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Autore: Gaia Bessie    26/06/2020    2 recensioni
«Finché avrai voglia di provarci, io ti manderò indietro a quel preciso istante» asserì Aion. «Ma fai attenzione, Annabeth Chase: il passato, il più delle volte, è solamente una grossa delusione cui non possiamo porre rimedio».
Un viaggio a ritroso nel tempo, con un unico scopo: salvare Luke Castellan.
[Epilogo]: Luke scosse il capo, anche se gli costò un’enorme fatica. «No» mormorò. «Avremo altre occasioni, io… ti cercherò per tutte le mie altre vite».
«Ti prometto che ci troveremo, in qualche modo» rispose lei, asciugandosi le lacrime. «E ci andremo davvero, in Alaska, e in Europa e…».
«Va bene così, un giorno… ci rincontreremo, in qualche modo» sussurrò il ragazzo, piano.
[Seconda classificata al contest "Il citazionista 3" indetto da SherylHolmes e giudicato da fantaysytrash sul forum di Efp]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Luke/Annabeth, Percy Jackson
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Poteva davvero costringerlo a consegnarsi agli Olimpi, mettendo fine a quella loro avventura, insieme, che potenzialmente sarebbe benissimo potuta durare in eterno? Poteva dirgli che non le importava, rimanere con lui finché le Moire l’avessero consentito, essere per l’ultima volta, quella definitiva, la sua famiglia?
«Non lo sei» bisbigliò, infine. «Non… hai ragione, non possiamo semplicemente chiedere pietà e sperare che funzioni. Possiamo solamente andare avanti».
«So che non è tutto quello che hai sempre sognato» continuò Luke, imbarazzato. «Ma farò del mio meglio, per renderti felice. Te lo prometto».
Lei si sistemò meglio sul sedile, voltandosi verso il finestrino, per non fargli vedere quanto fosse arrossita. Pensò al ricordo di un altro Percy, che ormai era più una fantasia che un vero ricordo, e si domandò se si sarebbe mai pentita della scelta di aver seguito Luke.
«Ho sempre rotto tutto, in questa vita» mormorò il ragazzo, sottovoce. «Adesso voglio stare bene».
 
 
2. Due vite per aspettarti
 
 
Solo per stanotte
Inganniamo la sorte
Con te ogni ansia si stanca
Si annoia di combattere e se ne va
(…)
Solo per stanotte
Inganniamo il destino
La felicità
Credo che abbia a che fare con te
(Giordana Angi, Stringimi più forte)

 
 
Tra cent'anni non ci ricorderemo
Degli sbagli di domani
(…)
Abiterò nel tuo sorriso
La mia idea di paradiso
E noi ci ricorderemo
Della pioggia in cui piangevo
Insieme resteremo immuni alla sorte
(Giordana Angi, Amami adesso)
 
«Luke» mormorò Annabeth, agitandosi sul sedile della macchina. Mancavano solamente tre ore, prima di arrivare a Vancouver dove, lei ormai lo sapeva, Percy li stava aspettando. «Ti andrebbe di fermarci a Seattle, e non a Vancouver? Inizio ad avere fame».
Luke annuì, senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Certo» confermò. «Scusami, non abbiamo nemmeno fatto colazione».
Annabeth si trattene dal sorridere, mentre un’ondata di sollievo le riscaldava le vene: forse, questa volta sarebbero riusciti ad arrivare in Alaska, poi in Europa e poi ovunque avessero desiderato. Forse, il rumore dei dadi di Aion avrebbe smesso di risuonarle in testa e lei, chissà quanto in fretta, sarebbe riuscita a dimenticare il suono della spada che attraversava il torace di Luke, senza che lui facesse nulla per impedirlo.
«Potremmo cercare di recuperare qualche vestito» propose Annabeth. Quanto tempo sarebbe dovuto trascorrere, prima che fosse sicuro passare da Vancouver? «In Alaska farà freddo».
«Hai ragione» convenne Luke. «Vorrà dire che vedremo Vancouver un’altra volta… abbiamo una vita per tornare indietro».
Adesso andiamo avanti, si disse Annabeth guardando fuori dal finestrino. Il rumore dei dadi di Aion, lanciati sulla scacchiera, continuava a risuonarle in testa. Adesso andiamo avanti.
 
***
 
A Seattle, Luke si fermò di fronte al mare, sul Magnolia Boulevard. Quando scese dalla macchina, una ventata d’aria fresca gli scombinò i capelli, facendolo sorridere.
«Non siamo stati fortunati» commentò. «Sembra che si metterà a piovere».
«Forse è un segno» rispose Annabeth, scrutando il cielo con aria pensosa. «Potremmo passare la giornata qui».
«Cos’ha Vancouver che non ti piace?» chiese Luke, interessato. «Sembra che tu stia facendo di tutto per non passare di lì».
«Io…» lei sospirò. Che valore ha una bugia a fin di bene? «Ho solamente un brutto presentimento… ci stanno cercando, Luke. Vancouver non è un posto estremamente probabile dove trovarci?».
«Va bene» convenne lui, annuendo. «Niente rischi inutili. Eviteremo Vancouver. Stasera guarderò una cartina per decidere che strada fare».
«Grazie» sospirò lei, imbarazzata. «So che ti sembra una cosa stupida, ma…».
«Ma io mi fido di te» completò Luke. «E non mi sembra stupido. So cosa vuol dire, sognare qualcosa».
O qualcuno. Chissà se Percy li aveva sognati, se era così che, in un futuro che ancora ricordava chiaramente, era riuscito a trovarli. Annabeth pregò silenziosamente che così non fosse, altrimenti non si sarebbero mai potuti sentire al sicuro.
«Te l’avevo promesso, che saremmo andati dove preferivi» mormorò Luke. «Forse non basterà per renderti felice, ma…».
«Mi basta» lo fermò lei. «Se rimaniamo insieme, possiamo comunque andare avanti».
«Se un giorno ti pentissi, e volessi tornare indietro» borbottò Luke, come se si stesse cavando a forza quelle parole. «Dimmelo».
Annabeth non disse niente, quando una goccia d’acqua le trafisse il viso, scavandola come acido: ti sembra mai di poter essere uccisa anche da un semplice frammento di pioggia?
Guardò Luke, domandandosi se anche lui avrebbe potuto semplicemente sciogliersi come un sogno alla luce del sole, se la pioggia avrebbe potuto ferirlo come una punizione. E, allora, lei si sarebbe sciolta insieme a lui, nel veder fallire l’ennesimo tentativo di salvarlo.
Un’altra goccia le scivolò lungo le guance.
 
***
 
Per quella sera, Luke scelse un hotel vicino al mare: sembrava come se volesse sfidarlo, il fato o Percy Jackson, avvicinandosi quanto più vicino a quella zona pericolosa che era l’oceano. Nel guardare il tramonto che veniva lentamente inghiottito dalla sera che avanzava, la cicatrice sul suo viso sembrava aver ripreso a sanguinare.
Annabeth ricordava vagamente, il giorno in cui Luke era ritornato al Campo Mezzosangue con il viso decorato di polvere e sangue, e un taglio che gli sfigurava i lineamenti. Sfigurava era il termine corretto, perché questo avevano detto di lui. Che sarebbe rimasto per sempre sfregiato, rovinato, perfino la sua bellezza si era rivelata difettosa, imperfetta.
Lei non l’aveva mai pensato. Si era arrabbiata in silenzio tutte le volte in cui Silena Beauregard e le sue sorelle l’avevano compatito, quasi come fosse cambiato, avesse smesso di essere quel Luke forte e affascinante che tutti loro avevano conosciuto.
Eppure, probabilmente anche Luke stesso aveva dovuto pensarlo, di esser diventato un rifiuto, qualcuno degno solamente di suscitare pietà. Perché anche in quel momento, si strofinava la cicatrice con fastidio malcelato, quasi come potesse cancellarla con un banale movimento delle dita.
Annabeth sapeva che, sottecchi, la stava guardando: ancora una volta avevano preso una camera matrimoniale e, mentre Luke prendeva le chiavi dal receptionist, lei aveva preso a guardarsi le scarpe con aria interessata. Non era la prima volta che dormivano nello stesso letto, ma qualcosa le suggeriva che, questa, avrebbe potuto essere la volta. Quella in cui sarebbe riuscita a dirgli che c’era un motivo in particolare per cui aveva scelto di seguirlo, ed era che non era più disposta a vivere una vita di rimpianti e possibilità sprecate.
Che, nell’ennesima sequela di giorni in cui s’era svegliata con la certezza che Luke aveva smesso di esistere da mesi, no, da anni, aveva realizzato che quella mancanza non sarebbe scemata, fino a diventare solamente un fastidio, un lieve pizzicore che, chissà in quanto tempo, avrebbe potuto ignorare. Invece, al posto di scemare, quella sensazione di disagio era solamente aumentata fino a diventare un dolore costante che le impediva di respirare, schiacciandole il torace. Ma avrebbe capito?
Le avrebbe detto che anche lui aveva provato lo stesso, negli anni che erano rimasti separati, quando aveva intrapreso un percorso sbagliato, lasciandosi tutto, anche lei, alle spalle?
«Sei stanca?» domandò Luke, con finta noncuranza. Aveva la camicia mezza sbottonata, come se avesse voluto mettersi il pigiama, cambiando però idea a metà strada.
Annabeth annuì. Aveva messo nello zaino, prima di lasciare S. Francisco, uno dei suoi pigiami preferiti, un pantaloncino terribilmente rosa e una maglia bianca con la stampa di un avocado sorridente. Inizialmente non ci aveva fatto caso ma, adesso, le sembrava tutto un’idea pessima: il pantaloncino corto, la maglia trasparente e con quel disegno infantile. Se avesse potuto dirlo a qualunque figlia di Afrodite l’avrebbe presa in giro per tutte le sue vite future.
Dandole le spalle, Luke si sfilò la camicia, e successivamente si stese con ancora i jeans addosso sul copriletto bianco del letto matrimoniale. «Penso leggerò qualcosa» mormorò, aprendo una cartina e una guida turistica, e segnandovi un appunto con una matita.
Lei si accovacciò accanto a lui, chiudendo gli occhi. Dopo qualche minuto, sentì che Luke distrattamente le stava accarezzando i capelli.
«Puoi smetterla di trattarmi come se fossi tua sorella?» borbottò, contrariata. «Io… sono stanca di pensare che per te sono rimasta una bambina, e basta».
«Ma…» cominciò Luke, perplesso. Si passò una mano tra i capelli color sabbia, a disagio. «Pensavo che…».
«Che cosa, Luke?» domandò Annabeth, acida. «Che siccome ho ancora sedici anni, tu non…».
Quelle parole le morirono nel rossore che le colorava le guance. Abbassò lo sguardo, imponendogli di non fargli vedere che aveva gli occhi lucidi.
«Non è questo» mormorò lui. Gli rimase una mano ferma a mezz’aria, come se avesse voluto toccarla e gli fosse mancato il coraggio all’ultimo secondo. «Io non voglio forzarti».
Puoi forzare qualcuno a fare qualcosa che aspetta da tutta una vita, si domandò Annabeth, guardandolo negli occhi.
«Non mi forzeresti a fare niente» rispose lei. «Io… è solamente una vita che aspetto che tu ti accorga di me».
«Io mi sono sempre accorto di te» la interruppe Luke. «Ma… ho ventidue anni, Annabeth. Non posso aspettarmi che tu comprenda, ma… temo di starti influenzando troppo».
«Non è vero» intervenne lei, alzando il tono della voce. «Perché devi essere così… insondabile. Io voglio stare con te».
Lui abbassò lo sguardo. «Non voglio ferirti un’altra volta» sussurrò. «Io… se ti avessi lasciata con Percy, saresti stata al sicuro. Non ti avrebbe mai trattata come ho fatto io».
«Ma non sono rimasta con Percy» commentò Annabeth, atona. «Qualcosa dovrà pur significare».
«Ho le mani sporche di sangue, Annabeth» disse Luke, scuotendo il capo. «Non potrei mai sfiorarti e rischiare di sporcare anche te».
Per un momento, Annabeth desiderò di potergli urlare contro. Ma, nella luce artificiale della camera, sembrava così solo, e disperato, che non riuscì a proferire parola.
Si guardava le mani, Luke, quasi come potesse realmente vederle macchiate e incrostate di sangue. Se avesse fatto più attenzione, Annabeth si sarebbe accorta che stava tremando.
«Vorrei tanto che tu potessi andare oltre il passato» mormorò, invece. «Che tu riesca a dimenticare cosa hai fatto. Io ti posso perdonare, ma dovresti riuscire a farlo anche tu».
Luke le regalò un sorriso amaro, che parve sul punto di rompergli la faccia in due parti diseguali.
«Ma io non posso» disse, semplicemente. «Come potrei mai perdonarmi?».
Lei non seppe rispondergli.
 
***
 
Quando quella mattina scesero nella sala dell’albergo adibita alla colazione, Luke aveva due vistosi cerchi neri che gli contornavano gli occhi.
«Non hai dormito» osservò Annabeth, sbocconcellando una fetta di pane tostato. «Come mai?».
«Sogni» rispose Luke, laconico. Stava scrutando un croissant alla marmellata di arance quasi come potesse trovare una risposta nel ripieno. «Ti ho svegliata?».
«No, ma avresti dovuto farlo» rispose lei, scontenta. «Avrei potuto…».
«Vedermi mentre tremavo come un bambino?» chiese lui, scontento. «No, Annabeth. È stato meglio così».
«Perché fai così tanta fatica a dirmi come ti senti?» domandò Annabeth, posando il toast nel piatto e guardandolo negli occhi. «Perché hai smesso di fidarti di me?».
Luke fece per risponderle, ma fu interrotto dall’arrivo di un cameriere. «Posso portarvi qualcosa?» domandò l’uomo. «Tè, caffè?».
«Per me un caffè. Corretto» rispose Luke, con aria sollevata. «Tu vuoi un tè?».
Annabeth scosse il capo. «Anche per me un caffé» rispose. «Corretto».
«Sei troppo giovane per l’alcol» la rimbrottò lui, quando il cameriere si fu allontanato.
«A quanto parte sono giovane per un po’ troppe cose» rispose lei, fredda. «Quando avrai finito di trattarmi come una bambina, fammi un fischio».
«Te la sei presa per…» cominciò Luke, cauto.
«Per l’assoluta contraddittorietà delle tue affermazioni, sì» completò Annabeth. «Come fai a dire che mi sposerai, se poi…».
«Annabeth» la chiamò Luke, interrompendola. «Non possiamo» disse, semplicemente. «Io… sei ancora…».
«Piccola» sibilò lei, tagliente. «Lo so già, grazie. Continua pure con il tuo amore platonico, e chiamami quando cambi idea».
 
***
 
In macchina, Annabeth si rifiutò categoricamente di proferire parola, guardando ostinatamente fuori dal finestrino. Luke non ci provò nemmeno, a estorcerle anche soltanto un brandello di discorso, percependo la tempesta che la ragazza avrebbe scatenato, se solamente le avesse rivolto la parola.
Così continuò a guidare, senza dire niente, gli occhi ostinatamente puntati sulla strada. Poi, dopo tre ore in quel silenzio che se lo stava spolpando vivo, Luke si decise a parlare.
«Non è che sei piccola…» mormorò. «Non vorrei che te ne pentissi, tutto qua».
«Perché dovrei?» chiese Annabeth, senza distogliere il proprio sguardo dal paesaggio che scorreva via, fuori dal finestrino. «La scelta dovrebbe essere mia».
«Lo è» convenne Luke, piano. «Ma… non è solo per il sesso, Annabeth, è ciò che comporta. Io non vorrei che dopo ti sentissi vincolata».
«Sei tu, quello che non vuole sentirsi vincolato» rispose lei, acida. Con la coda dell’occhio, Luke si accorse che aveva gli occhi lucidi. «O non ti importa abbastanza».
«Proprio perché mi importa, voglio darti la possibilità di scegliere» replicò Luke, serio. «Come… come fai ad essere sicura che sia giusto, stare con me?».
Inizialmente, Annabeth non rispose. Silenziosamente Luke si trovò a fare i conti con il peso delle sue stesse parole, domandandosi se, almeno questa volta, non fosse riuscito a convincerla.
E cosa comportasse, allora, quella convinzione. Se potesse decidere che, a conti fatti, il gioco non valesse la candela e, per questo, decidere di lasciarlo scivolar via, di tornare indietro da Percy Jackson, al Campo Mezzosangue, casa sua.
Cosa poteva dargli lui, Luke Castellan, che aveva smesso da tempo di essere padrone della propria stessa esistenza?
«Perché è una vita che ti aspetto» borbottò Annabeth, così piano da temere che lui non la sentisse.
Ma Luke distolse brevemente lo sguardo dalla strada per guardarla negli occhi, sorpreso.
«Sei stato il mio eroe per tutta la mia vita» continuò Annabeth, dolcemente. «Sono riuscita a perdonarti anche quando credevo che tu e Talia… quindi sì, sono sicura».
 
***
 
Per quella sera, Annabeth aveva iniziato a nutrire aspettative già dall’ora di pranzo, quando ogni ora che la separava dal tramonto era divenuta un’ora di troppo, superflua e inutile.
Luke, al contrario, era diventato più teso con ogni minuto che trascorreva, e sembra voler rimandare, di città in città, il momento in cui si sarebbe dovuto fermare. Questo finché, dopo nove ore trascorse al volante e una piccola pausa lungo la strada, arrivati a Williams Lake si era dovuto arrendere all’idea di essere troppo stanco per continuare a guidare.
Annabeth, almeno con sé stessa, si era rifiutata di cogliere i segnali e aveva ignorato con noncuranza gli sbadigli di Luke, mentre si lasciava condurre verso una cena che non le interessava consumare. Quella sera, aveva deciso, sarebbe stata la svolta: se non mi bacia stasera, pensò distrattamente mentre giocherellava con le posate, non lo farà mai più.
«Posso indovinare da qui a cosa stai pensando» osservò Luke ma, più che divertito, sembrava solamente rassegnato. «Te lo giuro, ti si legge in faccia».
«La metti come se ti stessero costringendo» rispose Annabeth, seccata. «Pensavo di piacerti».
«Non mi piaci, io sono innamorato di te, che è diverso» rispose lui, facendole mancare un battito. «E proprio per questo vorrei il tuo bene. Il che significa non metterti un dito addosso mentre sei minorenne e… poco lucida».
«Lo dici tu, che sono poco lucida» commentò lei, alzando un sopracciglio. «Io… è quel che ho sognato per anni. Ma posso sforzarmi di capire, se non mi vuoi, e continuare a essere… la tua sorellina».
Luke inghiottì un boccone di insalata, e scosse il capo. Lo sapevano gli Dei, quanto doveva essergli costato quel singolo gesto, e Annabeth vide con quanta fatica si stava trattenendo dal dirle che, per il suo bene, accettava di tornare a considerarla sua sorella.
«Non potrei» disse, infine. «L’unica volta che ho provato ad allontanarmi da te è andato tutto male. Io… la parte di me che ti ama è la migliore che ho, non posso semplicemente lasciarla andare».
Annabeth posò le posate sul piatto vuoto, e gli tese semplicemente una mano, sopra il tavolo.
«Allora non farlo» disse, semplicemente. «Non lasciarmi andare di nuovo».
 
***
 
«Annabeth, senti…».
Luke non indossava il pigiama, era ancora interamente vestito, con una vecchia maglia stropicciata e dei bermuda azzurri. «Un passo alla volta, okay? Non puoi pensare di pianificare anche questo».
Lei, stranamente, accantonò, e si limitò ad annuire, con aria distratta.
«Possiamo rimanere un po’ svegli?» domandò, invece. «Anche senza parlare. Solo… ti puoi mettere qui, accanto a me?»,
Luke si sedette sulla sponda del letto, per poi stendersi al suo fianco, le mani dietro il capo. «Pensavo fossi stanca» mormorò. «Oggi abbiamo fatto tardi».
Lei non disse niente, ma si raggomitolò contro il suo petto. Con orrore, Luke si rese conto che Annabeth stava piangendo.
«Scusami» mormorò, contro la sua maglietta. «Io… è solo un momento».
Lui finalmente riuscì a riprendere il controllo di sé, sebbene il terrore di sapere cosa avesse provocato quelle lacrime lo paralizzasse, e le accarezzò piano il capo. «Che succede?» domandò, piano. «Puoi dirmi qualunque cosa, lo sai».
«Oh, non che non può» commentò una voce, proveniente dal piccolo balcone della camera d’albergo. «Tu non sei esattamente quel tipo di ragazzo cui si può confessare qualunque cosa, Luke Castellan».
Luke sobbalzò, allungandosi sul comodino per prendere il coltello di Annabeth, unica arma che erano riusciti a portare con loro senza destare sospetti.
«Chi sei?» chiese, con la voce che non ne tradiva il tremore interiore. «Fatti avanti».
«Andiamo, non c’è bisogno di alcuna arma» disse una donna, entrando nella stanza, dopo aver aperto la portafinestra con uno schiocco di dita. «Non è un campo che mi compete, diciamo».
«Lei è…» bisbigliò Annabeth, ma poi si morse la lingua prima di pronunciarne il nome. «Cosa… perché è venuta qui?».
La donna si accomodò su un soffice pouf rosso, incrociando le gambe: era bellissima, sebbene il viso avesse qualcosa di indefinito, come se mutasse continuamente. Aveva i capelli neri e, il secondo dopo, era già divenuta bionda.
«Fai bene a non chiamarmi» convenne Afrodite. «Attireresti inutilmente l’attenzione. Comunque sono qui per congratularmi, mia cara».
«Non…» cominciò Luke, perplesso. «Non è venuta per riportarci a New York?».
«E rovinare la storia più interessante dai tempi della guerra di Troia?» domandò la Dea, laconicamente. «Nemmeno per sogno, mio bell’eroe. Mi stavo divertendo a guardarvi, prima che tu riscoprissi di avere una coscienza e una morale».
«Io non ho riscoperto di avere una morale» sibilò Luke. «Io…».
«Come vuoi» lo interruppe Afrodite. «Ciò non toglie che sei diventato noioso: carino sei carino, ma in quanto a iniziativa… scommetto che sei d’accordo con me, cara».
Annabeth fece per rispondere, poi scosse il capo e si fermò. «Se non vuole consegnarci a… suo padre, perché è venuta fin qui?» chiese. «Pensavo che nessuno sapesse dove siamo diretti».
«Oh, ma io sono dalla vostra parte» asserì la Dea, con enfasi. «Ho convinto Ermes a dirmi tutto, per aiutarvi. Non hai idea da quanto non capitava, un bell’eroe che rapisce la donna di un altro…».
«Non è la donna di nessun’altro» sibilò Luke. «E qui nessuno ha rapito nessuno».
«Vedi, Annabeth, la verità è che avevo altri piani per te» continuò Afrodite, come se non avesse minimamente sentito ciò che Luke aveva detto. «Tu e Percy Jackson… sai che smacco, per tua madre. Ma hai deciso autonomamente, rovinando tutto. E meno male! Ora è tutto immensamente più divertente».
«E quindi perché è venuta fin qui?» domandò Annabeth, pensosa. «Non per dirci che siamo diventati il suo show preferito».
«Nemmeno per dirvi che Percy Jackson sta battendo tutta l’America per cercarvi» aggiunse la Dea. «E dovresti vederlo, Annabeth, è furioso: pensa che Luke ti abbia costretta a seguirlo, con chissà quali minacce».
«Okay, immagino che dovremo fare attenzione» rispose la ragazza. «Per quale altro motivo è qui?».
«Volevo farvi alcune piccole, ma essenziali rassicurazioni» disse Afrodite, con aria serie. «In primo luogo, siamo tutti troppo occupati per venirvi a cercare, quindi dovreste fare in tempo a lasciare l’America prima che mio padre si ricordi di voi».
Luke annuì, come se stesse prendendo mentalmente nota. «La ringrazio per l’informazione» disse, cortesemente. «Se non c’è altro».
«Certo che c’è dell’altro» lo interruppe la Dea. «Annabeth, mia cara… non si gioca tutto stasera, continua a sperare. E, te lo assicuro, quel che temi… non è semplicemente mai successo».
Annabeth spalancò gli occhi sorpresa. «Come fa a sapere…?» mormorò. Poi si rese conto che Luke si era voltato verso di lei, curioso, e riuscì a troncare a metà la domanda.
Afrodite rise, con un suono simile a uno scampanellio. «È il mio lavoro, cara» disse. «Sei fortunato, Luke Castellan. Se la tua fuga romantica non mi avesse divertita così tanto, saresti già morto. Cerca di non deludermi ulteriormente».
 
***
 
Sull’autostrada pioveva a dirotto, gocce d’acqua così grandi che la visibilità si era ridotta drasticamente e Luke, che si rifiutava di fermarsi da più di quattro ore di viaggio, era costretto a guidare con gli occhi puntati sulla strada. Da quando Afrodite aveva lasciato la loro stanza d’albergo, nella cittadina di Williams Lake, Luke non aveva più detto una parola.
Annabeth si era adeguata con sollievo a quel suo mutismo, lieta che non le domandasse niente sulla rassicurazione che al Dea le aveva offerto, come un’elemosina schifata. Quel che temi non è assolutamente mai successo, le aveva detto la Dea dell’amore. E lei, da quel momento, si era sentita invadere da una profonda ondata di sollievo che le aveva sciolto i nervi, aggrovigliati fino a quel momento.
Luke non era mai stato innamorato di Talia, le aveva fatto intendere Afrodite, e lei non riusciva a smettere di pensarci. Era sollievo, assolutamente fuori luogo nella situazione in cui si trovava, che non riusciva a reprimere in nessun modo.
Forse lui non se n’era reso conto, di quanto Annabeth si sentisse più leggera da quando aveva scoperto che quel dubbio no, quel tarlo, che le aveva masticato nervi e sinapsi per mesi non era mai esistito.
«Perché stai sorridendo?» domandò Luke, distogliendola da quelle riflessioni. «A cosa stai pensando?».
«A ieri sera» borbottò Annabeth, incerta. «A… una cosa che ha detto lei».
«Ha detto qualcosa che valeva davvero la pena ascoltare?» chiese lui, laconicamente. «Qui piove sempre più forte, ci conviene fermarci alla prossima città… penso sia Houston».
«Forse non sei stato abbastanza attento, allora» osservò lei. «Comunque sì, è Houston. Circa mezz’ora da qui, credo».
«Siamo proprio nel bel mezzo del nulla canadese» osservò Luke. «Fantastico. E io sono sempre attento».
«Certo» commentò Annabeth, con un sorrisetto ironico. «Attentissimo».
«Quindi, si può sapere di cosa non dovevi preoccuparti?» chiese il ragazzo, sorridendo. «L’ho notato perché sono poco attento».
In quel momento, Annabeth si vide davanti all’ennesimo bivio della sua vita: dire la verità o mentire.
«Se stai per dire una bugia, evita» osservò Luke, scuotendo il capo. «Piuttosto non rispondermi».
«Non ti mentirei mai» disse lei, impulsivamente. «Non… pensavo a te e Talia, che stessi solamente ripiegando su di me».
«Ringrazia che siamo nel bel mezzo di un’autostrada, quindi non posso semplicemente inchiodare e chiederti come tu sia riuscita a partorire un pensiero del genere» disse il ragazzo, a denti stretti. «Ma, comunque: come sei riuscita a pensare una cosa del genere? Immagino ci sia voluto un certo impegno».
«Ero una bambina, quando ho incontrato te e Talia» disse Annabeth, senza scomporsi. «Non… come potevi semplicemente accorgerti di me, dopo avermi vista crescere?».
«Non potevo» convenne Luke. «Ma, in un certo senso, è come se avessi passato quegli anni ad aspettarti».
 
***
 
La pioggia era progressivamente aumentata nel corso del pomeriggio così che Luke, dopo aver passato tre ore seduto in macchina in attesa che la visibilità migliorasse per poter ripartire, aveva capitolato e aveva guidato fino all’albergo più vicino, un piccolo motel non troppo lontano dall’autostrada.
In camera, il ragazzo si era seduto sul letto, pensoso, guardando fuori dalla finestra la pioggia che, con il vento a dirigerla, picchiettava sempre più forte sul vetro. Annabeth si era raggomitolata nella propria parte di letto, dandogli le spalle, e dopo poco si era assopita.
Si voltò a guardarla, mentre borbottava qualcosa a un tono di voce troppo basso perché potesse udirla, e le accarezzò dolcemente il capo. Pensò che, per quanto lei si fosse arrabbiata se soltanto avesse provato a dirglielo, quando dormiva Annabeth era di nuovo bambina: dormiva rannicchiata su sé stessa, quasi come se cercasse una sorta di conforto nel rumore del suo stesso respiro, una mano stringeva il copriletto quasi come se vi si stesse aggrappando per non sprofondare in quel mondo di sogni, incubi, che l’attendeva.
Respirava piano ma, ogni tanto, sembrava quasi fosse scossa da singhiozzi. E, allora, Luke pregava di non essere lui, la causa di quegl’incubi talmente affilati da farla piangere.
Si dovette impedire di svegliarla, quando Annabeth si girò, mostrandogli il volto: stava piangendo davvero. Luke rimase con la mano che le sfiorava i ricci biondi, annichilito, mentre le parole che stava pronunciando non iniziarono ad acquisire una forma e un colore, svelandogli il senso di quel discorso bisbigliato.
«Ti prego, Percy» stava borbottando la ragazza, da chissà quanto. «Lascialo stare».
A Luke si gelò il sangue nelle vene.
 
***
 
Quando Annabeth finalmente si svegliò, era notte fonda e Luke stava distrattamente sfogliando una guida turistica, con un grande Alaska scritto in caratteri azzurrini.
«Ben svegliata» disse il ragazzo, sorridendo. «Hai dormito parecchio, ormai è quasi mezzanotte».
«Potevi svegliarmi» mormorò lei, strofinandosi gli occhi. «Spero che almeno tu sia andato a mangiare qualcosa».
Luke scosse il capo, continuando a sfogliare il libricino. «No» ammise. «Non volevo lasciarti sola… hai avuto un incubo».
«Credo di sì» disse Annabeth, scrollando le spalle. «Nulla di importante comunque».
«Hai sognato che… che ci trovassero, non è vero?» domandò Luke, con un certo tremolio nella voce.
Lei lo guardò e pensò che, ancora una volta, poteva scegliere se mentire o dire la verità: io non ti mentirei mai, gli aveva detto, in un momento che iniziava già a sembrare lontano secoli. Ma aveva detto la verità o aveva già cominciato a mentirgli anche allora?
«Sì» disse infine. «I miei incubi peggiori sono quelli dove non riesco a salvarti».
Solamente dopo aver pronunciato quella frase si rese conto che conteneva un’implicazione che Luke non avrebbe potuto comprendere, ma a lei apparve nuovamente chiara ed evidente tutta la catena di sforzi e cambiamenti che aveva dovuto creare con un solo scopo. Salvare Luke da sé stesso. Questa volta ci sarebbe riuscita, ne era certa.
«È che siamo così vicini» mormorò. «Ho paura che qualcosa… qualcuno ci costringa a tornare indietro».
«Non succederà» disse Luke, sfiorandole il braccio. «Vedrai… tra cent’anni non ricorderemo nemmeno di questa sera».
«Conti di essere ancora vivo, tra cent’anni?» chiese Annabeth, sorridendo. «Sei molto ottimista».
«Conto di essere vivo, felice e circondato dai nostri nipoti» rispose Luke, sorridendo. «E saranno tutti quanti biondi e adorabili e… saremo felici, vedrai».
Lei annuì ma, dentro di sé, avvertire come un’ombra che macchiava quel bellissimo sogno che Luke stava cercando di mostrarle. Un mosaico sporco d’inchiostro che, nella mente di Annabeth, s’incrinava e vomitava calcinacci con ogni secondo che passava.
«Sì» disse lei, e quella singola parola le graffiò la gola come un frammento di vetro. «Saremo felici».
«Io ne sono certo» ribadì Luke, dolcemente. «Credo che la mia felicità abbia a che fare con te».
Lei cercò di sorridere, ma quel presentimento non la lasciava.
 
***
 
Poco prima di aprire gli occhi, in un confuso dormiveglia dove i pensieri s’accavallavano con la realtà, Annabeth pensò distrattamente che era stata sciocca, la sera precedente, a nutrire così tanti dubbi sull’ottimismo di Luke: meno di trenta ore di viaggio li separavano dal confine con l’Alaska, erano così vicini che lei, seppur mezza addormentata, riusciva quasi a percepire il freddo sulla pelle.
Finché non si rese conto che la finestra della camera era aperta e qualche goccia di pioggia, trainata dal vento, era riuscita a macchiarle il viso.
«Buongiorno, Sapientona» Percy Jackson era seduto sulla sponda del letto. «Strano che tu ti sia svegliata solamente ora».
C’era un’ombra strana, nello sguardo del figlio favorito di Poseidone, che ne sfigurava i lineamenti e faceva sembrare i suoi occhi verdemare come vetri appannati da un fumo grigiastro.
«Meno male che ti abbiamo trovata» continuò Percy. «Io… ti ho sognata, quando stavate andando a Vancouver, ma non sono riuscito a intercettarvi lì».
«Mi avete trovata?» domandò Annabeth, perplessa. Mentre scandiva quelle parole, al centro esatto del suo petto si era formato un grumo doloroso di sensazioni, che pulsava come un secondo cuore.
Percy annuì, serio. «Abbiamo chiesto un’impresa» disse. «Io, Tyson e… Clarisse. Ha insistito per venire anche lei».
La ragazza si guardò attorno, cercando il viso della figlia di Ares o del ciclope, ma non vide nessuno. Entrambi i suoi cuori persero un battito, nel constatare anche Luke non era più lì.
«Luke?» riuscì infine a chiedere, sperando che la propria voce non tradisse il turbamento che stava provando.
Percy affilò lo sguardo, come se anche soltanto l’udire il suo nome potesse infastidirlo. «Clarisse e Tyson lo stanno portando sull’Olimpo» disse. «Spero che paghi per tutto questo».
Annabeth non riuscì nemmeno a guardarlo negli occhi, certa che, se solamente lui avesse ricambiato il suo sguardo, si sarebbe sciolta in un fiume di lacrime: lo sapeva perfettamente, che le possibilità che aveva Luke di uscire dall’Olimpo ancora in vita erano nulle.
«Eravamo tutti preoccupati, quando abbiamo scoperto che ti aveva rapita» continuò Percy, scompigliandosi i capelli imbarazzato. «Ma, almeno, fuggendo ha impedito che Crono riuscisse nei suoi intenti».
«Pensi che lo terranno in conto?» bisbigliò Annabeth, quasi come se si pentisse del suono delle proprie parole. «Che ci ha salvati da una guerra?».
«Una guerra causata da lui stesso» rispose il figlio di Poseidone, con evidente astio. «Non dimenticartelo… nemmeno suo padre potrà fare niente».
«Lo so» mormorò Annabeth, chinando il capo. «Volevo solamente esserne sicura».
La finestra era ancora aperta, il vento sibilava tra gli alberi gonfiandone i polmoni, qualche goccia d’acqua le colpì nuovamente il viso. Pregò silenziosamente che Percy potesse scambiarle per pioggia.
 
***
 
«Certo che potresti» confermò Aion, meditabondo. «Ma, Annabeth, il tempo è più complicato di un “potrei”. Ci sono infiniti mondi possibili, come disse un tuo fratello qualche secolo fa, e ogni azione compiuta ti proietta in uno di questi».
«Deve essercene uno dove posso riuscire a impedire che Luke muoia» osservò Annabeth, con forza. «Uno in cui potremmo essere di nuovo…».
Una famiglia. Le parole le si bloccarono in gola, come sabbia o cocci di vetro, facendola tossire.
«Potrebbe» convenne il Dio. «Chi lo sa? Se solo potessimo vedere l’infinita catena di conseguenze derivanti da ogni singolo gesto, allora, te lo saprei dire con certezza».
«Non mi serve, una certezza» borbottò lei. «Mi serve tentare, e lo farò finché non riuscirò a salvarlo. Mi aiuterà?».
«Posso farti tornare indietro tutte le volte che vuoi» rispose Aion. «Ma guarda un attimo la mia scacchiera, e dimmi se ne sei ancora così convinta».
Annabeth guardò la scacchiera e, sulle caselle, si alternarono scene da due futuri distinti, di cui lei a malapena riconosceva l’esistenza.
«Hai capito, adesso?» domandò il Dio bambino. «Il futuro è come una ragnatela: puoi tagliarne un filo, percorrerne un altro, cambiare strada. Ma qualunque percorso tu decida di imboccare ti porterà sempre, inevitabilmente, al centro».
«Ho bisogno di tornare indietro» lo interruppe Annabeth, secca. «Questa volta so come fare».
In un modo che avrebbe segnato una netta cesura con i loro sogni: non l’avrebbero mai vista, l’Alaska, o la Grecia, la Francia e perfino la Russia. Erano sogni da bambini che, in quel mondo duro e crudele, non trovavano più posto.
«Puoi continuare a tentare» disse Aion, conciliante. «Ma temo che, per quanto tu possa provarci, non esista un mondo in cui si riesca a salvare Luke Castellan».
«Un modo c’è» insistette Annabeth. «Io ne sono sicura».
Il Dio chinò il capo, prendendo in mano i dadi, rigirandoli tra le mani paffute, e lanciandoli sulla scacchiera con un tonfo sordo. Distrattamente, Annabeth pensò che certamente non erano i dadi adatti per giocare a backgammon: tutte e sei le facce erano bianche


 
Buongiorno a tutti con questo secondo capitolo.
Spero sia stata una lettura piacevole: oggi non mi dilungherò in spiegazioni, sto postando questo capitolo in un momento di pausa studio. Ciò implica che non posso nemmeno fare discorsi sensati, ho il cervello fuso. E non posso nemmeno dare una data certa per il prossimo capitolo, di cui mi manca circa 1/3 da scrivere... indicamente, penso sarà online verso il 3/4 luglio, mentre quello successivo, che sarà anche l'epilogo di questa storia, sarà online entro il 13 luglio, data di scadenza per il contest cui partecipa, sperando di riuscire a finire in tempo, ma sono ottimista.
Grazie a tutti quelli che hanno impiegato il proprio tempo per leggermi.

Gaia

 
   
 
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