. Più della spada cui era abituato.
Ma non doveva mostrare la sua difficoltà o l’altro se stesso avrebbe vinto.
Jay scappava, evitando ogni attacco del cobra. Non gli lasciava occasione per contrattaccare.
L’ultimo attacco dell’altro se stesso danneggiò persino una colonna: i suoi denti erano ancora integri.
Ma Jay ancora non riusciva a colpirlo con il Keyblade.
“È troppo veloce.” pensò, nascondendosi dietro una colonna; essa non fu un ostacolo per il cobra, che la distrusse; Jay dovette eseguire una capriola per non rimanere schiacciato dai detriti “E i suoi denti possono persino perforare il marmo. Cosa faccio?”
Nascondersi si era rivelato inutile: ogni ostacolo o nascondiglio veniva abbattuto. La sala del trono era piena di detriti ed arredamenti distrutti.
Jay non aveva più alcun posto in cui nascondersi.
-Io sono te, stupido!- esclamò il cobra, sicuro –Conosco i tuoi modi di agire e anche i tuoi punti deboli! Non puoi sconfiggermi!-
Jay si sentiva con le spalle al muro. Non poteva contrattaccare. E non c’erano più nascondigli. L’altro se stesso gli aveva inibito i suoi punti forti.
Ma aveva detto una cosa giusta: erano la stessa persona. Stesse debolezze, stessi punti di forza.
Jay doveva fare qualcosa che non era solito fare: cercare una strategia. Era Mal la stratega. Doveva prenderla ad esempio e sperare di affrontare se stesso.
Schivando l’ennesimo colpo di coda, trovò una probabile via d’uscita: un arazzo, rovinato dalle zanne del cobra. E si trovava proprio sotto di esso.
Fece una capriola di lato e lanciò il Keyblade.
Il cobra rise.
-Non sei bravo nei combattimenti a distanza, Jay! Mi hai mancato in pieno!-
Ma non era al cobra che Jay aveva mirato: le corde dell’arazzo si erano tagliate con il Keyblade, ed esso cadde sul cobra, accecandolo.
-Ahh! Maledetto! Maledetto!- imprecò, scuotendo la testa –Dove sei?!-
Jay rise: era uno spettacolo buffo da vedere.
-Ora non fai più il gradasso, eh, ragazzone?- derise; puntò il cobra con il Keyblade –Se giochi col fuoco, ti scotti e basta.-
Inaspettatamente, dalla bocca del serpente-Keyblade uscì una potente fiamma, che colpì l’arazzo. Di conseguenza, ferì Jay-cobra, che urlò.
Quello vero fece dei passi indietro, allarmato, ma anche sorpreso dal suo potere.
-Caspita!- commentò, osservando il suo Keyblade –Che fiammata, gente. Questo potenzia il mio potere! Forte!-
Il cobra si stava ancora dimenando per togliersi dal muso l’arazzo in fiamme. Alla fine, riuscì a liberarsi.
L’arazzo ancora in fiamme cadde per terra. Lasciò dei chiari segni di ustione sul muso del cobra.
-Guarda cosa mi hai fatto, maledetto!- esclamò, aprendo le fauci, diretto al vero.
Lui saltò lateralmente e colpì la testa con il Keyblade, puntando ad un occhio.
Il cobra urlò di nuovo: il sangue scendeva dal globo oculare.
Qualche goccia cadde anche su Jay: deteriorò una parte della sua tenuta da allenamento, toccando anche la pelle. Bruciava, come acido solforico.
Scorreva letteralmente del fuoco nelle sue vene.
Ma era ustionato e mezzo cieco. Era indebolito. Il ragazzo sentiva la vittoria in pugno.
Avrebbe superato la prova.
Era diretto dall’altra parte della testa, per colpire l’altro occhio, ma un rapido colpo di coda lo bloccò.
Jay si ritrovò tra le spire di quel cobra gigante.
Era l’altro che stava ridendo, in quel momento.
-Davvero credevi di sconfiggermi in questo modo, Jay?!- sibilò, con tono derisorio –Io sono più forte di te! Sono la parte di te che non stai accettando! Una parte che può renderti più forte! Non ti serve un Keyblade per proteggere i tuoi amici! Basta il tuo potere! Devi solo accettarmi e cedere all’Oscurità! Come nostro padre!-
Come suo padre. Aveva ucciso la concubina ed esiliato il figlio per il potere. Jay non avrebbe mai ripetuto il suo errore: non avrebbe mai messo il potere prima delle persone che amava. Voleva, piuttosto, usare il potere per difendere coloro che amava.
Era per questo che si era tenuto l’anello: per ricordarsi cosa contava di più per lui. Per non ripetere gli errori del padre.
-Io… sono…- rantolò, soffocato dalle spire; si stava dimenando, per liberarsi -Molto meglio… di te… e… di Jafar!-
Si erano elevate delle fiamme intorno a lui, che ustionarono quel lato del cobra, che urlò di nuovo di dolore.
Jay si era finalmente liberato. Corse verso il trono.
-Come osi?!- protestò il cobra, inseguendolo.
Cercò nuovamente di colpirlo con un altro attacco con le fauci, ma batté la testa contro il muro: Jay si era schivato in tempo.
Dei calcinacci caddero sulla testa dell’altro Jay. Ma la rabbia non gli fecero provare dolore.
Il vero Jay osservò l’altro se. Poi osservò il soffitto: c’erano delle crepe, dovute alle continue testate del cobra.
Bastava poco.
Tutto sarebbe crollato.
Jay serrò le labbra: doveva tentare.
Attese un altro attacco dal cobra.
Schivò con un salto un colpo di coda. Puntò il Keyblade in alto: una sfera di fuoco colpì il soffitto.
Le crepe si unirono tutte.
Anche l’altro Jay, in procinto di deridere nuovamente la mira del vero, guardò in alto.
Il vero obiettivo di quello vero.
-No!- urlò, prima che un grosso pezzo di calcinaccio cadesse sulla sua testa, schiacciandola.
Sconfitto.
Jay rise, per scaricare l’adrenalina.
Sentì una sensazione di leggerezza nel suo cuore. Non sapeva spiegarsi perché.
Ma il suo sorriso svanì quasi subito: il palazzo stava crollando.
Jay avrebbe fatto la fine dell’altro se stesso, se fosse rimasto lì: corse verso il balcone, per sfuggire ai calcinacci.
Ma anche il balcone era pieno di crepe. Si stava sbriciolando.
Non poteva scappare. Non c’era via d’uscita.
Cadde insieme al balcone. In mezzo ai calcinacci.
Temette fosse la sua fine.
Ma Agrabah era svanita non appena era caduto nel vuoto. Era tornato nel buio.
Era un’illusione.
Quella era la sua prova. E l’aveva superata.
Aveva affrontato la sua rabbia e la sua brama di vendetta.
Sconfiggendo se stesso era come aver sconfitto suo padre.
Questo spiegava quel senso di leggerezza nel suo petto…
 
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It's good to be bad
And we're proof of that
Used to be lost, now we're on the map
   
 
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