I cuscini
sparpagliati, i fogli del rapporto sparsi sul tavolino da
caffè, la mug sporca, il datapad in stand by, il bloc-notes
coperto di appunti, il post-it verde con il numero di Paula Bryce:
Nova è in una stanza familiare, circondata da oggetti
familiari, ma le sembra di muoversi in un labirinto di specchi. Lascia
cadere la borsa sul linoleum, ai piedi del divanetto. Si volta, un nodo
di dolore pulsa tra le scapole, e guarda Connor: l’androide
è sulla soglia del corridoio e la sta osservando di rimando,
le sopracciglia aggrottate in una simulazione di vaga
perplessità.
Avrebbe dovuto dirgli di non seguirla fin dentro
l’appartamento, ma è stato più facile
restare in silenzio; lo stesso silenzio in cui sono rimasti durante il
viaggio in taxi.
«Beh, eccoci qui» sospira Nova. «Hai portato a
termine la tua missione, Connor.»
Connor rimane sulla porta, e sul viso rimane l’espressione perplessa. «La serratura all’ingresso è
ancora rotta. È sicura di voler restare da sola?»
Ne avesse la forza, Nova sorriderebbe. «Quante
possibilità ci sono che mi succeda qualcos’altro
oggi?»
«Non c’è qualcuno da cui può
trascorrere la notte? Un familiare? Un amico?»
Lei pensa a Emilia. Scuote la testa.
«Potrei restare io.»
Nova fissa Connor come se lui, in preda a un glitch, avesse iniziato a
parlare in cantonese. Distante, le giunge l’eco di una porta
sbattuta; forse la Sondergaard è partita per la ronda
notturna.
«Per un po’» spiega l’androide.
«Ma... mi rendo conto che dopo
l’aggressione al Gold Theater, e dopo quanto accaduto al suo
amico, la presenza di un androide potrebbe metterla a
disagio.»
Nova massaggia il collo: il dolore si sta inerpicando verso la nuca.
«Se vuoi restare, resta. Però, non credo che
Anderson sarà contento.» Nel dirlo, si china in
avanti per raccogliere la mug dal basso tavolino.
Il pavimento ondeggia.
«Dovrebbe mangiare qualcosa.»
Al pacato consiglio di Connor, Nova risponde con una smorfia
infastidita. «Non fare con me con quella cosa
che fai con i
cadaveri.» Ma l’androide ha ragione, e lei lo sa: ha
bisogno di mettere qualcosa nello stomaco e quel violento giramento di
testa ne è la conferma. Tanto varrebbe, però,
chiederle di partire adesso per un’escursione in montagna: le
viene da vomitare al solo pensiero del cibo, qualsiasi cibo.
«Non ho bisogno di accedere ai miei software di analisi per
rilevare il suo stato di salute» controbatte Connor. Il
sopracciglio destro sale un poco più su del sinistro, dando
al volto artificiale un’aria sottilmente beffarda.
«Il tenente ha ragione: lei ha un aspetto orribile.»
—
«Posso farle una
domanda?»
Nova mugugna un distratto sì; con le reni appoggiate ai
fornelli, si trastulla con un bicchiere di succo di mirtillo
nero mentre aspetta che l’acqua bollente renda i noodles
commestibili.
La ricognizione del frigorifero è stata sconfortante:
è desolato come un supermercato alla vigilia di
un’allerta uragano. Sul ripiano di mezzo, in un contenitore
di plastica trasparente, langue la triste fetta di meringata al limone
comprata al negozio dei Cheng. Mentre Nova arraffava l’ultima
confezione di ramen istantaneo al pollo dalla dispensa, Connor prima si
è sentito in dovere di suggerirle di fare la spesa il prima
possibile e poi, in apparente completa autonomia, ha occupato uno degli
sgabelli della penisola.
«Non possiede un androide domestico. C’è
un motivo?» chiede Connor, le braccia sul laminato grigio e
le dita intrecciate.
«Qui dentro un androide sarebbe più un intralcio
che un aiuto.»
«Non risulta ne abbia mai acquistati neppure in passato, di
alcun tipo. È contraria al loro uso?»
«Preferisco occuparmi da sola di me stessa e delle mie cose.»
«Posso farle un’altra domanda, signorina
Barton?»
«Se la smetti di chiamarmi ‘signorina
Barton’.»
«Come preferisce.»
«Che vuoi sapere?»
«Si considera ancora dalla parte dei devianti?»
Nova sbatte le palpebre. «Ancora?» ripete, senza
capire.
«I devianti hanno ucciso il suo amico.»
Nova abbassa il bicchiere e raddrizza il collo. Per un attimo, una
fitta di rabbia, e di dolore, le paralizza la mascella. «Io
non sto dalla parte di nessuno.» Dà le spalle
all’androide e abbondona il bicchiere sul piano accanto ai
fornelli. «Ma sono sicura di una cosa: in qualche
modo, voi… beh, alcuni di voi stanno davvero diventando come noi, nel bene e nel
male.» Strappa il coperchio della tazza di plastica con
più energia del necessario. Affonda una forchetta nel
groviglio di noodles.
Connor tace. Fuori dall’appartamento, le ultime automobili,
ronzando piano, scivolano lungo Wade Street; sempre più
desolata, sempre più bianca. E Nova continua a rimestare la
cena.
«La raffigurazione nel poster è errata»
afferma, all’improvviso, Connor.
Nova smette di brutalizzare il ramen. Si gira. Getta uno sguardo confuso al vecchio poster della NASA, attaccato
alla parete sopra il divano.
«Giove è un pianeta gassoso.
L’atterraggio di una navicella sulla
superficie non sarebbe possibile. Inoltre, la quantità di
radiazioni danneggerebbe qualsiasi strumentazione.»
«Ma è una bella fantasia, no?» Nova si
arrampica sul secondo sgabello, insieme alla tazza di noodles,
ritrovandosi davanti all’androide. «Una vacanza a spasso per il Sistema solare.»
«Sa che la compagnia Clear Skies offre un viaggio di tre ore
attorno all’orbita della luna? I loro shuttle sono
dotati di un ponte di osservazione.»
Nova abbozza un mezzo sorriso: Connor deve aver attivato la funzione
small talks, o qualcosa del genere. «So anche
che, per permettermi un viaggio del genere, dovrò vendere
caffè per quattro o cinque vite di seguito.»
«Si interessa di astronomia?»
«Non l’ho mai studiata seriamente, ma a chi non piace
guardare le stelle?»
Per un momento, si sente in vena di parlare di quando era una ragazzina
in divisa da scout, e di come ha imparato a riconoscere le
costellazioni nel cielo estivo sopra i boschi di Waterloo. Guarda la
finestra. Vede le scale antincendio coperte di neve e i mattoni sudici
del palazzo vicino, e si rende di non ricordarli più, i
boschi, di notte, in estate.
Connor è silenzioso.
Nova si gira verso di lui, trovandolo in severa contemplazione delle
proprie dita meccaniche.
«Io non ho mai visto le stelle» scandisce
l’androide, come se si fosse accorto dello sguardo della
donna su di sé.
«A Detroit non si possono vedere» sospira Nova.
«Sei mai stato in posto diverso? Fuori da questa
città, dico.»
«No.»
«Vorresti farlo?»
Connor aggrotta la fronte, lentamente. «Non lo so,
ma… credo che potrei apprezzare la vista di un cielo
stellato.»
«Davvero?»
«Nel corso della storia, il genere umano ha dedicato
molteplici opere d’arte alla volta celeste. Dunque, deve essere
qualcosa di ammirabile.»
«Non fa una piega.» Nova è tentata di
domandare in quale misura sia in grado di concepire la bellezza;
presumibilmente si riduce tutto a proporzione tra le forme e formule
matematiche. «A Walty... piaceva l'astronomia. Era bravo, lui,
nelle materie scientifiche.» I verbi al passato sono come un
chiodo rovente sulla lingua.
«Lei e Zachary Walton eravate molto legati?»
Nova prende tempo. Rimesta i noodles: più li fissa,
più l’idea di mangiarli le fa ribrezzo. «Durante gli anni del college ci siamo persi di vista, ma
abbiamo riallacciato i rapporti quando io mi sono trasferita a
Detroit.» Parla a bassa voce, quasi sussurrando.
«È stato lui a suggerirmi di vendere i miei
articoli allo Zenosyne. Eravamo legati come lo possono essere due
persone che sono state entrambe adolescenti un po’ sfigati. E
lo siamo stati sul serio, eh. Il suggello della nostra amicizia
dev’essere stato il momento in cui io lo aiutai a completare
la scheda di un personaggio, per uno dei suoi giochi di ruolo. Era uno
Zabrak.» [1]
Sente le labbra piegarsi in un sorriso amaro. Le pizzicano gli occhi.
Che dettaglio stupido da ricordare in un momento come questo. Abbandona
la forchetta.
«Diceva che con un nome come il mio avrei potuto far parte
di quell’universo. Al liceo, mi chiamava Star-girl.
Imbarazzante, lo so. Ma avevamo quindici anni. Io ero bravina con
le parole, ma lui era un asso con i numeri. Sai, c’era questa
insegnante al terzo anno, la Hurst. Insegnava algebra due. Più di dieci anni fa, gli insegnati nelle scuole era ancora
quasi tutti umani. Io non capivo mai un accidente delle sue lezioni, mi
faceva sentire così stupida. Ero terrorizzata quando mi
chiedeva di rispondere davanti alla classe. E riesco ancora a sentire il mal di stomaco prima di ogni verifica. Se non fosse
stato per Walty, che sacrificava i suoi fine settimana per spiegarmi da
capo le lezioni, non l'avrei mai passato quella classe. E avrei finito
l'anno con un esaurimento nervoso. Le mie amiche dell'epoca dicevano
che mi aiutava perché sperava di portarmi a letto. Non
capivano nulla. Walty era... lui era incapace di avere
secondi fini.»
Nova sussulta appena: Connor le sta toccando il dorso della mano. Le
dita dell’androide la sfiorano con una leggerezza calibrata a
richiamare la sua attenzione, e niente di più.
«Dovrebbe mangiare, adesso.»
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È
mezzanotte. In soggiorno solo le piccole luci attorno alla finestra
sono accese e Nova, tornando nella stanzetta dopo una doccia veloce,
trova Connor seduto sul divano: la schiena diritta, una mano sul
bracciolo e l’altra sul ginocchio. Nessuna intermittenza
turba il limpido azzurro del LED quando l’androide si alza,
con un movimento fluido, pronto a lasciare l’appartamento.
Nova, invece, si avvicina al divanetto e scivola a sedere. I capelli
umidi bagnano la maglietta extralarge che usa come camicia da
notte, ma non le importa. Si sente come se avesse un palloncino pieno
d’elio al posto della testa. È esausta. Svuotata.
Si lascia andare all’indietro, sposta un cuscino sulle gambe
e si guarda attorno: i fogli del rapporto sono stati raccolti nella
cartellina, e la cartellina chiusa e riposta sulla penisola.
È stato Connor a mettere in ordine. Ma non è
stata Nova a chiederglielo.
«Non va a dormire?» domanda l’androide.
Nova non saprebbe da che parte cominciare per spiegare il panico
che
prova al pensiero della camera buia e del letto vuoto che
l’attendono. Così, resta zitta e fissa il
pavimento: la soffusa luce violacea non riesce a nascondere il pessimo
stato del linoleum. E mentre lo pensa, Nova si rende conto di star
fissando proprio il punto in cui ha rischiato di morire; sovrapensiero,
accarezza la base della gola, e i lividi sul lato del collo.
Il cuscino sotto di lei si inclina, piano.
Nova alza lo sguardo.
Connor ha ripreso posto sul divano, alla misurata distanza di due palmi
e mezzo.
«Posso fare qualcosa prima di andare via?»
Nova continua a guardarlo.
E l’androide ricambia lo sguardo, alzando dolcemente le
sopracciglia.
Sì, pensa Nova. C’è qualcosa che
potrebbe fare. Potrebbe abbracciarla. Potrebbe permetterle di
rannicchiarsi contro il suo corpo, di abbandonare la testa sul suo
petto, di ascoltare i brusii degli ingranaggi nella cassa di
carbonio e lasciarla illudersi che il pulsare della pompa sia il
battito di un cuore vero.
Fa cenno di no con la testa. «Ti ho costretto a fare anche
troppo.»
«Lei non mi ha costretto» puntualizza Connor.
Nova sorride mesta. «Hai scelto liberamente?»
«Ho preso delle decisioni, sulla base delle valutazioni
operate dei miei algoritmi.»
Decisioni. Nova distoglie lo sguardo, la bocca improvvisamente arida.
«Ho detto qualcosa che l’ha turbata?»
«Walty mi ha mandato un messaggio, poco prima
di—» Morire. Non riesce a dirlo.
«E io l’ho ignorato. Ho perso l’ultima
possibilità di parlargli. E adesso continuo a pensare che se
avessi risposto, se gli avessi detto qualcosa per farlo uscire prima da
quel maledetto ufficio…»
«Non è detto che una diversa decisione da parte
sua avrebbe mutato l’esito degli eventi.»
«Avrei potuto salvarlo... fossi stata meno stupida. Meno
orgogliosa.»
«Temo di non comprendere.»
«L’altro giorno, dopo che te ne sei andato, avevo
pensato di telefonare a Walty. Di parlargli di quello che mi era
successo. Invece, mi sono chiusa in casa, a ignorare tutti, a lavorare
a
questa dannata storia della devianza. Avrei dovuto avere il coraggio
di...
chiedere aiuto.»
«I devianti hanno ucciso il suo amico, Nova. Non ci sono
altri responsabili.»
Lei ha mala pena lo ascolta. «Vorrei essere come te. Nessun
dubbio, nessun rimpianto, nessuna emozione. Solo una missione da
inseguire.»
La neve cade fitta dietro la finestra, dietro le lamelle della tenda
abbassata. Cade, e cade, e da Connor non arriva nessuna frase di
conforto. Il mutismo dell’androide si protrae così
a lungo che Nova, cogliendo con la coda dell’occhio il
frenetico giallo del LED, si riscuote dai propri pensieri. Osserva
il profilo di Connor: la testa china, la fronte aggrottata, gli
avambracci sulle cosce, le mani che ciondolano scompostamente tra le
ginocchia. Le dita della sinistra sfregano sulla destra: si sta
torcendo le mani. È sicura di non averlo mai visto prima
imitare un gesto simile.
«Che ti prende?»
Connor arresta il movimento delle mani. Scuote il capo. «Non
sono efficiente come dovrei.»
«Che stai dicendo?»
«L’Eden Club. Io…»
L’androide tace, come se faticasse a elaborare. Il LED
è sempre instabile. «I devianti non sono scappati.
Io li ho lasciati scappare. Potevo sparare. Potevo colpirli. Ma… non l’ho fatto.»
«Hai detto che non potete fare analisi su androidi
danneggiati.»
«Sì, ma quando Amanda ha voluto una spiegazione—»
«Chi è Amanda?»
«L’interfaccia dei miei programmatori. Non sono
stato in grado di dare una spiegazione.» Connor parla piano,
eppure il tono è quanto di più simile a
un’esclamazione frustrata che Nova gli abbia sentito
simulare.
«Se non catturerò i devianti dello Zenosyne,
verrò sostituito.»
«Sostituito? Da… chi?»
«Da un modello più adatto.»
«E tu?»
«Tornerò alla Cyberlife per la disattivazione e le
analisi. Vorranno capire perché continuo a
fallire.»
«Disattivazione.» Il fastidio punge Nova, come
acqua fredda giù per la schiena. «È una
soluzione drastica.»
«È la procedura.»
«Non è giusto!»
Connor alza gli occhi su di lei. «Giusto?» ripete,
come se il significato del termine non fosse tra i suoi file.
«Nei tuoi confronti.»
«Non c’è motivo di mantenere in funzione
una macchina che non è in grado di svolgere il lavoro per il
quale è stata progettata.»
«Davvero non ti importa di venir
disattivato?» chiede Nova, a bassa voce.
«Accadrà in ogni caso. Se fermerò la
devianza, non ci sarà più bisogno di me. Se
fallisco, il mio posto verrà preso da un altro androide.»
Nova sposta il cuscino e scivola più vicino a Connor; la stoffa dei jeans è ruvida contro il suo ginocchio
nudo. «Ma se non ci fosse nessuna missione, se fossi libero
di scegliere, cosa vorresti fare? Chi vorresti essere?»
Connor risponde con un’espressione dura che
sembra fatta apposta per suscitare timore durante un interrogatorio.
Ma Nova non esita. «Perché sei qui,
Connor?»
Il LED lampeggia. «Qui?»
«Con me. Non sei programmato per prenderti cura degli esseri
umani.»
Con un battito di palpebre, il volto dell’androide passa dalla
severità alla condiscendenza. «Non sono un deviante, Nova.
Sono una macchina, e
niente altro. Lo ha detto anche lei, poche ore fa.»
«Non avrei dovuto dirlo.»
«Ma io sono una macchina.»
«Voglio dire che non avrei dovuto parlarti in quel
modo» sussurra Nova. «Ero arrabbiata. Me la sono presa con te. Non dovevo farlo.» Solleva una mano.
È ubriaca di stanchezza, stordita dallo sconforto, e le
sembra di avere un filo invisibile legato al polso; un filo che
controlla i suoi gesti.
Avvicina la mano al viso di Connor. I polpastrelli
toccano la sporgenza dell’esoscheletro che modella lo zigomo.
La pelle sintetica inganna la vista quanto il tatto: la sente calda,
come le proprie dita, e più calda di quando gli ha stretto
la mano su Elmhurst Street. Con la punta dell’indice
traccia la circonferenza del LED, più piccolo di un penny.
È freddo, solido, levigato; a tratti, aritmicamente,
velocissimi flash gialli disturbano la luce azzurra.
«Io ti terrei. Efficiente o no, io terrei con me.»
Le dita scendono lungo il mento, leggere, come se stessero toccando un
fragilissimo oggetto di cristallo. E sotto le carezze studiate, Connor
rimane davvero immobile come una
statua. Nova ne cerca lo sguardo: le sopracciglia sono inarcate sopra
gli occhi irrequieti, il nero
della pupilla è animato dal riflesso delle luci alla
finestra, il LED è diventato giallo. Nova crede di vederlo
pulsare al ritmo del proprio respiro; e sono così vicini che, se
anche l’androide avesse la
capacità di respirare, lei potrebbe sentirne il respiro sul
viso.
Lascia scivolare la mano fino al collo, dove non
c’è nessun battito. E attende. Attende che l’androide la
fermi, o che l’allontani, o che si tiri indietro. Che
reagisca in qualche modo, qualsiasi modo.
Ma Connor non fa nulla e lei lo bacia. Sulla bocca, con tenerezza, a
occhi chiusi. Lo bacia fino a quando la fredda inerzia della macchina
non diventa insopportabile.
Nova si allontana e ritira la mano in grembo. Ha intravisto un bagliore
rosso sulla tempia di Connor, prima che il LED tornasse a lampeggiare
di giallo. Azzarda un mezzo sorriso. «Allora, hai sentito qualcosa?»
Connor batte le palpebre.
«Qualche… sensazione positiva?»
Un altro battito.
Il sorriso di Nova vacilla. «O negativa? Fastidio?
Disgusto?»
Connor appiana i lineamenti in un’espressione tremendamente
calma. «È molto tardi. Devo
rientrare alla Centrale.» Si alza in piedi.
Nova annuisce. Un principio di calore sale dal collo alla faccia e
comprende, di colpo, di essere lei quella in balia di sensazioni
negative.
«Catturerò quei devianti, Nova» assicura
Connor, indugiando a metà strada tra il divano e la porta.
«Glielo prometto.»