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Autore: Cassie chan    14/07/2020    5 recensioni
ATTENZIONE: non tiene conto degli eventi del settimo libro...!!Sono passati alcuni anni dalla fine della guerra, ed Hermione Jane Granger vive estromessa dal suo mondo, quello della magia, a causa di una condanna ricevuta tempo prima. Fidanzata delusa, disoccupata cronica, cinica perenne, Hermione ormai dispera dell'arrivo del principe azzurro. Ma quando arriva, non è facile riconoscerlo nelle fattezze affascinanti ma DECISAMENTE irritanti di Draco Lucius Malfoy, specie se babbano anche lui... ma la vita è decisamente strana e può anche capitare che ci si imbatta in una piccola fiaba, proprio quando si credeva di vivere in un incubo...:) PUBBLICAZIONE CAPITOLO 51 : 14 LUGLIO 2020
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Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Lavanda Brown, Ron Weasley | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'THE "HAVE A LITTLE FAIRY TALE" SAGA. '
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Capitolo 51: Disturbia, step four: about what we’ve never had (II)

 

Scesa dalla corriera, rabbrividisco immediatamente per l’impatto con l’esterno, la temperatura pare essersi abbassata di diversi gradi nel seppur breve viaggio, cosa che mi fa stringere attorno al mio cappotto bianco chiudendolo alle folate di vento gelido che soffia dalle montagne.

Mi guardo attorno con un afflato di curiosità, la mano sulla valigia, mentre la gente scende dalla corriera e si disperde nella piccola piazzetta, raggiungendo le proprie destinazioni: come ha preannunciato Malfoy, effettivamente la cittadina non è null’altro che un ammasso di casette di legno senza alcuna attrattiva turistica. Poche luci accese alle finestre, qualche insegna marcita dall’umidità del lago; un droghiere, un vecchio pub o un ristorante cinese con un drago rosso sulla porta così grottesco da somigliare piuttosto ad un lungo verme solitario. Cosa che sicuramente non stimola l’appetito. Anche la gente in giro è pochissima, è l’ora di cena, i pochi passanti camminano ingolfati in grossi maglioni con le trecce, allungando la falcata nervosa dopo avermi gettato un’occhiata in tralice di sospetto. Lontano, in una fessura tra le casupole basse, un pontile di legno si allunga sulla superficie del Lago Nero, richiamando indietro qualche sparuto pescatore che, le canne pendenti sulla schiena, torna a casa.

Decisamente, nulla di interessante o indimenticabile.

Mi volto su me stessa cercando Draco con lo sguardo che, in tutta la mia manovra di sopralluogo del circondario, ha alacremente consultato la cartina ed alcuni fogli di carta spiegazzati.

“La nostra locanda dovrebbe essere…. da quella parte…” sciorina incerto, indicando con il braccio in una confusa direzione alle mie spalle.

“Sono colma di fiducia al momento per il tuo senso dell’orientamento, caro…” schiocco la lingua guardandolo obliquamente, non è che siamo in mezzo all’Upper East Side e ad un dedalo di strade, se non è capace di trovare il solo alberghetto del posto siamo davvero alla frutta.

Draco non si dà pena di rispondere, nemmeno al mio appellativo sdolcinato da finta moglie, limitandosi a borbottare qualcosa tra i denti prima di indicarmi con uno rapido gesto del capo la direzione a suo dire corretta. Quindi probabilmente mi ritroverò tra una ventina di minuti nella selva oscura con i lupi che banchettano sulla mia carcassa dilaniata. Che prematura e ingrata fine.

Nonostante tutto, in mancanze di alternative, lo seguo. Lui, come poco prima sulla corriera, non si dà naturalmente pena di attendere che io lo affianchi, ma invece cammina a passo sostenuto davanti a me, continuando a guardare alternativamente la sua stupida mappa e le strade attorno, guardingo come una lepre inseguita dai cacciatori. Incespico nello sterrato per cercare di non perderlo di vista, impacciata dalla valigia e dagli stivaletti con il tacco quadrato che, ancora, non so perché diamine mi sia venuto in testa di indossare proprio stasera, proprio qui… e proprio con lui, aggiungo malevola con il pensiero, stringendo le palpebre nel tentativo di bucargli la schiena con la potenza del mio sguardo inceneritore.

“Smettila, Granger… i tuoi anatemi silenziosi sono molto più rumorosi di quanto pensi… credo di averti già detto che hai il respiro di un maledetto mantice iperattivo, come sei sopravvissuta in guerra, Merlino solo lo sa…”.  Sbuffo, ovviamente rinforzando la mia immagine di utensile soffiante, ma non mi do pena di rispondergli per le rime, cercando di disincastrare di nuovo la valigia da una buca nel terreno.

Lo seguo mentre, superata la piazzetta ed un paio di casette diroccate, inforca il declivio che conduce nelle vicinanze del lago. La già scarsissima illuminazione del paesino si affievolisce ancora di più, smorzata dalla vegetazione incolta ed attraversata da respiri notturni non molto rassicuranti. Rabbrividisco, guardandomi ossessivamente attorno ad ogni tramestio sospetto che fa risorgere la fantasia che Malfoy in verità ha solo finto di assecondarmi, ma che in realtà mediti di assassinarmi e di gettare il mio cadavere nel fondo fangoso del lago, tanto per ravviare il traffico escursionistico della zona con un po’ di turismo macabro.

D’improvviso, però, si ferma immobile sul sentiero, senza nemmeno una parola, come colto da un pensiero fulmineo che lo paralizza anche nell’azione semplice del camminare. Lo affianco, raggiungendolo infine e già pronta alla tiritera sul fatto che non si può perdere in uno sputo di posto come quello, non prima di aver disincagliato da un’altra buca la mia nefasta valigia, la stessa che continuo a maledire per essermi portata per il pernottamento di una sola notte, ma che probabilmente tornerà utile per l’occultamento del mio corpo in decomposizione. 

Mi accosto quindi a Draco guardandolo storto, ma lui semplicemente riprende a camminare senza aggiungere un’altra mezza parola, solo ad un passo più lento, così che io possa finalmente stare accanto a lui.

Ha visto la zona poco illuminata e mi ha aspettato, l’attenzione inaspettata mi fa sciogliere di un sorriso imprevisto, mentre evito di guardarlo in faccia per paura che possa capire quanto la cosa mi abbia fatto piacere. Ridimensiono subito mentalmente tutto perché, naturalmente, deve fingere di essere mio marito quindi probabilmente se capicollo giù per una scarpata, la cosa non offre molti profili di verosimiglianza: non voglio dare a nessuna parte della mia mente ulteriori sponde per annotare ogni singola gentilezza che quest’uomo mi fa. Ho già abbondantemente notato che cose che sembrano minuscole con altri, con lui diventano sterminate, finendo per tributarmi una felicità che non riesco a spiegare. A quest’ora, se fossi con Ron, starei già urlando e sbuffando perché non mi sta aiutando con la valigia. Con Draco Malfoy, mi accontento della briciolina che mi aspetti lungo una strada poco illuminata. Che razza di idiota.

Il pensiero mi mette ulteriormente di cattivo umore nei pochi passi che percorriamo in silenzio, fino ad arrivare alla nostra destinazione. La locanda risulta essere né più e né meno che un cottage come tutti gli altri, di legno scuro, appollaiato a pochi passi dalla riva del lago e da un pontile. Non c’è né un’insegna, né una decorazione particolare, solo un patio un po’ più ampio all’ingresso che si affaccia sullo specchio d’acqua, restituendo la visione mozzafiato delle montagne e di Hogwarts poco distante, immersa nella nebbia umida come uno stormo di lucciole intermittenti.

Mi fermo a guardarla per qualche secondo con la mano sospesa sulla valigia, il legno che scricchiola sotto i piedi miei e di Draco che apre la porta smaltata di rosso della casupola. Il tintinnare giocoso di alcuni campanelli non riesce a coprire del tutto il cigolio esasperato dei cardini vecchi.

Di fronte a noi, non c’è niente più che una piccola stanza circolare che funge da salotto, con una piccola libreria, qualche divano stinto, un caminetto acceso che rimanda un buon odore di resina di pino. Tutto è di legno scuro, consumato. Poco più a sinistra rispetto all’ingresso, intravedo una scala che porta al piano superiore, il cui corrimano ha dei pezzi mancanti. Non sarà niente di più che una casa un po’ più grande che mette in affitto una o due camere a notte.

L’impressione mi viene confermata dall’arrivo della nostra albergatrice, una donna sulla cinquantina piuttosto in carne, dall’aspetto pacioso e rubicondo, i capelli biondo cenere legati in una crocchia, con un vestito a fiori terribilmente leggero per la stagione. Sopra, indossa un cardigan di lana infeltrita grigia. Unica nota di colore e pregio del suo aspetto è una spilla con il cameo di una rosa bianca che le chiude il maglioncino sotto il collo. Lo osservo per qualche secondo, affascinata dai riflessi cangianti che il fuoco disegna sulla pietra lucida.

“Buonasera signori!” esordisce gentile e frizzante, con un forte accento del nord del paese “Immagino che voi siate i signori Carrington…”. Ovviamente ci ha preso subito, non penso che abbiano la fila di clienti che si allunga fino ad Aberdeen.

“Sì, buonasera sig. Hudson, ci siamo sentiti telefonicamente…” risponde Draco con solerzia, porgendole la mano a mo’ di saluto e presentazione “Sono Julian Carrington”.

Guardo Draco di sbieco, non sia mai che presenti anche me e mi tratti in modo diverso da una semplice appendice ornamentale: “E io sono…”, come diamine ha detto che mi chiamo? Era un nome da cartone animato dei Simpson… Lisa? Maggie? Inizio a sudare freddo, non voglio ricalcare sul fatto che, apparentemente, dobbiamo fingere di essere marito e moglie. Vorrei evitare di sputare fuori quell’appellativo a meno che non ci sia costretta con una pistola alla tempia; per fortuna, occhieggiando i documenti che Draco ha poggiato sul bancone della reception, riesco a leggere in tralice il nome del mio personaggio di fantasia.

“E io sono Margery Carrington” completo trafelata dall’ansia di non sembrare una completa imbecille. Draco, alla mia destra, sospira con un’aria rassegnata che ha l’effetto di infastidirmi ancora di più. Sembra che, senza nessuna fatica, abbia indovinato i miei pensieri.  

L’albergatrice, inforcando un paio di occhiali dalla montatura di osso, procede alla registrazione dei nostri documenti su un faldone dall’aspetto consumato ma dalle pagine immacolate, confermandomi ulteriormente che il posto è ben poco abituato ai turisti. Osservo la manovra di registrazione puntellandomi nervosamente sui piedi, come se temessi che da un momento all’altro la verità sulla mia identità venga fuori per un misterioso ed inspiegato incidente.

Inutile aggiungere che, invece, Draco è perfettamente a suo agio, calmo e serafico come starei io dentro una biblioteca. La menzogna e l’omissione sono tipo il suo pane quotidiano, mi chiedo ancora ossessivamente quante volte sia già passato da una manfrina simile.

Il pensiero mi mette di nuovo a disagio riducendomi lo stomaco ad una poltiglia stopposa che mi pesa nel torace come un’ammissione di colpa.

Finalmente la signora termina le sue incombenze e, sfilandosi gli occhiali, ci restituisce i documenti fasulli, accompagnandoli con la chiave della stanza: “Allora signori, benvenuti a Fort Lachlan. Vi tratterrete a lungo?”.

Nel mio silenzio pensoso è Draco che risponde sicuro: “Solo fino a domani mattina… partiremo molto presto”. La signora, dopo un cenno di assenso, armeggia con un cassetto della scrivania che apre cigolando, tirando fuori una chiave pesante di metallo con un cordino consumato come portachiavi. Ci indica la scala, prima di dire sempre all’indirizzo di Draco: “La vostra stanza è quella al piano superiore. È già pronta. Lei e sua sorella potete accomodarvi se siete stanchi per il viaggio”.

Per un attimo, la parola fluisce dentro le mie orecchie come acqua di un ruscello, assolutamente priva di peso e consistenza, scivolando inascoltata. Poi, come lo stridio delle unghie su una lavagna, mi ritorna in mente qualcosa di completamente disarmonico con il resto del discorso, qualcosa che stona terribilmente, cosa che tendenzialmente mi accade con i congiuntivi sbagliati o con la consecutio temporum sballata. Ripercorro quindi la conversazione, trovando quindi il pezzo che non mi tornava. Sua sorella.

Gli occhi rischiano di schizzarmi fuori dalle orbite per qualcosa a metà tra la sorpresa e l’orrore, entrambi proporzionalmente maggiori persino a quelli conseguenti a dover passare per moglie di Draco Malfoy. Perché poi mi faccia più ribrezzo essere creduta sua sorella che sua moglie, lo so solamente io. Fatto sta che, la bocca impastata, mi ritrovo a rantolare: “Sorella?! Ma chi, io?!”.

Draco mi guarda per qualche istante, un’espressione indecifrabile sul volto che non mi dà ragione dei suoi pensieri, solo di una serie di meteore indistinte che si affannano negli occhi chiari.

Poi torna a rivolgersi alla nostra albergatrice con tono di voce piatto: “No, sig.ra Hudson, credo di averglielo detto telefonicamente. La signora è mia moglie…”, con un gesto naturale e fluido come se ci fossimo abituati da tutta la vita, mi poggia la mano alla base della schiena, cingendomi ed avvicinandomi al suo fianco. Assecondo lo spostamento d’aria come se fossi una bambolina di pezza privata di una qualsiasi gravità.

Resto a testa bassa, turbata di nuovo dalla vicinanza di quel contatto, nella perfetta esibizione di una moglie sottomessa e timorata di Dio, cosa che naturalmente sono ben lungi dall’essere anche con il mio vero marito. L’odore del legno di pino bruciato si fonde con quello del profumo di Draco, come se fossero complementari, vicini di essenza, e li sento entrambi amplificati, penetranti, dannatamente impossibili da ignorare. Come sempre, come ogni maledetta volta, il profumo dell’uomo accanto a me ha l’effetto di muovere una parte nascosta dentro il mio basso ventre, come un guizzo di tempesta ed un singulto di ricordo. Mi struggo perfettamente muta ed immobile di nostalgia per una cosa che non ricordo e non so nemmeno se è mai esistita e, per quanto mi sforzi di afferrarla, sfugge come olio scivolato sull’acqua.

Il calore di quell’abbraccio di lato mi avvampa le guance peggio del calore del camino. Per concentrarmi su qualcosa di diverso, sollevo gli occhi tornando con un sorriso fintamente timido a guardare la nostra albergatrice, torcendomi le mani e tenendole ben lontane da quelle di Draco.

Ci manca solamente innescare un’altra serie di immagini strane.

“Ah scusatemi davvero… davvero moltissimo, che errore sciocco… “commenta la signora Hudson con aria mortificata, asciugandosi la fronte imperlata di sudore con un fazzoletto a scacchi e rivolgendosi poi sussiegosa nei miei confronti “Vogliate davvero perdonarmi signora, non so perché ero convinta che foste fratello e sorella… forse sarà stato lo stesso cognome a trarmi in inganno”.

La mano ancora ferma di Draco sulla mia schiena mi innervosisce al punto che, in barba a qualsiasi educazione, mormoro acida: “Sciaguratamente in Inghilterra abbiamo ancora questa malsana usanza di prendere il cognome del marito, signora. Credo che sia in voga da qualche millennio…”, con un piccolo balzello mi stacco da Draco ed incrocio le braccia al petto, in un moto automatico di difesa. Lui segue le mie manovre in silenzio, mentre concludo con una smorfia velenosa: “Credetemi, avrei preferito di gran lunga mantenere il mio di cognome”.

Accanto a me, il sospiro rassegnato di Draco raggiunge lo stesso grado di decibel del mantice respiratorio di cui spesso mi accusa. Naturalmente, ha colto subito la non velata stoccata alla noia che provo per tutta questa faccenda della falsa identità, del cognome mutato e, non da ultimo, del fatto che debba pure fingere di essere la sua amorevole consorte.

Quando invece io un marito ce l’ho: e sta mettendo a letto mio figlio, adesso, dopo che ho mentito ad entrambi per l’ennesima volta. Per chissà cosa, poi… non potevo per una volta abbozzare e lasciar correre questa faccenda della maledizione e non mettere ulteriormente sulla graticola il mio matrimonio traballante?

Mi pungono gli occhi sentendomi di nuovo estranea alla situazione che sto vivendo, spero di poter fingere che sia per il fumo del camino nella stanza non sufficientemente areata.

“Ha ragione, signora, mi perdoni…” prosegue l’albergatrice profondendosi in piccoli e ripetuti genuflessioni del capo, cosa che mi fa ovviamente intenerire e pentire del mio accesso di astio precedente che, ovviamente, non ha lei come destinatario.

Sto già per scusarmi della mia antipatia dicendo di lasciar correre, quando la signora Hudson, in un moto di esemplificazione, biascica una sorta di spiegazione del suo errore: “… non so perché mi è venuta automatica come associazione, invece che pensarvi sposati… sarà stato che…”.

“Sarà stato che… cosa, esattamente?” chiedo con un sorriso statico, comprendendo esattamente dove stiamo arrivando e sfidandola quasi a continuare. Accanto a me, Draco continua a non parlare, profondamente intrattenuto dalla pantomima che sto mettendo in scena per suo esclusivo divertimento.

“Niente, lasci stare… si figuri, sono solo pensieri ad alta voce… se volete che vi sia servita la colazione…” la signora, oramai quantomeno disperata, cerca di deviare il corso della conversazione, evidentemente non ancora consapevole della persona con cui sta parlando: Hermione Granger in Weasley, la persona NON elastica per eccellenza.

“No, no, signora Hudson, si figuri lei, non sia mai che non chiariamo questo affascinante equivoco. Perché le è venuto più naturale pensarmi come sorella di mio marito piuttosto che come sua moglie?”, indico Draco con un cenno del capo “Come può notare, ci somigliamo come si somigliano le manguste e i serpenti”, nessuna analogia zoologica potrebbe essere più azzeccata “Quindi mi pare un accostamento quantomeno azzardato. Non si preoccupi, non rischia di offenderci, sia sincera… sono solo curiosa…”.

“Beh signora… è qualcosa… a p-pelle, credo. Un’impressione superficiale. Non s-sembrate due che si p-potrebbero s-sposare…” balbetta l’albergatrice, guardando a destra e a sinistra come a cercare una fuga dalla situazione, come se qualcuno potesse spuntare all’improvviso per salvarla. Per un curioso controsenso, però, quando torna a guardare me e Draco, i suoi occhi restano gelidi, cristallizzati, profondamente ancorati nel nostro esame visivo alla luce di una verità universalmente accettata. Sebbene tutto di lei spinga alla gentilezza e alla cordialità, compreso l’imbarazzo della situazione, lo sguardo mi fa raggelare come se fossi stata abbandonata in mezzo alla neve.

Mi scordo però della sensazione, fumando di rabbia per il suo commento successivo: “Lei è così… semplice. E il signore, invece…”. Completa il tutto con una nuova occhiata al nostro indirizzo, stavolta un po’ più ferma sulla figura di Draco, come ad imprimersi meglio la sua figura nella memoria.

Ogni accezione dell’aggettivo semplice mi si scarta ostile nella memoria, abituata da quando ero adolescente a nessun carattere di eccezionalità estetica. È chiaro che si sta parlando di un profilo prettamente fisico, a cui sciaguratamente sono abituata da anni. Non sono una di quelle donne che, non appena le incontri, spingono un uomo a voltarsi e a sbavare copiosamente per terra in preda agli scompensi ormonali. Sono una di quelle donne che invece, troppo ingolfate e infagottate, riesce a passare indenne davanti ai capannelli di uomini che si bevono una birra, oppure davanti ai cantieri con i muratori che lavorano ad una ristrutturazione. La cosa, tendenzialmente, non mi ha mai ferito eccessivamente, se non quando ero ragazzina ed andavo in giro con Ginny che, al contrario, otteneva ed ottiene l’effetto esattamente opposto. Ma, con la maturità e con il passare degli anni, si arriva ad una certa consapevolezza di sé per cui tali cose non fanno più soffrire. Non le si nota nemmeno più.

Perciò, non so perché, il commento pure educato giunge nella carne viva di un fantomatico fianco scoperto. Il peso della valigia che porto ancora in mano, piena di vestiti che so già che sono inutili e che probabilmente non indosserò, mi informano con una subitanea intuizione del motivo per cui adesso, dopo tanti anni, un’osservazione del genere mi ferisce come se fossi una stupida adolescente.

Draco.

Lo guardo di sottecchi per un secondo, lo sguardo annoiato dalla diatriba, i lineamenti rischiarati dalle ombre rossastre dal fuoco, il contegno aristocratico, il mento sollevato, gli zigomi scavati. E in un’ellissi ideale delle pupille, guardo lui e dopo guardo me stessa. Il cappotto bianco troppo leggero, le scarpe con il tacco adesso infangato, i capelli freschi di messa in piega e che adesso l’umidità del posto ha gonfiato come un pallone aerostatico.

Ho temuto di farmi vedere accanto a lui, perché so che non è il mio posto. Perché immagino le donne che ci sarebbero dovute essere con lui a prendere una camera d’albergo. Perché conosco sua moglie e, sebbene Draco non la ami, ricordo l’effetto che fanno quando entrano in una stanza. E non è l’effetto che faccio io. Non lo è mai stato. Non sono mai stata bella, bionda, alta, magra, un complemento perfetto a quello che è lui, non mi è mai interessato esserlo: io sono calzini spaiati, matite a tenere assieme i capelli, occhiali calati sul naso, postura un po’ curva. E tutto quello con cui da anni avevo fatto pace, mentre facevo quella valigia, mi era esploso come una mina antiuomo pensandolo accanto a lui.

E non capisco perché sia stato così, non capisco perché ho fatto di tutto per sembrare una che poteva stargli accanto senza sfigurare, quando non mi interessa, quando non mi è mai interessato, quando sono la moglie di un altro e lui è il marito di un’altra.

Perché diamine mi interessa?

Voglio fuggire, scappare, dare riposo a questo prurito agli occhi che non mi lascia in pace. Invece, inselvatichita come un’Erinne, erompo ancora, conficcandomi le unghie nei palmi delle mani: “E il signore, cosa?! Cosa vuole dire?! Che sono troppo ordinaria per stare con uno come lui?!”.

Ordinaria, sembra un insulto, riecheggia di tutta quella inadeguatezza che provavo nel periodo della pubertà, magari rintuzzata da una qualche oca come Lavanda Brown. Mi si chiude la gola, mentre penso a chissà quante volte mi sono sentita così proprio a causa dell’uomo che mi sta ora accanto, grazie ai suoi atteggiamenti da bullo. Un’ondata ulteriore di calore furente mi travolge, facendomi bruciare le piante dei piedi per l’immobilismo della situazione assurda in cui mi trovo.

Ignara della mia tempesta emotiva, la signora Hudson, sudando ancora freddo e balbettando, cerca ancora di scusarsi mettendo toppe che sono peggio del buco da lei stessa provocato: “No no signora, non mi permetterei mai… s-solo che sono a-abituata che uomini così, preferiscono altre c-compagnie… più a-appariscenti…”.

Ancora la carrellata di donne bionde, longilinee e procaci con cui il mio compagno di viaggio solitamente si intrattiene, mi scorre davanti agli occhi in una fantasmagoria di curve e risolini. Ciò ha lo stesso effetto del rosso negli occhi di un toro, specie quando constato di trovarmici anche solo vagamente accostata in un azzardo mentale. Che peraltro mi penalizza e condanna anche come perdente.

Le guance rosse, la testa leggera, sto già per scoppiare in un nuovo coro di obiezioni, quando finalmente Draco, rimasto in silenzio per tutto il tempo, emette un solo lungo sospiro che ha l’effetto di congelarmi sul posto come una statua di sale. Irrigidendomi, improvvisamente consapevole del mio accesso irrazionale di ira per un commento fuori luogo ma decisamente superabile, mi affloscio come un ramoscello secco piegandomi contro il peso della schiena. Lo guardo con la coda dell’occhio mentre, con un movimento ad arte, si passa una mano tra i corti capelli biondi, esibendosi nella sua migliore interpretazione di nobile annoiato dalle beghe della servitù.

Poi, senza alcun preavviso, mi mette un braccio attorno alle spalle attirandomi ancora vicina a lui prima di sussurrare suadente: “Mi creda, signora Hudson, le doti nascoste di mia moglie possono compensare un nugolo di donne cosiddette appariscenti… non vorrei che esse diventassero troppo manifeste stanotte… quindi le chiedo già scusa in anticipo se ha il sonno leggero”.

“Caro!” gli assesto una gomitata, neanche troppo delicata nel fianco incollato al mio, cercando al contempo di guadagnare preziosi centimetri di distanza.

Non essere così timida, amore…” bisbiglia lui, stringendomi la spalla che ancora cinge e destinandomi un lungo sguardo di finto desiderio mentre si umetta il labbro inferiore “Ne andava del tuo orgoglio ferito”.  Calca la parola con decisione, rimarcando probabilmente quanto tutta la faccenda mi abbia notevolmente colpito per la solita alterigia di tutti gli ex Grifondoro. Glielo faccio credere, abbassando il capo come una bambina messa in punizione, rossa in viso nella stessa identica maniera, grata che il resto della girandola dei miei pensieri autodistruttivi sia andato perso di fronte alla sua capacità di leggere il sottinteso.

Adesso, tutta la sceneggiata che ho portato avanti mi fa sentire decisamente ridicola.

Draco Malfoy funge sempre da una sorta di amplificatore costante di quello che provo, qualsiasi cosa essa sia, fosse pure un fastidio innocuo per una frase fuori contesto o vagamente offensiva. In certi momenti mi pare che tutto il resto che provo durante la giornata, senza di lui, sia a volume basso, sussurrato, quasi sul muto. Poi arriva lui, ed improvvisamente mi vibra la cassa toracica da quanto le cose rimbombino ad una potenza infinitamente superiore.

Come questo braccio sulle spalle: è una cosa che fa sempre Harry, o George, o Bill, o anche Charlie. Sono sempre più bassa di loro e, quando vogliono mostrare accondiscendenza per quello che dico, mi parlano così. Cingendomi le spalle con un gesto innocente di affetto.

Un tempo, quando pioveva ed avevamo solo un ombrello, anche Ron faceva così per evitare che mi bagnassi.

Poi invece lo fa Draco Malfoy per una finzione stupida, ed avverto ogni singolo centimetro della pelle delle sue dita sul mio avambraccio, ogni falange così stretta dentro la manica del mio cappotto.

I nervi del braccio trascinano corrente elettrica fino alla punta delle mie unghie, come a richiamare la magia che il contatto delle nostre mani porterebbe. Un mondo in cui siamo stati altri, non questo.

Certamente, non il marito di Astoria Greengrass e la moglie di Ron Weasley.

Mi divincolo di nuovo dalla stretta di Draco, facendo qualche passo di lato e fingendo di recuperare i documenti che la signora Hudson ha finito di registrare. Sento che lui studia la mia manovra diversiva, ma non aggiunge niente.

“Vogliate ancora scusarmi per l’errore…” ripete per l’ennesima volta l’albergatrice, allungandoci la chiave della stanza “Sono stata davvero inopportuna, mio marito me lo rimproverava sempre”.

La consapevolezza dell’esagerazione della mia reazione si stempera in un sentimento di gentilezza ritardata per questa povera donna, cosa che mi fa chiedere comprensiva: “Mi dispiace, è vedova?”.

“Divorziata. Mio marito ha pensato bene di scappare con una sua amica di liceo. Mi ha letteralmente spezzato il cuore” aggiunge con una scrollata di spalle che vorrebbe essere noncurante, ma che invece suona solo stridente con lo sguardo tormentato.

“Mi scusi davvero, non volevo essere io inopportuna adesso” sussurro colpevole, guardandomi la punta delle scarpe a disagio.

Alla mia sinistra, Draco sbuffa rumorosamente mormorando caustico: “Invece io gradirei essere inopportuno e salire in camera nostra, tesoro”. 

La signora Hudson lo ignora bellamente e torna a guardare me, occhi negli occhi, come se mi trapassasse da parte a parte: “Tranquilla, signora, sono passati tanti anni. Si incontrarono per caso, i nostri figli andavano a scuola assieme, guardi un po’ il caso. E pensare che non si erano mai sopportati quando erano ragazzi, esistevano ancora leggende sui loro scontri nei corridoi…”, mi stringo nelle spalle, inconsciamente faccio un passo indietro, lo sguardo di Draco addosso “Ma quando ci si avvicina ai quaranta, si inizia quella complicata età in cui si guarda indietro e si cercano errori ed errori…”, annuisco debolmente, asciugandomi il palmo delle mani sudato contro la stoffa del cappotto. Lei soppesa la mia reazione, quasi sincerandomi che la stia ascoltando attentamente, poi prosegue con la voce cantilenante, quasi ipnotica: “Sebastian… mio marito… ad un certo punto si è convinto che tutta l’insoddisfazione che sentiva, si sarebbe risolta cambiando la sua compagna di vita. E quella donna… apparentemente sembrava capirlo meglio, sembrava che semplicemente per anni non si fossero resi conto di cosa erano l’uno per l’altra…”, il mio tentativo maldestro di raggiungere gli occhi di Draco, sincerarmi che siano ancora su di me, cercarli dentro il mio sguardo come una complicità inconscia di cui pentirsi subito dopo, si infrange non appena la signora Hudson continua stentorea, a voce più alta e secca: “Assurdo, un mare di scuse patetiche che ci sono costati anni di sotterfugi, lettere nascoste nei barattoli vuoti dello zucchero, trasferte di lavoro che erano solo weekend con la sua amante…”, non ci posso credere, deglutisco il mattone di bile che mi si è formato in gola, nella tasca del mio cappotto vergognosamente trovo ancora la carta del messaggio di Draco di settimane fa e che porto ancora dietro alla stregua di un amuleto. Lo accartoccio malamente per dare sfogo alle mie dita inquiete e nervose, mentre la signora conclude con un lungo e sofferto sospiro: “Ma la cosa peggiore è il male che ha fatto ai nostri figli, a quelli di quella donna. Si dovrebbe pensare due, tre, cinque volte prima di incamminarsi in qualcosa che, potenzialmente, può fare del male ai propri figli. Sebastian non ci ha pensato… mai”.

Hugo che cerca di nascondere la carne dentro la montagnola del purè di patate. Che ancora non si allacciare bene le scarpe. Che mi abbraccia le ginocchia quando ha paura. 

Rose che ha l’odore della carta di riso. Che mangia il dolce prima del secondo. Che adesso forse dorme in una stanza rossoro dall’altra parte di questo lago.

E sogna da innamorata il figlio dell’uomo che stanotte dorme sotto lo stesso tetto di sua madre.

“Come… come è andata a finire?” chiedo, la bocca impastata, le parole un pigolio sfuocato.

La signora mi guarda ancora con un sardonico sorriso che pare la rappresentazione grafica di un “te l’avevo detto”, pronunciato chissà quando e chissà a chi. Al marito, sicuramente. Ma non so perché sembra che abbia solo me come destinatario da bruciare sul rogo.

“Sono stati assieme qualche anno, il tempo di togliersi lo sfizio. Si erano trasferiti anche a Glasgow per sfuggire alle chiacchiere di paese. Poi si sono lasciati. Sebastian ha perso tutto, il suo lavoro, la sua famiglia… e pure quella donna…”, la sua voce viene smorzata da un singhiozzo più forte delle sue parole, si cerca un fazzoletto nelle tasche “Non… non lo sento da tre mesi. È completamente sparito”.

“… come potete vedere, però, non si può dire che la cosa interessi me e mia moglie…”, la voce di Draco, tinta di una vena amara di una specie di rabbia repressa, spezza la malia del racconto come uno specchio che va in pezzi. Torno a guardarlo, ha la mascella serrata, i pugni chiusi contro i fianchi: “Mi dispiace per lei, ma come le dicevo prima del suo racconto strappalacrime, gradirei vedere la nostra stanza”. La donna lo guarda sbattendo le palpebre per qualche secondo, con un fondo di irritazione sporca dentro lo sguardo di acquamarina gelida. Serrando la mascella, gli porge di malavoglia la chiave della nostra stanza con la punta delle dita, come se venisse direttamente dalle fauci incandescenti della terra.

Draco la afferra con decisione, prima di prendermi per il gomito con una punta di esitazione, forse spaventato che il contatto inneschi qualche altra visione sgradita. Evidentemente, però, l’incantesimo risparmia qualsiasi contatto diverso da quello delle mani, quindi resto a farmi trascinare su per le scale passivamente, priva di una forma qualunque di controllo sul mio corpo e sulla mia volontà come se fossi un sacco inerme di sabbia. Le spalle mi si piegano sotto il peso enorme di una colpa che sembra una pantera acquattata nel buio dei miei pensieri e di cui, ora, sento il respiro nell’ansa del collo, pronta a squartarmi la pelle tenera della carotide. Il calore delle dita di Draco sulla stoffa del cappotto, il suo respiro ansante mentre mi trascina su per le scale, le bestemmie che mastica a mezza bocca dentro emissioni brevi di fiato irato, giungono filtrati alle mie orecchie come se fossi in apnea e tutto si confondesse, galleggiasse umido attorno a me.

Ogni minuto di questa vicinanza aggiunge gironi infernali alla mia condanna, destinandomi sempre più vicina al fondo dell’inferno, alla fornace incandescente dei traditori; ogni puntello che prima mi preservava almeno tra i penitenti, si sgretola come sale bagnato all’odore di erba bagnata nel mese di settembre. Guardo di sottecchi Draco sollevando di poco gli occhi bassi, fissi sugli scalini consumati di legno tarato. Seguo i suoi tratti rigidi, i denti che digrigna selvaggio come un animale catturato, impastando il movimento con parole che non riesco a decifrare.

La sensazione si acuisce quando, finalmente, arriviamo al pianerottolo della nostra stanza e, con una fulminea fiammata di ragionamento tardivo, mi rendo conto che la chiave che Draco inserisce nella toppa è una soltanto e che il fatto che abbiamo finto di essere marito e moglie non può portare a trovare dall’altra parte due letti singoli da compagni innocui di viaggio.

Se mai lo siamo stati mai. Se mai lo siamo adesso.

Il tenore afoso e rinnovato della colpa mi grava addosso ad ogni centimetro esposto di pelle, pronto a marchiarmi, nelle orecchie e nelle iridi ogni fotogramma di innocente fiducia sprecata di mio marito e dei miei figli. Faccio per liberarmi della stretta di Draco che, però, prima che possa riuscirci, tira fuori dalla tasca del suo cappotto la bacchetta e la punta con un rapido movimento flessuoso al pomello arrugginito della porta.

“Locus praelatus” sussurra soffuso e leggero, come se parlasse dietro le orecchie di un’amante. Una lama di luce rosata compare per un istante sotto la porta, illuminando languida la punta delle mie scarpe, prima di sparire con un suono metallico che ci informa dell’apertura della porta.

Con prudenza fulminea, Draco la apre tirandomi all’interno, per poi chiuderla rapidamente verificando che nessuno abbia scorto nulla.

Resto immobile nel vano della porta poggiandomi allo stipite, il cuore che non mi lascia in pace la testa, battendo ritmico come un martello pneumatico dentro i vasi sanguigni, mentre Draco con scafata nonchalance entra nella stanza e prende possesso dello spazio conosciuto attorno a sé. Il mio cervello anestetizzato riesce comunque a riconoscere l’incanto provandone una sincera ammirazione: è un Incantesimo non semplicissimo, anzi. Consente di richiamare in qualsiasi spazio chiuso un altro, sempre chiuso, che può essere anche lontanissimo nello spazio da dove ci si trova. La difficoltà dell’Incantesimo è che il luogo da richiamare deve essere periodicamente irrorato di una particolare pozione, il cui ingrediente principale è la polvere ricavata da un corallo particolarmente costoso. Quindi, figuriamoci se una come me possa pure permettersi di pensarci.

Cosa che, naturalmente, non è il caso di Draco Lucius Malfoy, milionario, pozionista ed esteta. E del resto, doveva sembrarmi immediatamente strano che non muovesse alcuna obiezione a prendere una stanza in una locanda diroccata e muffita dentro il cuore del nulla inglese.

Può evocare una stanza del Manor anche se fosse perso sulle montagne tibetane, basta trovare un luogo sufficientemente chiuso.

Mentre lui si accovaccia vicino al caminetto per accenderne il fuoco, muovo qualche passo incerto e traballante dentro la stanza, annegata dentro un profumo intenso e struggente di acqua di rose che mi corrode fin nel midollo delle ossa. Un salottino dalla forma vagamente circolare, con la tappezzeria rosso rubino che si screzia delle ombre lunghe e nere delle fiamme del camino. Due divanetti con l’intelaiatura di legno lucido e decorato, cuscini rosso scuri di velluto con disegni a rilievo. Un tavolino basso con un vaso di rose gialle, da cui proviene il profumo innaturalmente intenso e sicuramente amplificato con la magia. Tappeti orientali su cui i passi sono morbidi, soffocati, eterei. Ad entrambi i lati della stanza, si aprono due porte gemelle, adesso vagamente socchiuse su due camere da letto separate dall’arredamento ugualmente sontuoso. Draco ancora armeggia con le mani chiuse a coppa, soffiando sotto i rami la cenere e la scintilla di fiamma, e io continuo in silenzio a guardarmi attorno, una mano sulla valigia che, per tutto il tempo, ho stretto come se ne andasse della mia vita.

La claustrofobia aumenta esponenzialmente quando, come una sonnambula, guardo fuori dalla finestra afferrando l’intelaiatura della tenda pesante di broccato con le dita tremanti. All’esterno, non si vede né il Lago nero e il villaggio di Fort Lachlan, ma nemmeno le montagne e i boschi attorno al Manor. C’è solamente un’oscurità densa, stopposa, lanosa.

Nero, nero a perdita di sguardo.

Chiudo gli occhi, paradossalmente abbagliata facendo qualche passo indietro per metterci distanza, come se il nero potesse spalancare le fauci in un bagliore e mangiarmi tutta intera.

Mi rimpicciolisco nelle spalle, Draco ancora ignaro dei miei gesti, preso com’è dal camino che non si accende. Tengo gli occhi serrati annullandomi dal momento presente, da questo luogo che non esiste da nessuna parte, da cui non so nemmeno se si può uscire e tornare a casa sani e salvi, senza l’odore di rose che si appiccica da ogni parte svelando ogni frammento di desiderio ingerito dentro le giustificazioni e i dinieghi, le preghiere e i ricatti, i compromessi e i sotterfugi.

Questo è un luogo per dare l’illusione che ci si possa restare per sempre. Nutrendosi di aria e vento, come le lenzuola raccontano da ammalianti sirene, frusciando sui corpi nudi e sfrigolando di promesse di carta velina. Lasciando tutto fuori, nell’illusione che il buio si sia mangiato tutto, che la fine del mondo sia arrivata ed abbia lasciato solo te e lui come unici sopravvissuti ad amarsi fino al termine del tempo tutto. O fino al termine di un orgasmo sudato contro una spalla morsa a sangue. Perché dopo ci sono solo due camere da letto separate, così da mettere subito in chiaro che non ci saranno carezze, risatine, appuntamenti, occhi chiusi, dita tra i capelli e guance poggiate sull’incavo di una spalla. Niente. Solo letti vuoti, coperte fredde, movimenti rapidi nel rivestirsi, zigomi sporchi di mascara e colletti macchiati di rossetto. Magari uno sguardo perso attraverso il nero della finestra, la sensazione angosciante che improvvisamente sia entrato anche dentro, si sia rimpicciolito a misura del torace, inghiottendo ogni speranza futura di luce.

Deglutisco il groppone che minaccia di soffocarmi, forte, con ferocia, mentre gli occhi si saturano di tutti i particolari dell’ambiente, tutti troppo studiati perché sia la prima volta che Draco ci porti qualcuno. Ogni cuscino, ogni increspatura delle tende, ogni crepa del pavimento raccontano la storia delle donne che sono passate da qui, impregnando della loro presenza questo posto per il tempo di una scopata veloce, per poi scivolare furtive come farfalle di seta, dimenticate, inesistenti.

Del resto, ho visto la sua mente, penso con un singhiozzo trattenuto guardando i muscoli della schiena di Draco contratti, il fiammifero che si spegne antipatico tra le sue dita, nessuna donna è mai rimasta indimenticabile, erano tutte un calderone di colori brillanti fusi assieme, un punto di piacere minuscolo dove nessuna si distingueva davvero.

Nessuna. Ed un giorno, in mezzo a loro, ci sarò anche io. Una mera ombra sfilacciata, con cui non ricorderà nemmeno se ci è stato a letto. Solo che è stata qui, e quindi probabilmente se l’è fatta ma non è stato granché.

Tutti questi pensieri si rovesciano nel mio cervello, mescolati alla risacca delle parole della signora Hudson, non sono appariscente, sono una che si dimentica, una che si confonde con le altre, una che adesso è uguale a tutte le altre, una che adesso dovrebbe essere a casa con suo marito e suo figlio invece che dormire in una dimensione parallela con un altro uomo.

Studio le linee delle sue scapole, il collo rigido ancora di spalle a me.

Non un altro uomo. Non uno qualsiasi, uno che non è appariscente, uno che si dimentica, uno che si confonde con gli altri, uno che adesso è uguale a tutti gli altri. No: uno che ha le mani calde che odorano di pioggia, uno che bisogna guardare dal basso verso l’alto, uno che stringo a me in questa e in una vita prima, uno che spegne tutte le voci nella mia testa, quella del marito, persino quelle dei figli.

Consapevole del mio sguardo, Draco alla fine si volta su sé stesso, ancora accovacciato per terra, sbuffando e sfregando le mani contro uno straccio polveroso. Ha le labbra rosse, la camicia che, per il sudore dello sforzo, aderisce meglio al torace. I capelli rasati fanno risaltare gli occhi grigi come se fossero retroilluminati da un bagliore nascosto, mentre inarca un sopracciglio e fa una smorfia infastidita aggiungendo melenso: “Se mi dessi una mano, sarebbe una cosa gradita, tesoro…”.

Arrossisco furiosamente da capo a piedi, colta in fallo, tutto che mi scoppia in faccia, addosso, ovunque, in una vampata di calore così intensa che credo che si legga in ogni parte del mio volto.

“Granger?” chiede Draco con tono tra il sorpreso e il preoccupato, inclinando la testa di lato e puntellandosi sulle palme per rimettersi in piedi.

Il cuore mi sobbalza contro le costole, non è uno qualunque. Non è uno dei tanti.

Non lo è per me.  

“S-scusami, sono un’incapace con gli i-incantesimi i-i-incendianti…” balbetto, il labbro inferiore che mi trema senza sosta. Distolgo lo sguardo da lui, lo punto contro la porta della camera dove non gli ho visto lasciare la valigia: “S-sono m-molto s-stanca. Domani d-d-dobbiamo alzarci presto per incontrare Radcenko. S-sarà meglio che v-vada a l-letto. Buonanotte”.

Senza attendere la sua risposta, senza guardare la sua reazione, apro la porta della camera e mi ci chiudo dentro, restando nella penombra dondolante di una candela accesa sul comodino.

Scivolo contro la porta, mille ronzii nelle orecchie, nascondendo il viso nelle palme delle mani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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