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Autore: Dragonfly92    05/07/2020    1 recensioni
Tobia è un uomo che ha trovato, nella solitudine, la sua felicità.
Yuri è un bambino che, invece, non l'ha mai conosciuta.
Un passato ingombrante, un ricatto, la forzata convivenza e la scoperta di un'infanzia mai esistita: pelle livida, cuore cianotico.
Piccoli, faticosi passi per arrivare a capire, scoprire, disinfettare le emozioni.
E difenderle, quando il passato torna a reclamarne la potestà.
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(La storia è legalmente protetta da copyright)
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Due Verticale - Rendere mansueto, docile, ubbidiente
 
 
Sai qual è stata la prima cosa che ho pensato quando mi sono svegliato cercando di scrollarmi di dosso i postumi di una notte scomoda?
 
Che te l'avrei fatta pagare.
 
Se tua madre aveva deciso di rovinarmi la vita usando te, avrebbe trovato pane per i suoi denti.
I pochi denti rimasti, quelli ancora non mangiati dalla droga.
 
Te l'avrei fatta pagare, perché avevi sette anni e sicuramente avresti combinato qualcosa.
Ed avevo già in mente il tono per rispedirti in camera senza cena.
O per ordinarti di scrivere frasi all'infinito.
 
Ma le ore passavano.
E tu, ancora, non mi avevi dato un pretesto moralmente accettabile per sfogare la mia frustrazione.
 
Nel frattempo, Adele aveva fatto la tua conoscenza.
 
Tozza, nerboruta, russa.
Atterrata in Italia ed in questa casa da quelli che, al tempo, erano tredici anni.
 
Adele, che in realtà si chiama Aglaida Dobrava Kuznetsovia, ma ha optato per un nome d'arte nonostante le mie rimostranze di fronte al suo annuncio.
“Non si è mai sentito di una domestica con un nome d'arte!”
“Ma io è artistia! Io sopporta Siniore Tobia, io è quasi mago!”
Niente da ribattere.
 
Adele, che si pronuncia senza la e finale.
Delicato, etereo.
In perfetto ed armonico disaccordo col suo essere.
 
Le avevo dato un'idea generale della situazione.
Poche, semplici, brevi spiegazioni e una sola raccomandazione: “Non dargli confidenza.”
Non c'era stato bisogno di aggiungere molto, Adele già conosceva la mia storia e la fama di Silvia, tua madre.
 
“Y-Yuri....”, ti ho sentito rispondere ad una raffica di parole pronunciate con la fierezza di chi è intollerante agli ordini. Non hai aggiunto altro.
Eri ancora troppo spaesato per lasciar libero il tuo vero essere.
 
Ero convinto.
O, forse, solo ostinato: il fatto che le mie convinzioni vacillassero di fronte all'evidenza era irrilevante.
 
“Bambino non ha viestiti. Perché bambino non ha viestiti?”
 
Tu, non rispondevi.
Immobile, di fianco alla tavola apparecchiata.
Pronta per la colazione.
 
“Non mi riguarda.”
Adele ha borbottato qualcosa in russo e si è congedata.
Ricordo le sue incomprensibili lamentele accompagnarla alla porta, al vialetto, al cancello.
 
Niente di nuovo.
 
A parte te, ovviamente.
 
Credevo fosse arrivato, sai?
Il momento.
Quello giusto.
Pensavo fosse arrivato quando mi sono seduto a tavola e tu invece sei rimasto lì, imbambolato in piedi, intento a fissarti le scarpe e a giocare con l’orlo della maglia logora.
“Siediti. Non lo ripeterò.”
Lo hai fatto: ti sei seduto per terra.
Non ricordo con esattezza ciò che successe dopo.
Dopo che la rabbia aveva infuocato la mia voce, dopo che i miei occhi ti avevano trapassato fino al punto da far quasi lacrimare i tuoi.
L’immagine successiva delle mie memorie è il tuo sederti a tavola con le mani sotto le cosce, senza toccare cibo.
 
Avrei potuto approfittare ed infierire, suppongo.
Ammetto di aver soppesato l'idea, ma ho optato per una soluzione migliore: ti ho ignorato.
Se non volevi mangiare, non era un problema mio.
 
L'ho fatto la mattina, poi a pranzo in una sorta di deja-vu.
Hai atteso l'ordine di prendere posto, mani sotto le cosce, una ferma presa di posizione nel non mangiare.
 
Volevi provocarmi, ragazzino e ci stavi riuscendo bene.
 
Ma c’era qualcosa… Qualcosa di stonato.
La mia assurda incapacità di godere appieno del tuo timore evidente.
Ed il fastidioso formicolio all'altezza dello stomaco, provocato dall’udire ogni tua scontata risposta.
Dallo sfiorare con lo sguardo i tuoi occhi lucidi.
D'orgoglio.
La mascella costretta.
Sempre orgoglio.
 
Cercavi attenzione?
Non l'avresti ottenuta.
 
“Usciamo.”
“S-Sì, Signore!”
 
Un pugno sbattuto sul tavolo.
 
Mi ricordo di come il tuo corpo ha sobbalzato.
Mi ricordo di come hai spalancato gli occhi, sottoponendomi ad un supplizio che ignoravi.
 
“Sai dire qualcos'altro oltre a Sì, Signore e No, Signore?”
“Sì, Signo…”
 
Ti bloccasti.
Poi, violenti scatti del tuo corpo, del tuo braccio.
 
Eccoti, che reprimevi la voglia di dedicarmi chissà quale volgare gesto.
 
“Non ti permettere!”
“M-Mi d-dispiace, S-Signore!”
 
Avevi perso.
E un po' avevo perso anche io.
 
“Piantala e seguimi.”
 
Il mio formicolio mi irritava.
Il tuo tremore mi irritava.
La tua obbedienza ostentata mi irritava.
Il tuo camminare con la schiena curva, i lacci sciolti delle scarpe, il nascondere le mani, mi irritava.
 
O forse, non era irritazione.
Tuttavia ho sempre deciso io quali emozioni provare.
E non era disagio.
Non era timore.
Era irritazione.
Lo avevo deciso.
Il caso, era chiuso.
 
Ti ho assegnato degli esercizi.
Scrittura, compiti di base.
Volevo vedere fino a che punto arrivava l'eredità di tua madre.
 
Non hai chiesto perché stavamo rimandando l'uscita.
Non eri spocchioso o deliberatamente provocatorio come lei, questo potevo ammetterlo.
Eri solamente più furbo.
 
Hai svolto tutti gli esercizi assegnati.
Senza fiatare.
Eppure sulla sedia continuavi a muoverti: piccoli e quasi impercettibili movimenti di disagio che tentavi di celare.
Come lo scuotere il braccio indolenzito dall'esercizio.
Orgoglioso come tua madre.
 
I tasselli combaciavano.
 
Ho pensato non fossi abituato a lavorare così a lungo.
E la mia tesi è stata confermata da un'occhiata veloce alle pagine: frasi quasi illeggibili, una scrittura pessima.
Ovviamente, te l’ho detto.
Ti ho detto di non aver mai visto niente di più vergognoso del tuo compito.
Poi ho preso le pagine e le ho accartocciate.
 
Sai cosa avrebbe fatto tua madre?
Forse no.
Alla luce dei fatti, posso affermare che tu non l'abbia conosciuta.
Ma io la ricordavo bene.
Frequentavamo la stessa scuola superiore e nonostante io fossi all'ultimo anno e lei soltanto al primo, le sue reazioni nei confronti dei professori, erano leggenda.
Ero quindi talmente preparato a vedere la sua proiezione in te, che il tuo Mi dispiace, Signore, mi ha travolto.
Stravolto.
 
Ho sentito la necessità di voltarmi, per ignorare il tuo viso.
“M-Mi d-dispiace, Signore…”
Le tue scuse.
La testa china sul fallimento d'inchiostro.
 
Ed ho odiato quella necessità.
“Bugiardo.”
 
Domare.
 
Lo avevo sempre fatto, con le mie emozioni.
Non avrei certo smesso a causa tua.
 
“È stato nominato Tutore provvisorio del minore, in quanto parente più stretto.
La tutela verrà revocata alla fine della condanna.
A quel punto, il suo ruolo si assolverà automaticamente e la custodia tornerà ad essere esclusivamente della madre, qualora sia ritenuta idonea, ovviamente. Ha qualche domanda?”
Li fissai.
Ero in bilico.
Avrei potuto troncare sul nascere quella farsa.
Avrei potuto consegnarti a loro.
E condannare la mia reputazione.
 
Firmai odiando ogni lettera del mio nome.
Vollero vederti,  ma  per non destabilizzarti  evitarono di interrompere i tuoi esercizi.
“Se ha qualche dubbio, ci contatti.”
Stritolai il biglietto da visita tra le mani,  riducendolo ad un pugno di inutile carta.
 
 
 
“Scendi.”
Alzai una mano per bloccare la tua ovvia risposta, guardandoti dallo specchietto retrovisore.
E tu, di rimando, alzasti entrambe le braccia per coprirti la testa.
Possibile, che ti avessi spaventato a tal punto?
Spostai lo sguardo dal tuo al mio riflesso.
Possibile, sì.
 
“Va' a prendere le tue cose, vestiti, libri per i compiti, spazzolino, pigiama e…”
Ti vidi deglutire più volte.
Aprire e chiudere la bocca.
E forse…
Forse sperai, che tu dicessi qualcosa.
 
 
Ma non ha importanza.
Perché tutto ciò che uscì, a fatica, dalle tue labbra, fu un Sì, Signore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Tre Orizzontale - Amaro turbamento interiore, per parole o azioni riprovevoli
 
 
“Bene.
Bene.
Bene.
Guarda un po' chi è tornato…”
 
Yuri schiva la mano che sibila sopra la sua testa ma non riesce ad evitare la spinta; finisce disteso a pochi centimetri dal camino ancora sporco dei residui dell'inverno.
 
La risata lo raggiunge.
Ed il fatto che ad essa non si unisca un coro, lo fa in qualche modo tranquillizzare.
 
“K-Kevin…”
 
K-K-K-Kevin!
K-K-Kevin!
 
C'è abituato.
Alle risate.
A sentire l'eco dei suoi frastagliamenti accentuati.
C'è abituato.
 
E allora perché fa sempre così male?
 
“I-Il S-Signore ha d-detto che…
C-che d-deve p-prendere le c-cose e…”
 
Di nuovo risate.
Di nuovo spinte e, adesso, rialzarsi è più difficile.
 
“K-Kevin…”
 
K-K-Kevin!
K-K-Kevin!
Ma ti senti quando parli?
E quello dove stai ora lo sa di quanto sei anormale?
Si sarà fatto un'idea, se ha avuto il coraggio di guardarti in faccia!”
 
Il telefono sfilato dalla tasca.
 
Lacrime offuscano gli occhi.
 
“P-Per f-favore…”
“Dovrebbe saperlo, non credi?”
 
La voce intrisa di una cattiveria che mal s'intona ad un'anima di nove anni.
Crudeltà spontanea, maturata.
Imitata, incitata.
Che risuona dopo aver scorso la galleria, strusciando con saputa conoscenza il display crepato.
 
“Che dici? Glielo facciamo vedere al tuo nuovo S-S-Signore come sei frignone?”
 
Play.
Le urla si propagano dal contenitore digitale.
E poi, è tutto troppo veloce.
 
“NO!”
 
Yuri gli si scaraventa addosso.
Troppo spaventato, troppo allarmato per rendersi conto di quel che ha fatto.
 
“Come cazzo ti permetti di toccarmi!”
 
Vuole soltanto andare via.
Ubbidire al Signore.
Prendere le sue cose.
Tornare da lui.
Dall'uomo che gli fa paura, ma che è stato paziente.
 
Dall’uomo che…
Ha appena spalancato la porta.
E si sta dirigendo verso di loro.
 
“E così è questo il tuo zietto! E dai, facciamogli ascoltare!”
 
È tutto confuso.
Le frasi, le parole, le mani che lo allontanano e lo tirano su.
Le urla, le risate interrotte.
Le parole cattive.
Che però, adesso, Kevin non sta rivolgendo a lui.
 
“Ridammelo, stupido vecchio!”
 
“Taci ragazzino o ti giuro che queste saranno le ultime parole che dirai!”
 
E ancora insulti ed ordini.
Offese e risposte.
 
Il telefono smette di fare rumore.
Il suo rumore.
 
“Vai a prendere le tue cose e andiamo!”
 
Le gambe tremano nello sforzo di eseguire il comando.
 
“Questo lo tengo io!”
 
Le proteste lo inseguono e lui cerca di ignorarle.
 
Yuri esce sul retro.
Non guarda, il casottino in legno.
Ma lo sente.
Nel sudore che gli fa frizzare la schiena, nei brividi.
Caldi, freddi.
Caldi, freddi.
 
Maledetti.
 
Affretta il passo, per chinarsi poi sotto la siepe che vorrebbe poter annaffiare.
Così farà i fiori.
I fiori fanno sorridere la mamma qualche volta.
 
Dissotterra il suo sacchetto azzurro, di plastica, lo infila sotto la maglia e il terriccio finisce anche dentro i pantaloni.
Yuri corre per raggiungere il pilone.
L'innaffiatoio dove c'è già un po' d'acqua dentro.
 
Lo solleva e lo sbattere contro il marmo grigio fa traboccare un po' di liquido, che inzuppa la manica.
Ma non ci bada.
Può farcela .
 
Ce l'ha fatta.
 
Se non fosse qualcosa di troppo stupido da fare, probabilmente Yuri sorriderebbe.
Lo fa, dentro di sé, per un momento percepisce il solletico dentro al pancino.
Una sensazione buona.
Si presenta, ogni tanto, quando sa di non aver sbagliato.
Quando sa che, forse, non li farà arrabbiare.
 
Tuttavia Yuri sa quanto breve sia la sua durata.
Ed assiste alla prematura trasformazione nell'esatto opposto: un opprimente, angosciante sentimento.
 
“Sei diventato totalmente stupido?”
L'incontro con la miniatura di Corrado ha riacceso la rabbia e carbonizzato i rimasugli del suo autocontrollo.
 
“Sul serio, ragazzino? Io ti dico di sbrigarti e tu ti metti ad annaffiare un cespuglio?”
 
Il bambino stringe l'innaffiatoio al petto.
La testa bassa, le scarpe tracciano solchi agitati nel terreno.
“S-S-Sennò…
M-M-M… M-Muore, S-Signore…”
 
Per un attimo, Tobia rimane interdetto.
L'attimo successivo, è nuovamente furibondo.
E cieco.
Incapace di vedere il terrore che la sua vicinanza scatena nel bambino.
E sordo.
Incapace di sentire la vera natura delle sue pavide obiezioni, additate come capriccio.
Vissute come preghiere.
 
 
 
“Va' a tavola!”
“Oh, buonasera anche voi, Siniori!”
Adele sventola la mano su di un pentolone fumante.
Non si cura dell’astio che trapela dalla voce dell'uomo, abituata al suo essere scostante e presumendo le difficoltà che una persona come il Siniore Tobia incontra nell'affrontare una situazione del genere.
Ma la renderà orgogliosa, ne è sicura.
Il tempo di adattarsi ed accoglierà il ragazzino magro.
Il quale ha decisamente bisogno di una bella doccia, si dice guardandolo.
Magari anche di una rassicurazione, aggiunge, facendogli l’occhiolino.  
 
Sedendosi, l'uomo è disturbato da una pressione insistente ed inusuale alla coscia.
Allungando la gamba e inarcando la schiena, estrae il marchingegno dalla tasca del jeans scuro, stringendolo nella mano.
 
Tobia prova a canalizzare nel pugno la rabbia bollente aizzata dalla figura immobile davanti a sé.
 
Fa per aprir bocca, ma non è sua, la voce che dà vita ad una domanda rubata.
 
“Perché Bambino non mangia? No piace?”
 
Il colpevole deglutisce, la salivazione aumentata alla vista della carne.
Oh, quanto vorrebbe assaggiarne un pezzetto.
 
Gli occhi desiderosi, lucidi e resistenti la guardano.
In una tortura lenta che fa urlare lo stomaco.
E lo fa dolere così tanto.
 
Yuri non si arrischia a guardare in direzione dell'uomo arrabbiato.
Sa che sarà lui a dare una spiegazione alla donna col vestito a fiorellini.
Le spiegherà perché non può assaggiare nemmeno un pezzettino della carne che sembra tanto morbida e…
Dolce, forse.
Bagnata dal sugo che ha lasciato qualche gocciolina sui bordi del piatto bianco, che sicuramente il Signore raccoglierà con la mollica del pane.
Chissà se anche lui, getta via la crosta come il Signor Corrado.
Se gli permetterà di prenderla o...
“Dannazione, ragazzino!”
Un pugno sbattuto sul tavolo, il telefono ancora stretto fra le mani.
Quel telefono.
Gli occhi di Yuri si sgranano.
Il sobbalzo provocato dal colpo violento, lo spavento scaturito dalla scatola di ricordi, lo fanno scivolare, scattare via dalla sedia.
“S-S-S…
S-Signore…”
“Perché diavolo non mangi, ragazzino?”
L'uomo si è alzato.
Enorme.
Furioso.
 
“N-Non lo s-s-sapeva, S-Signore! P-per…”
 
Inspira forte, Yuri, per sciogliere il tremore delle sue parole.
 
“N-N-N-Non lo sa-sapeva che po… poteva!”
 
C'è una supplica, nella voce.
Nelle mani che corrono alla bocca.
Nell'accorgersi del madornale errore.
Sta per piangere.
 
Sta.
Per.
Piangere.
 
“Piantala con questa messinscena!  Ti serviva forse il permesso per mangiare da…”
“Sì, Signore!”
 
Un singhiozzo malcelato.
Un indietreggiare istintivo.
Un avanzare che blocca il respiro.
 
“N-No…”
Un pigolio.
 
L'uomo arrabbiato si avvicina.
“S-Signore…”
Con il telefono ancora in mano.
 
“Q-QUELLO N-NO!”
Un ruggito.
 
Tobia rimane interdetto, in un limbo fra il reale e l'inconcepibile.
E quando Yuri urla di nuovo, spingendolo nella realtà, la sua ripresa è violenta.
 
“IN PIEDI! SUBITO!
È questo il tuo problema, RAGAZZINO?”
 
Il comando eseguito, il telefono sventolato, un passo indietro.
Un rifugiarsi nel buio creato dalle palpebre serrate ma deboli.
 
Le mani sporche di terra strusciano il viso umido, premendo, tentando di comprimere tutto il suo vergognoso mondo.
Che vacilla, vacilla.
 
“P-P-P…”
“È QUESTO?”
 
Ancora quell’oggetto e ancora una paura così cattiva.
Che lo fa mugolare, stavolta più forte.
 
Sì, è il suo stupido problema.
 
Per questo Tobia lo sbatte sul tavolo.
Insieme alla sua furia.
“ECCO RISOLTO IL TUO PROBLEMA!”
 
Yuri è paralizzato.
Crocifisso da quella voce strizza gli occhi, si torce i capelli aggrappandosi a quei fili, a quel dolore, per non guardare.
Per non vedere il suo viso tremante, rosso, le vene del collo gonfiate di rabbia, e le striature sanguigne in quegli occhi che sporgono, sporgono, sporgono, spor-
“E ADESSO VAI A DARTI UNA RIPULITA! O vuoi dirmi che nemmeno quello ti  era permesso, piccolo bugiardo?”
 
“SINIORE TOBIA!”
È Adele, a porre fine all'agonia.
La sua coscienza russa è in piedi, in uno sguardo che solo lei osa rivolgergli.
“È bambino!”
 
Una scontata constatazione, ha il potere di schiaffeggiarlo.
 
Si blocca, Tobia, col petto che si alza ed abbassa veloce, reduce di una sfuriata interrotta.
Abbassa il viso.
E il ragazzino si rialza ed inciampa, si rialza ed inciampa di nuovo fra i lacci ancora sciolti che non si prende la briga di allacciare, troppo frettoloso di allontanarsi.
È bambino.
 
In un silenzio assordante, l’eco del rimprovero rimbomba.
Costringendolo ad ascoltare.
A guardare.
 
E per un attimo, Tobia lo fa.
Vede un piccolo corpo spaventato che non osa emettere fiato.
Vede le maniche lunghe strusciare sugli occhi.
Fermarsi sulla bocca.
Percepisce il suo stesso sguardo gridare vergogna in direzione di un mucchio di abiti sudici.
Vede Yuri obbedire.
 
Vergognarsi.
Degli abiti che stropiccia, delle mani che nasconde.
Degli occhi, che abbassa e tenta di celare con i capelli ora unti di sudore, lacrime, terra.
“Io va a preparare banio! Bambino viene con me!”
 
Adele è determinata nella sua decisione.
 
E da quella determinazione Tobia si sente scalfire.
 
Vergonia!”
 
Trafiggere.
 
“Rimani al tuo posto, Adele.”
È la risposta concisa.
Fredda.
Portata dall'involontaria accettazione di quell'imperativo: vergogna!





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Post It Autrice

Grazie, a chi ha superato il caos del capitolo scorso ed ha affrontato questi.
Stiamo entrando nel vivo, nel punto cruciale.
Il prossimo capitolo, sarà quello su cui si basa tutta la storia.
Sarà lo snodo, la deviazione, quello che farà decidere, a chi legge, se proseguire o meno.

Quindi intanto grazie, per essere arrivati fin qui.
Grazie per avermi fatto capire cosa non andava, nelle parole scorse.
Siete fondamentali.
Vi abbraccio, forte.




 
   
 
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