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Autore: paige95    22/06/2020    6 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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Giornalismo di guerra[1]


 
Egli non vive forse anche sotto terra, quando sarà per lui impercettibile l’attrattiva della vita se può risvegliarla nella mente dei suoi con nobili preoccupazioni? Questa corrispondenza di sentimenti amorosi è divina, è una dote divina negli uomini; e grazie a essa si vive con l’amico morto e il morto con noi, se la sacra terra che lo ha accolto neonato e lo ha nutrito, offrendo l’ultimo asilo nel suo grembo materno, renda intoccabili i resti dalle offese degli agenti atmosferici e dal piede profanatore degli uomini, e un sasso conservi il nome, e un albero amico profumato di fiori consoli le ceneri con le ombre gradevoli.[2]
 
 
San Diego, 26 agosto 2018
 
 
Dicevano che i fiori sulle lapidi fossero simbolo di vita. Così dicevano. Katherine in un cimitero aveva trovato sempre tutto tranne uno spiraglio di speranza. Da quando Christian era partito, si occupava lei di porgere ogni settimana un paio di fiori freschi ai piedi della lapide dei suoceri, sopra i fili d’erba rigogliosa, giovane, tinta di un verde chiaro e ordinata impedendo che crescesse selvaticamente. Suo marito prediligeva le rose bianche, sosteneva rispecchiassero la loro anima; Katherine non poteva sapere se fosse vero, ma se avevano posseduto la metà del cuore del padre di sua figlia, significava che erano state persone straordinarie. La donna si premurava di rimuovere la polvere posata sul marmo e sul vetro della foto; Christian non le aveva chiesto di farsi carico di quel compito, era per lei implicito che si sarebbe impegnata in sua assenza.
Era assurdo il destino, doveva essere stato congeniato da una mente poco razionale; due genitori che avevano amato il figlio finché era stato loro possibile giacevano sotto un metro di terra – idealmente, visto che i loro corpi non erano più stati recuperati –, mentre i coniugi Scott non avanzavano il più piccolo passo di compromesso per avvicinarsi alla figlia – se non fisicamente, almeno con il pensiero.
Katherine sfiorò con un panno umido le lettere dei loro nomi e i numeri delle date in rilievo; alcuni, dopo più di vent’anni, erano traballanti, così impiegò maggiore cura nel pulire. Quando morirono, la madre di Christian aveva poco più di quarant’anni, mentre al consorte non era stato concesso il tempo di compierli; erano solo i giovani genitori di un adolescente che necessitava del loro modello per diventare adulto, esempio che Christian non aveva permesso che si disperdesse nelle acque profonde dell’Oceano Pacifico. Le iridi azzurre del compagno di vita di Katherine assumevano la conformazione tormentata delle onde in alta marea ogni volta che li citava o venivano citati davanti a lui; cedeva persino davanti alla piccola di casa, quando chiedeva con ingenuità loro notizie. Le domande della bambina sorgevano spontanee dal confronto con i nonni materni, che aveva sentito e visto talmente in poche occasioni da poterle contare sulla punta delle dita di una mano, ma non poteva capire quanto i nonni in vita valessero meno rispetto a quelli defunti. Sarebbero impazziti per nostra figlia, Kathe, glielo ripeteva sempre con gli occhi fumosi dal sale e un macigno nel petto, ma non mancava mai di ricordarlo quando il suo cuore di padre era gonfio per la gioia e l’orgoglio. La ami così tanto, che non fai mancare ad Alis nemmeno il loro affetto, puntualmente lei gli rispondeva con dolcezza sperando che la presenza della sua nuova famiglia lo confortasse.
Christian somigliava tanto ai suoi genitori e non solo moralmente; ogni volta che Katherine contemplava la foto sulla lapide dei due coniugi, immortalati in uno degli ultimi momenti della loro vita insieme, provava un brivido lungo la spina dorsale; avevano pressappoco la sua età quando erano deceduti, il tempo non aveva avuto l’opportunità di segnare i loro volti e di sfiorire la loro bellezza. Christian portava sul viso gli stessi tratti del padre e gli occhi celesti della madre, caratteristiche che peraltro attraevano Katherine dal loro primo incontro.
La donna aveva deciso di non farsi accompagnare da Alisia in occasione di quella visita ai parenti defunti, William le aveva fatto la cortesia di intrattenerla al parco; Christian non la portava mai sulla tomba dei nonni, le raccontava solo che erano rimasti in cielo dopo un viaggio tra nuvole perché erano soffici e morbide rispetto alla Terra; era d’altronde la stessa scusa che aveva sempre raccontato a se stesso – specie prima di conoscere sua moglie –, certo con altre parole, ma che senso aveva tornare a soffrire in vita quando si era trovata la scusa buona per scappare.
Dopo aver assolto al dovere dell’anima, Katherine si inginocchiò davanti alla lapide a qualche passo di distanza e si rivolse alla foto che per l’eternità avrebbe solcato il marmo bianco e opaco. Erano gli angeli di suo marito, gli unici di cui conoscesse il nome e a cui rivolgere una preghiera diretta; memore dei ricordi di Christian, era certa continuassero a dimostrarsi ottimi genitori anche tra la volta celeste grazie alle loro anime pure. La giovane signora Richardson consentì ad una scia salmastra di percorrerle la guancia fino al mento; non si era trattenuta, in quel luogo in assenza della sua bambina non serviva. Era tutt’altro che semplice riscoprire la forza necessaria, quando si palesava davanti agli occhi il rischio concreto di perdere il compagno con il quale aveva costruito la sua vita in California; non riusciva nemmeno a prendere in considerazione che nell’immenso cimitero di San Diego si aggiungesse accanto alla lapide di quelle due anime quella di un altro giovane uomo – stavolta del suo uomo –, dopo che la sua vita fosse stata tragicamente spezzata.
Lo sguardo basso di Katherine era oscurato dalle palpebre e dai lunghi capelli nocciola riversi dalle luci insidiose del mattino; le mani congiunte in un intreccio di falangi all’altezza delle cosce e la mente erano raccolte in preghiera. Lo squillo del suo cellulare venne attutito dalla stoffa della borsetta dentro cui era stato riposto; si era dimenticata di silenziare la suoneria, ma non era quello a premerla di più, visto che sullo schermo il numero risultava sconosciuto. Dopo una settimana di silenzi da parte di suo marito, la stava contattando un numero che lei non conosceva; ciò non poteva essere di buon auspicio. Non seppe nemmeno lei dove trovare il coraggio di premere verde; lo fece ringraziando Dio che non fosse accanto a sé la figlia, avrebbe notato l’inconfondibile tremore che aveva percorso il suo corpo e la sua anima; non aveva memorizzato il numero dell’ambasciata e temeva fossero loro a chiamarla per comunicarle notizie nefaste.
«Pronto. Chi parla?»
 
Ospedale da campo – Kabul, 27 agosto 2018 (ora locale)[3]
 
 
La mente di Christian non era ancora del tutto vigile, ma i sensi avevano iniziato a sciogliersi dall’intorpidimento. Ebbe la sensazione di aver dormito a lungo; il medico che lo aveva operato era ricorso all’anestesia, ma quantomeno aveva consentito che si risvegliasse.
Il capitano aveva la gola secca e la parte inconscia del suo cervello era ancora catturata da ricordi lontani, come era solito fare nei momenti più turbati della sua vita, lasciò che il suo personale balsamo agisse sul cuore; i desideri si erano camuffati dietro a sogni troppo nitidi per essere fittizi.  Aveva avuto paura di perdere la vita, per il semplice fatto che non possedeva alcuna esclusiva sulla sua esistenza. I volti della moglie e della figlia ricorrevano nel suo immaginario, in quel mondo effimero gli era lecito tutto, persino abbracciarle e sentire le loro voci. Solo il cielo era testimone di quanto necessitasse del timbro confortante di Katherine e dei sussurri con i quali lo faceva sentire l’uomo più amato sulla Terra. Gli mancava essere chiamato papà dalla sua bambina, come anche i passi felpati di Alisia quando correva tra le sue braccia ogni volta che varcava, giunta la sera, la soglia di casa. Soffriva di non poter godere della complicità delle donne della sua vita, nemmeno da lontano, forse più di quanto non patisse per la ferita fresca sulla spalla; bruciava sempre di più, la pelle intorno ai punti tirava, ma era solo un’ipotesi, visto che intorno alla scapola e al polso c’era una stretta fasciatura per fare in modo che non compisse movimenti bruschi e avventati.
Katherine aveva ragione, nove mesi erano esagerati e ancora più pesanti con le limitazioni imposte dal generale Flores. Quell’uomo non poteva conoscere il senso della mancanza; sarebbe stato interessante gettare uno sguardo sul suo passato, qualcosa doveva aver inaridito il cuore dell’ufficiale; l’anima del tenente Richardson però non aveva subìto la medesima influenza dal proprio tragico vissuto personale, perciò non riusciva a comprendere una simile freddezza verso il prossimo da parte del superiore.
Con il braccio libero Christian fece leva sulle lenzuola per potersi sedere, ma non sollevò le palpebre; era stata una mossa avventata, un capogiro lo colse alla sprovvista, forse frutto dell’anestetico. Avrebbe posato comunque la testa sul cuscino, ma il contatto con un palmo femminile sulla spalla sana lo accompagnò con dolcezza in quel gesto.
«Katherine»
Era una speranza pressocché nulla che la donna si trovasse al suo fianco, ma lo affascinava l’idea che lei potesse vegliare in qualche modo sul suo riposo, tormentato dai pensieri e dai dolori fisici.
«Mi dispiace, capitano, non sono sua moglie»
Christian lo sapeva già, la voce dispiaciuta del sottoposto era stata solo una conferma. Non puntò le pupille su di lei, anzi posò una mano sulle palpebre, come se la luce nel quale erano immersi fosse troppo intensa.
«Gwen, dove mi trovo?»
«Siamo ancora nell’ospedale da campo. Era in condizioni critiche quando è arrivato, come d’altronde la maggior parte delle persone che sono giunte qui dopo l’attentato. È stato perciò operato solo ieri per mancanza di spazio, attrezzature e personale. Stia tranquillo, è andato tutto bene»
Il soldato Ward aveva accennato un sorriso; fu quello l’incentivo offerto all’uomo per spalancare la vista sul luogo. Era sera, Christian se ne accorse dai neon di emergenza accesi sopra le loro teste; provò subito fastidio, le iridi iniziarono ad inumidirsi, benché la luce per chiunque altro fosse flebile.
«Ti prego, spegni la luce»
Gwendoline eseguì l’ordine, lasciando che l’imbrunire filtrasse oltre la plastica opaca che avrebbe dovuto fungere da finestrella per i raggi del sole e della luna, ma anche per l’aria. I sensi del capitano trovarono pace nell’ombra soffusa del satellite e ciò gli consentì di accorgersi del suo vestiario; aveva la giacca del tutto imbrattata di sangue e lacerata al centro con un taglio netto; di certo non avrebbe potuto pretendere che i suoi soccorritori ne avessero riguardo, gli avevano salvato la vita, era ciò che contava. La ragazza interpretò i pensieri del superiore, mentre sfiorava affranto i brandelli di stoffa dei suoi abiti; gli mostrò soddisfatta una giacca dai colori scuri e intonsa, aveva intuito che l’umidità della notte avrebbe potuto avere un effetto negativo su di lui.
«Mi sono permessa di recuperare la sua divisa alla base»
Christian ne fu lieto, era stato un pensiero gradito. Gwendoline tentò di aiutarlo, era necessario sedersi per cambiarsi, ma l’uomo negò con un sorriso sofferto l’aiuto della giovane recluta che dovette rassegnarsi ad assistere impotente alle sue difficoltà. Il soldato Ward credeva che l’ufficiale non fosse toccato da alcun difetto e invece dovette ricredersi, era testardo come pochi, anche quando il bisogno di un sostegno era evidente; era proprio curiosa di vedere come avrebbe fatto a spogliarsi con un’unica mano disponibile agli sforzi; incrociò le braccia al petto e si preparò ad intervenire, il suo supporto si sarebbe presto reso necessario. L’uomo tirò il polsino della divisa distrutta con la mano immobilizzata dalla fasciatura, ma il gomito gli impediva di far scorrere la manica; fece un paio di tentativi con maggiore forza, i muscoli contratti dolevano e fu una sofferenza inutile, fallì miseramente. Gwendoline si avvicinò, lo sovrastò; prima che lei potesse sfiorarlo, la voce severa di Christian le giunse all’orecchio a pochi centimetri.
«Faccio da solo, grazie»
«Non invidio sua moglie, capitano»
La ragazza si allontanò da lui muovendo un passo indietro. Era abituata ai modi burberi degli uomini in accademia, in caserma e al fronte, senza parlare del generale, ma il suddetto era sempre stato gentile con lei. Christian per primo si accorse di essere stato scorbutico, si passò un palmo sul viso mortificato.
«Perdonami, Gwen. Di solito non sono maleducato. Accetto volentieri il tuo aiuto, grazie»
La recluta gli rivolse un mezzo sorriso, non desiderava colpire il suo orgoglio, ma il bisogno di assistenza era innegabile; gli sfilò la giacca zuppa di sangue e gli infilò la divisa da Navy SEAL, iniziando dal braccio libero.
«Grazie per essere tornata in ospedale. Suppongo tu abbia privato l’unità di forza militare»
«La assisto da giorni, signore. Non si preoccupi, le operazioni sono ferme. Abbiamo bisogno di lei per aiutare le persone che sono intrappolate nel nosocomio. Però, ho anche una bella notizia da comunicarle, i Talebani hanno accettato l’introduzione di rifornimento medico e di prima necessità, quindi abbiamo guadagnato tempo. Ha portato fortuna la sua presenza tra noi, capitano»
Rivolse stavolta un sorriso più convinto all’uomo incrociando le sue iridi; lo sguardo emozionato per la conquista trafisse Christian, l’ottimismo della giovane lo invase come i raggi bollenti di mezzodì e non era il risultato dell’inesperienza, il sergente Ward in campo era positivo di norma. Forse Barkclay non lo mostrava, il dolore della moglie morta assassinata gli rodeva ogni giorno l’anima tra le fila degli aviatori, ma nei suoi occhi non cessava mai di brillare la speranza che presto i buoni avrebbero vinto sui portatori di morte – come amava definirli lui – e lui avrebbe potuto vendicare la scomparsa della compagna.
«Temono solo che muoiano gli ostaggi e crolli la loro posizione di controllo»
Gwen liberò il braccio dell’ufficiale dalla fasciatura e delicatamente gli infilò la seconda manica; cercò di non sforzare la spalla reduce dall’operazione e si limitò ad accostare la stoffa alla ferita coperta; si premurò poi di appoggiare nuovamente l’arto al suo petto in modo tale che non si muovesse e si dedicò ai bottoni. Il breve aggiornamento sulla situazione dell’ospedale assediato era concluso, la recluta non aveva altro da riferirgli; in seguito all’affermazione distaccata di Christian, il sorriso della ragazza si spense. Il tenente non le diede modo di occuparsi delle ultime asole agli estremi, le catturò la mano per fermarla.
«Può andare bene così, grazie. Senti, ricordo una donna afghana. Era accanto a me svenuta. Ho chiesto di occuparsi prima di lei, sembrava grave. È riuscita a cavarsela?»
«Sì, capitano, ricorda bene. Grazie al suo altruismo lei stesso ha rischiato di perdere qualche litro di sangue, ma almeno il suo sacrificio non è stato inutile. La donna è fuori pericolo e potrà riabbracciare presto sua figlia»
Era lieto di sapere che una madre fosse salva, magra consolazione per le centinaia di vittime – tra cui sicuramente vi erano altri padri, madri e figli –, ma era comunque un piccolo barlume di speranza nel mezzo di una carneficina. Era una dannata abitudine dei medici al fronte occuparsi prima dei soldati loro connazionali; le donne e i bambini avrebbero dovuto avere in ogni caso la precedenza, senza ombra di dubbio.
«Certo, dovrete riposare entrambi per qualche giorno. Lei in particolare deve mettere qualcosa sotto i denti alla base, immagino sia debole, qui non hanno potuto fare di più per lei. Mi ha sentito, capitano?»
«No, lo sparo deve avermi leso buona parte dell’udito»
Le sorrise beffardo, venendo subito ricambiato dalla giovane. Era per Gwen una battaglia persa in partenza, Christian non avrebbe mai ceduto alle prescrizioni mediche. L’ufficiale era testardo, ma dopo i giorni che aveva trascorso meritava qualche minuto di spensieratezza; la ragazza aprì un taschino della sua divisa all’altezza del petto, recuperò il cellulare personale e lo porse al tenente.
«Tenga, capitano, chiami la sua famiglia. Suppongo abbiano avuto notizia del duplice attentato dai mezzi mediatici, tranquillizzi i suoi cari»
Lo aveva spiazzato, non seppe come replicare, ma era quasi certo fosse un’iniziativa della recluta.
«Il generale Flores non lo sa, vero? Non voglio metterti nei guai»
«Il generale è un uomo preparato in guerra, ma pecca in umanità. Si fidi, non finirò nei guai per questo. Coraggio, lo accetti. Lo consideri un favore del karma per aver evitato che una bambina diventasse orfana»
Christian afferrò il telefono poco convinto; sfiorò alla giovane il dorso della mano e lei percepì tutto il suo indugio.
«Si prenda tutto il tempo che le serve, capitano. Io aspetto fuori e impedisco che la disturbino»
Aveva rivolto all’uomo un sorriso cordiale, ma non gli diede modo di ringraziarla per l’intimità che gli aveva concesso. Il tenente non aveva l’imbarazzo della scelta sul numero che avrebbe dovuto comporre, ma anche se l’avesse avuta, la sua decisione sarebbe stata sempre e solo una. Il cellulare della moglie era salvato nella sua rubrica, per chiamarla gli era necessario digitare sul suo nome, eppure da quando si erano scambiati i numeri di telefono svariati anni prima, lui lo aveva impresso in modo indelebile nella mente. Era provato, non ricordava che ore fossero a San Diego, sperò che lei non stesse dormendo e nemmeno lavorando; si augurò fosse libera di conversare qualche minuto con lui, in quel momento di sofferenza fisica non chiedeva altro che la sua voce. Qualche rintoccò divise Christian dalle aspettative.
«Pronto. Chi parla?»
«Tesoro, sono io»
L’uomo cercò di mostrarsi sereno, non aveva alcuna intenzione di comunicarle di essere rimasto ferito e di essere stato salvato per il rotto della cuffia; se non fosse venuta a conoscenza dell’attentato, lui non le avrebbe menzionato neppure quello, era inutile che si preoccupasse per uno scampato pericolo. Katherine si alzò dalla posizione accovacciata in cui si trovava sull’erba del cimitero; era incredula di sentire quella voce giovane, profonda e flebile; l’ultima caratteristica l’angustiava, ma una parte del suo cuore le suggerì di tranquillizzarsi, non era l’ambasciata in fondo.
«C-Christian»
L’uomo percepì l’agitazione della moglie; era sempre stato bravo a distendere la tensione della consorte, la lontananza però rendeva più ardua l’impresa, gli era impedito ad esempio ogni genere di effusione, avrebbe quindi dovuto contare solo sulla sua voce e sul modo di porsi a lei.
«Amore, tranquilla, sono vivo, non sono ancora un fantasma»
«Tranquilla un corno! Hai idea dei giorni che ho trascorso?!»
La reazione di Katherine gli insinuò un dubbio terribile, che spense il sorriso scanzonato sulle sue labbra.
«Aspetta, il generale Flores non ti ha avvertita?»
«Chi diavolo è il generale Flores? Christian, sei sparito all’improvviso! Credevo fossi morto e che non avessero nemmeno avuto il coraggio di dirmelo. Non ho voglia di scherzare sul fatto che tu non sia un fantasma, per me lo sei stato per più di un giorno e credimi è stato tutto tranne che piacevole»
Stava urlando nelle orecchie del marito sfinita dalla preoccupazione, ma lui non era nelle condizioni psicofisiche per sopportare la sua voce squillante. Il capitano era sul piede di guerra con il suo superiore, non era quello l’atteggiamento da tenere verso i sottoposti, avrebbe solo guadagnato un’insubordinazione da parte degli stessi; Christian non aveva certo qualcosa da insegnare ad un ufficiale più longevo di lui all’interno della recinzione della sua base, ma i giudizi venivano naturali, lui stesso aveva un ruolo di comando nel Coronado e, insomma, aveva giocato con i sentimenti di sua moglie, non di una donna qualsiasi, le imprecazioni verso il generale sorsero spontanee.
«Va bene, ho capito, ora calmati. Katherine, mi dispiace per i momenti che hai passato, ma non ho più il mio telefono, questo con cui ti sto chiamando appartiene ad una mia collega»
«Ora hai anche le colleghe?»
Una punta di gelosia si insinuò nel timbro della moglie e ciò lo infastidì; aveva problemi più gravi, le accuse di infedeltà non rientravano tra le sue priorità ed era quasi certo che fossero state dettate da una forte frustrazione da parte della donna.
«Katherine, ha vent’anni»
«Ovvio che sia giovane, ci mancherebbe il contrario»
La newyorkese si appoggiò ad un cipresso lì accanto, le mancava il fiato per la foga con cui si era rivolta a lui; si sedette alla base dell’albero piegando le ginocchia verso il petto e posò la schiena contro il tronco affusolato; non era il luogo ideale per soffermarsi più del necessario, l’atmosfera era intrisa di un silenzio irreale, ma le gambe non la reggevano ed era stata l’unica soluzione possibile. Cercò di calmarsi, capì da sola di avere esagerato e lui le concesse comprensivo il tempo per riprendersi, anche perché non aveva proprio la forza per litigare contrastando assurde supposizioni; un giorno forse le avrebbe raccontato di Gwendoline e del sergente Ward, ma non era quella la sede.
«Come stai?»
«Bene, ma non abbastanza per pensare ad un’amante»
La sentì accennare un sorriso dall’altra parte della linea; fu lieto della reazione della consorte, il registro con il quale si rivolgeva a lui sembrava radicalmente cambiato nel giro di qualche secondo.
«Ci manchi, Chris»
«Voi no»
«Hai finito di fare il cretino?»
Lo rimproverò, ma era divertita, sarebbe stata ore ad ascoltarlo mentre pronunciava frasi senza senso, le faceva bene al cuore, specie in determinate situazioni di tensione; Christian lo sapeva bene, Katherine ne era consapevole, ma era soave sentirlo di nuovo in salute dopo giorni colmi di ignoto e premure, la sensazione di spensieratezza che le stava regalando vinceva su tutto.
«Perché, è così inusuale?»
«No, non lo è affatto»
La donna lo sentì ricambiare con un ampio sorriso che venne strozzato subito dopo, come se una fitta gli avesse mozzato il fiato. Katherine non comprese la sofferenza fisica del marito, quest’ultimo si premurò di camuffarla all’istante tornando serio.
«Come sta Alisia?»
«Sta. Senza te sopravviviamo, non viviamo»
Non le rispose, ma il silenzio venne colmato da un sospiro da parte dell’uomo. Katherine provò a cambiare argomento, anche se fu ugualmente triste. Si era dimenticata di trovarsi in un campo santo e di aver violato la pace di quel luogo; per fortuna nessuno di vivo era nei paraggi, ma lui lo era davvero, non stava sognando, la sua voce era troppo familiare per confonderla con un impostore.
«Ho cambiato i fiori sulla lapide dei tuoi genitori»
«Grazie, amore»
«Chris»
Non sapeva discernere quali parole fossero più importanti da impiegare in quei pochi minuti, sapeva solo che avrebbe voluto la stringesse tra le sue braccia, nulla di più impossibile.
«Anch’io, Kathe. Anche io»
Il tenente era convinto di provare le sue stesse emozioni, qualunque esse fossero.
 
 
Ambasciata americana – Kabul, 28 agosto 2018
 
 
L’ambasciata americana che aveva sede nella capitale afghana era una costruzione immensa, il cui ingresso era solcato da un ampio piazzale e dall’immancabile asta alta diversi metri con all’apice la bandiera statunitense sventolante giorno e notte. Samuel aveva già avuto il piacere di varcare la porta della rappresentanza istituzionale, ma prima di avere scoperto che poco distante dalle porte a vetri aveva perso la vita una donna, moglie e madre di due figli; un ennesimo grammo di angoscia andò ad aggiungersi ai chili che aveva accumulato negli ultimi giorni, non fu facile pensare di vivere mesi in un simile stato psicologico, caratterizzato da una forte impotenza.
Era stato convocato dalle autorità, di nuovo; dopo il servizio prestato alla CNN, non aveva più frequentato quelle mura; il pensiero di riferire lo stato di sofferenza in cui riversava la popolazione gli sfiorò la mente, non era in fondo lì per documentare? Si rifiutava di credere che il suo reportage servisse solo per uno stupido articolo su un giornale di attualità, era inutile se non avesse apportato qualche miglioramento a coloro che subivano la guerra sulla pelle. Pochi giorni furono sufficienti a Samuel per raggiungere una consapevolezza che non avrebbe mai creduto possibile da Los Angeles; non era riuscito ad ignorare la sofferenza di Karim, di colui che era diventato per lui in breve tempo un fedele amico; la condivisione di un’esperienza così forte aveva saltato più di una tappa nel loro rapporto.
Reduce dalle conseguenze del conflitto, le corde della sua anima erano state scosse con una magnitudo non indifferente e aveva varcato le porte dell’ascensore con una certa grinta. Il breve ritorno alla civiltà lo lasciò indifferente, anzi non si era premurato nemmeno di indossare abiti occidentali per affrontare il colloquio, si era limitato ad abbassare sulle spalle il copricapo che lo riparava dal sole. La sua destinazione era il terzo piano, lo avrebbe raggiunto in pochi minuti, ma nel tragitto avrebbe avuto l’occasione di sbollire dalla rabbia, evitando così di accusare i suoi superiori di disumanità, rischiando forse, a causa di quell’affronto, di deludere suo padre. Non gli importava in quel momento delle conseguenze, spinse il bottone con impazienza, non vedeva l’ora di raggiungere l’ufficio dell’uomo che si occupava della leva militare per sbattergli in faccia quanto quella sporca guerra stesse facendo più danni di quanti non ne stesse risolvendo; gli avrebbe proprio riferito tutto, non avrebbe omesso nulla, se fosse stato necessario gli avrebbe persino mostrato il segno delle lacrime della piccola che portava ancora sui vestiti. Aveva una gran voglia di fumare per stemperare il nervosismo, ma era in luogo pubblico e aveva lasciato le sigarette in valigia. Perché ogni volta che necessitava di distendere la tensione qualcosa glielo impediva? Delilah avrebbe gradito, era sicuramente stata lei a scendere a patti con il suo angelo custode per preservarlo dalla dipendenza da fumo come il padre.
L’ascensore fu pervaso da una scossa; era giunto, le porte si aprirono troppo lentamente, Samuel era nervoso. Non si aspettava però di incontrare il sorriso dell’uomo che avrebbe dovuto incontrare prima ancora di avviarsi verso l’ufficio in questione.
«Signor Clark, buongiorno. La stavo raggiungendo, ma visto che è salito, mi segua»
Non offrì al ragazzo la possibilità di ribattere; lo scortò nel suo ufficio, chiuse la porta e spalancò la finestra per rendere più confortevole l’ambiente.
«Prego, si accomodi»
L’interlocutore di Samuel era un uomo distinto, non vi era nemmeno la lontana parvenza che si trovassero su un suolo sterminato dalle bombe, anzi in ambasciata si viveva in una sorta di bolla. In fondo era proprio così, tra quelle mura era come trovarsi in territorio americano, senza affrontare un viaggio di migliaia di chilometri, si era immuni da tutto lì, si era esenti persino alla sofferenza, almeno fino a quel giorno. Lo sguardo del giornalista era tutto tranne che cordiale, ma l’uomo sembrò non notarlo; l’impiegato si era accomodato a sua volta dietro la scrivania e si era rivolto al giovane con affabilità.
«Allora, ho saputo che è stato coinvolto negli ultimi attentati»
Glielo stava riferendo come se avesse avuto una qualsiasi esperienza, anzi mostrava una certa avidità di conoscere le dinamiche dell’evento da parte di chi aveva avuto la fortuna di viverlo da vicino e poterlo raccontare. Samuel si trattenne, ormai rispondeva a denti a stretti, cercando di misurare le parole.
«No, sono giunto dopo sul posto»
«Per fare un servizio in diretta?»
Le parole dell’uomo di mezza età erano fredde, incuranti degli esiti che gli ordigni avevano lasciato al loro passaggio. Samuel iniziò a credere che non avrebbe guadagnato nulla ad accusare l’ambasciata di menefreghismo, per loro contavano solo i fatti e non era affatto escluso che proliferassero anch’essi sulla vita di poveri innocenti portando avanti quella guerra; con grande forza di volontà decise di ignorare l’evidente vera sadica dell’uomo.
«No, per aiutare un amico»
Samuel non seppe come aveva potuto pensare di smuoverlo con l’accenno al sentimento puro dell’amicizia. Era ingenuo, sua sorella aveva centrato il segno ancora una volta accusandolo di ingenuità.
«Senta, abbiamo pensato di affiancarla ad un soldato in missione, in modo che riesca a seguire più da vicino le operazioni militari. Cosa ne pensa?»
«Altri ordini di mio padre?»
L’uomo rifletté un istante sulle parole del reporter, un pensiero si era insinuato all’improvviso nella sua mente, la quale secondo l’opinione di Samuel non era particolarmente fine; fece scivolare sul pavimento le rotelle della sedia girevole e si avvicinò al pc per recuperare dalla stampante lì accanto un foglio per la maggior parte bianco, eccezion fatta per poche righe incise nella parte alta con l’inchiostro nero.
«A proposito del direttore Clark. È arrivata una mail proprio oggi che le ho stampato in vista del nostro incontro»
Porse l’A4 a Samuel, cercando di mostrare disinteresse verso ciò che c’era scritto per non essere indiscreto; in realtà fu impossibile all’uomo non sbirciare.
Sto rischiando il fallimento del mio matrimonio, ma non importa, sono orgoglioso di mio figlio.
Samuel non sapeva se essere onorato o diffidente nei confronti delle parole che suo padre aveva deciso di dedicargli. Per renderlo fiero di lui doveva forse arrivare a rischiare la vita? Margaret aveva ragione, era un uomo senza scrupoli. Era la verità, gliel’aveva mostrata lo stesso Daniel con la missiva in questione, ma faceva male accettarlo e ammetterlo a terzi. Il giornalista stava incamerando troppa rabbia in un solo giorno, senza aver la possibilità di sfogarla in qualche modo; di quel passo le conseguenze del fumo sarebbero state il meno.
«Ha preferenze? Qualcuno da propormi per affiancarla? Lungo il suo breve soggiorno ha incontrato qualche soldato di cui si fidi?»
Il ragazzo impiegò qualche istante a connettere il cervello e a riemergere dai pensieri. Non sapeva se quell’uomo fosse serio o sarcastico, ma lui aveva davvero un nome in mente.
«Christian Richardson. Il tenente capitano della Marina Militare Richardson»
 
 


Ciao ragazzi!
Mi sono incartata con l’aggiornamento di una FF, così ho ripreso in mano l’originale sperando che desse una scossa alla mia ispirazione :D.
Evvai con l’allegria! Sì, ragazzi, mi sto facendo orrore da sola per la percentuale di tristezza di questa storia, ci mancava solo il cimitero ^^”. Ho sempre la speranza che, se avete iniziato questa storia, siate pronti a questi momenti di profonda tristezza, li gradiate e non vi disturbino troppo, mi auguro solo questo, altrimenti vi avrei sulla coscienza ^^”.
Non smetterò mai di ringraziarvi per il supporto che state dando a questa storia, resto sempre più sorpresa <3.
A presto!
Un grande abbraccio
-Vale
 

[1] Il giornalismo di guerra è la branca del giornalismo che si occupa di descrivere e raccontare le vicende belliche attraverso inviati e corrispondenti di guerra.
[2] Passo tratto dai Sepolcri di Ugo Foscolo.
[3] Volevo solo ricordare (ho dimenticato di farlo nello scorso capitolo) un dettaglio che avevo specificato nei capitoli precedenti, ma con il tempo temo si perda di vista. Kabul è undici ore e trenta più avanti rispetto a San Diego e Los Angeles, quindi può succedere che a Kabul scatti il giorno successivo, è questo il significato di “ora locale”.
   
 
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