Capitolo 51: Disturbia, step four: about what we’ve
never had (II)
Scesa dalla
corriera, rabbrividisco immediatamente per l’impatto con l’esterno, la
temperatura pare essersi abbassata di diversi gradi nel seppur breve viaggio,
cosa che mi fa stringere attorno al mio cappotto bianco chiudendolo alle folate
di vento gelido che soffia dalle montagne.
Mi guardo attorno
con un afflato di curiosità, la mano sulla valigia, mentre la gente scende
dalla corriera e si disperde nella piccola piazzetta, raggiungendo le proprie
destinazioni: come ha preannunciato Malfoy, effettivamente la cittadina non è
null’altro che un ammasso di casette di legno senza alcuna attrattiva
turistica. Poche luci accese alle finestre, qualche insegna marcita
dall’umidità del lago; un droghiere, un vecchio pub o un ristorante cinese con
un drago rosso sulla porta così grottesco da somigliare piuttosto ad un lungo
verme solitario. Cosa che sicuramente non stimola l’appetito. Anche la gente in
giro è pochissima, è l’ora di cena, i pochi passanti camminano ingolfati in
grossi maglioni con le trecce, allungando la falcata nervosa dopo avermi
gettato un’occhiata in tralice di sospetto. Lontano, in una fessura tra le
casupole basse, un pontile di legno si allunga sulla superficie del Lago Nero,
richiamando indietro qualche sparuto pescatore che, le canne pendenti sulla
schiena, torna a casa.
Decisamente, nulla
di interessante o indimenticabile.
Mi volto su me
stessa cercando Draco con lo sguardo che, in tutta la mia manovra di
sopralluogo del circondario, ha alacremente consultato la cartina ed alcuni
fogli di carta spiegazzati.
“La nostra locanda
dovrebbe essere…. da quella parte…” sciorina incerto, indicando con il braccio
in una confusa direzione alle mie spalle.
“Sono colma di
fiducia al momento per il tuo senso dell’orientamento, caro…” schiocco la lingua guardandolo obliquamente, non è che siamo
in mezzo all’Upper East Side e ad un dedalo di
strade, se non è capace di trovare il solo alberghetto del posto siamo davvero
alla frutta.
Draco non si dà
pena di rispondere, nemmeno al mio appellativo sdolcinato da finta moglie,
limitandosi a borbottare qualcosa tra i denti prima di indicarmi con uno rapido
gesto del capo la direzione a suo dire corretta. Quindi probabilmente mi
ritroverò tra una ventina di minuti nella selva oscura con i lupi che
banchettano sulla mia carcassa dilaniata. Che prematura e ingrata fine.
Nonostante tutto,
in mancanze di alternative, lo seguo. Lui, come poco prima sulla corriera, non
si dà naturalmente pena di attendere che io lo affianchi, ma invece cammina a
passo sostenuto davanti a me, continuando a guardare alternativamente la sua
stupida mappa e le strade attorno, guardingo come una lepre inseguita dai
cacciatori. Incespico nello sterrato per cercare di non perderlo di vista,
impacciata dalla valigia e dagli stivaletti con il tacco quadrato che, ancora,
non so perché diamine mi sia venuto in testa di indossare proprio stasera,
proprio qui… e proprio con lui, aggiungo
malevola con il pensiero, stringendo le palpebre nel tentativo di bucargli la
schiena con la potenza del mio sguardo inceneritore.
“Smettila, Granger…
i tuoi anatemi silenziosi sono molto più rumorosi
di quanto pensi… credo di averti già detto che hai il respiro di un maledetto
mantice iperattivo, come sei sopravvissuta in guerra, Merlino solo lo
sa…”. Sbuffo, ovviamente rinforzando la
mia immagine di utensile soffiante, ma non mi do pena di rispondergli per le
rime, cercando di disincastrare di nuovo la valigia da una buca nel terreno.
Lo seguo mentre,
superata la piazzetta ed un paio di casette diroccate, inforca il declivio che
conduce nelle vicinanze del lago. La già scarsissima illuminazione del paesino
si affievolisce ancora di più, smorzata dalla vegetazione incolta ed
attraversata da respiri notturni non molto rassicuranti. Rabbrividisco,
guardandomi ossessivamente attorno ad ogni tramestio sospetto che fa risorgere
la fantasia che Malfoy in verità ha solo finto di assecondarmi, ma che in
realtà mediti di assassinarmi e di gettare il mio cadavere nel fondo fangoso del
lago, tanto per ravviare il traffico escursionistico della zona con un po’ di
turismo macabro.
D’improvviso, però,
si ferma immobile sul sentiero, senza nemmeno una parola, come colto da un
pensiero fulmineo che lo paralizza anche nell’azione semplice del camminare. Lo
affianco, raggiungendolo infine e già pronta alla tiritera sul fatto che non si
può perdere in uno sputo di posto come quello, non prima di aver disincagliato
da un’altra buca la mia nefasta valigia, la stessa che continuo a maledire per
essermi portata per il pernottamento di una sola notte, ma che probabilmente
tornerà utile per l’occultamento del mio corpo in decomposizione.
Mi accosto quindi a
Draco guardandolo storto, ma lui semplicemente riprende a camminare senza
aggiungere un’altra mezza parola, solo ad un passo più lento, così che io possa
finalmente stare accanto a lui.
Ha
visto la zona poco illuminata e mi ha aspettato, l’attenzione inaspettata mi fa
sciogliere di un sorriso imprevisto, mentre evito di guardarlo in faccia per
paura che possa capire quanto la cosa mi abbia fatto piacere. Ridimensiono
subito mentalmente tutto perché, naturalmente, deve fingere di essere mio
marito quindi probabilmente se capicollo giù per una scarpata, la cosa non
offre molti profili di verosimiglianza: non voglio dare a nessuna parte della
mia mente ulteriori sponde per annotare ogni singola gentilezza che quest’uomo
mi fa. Ho già abbondantemente notato che cose che sembrano minuscole con altri,
con lui diventano sterminate, finendo per tributarmi una felicità che non
riesco a spiegare. A quest’ora, se fossi con Ron, starei già urlando e
sbuffando perché non mi sta aiutando con la valigia. Con Draco Malfoy, mi
accontento della briciolina che mi aspetti lungo una strada poco illuminata.
Che razza di idiota.
Il pensiero mi
mette ulteriormente di cattivo umore nei pochi passi che percorriamo in
silenzio, fino ad arrivare alla nostra destinazione. La locanda risulta essere
né più e né meno che un cottage come tutti gli altri, di legno scuro,
appollaiato a pochi passi dalla riva del lago e da un pontile. Non c’è né
un’insegna, né una decorazione particolare, solo un patio un po’ più ampio
all’ingresso che si affaccia sullo specchio d’acqua, restituendo la visione
mozzafiato delle montagne e di Hogwarts poco distante, immersa nella nebbia
umida come uno stormo di lucciole intermittenti.
Mi fermo a
guardarla per qualche secondo con la mano sospesa sulla valigia, il legno che
scricchiola sotto i piedi miei e di Draco che apre la porta smaltata di rosso
della casupola. Il tintinnare giocoso di alcuni campanelli non riesce a coprire
del tutto il cigolio esasperato dei cardini vecchi.
Di fronte a noi,
non c’è niente più che una piccola stanza circolare che funge da salotto, con
una piccola libreria, qualche divano stinto, un caminetto acceso che rimanda un
buon odore di resina di pino. Tutto è di legno scuro, consumato. Poco più a
sinistra rispetto all’ingresso, intravedo una scala che porta al piano
superiore, il cui corrimano ha dei pezzi mancanti. Non sarà niente di più che
una casa un po’ più grande che mette in affitto una o due camere a notte.
L’impressione mi
viene confermata dall’arrivo della nostra albergatrice, una donna sulla
cinquantina piuttosto in carne, dall’aspetto pacioso e rubicondo, i capelli
biondo cenere legati in una crocchia, con un vestito a fiori terribilmente
leggero per la stagione. Sopra, indossa un cardigan di lana infeltrita grigia.
Unica nota di colore e pregio del suo aspetto è una spilla con il cameo di una
rosa bianca che le chiude il maglioncino sotto il collo. Lo osservo per qualche
secondo, affascinata dai riflessi cangianti che il fuoco disegna sulla pietra
lucida.
“Buonasera
signori!” esordisce gentile e frizzante, con un forte accento del nord del
paese “Immagino che voi siate i signori Carrington…”. Ovviamente ci ha preso
subito, non penso che abbiano la fila di clienti che si allunga fino ad
Aberdeen.
“Sì, buonasera sig.
Hudson, ci siamo sentiti telefonicamente…” risponde Draco con solerzia,
porgendole la mano a mo’ di saluto e presentazione “Sono Julian Carrington”.
Guardo Draco di
sbieco, non sia mai che presenti anche me e mi tratti in modo diverso da una
semplice appendice ornamentale: “E io sono…”, come diamine ha detto che mi
chiamo? Era un nome da cartone animato dei Simpson… Lisa? Maggie? Inizio a
sudare freddo, non voglio ricalcare sul fatto che, apparentemente, dobbiamo
fingere di essere marito e moglie. Vorrei evitare di sputare fuori
quell’appellativo a meno che non ci sia costretta con una pistola alla tempia;
per fortuna, occhieggiando i documenti che Draco ha poggiato sul bancone della
reception, riesco a leggere in tralice il nome del mio personaggio di fantasia.
“E io sono Margery Carrington” completo trafelata dall’ansia di non
sembrare una completa imbecille. Draco, alla mia destra, sospira con un’aria
rassegnata che ha l’effetto di infastidirmi ancora di più. Sembra che, senza
nessuna fatica, abbia indovinato i miei pensieri.
L’albergatrice,
inforcando un paio di occhiali dalla montatura di osso, procede alla
registrazione dei nostri documenti su un faldone dall’aspetto consumato ma
dalle pagine immacolate, confermandomi ulteriormente che il posto è ben poco
abituato ai turisti. Osservo la manovra di registrazione puntellandomi
nervosamente sui piedi, come se temessi che da un momento all’altro la verità
sulla mia identità venga fuori per un misterioso ed inspiegato incidente.
Inutile aggiungere
che, invece, Draco è perfettamente a suo agio, calmo e serafico come starei io
dentro una biblioteca. La menzogna e l’omissione sono tipo il suo pane
quotidiano, mi chiedo ancora ossessivamente quante volte sia già passato da una
manfrina simile.
Il pensiero mi
mette di nuovo a disagio riducendomi lo stomaco ad una poltiglia stopposa che
mi pesa nel torace come un’ammissione di colpa.
Finalmente la
signora termina le sue incombenze e, sfilandosi gli occhiali, ci restituisce i
documenti fasulli, accompagnandoli con la chiave della stanza: “Allora signori,
benvenuti a Fort Lachlan. Vi tratterrete a lungo?”.
Nel mio silenzio
pensoso è Draco che risponde sicuro: “Solo fino a domani mattina… partiremo
molto presto”. La signora, dopo un cenno di assenso, armeggia con un cassetto
della scrivania che apre cigolando, tirando fuori una chiave pesante di metallo
con un cordino consumato come portachiavi. Ci indica la scala, prima di dire
sempre all’indirizzo di Draco: “La vostra stanza è quella al piano superiore. È
già pronta. Lei e sua sorella potete
accomodarvi se siete stanchi per il viaggio”.
Per un attimo, la
parola fluisce dentro le mie orecchie come acqua di un ruscello, assolutamente
priva di peso e consistenza, scivolando inascoltata. Poi, come lo stridio delle
unghie su una lavagna, mi ritorna in mente qualcosa di completamente disarmonico
con il resto del discorso, qualcosa che stona terribilmente, cosa che
tendenzialmente mi accade con i congiuntivi sbagliati o con la consecutio
temporum sballata. Ripercorro quindi la conversazione, trovando quindi il pezzo
che non mi tornava. Sua sorella.
Gli occhi rischiano
di schizzarmi fuori dalle orbite per qualcosa a metà tra la sorpresa e
l’orrore, entrambi proporzionalmente maggiori persino a quelli conseguenti a
dover passare per moglie di Draco Malfoy. Perché poi mi faccia più ribrezzo
essere creduta sua sorella che sua moglie, lo so solamente io. Fatto sta che,
la bocca impastata, mi ritrovo a rantolare: “Sorella?! Ma chi, io?!”.
Draco mi guarda per
qualche istante, un’espressione indecifrabile sul volto che non mi dà ragione
dei suoi pensieri, solo di una serie di meteore indistinte che si affannano
negli occhi chiari.
Poi torna a
rivolgersi alla nostra albergatrice con tono di voce piatto: “No, sig.ra
Hudson, credo di averglielo detto telefonicamente. La signora è mia moglie…”,
con un gesto naturale e fluido come se ci fossimo abituati da tutta la vita, mi
poggia la mano alla base della schiena, cingendomi ed avvicinandomi al suo
fianco. Assecondo lo spostamento d’aria come se fossi una bambolina di pezza
privata di una qualsiasi gravità.
Resto a testa
bassa, turbata di nuovo dalla vicinanza di quel contatto, nella perfetta
esibizione di una moglie sottomessa e timorata di Dio, cosa che naturalmente
sono ben lungi dall’essere anche con il mio vero marito. L’odore del legno di
pino bruciato si fonde con quello del profumo di Draco, come se fossero
complementari, vicini di essenza, e li sento entrambi amplificati, penetranti,
dannatamente impossibili da ignorare. Come sempre, come ogni maledetta volta,
il profumo dell’uomo accanto a me ha l’effetto di muovere una parte nascosta
dentro il mio basso ventre, come un guizzo di tempesta ed un singulto di
ricordo. Mi struggo perfettamente muta ed immobile di nostalgia per una cosa
che non ricordo e non so nemmeno se è mai esistita e, per quanto mi sforzi di
afferrarla, sfugge come olio scivolato sull’acqua.
Il calore di
quell’abbraccio di lato mi avvampa le guance peggio del calore del camino. Per
concentrarmi su qualcosa di diverso, sollevo gli occhi tornando con un sorriso
fintamente timido a guardare la nostra albergatrice, torcendomi le mani e
tenendole ben lontane da quelle di Draco.
Ci manca solamente
innescare un’altra serie di immagini strane.
“Ah scusatemi
davvero… davvero moltissimo, che errore sciocco… “commenta la signora Hudson
con aria mortificata, asciugandosi la fronte imperlata di sudore con un
fazzoletto a scacchi e rivolgendosi poi sussiegosa nei miei confronti “Vogliate
davvero perdonarmi signora, non so perché ero convinta che foste fratello e
sorella… forse sarà stato lo stesso cognome a trarmi in inganno”.
La mano ancora
ferma di Draco sulla mia schiena mi innervosisce al punto che, in barba a
qualsiasi educazione, mormoro acida: “Sciaguratamente in Inghilterra abbiamo
ancora questa malsana usanza di prendere il cognome del marito, signora. Credo
che sia in voga da qualche millennio…”, con un piccolo balzello mi stacco da
Draco ed incrocio le braccia al petto, in un moto automatico di difesa. Lui
segue le mie manovre in silenzio, mentre concludo con una smorfia velenosa: “Credetemi,
avrei preferito di gran lunga mantenere il mio di cognome”.
Accanto a me, il
sospiro rassegnato di Draco raggiunge lo stesso grado di decibel del mantice
respiratorio di cui spesso mi accusa. Naturalmente, ha colto subito la non
velata stoccata alla noia che provo per tutta questa faccenda della falsa
identità, del cognome mutato e, non da ultimo, del fatto che debba pure fingere
di essere la sua amorevole consorte.
Quando
invece io un marito ce l’ho: e sta mettendo a letto mio figlio, adesso, dopo
che ho mentito ad entrambi per l’ennesima volta. Per chissà cosa, poi… non
potevo per una volta abbozzare e lasciar correre questa faccenda della
maledizione e non mettere ulteriormente sulla graticola il mio matrimonio
traballante?
Mi pungono gli
occhi sentendomi di nuovo estranea alla situazione che sto vivendo, spero di
poter fingere che sia per il fumo del camino nella stanza non sufficientemente
areata.
“Ha ragione,
signora, mi perdoni…” prosegue l’albergatrice profondendosi in piccoli e
ripetuti genuflessioni del capo, cosa che mi fa ovviamente intenerire e pentire
del mio accesso di astio precedente che, ovviamente, non ha lei come
destinatario.
Sto già per
scusarmi della mia antipatia dicendo di lasciar correre, quando la signora
Hudson, in un moto di esemplificazione, biascica una sorta di spiegazione del
suo errore: “… non so perché mi è venuta automatica come associazione, invece
che pensarvi sposati… sarà stato che…”.
“Sarà stato che… cosa, esattamente?” chiedo con un
sorriso statico, comprendendo esattamente dove stiamo arrivando e sfidandola
quasi a continuare. Accanto a me, Draco continua a non parlare, profondamente
intrattenuto dalla pantomima che sto mettendo in scena per suo esclusivo
divertimento.
“Niente, lasci
stare… si figuri, sono solo pensieri ad alta voce… se volete che vi sia servita
la colazione…” la signora, oramai quantomeno disperata, cerca di deviare il
corso della conversazione, evidentemente non ancora consapevole della persona
con cui sta parlando: Hermione Granger in Weasley, la
persona NON elastica per eccellenza.
“No, no, signora
Hudson, si figuri lei, non sia mai che non chiariamo questo affascinante equivoco. Perché le è
venuto più naturale pensarmi come sorella di mio marito piuttosto che come sua
moglie?”, indico Draco con un cenno del capo “Come può notare, ci somigliamo
come si somigliano le manguste e i serpenti”, nessuna analogia zoologica potrebbe essere più azzeccata “Quindi
mi pare un accostamento quantomeno azzardato. Non si preoccupi, non rischia di
offenderci, sia sincera… sono solo curiosa…”.
“Beh signora… è
qualcosa… a p-pelle, credo. Un’impressione superficiale. Non s-sembrate due che
si p-potrebbero s-sposare…” balbetta l’albergatrice, guardando a destra e a
sinistra come a cercare una fuga dalla situazione, come se qualcuno potesse
spuntare all’improvviso per salvarla. Per un curioso controsenso, però, quando
torna a guardare me e Draco, i suoi occhi restano gelidi, cristallizzati,
profondamente ancorati nel nostro esame visivo alla luce di una verità
universalmente accettata. Sebbene tutto di lei spinga alla gentilezza e alla
cordialità, compreso l’imbarazzo della situazione, lo sguardo mi fa raggelare
come se fossi stata abbandonata in mezzo alla neve.
Mi scordo però
della sensazione, fumando di rabbia per il suo commento successivo: “Lei è
così… semplice. E il signore,
invece…”. Completa il tutto con una nuova occhiata al nostro indirizzo,
stavolta un po’ più ferma sulla figura di Draco, come ad imprimersi meglio la
sua figura nella memoria.
Ogni accezione
dell’aggettivo semplice mi si scarta
ostile nella memoria, abituata da quando ero adolescente a nessun carattere di
eccezionalità estetica. È chiaro che si sta parlando di un profilo prettamente
fisico, a cui sciaguratamente sono abituata da anni. Non sono una di quelle
donne che, non appena le incontri, spingono un uomo a voltarsi e a sbavare
copiosamente per terra in preda agli scompensi ormonali. Sono una di quelle
donne che invece, troppo ingolfate e infagottate, riesce a passare indenne
davanti ai capannelli di uomini che si bevono una birra, oppure davanti ai
cantieri con i muratori che lavorano ad una ristrutturazione. La cosa,
tendenzialmente, non mi ha mai ferito eccessivamente, se non quando ero
ragazzina ed andavo in giro con Ginny che, al contrario, otteneva ed ottiene
l’effetto esattamente opposto. Ma, con la maturità e con il passare degli anni,
si arriva ad una certa consapevolezza di sé per cui tali cose non fanno più
soffrire. Non le si nota nemmeno più.
Perciò, non so
perché, il commento pure educato giunge nella carne viva di un fantomatico
fianco scoperto. Il peso della valigia che porto ancora in mano, piena di
vestiti che so già che sono inutili e che probabilmente non indosserò, mi
informano con una subitanea intuizione del motivo per cui adesso, dopo tanti
anni, un’osservazione del genere mi ferisce come se fossi una stupida
adolescente.
Draco.
Lo guardo di
sottecchi per un secondo, lo sguardo annoiato dalla diatriba, i lineamenti rischiarati
dalle ombre rossastre dal fuoco, il contegno aristocratico, il mento sollevato,
gli zigomi scavati. E in un’ellissi ideale delle pupille, guardo lui e dopo
guardo me stessa. Il cappotto bianco troppo leggero, le scarpe con il tacco
adesso infangato, i capelli freschi di messa in piega e che adesso l’umidità
del posto ha gonfiato come un pallone aerostatico.
Ho
temuto di farmi vedere accanto a lui, perché so che non è il mio posto. Perché
immagino le donne che ci sarebbero dovute essere con lui a prendere una camera
d’albergo. Perché conosco sua moglie e, sebbene Draco non la ami, ricordo
l’effetto che fanno quando entrano in una stanza. E non è l’effetto che faccio
io. Non lo è mai stato. Non sono mai stata bella, bionda, alta, magra, un
complemento perfetto a quello che è lui, non mi è mai interessato esserlo: io
sono calzini spaiati, matite a tenere assieme i capelli, occhiali calati sul
naso, postura un po’ curva. E tutto quello con cui da anni avevo fatto pace,
mentre facevo quella valigia, mi era esploso come una mina antiuomo pensandolo
accanto a lui.
E
non capisco perché sia stato così, non capisco perché ho fatto di tutto per
sembrare una che poteva stargli accanto senza sfigurare, quando non mi
interessa, quando non mi è mai interessato, quando sono la moglie di un altro e
lui è il marito di un’altra.
Perché
diamine mi interessa?
Voglio fuggire,
scappare, dare riposo a questo prurito agli occhi che non mi lascia in pace.
Invece, inselvatichita come un’Erinne, erompo ancora, conficcandomi le unghie
nei palmi delle mani: “E il signore, cosa?! Cosa vuole dire?! Che sono troppo ordinaria per stare con uno come lui?!”.
Ordinaria,
sembra un
insulto, riecheggia di tutta quella inadeguatezza che provavo nel periodo della
pubertà, magari rintuzzata da una qualche oca come Lavanda Brown. Mi si chiude
la gola, mentre penso a chissà quante volte mi sono sentita così proprio a
causa dell’uomo che mi sta ora accanto, grazie ai suoi atteggiamenti da bullo.
Un’ondata ulteriore di calore furente mi travolge, facendomi bruciare le piante
dei piedi per l’immobilismo della situazione assurda in cui mi trovo.
Ignara della mia
tempesta emotiva, la signora Hudson, sudando ancora freddo e balbettando, cerca
ancora di scusarsi mettendo toppe che sono peggio del buco da lei stessa
provocato: “No no signora, non mi permetterei mai… s-solo che sono a-abituata
che uomini così, preferiscono altre c-compagnie… più a-appariscenti…”.
Ancora la
carrellata di donne bionde, longilinee e procaci con cui il mio compagno di
viaggio solitamente si intrattiene, mi scorre davanti agli occhi in una
fantasmagoria di curve e risolini. Ciò ha lo stesso effetto del rosso negli
occhi di un toro, specie quando constato di trovarmici anche solo vagamente
accostata in un azzardo mentale. Che peraltro mi penalizza e condanna anche
come perdente.
Le guance rosse, la
testa leggera, sto già per scoppiare in un nuovo coro di obiezioni, quando
finalmente Draco, rimasto in silenzio per tutto il tempo, emette un solo lungo
sospiro che ha l’effetto di congelarmi sul posto come una statua di sale.
Irrigidendomi, improvvisamente consapevole del mio accesso irrazionale di ira
per un commento fuori luogo ma decisamente superabile, mi affloscio come un
ramoscello secco piegandomi contro il peso della schiena. Lo guardo con la coda
dell’occhio mentre, con un movimento ad arte, si passa una mano tra i corti
capelli biondi, esibendosi nella sua migliore interpretazione di nobile
annoiato dalle beghe della servitù.
Poi, senza alcun
preavviso, mi mette un braccio attorno alle spalle attirandomi ancora vicina a
lui prima di sussurrare suadente: “Mi creda, signora Hudson, le doti nascoste di mia moglie possono
compensare un nugolo di donne cosiddette appariscenti…
non vorrei che esse diventassero troppo manifeste stanotte… quindi le chiedo già scusa in anticipo se ha il sonno leggero”.
“Caro!” gli assesto una gomitata,
neanche troppo delicata nel fianco incollato al mio, cercando al contempo di
guadagnare preziosi centimetri di distanza.
“Non essere così timida, amore…” bisbiglia lui, stringendomi la
spalla che ancora cinge e destinandomi un lungo sguardo di finto desiderio
mentre si umetta il labbro inferiore “Ne andava del tuo orgoglio ferito”. Calca la parola con decisione, rimarcando
probabilmente quanto tutta la faccenda mi abbia notevolmente colpito per la
solita alterigia di tutti gli ex Grifondoro. Glielo faccio credere, abbassando
il capo come una bambina messa in punizione, rossa in viso nella stessa
identica maniera, grata che il resto della girandola dei miei pensieri
autodistruttivi sia andato perso di fronte alla sua capacità di leggere il
sottinteso.
Adesso, tutta la
sceneggiata che ho portato avanti mi fa sentire decisamente ridicola.
Draco Malfoy funge
sempre da una sorta di amplificatore costante di quello che provo, qualsiasi
cosa essa sia, fosse pure un fastidio innocuo per una frase fuori contesto o
vagamente offensiva. In certi momenti mi pare che tutto il resto che provo
durante la giornata, senza di lui, sia a volume basso, sussurrato, quasi sul
muto. Poi arriva lui, ed improvvisamente mi vibra la cassa toracica da quanto
le cose rimbombino ad una potenza infinitamente superiore.
Come
questo braccio sulle spalle: è una cosa che fa sempre Harry, o George, o Bill,
o anche Charlie. Sono sempre più bassa di loro e, quando vogliono mostrare
accondiscendenza per quello che dico, mi parlano così. Cingendomi le spalle con
un gesto innocente di affetto.
Un
tempo, quando pioveva ed avevamo solo un ombrello, anche Ron faceva così per
evitare che mi bagnassi.
Poi
invece lo fa Draco Malfoy per una finzione stupida, ed avverto ogni singolo
centimetro della pelle delle sue dita sul mio avambraccio, ogni falange così
stretta dentro la manica del mio cappotto.
I
nervi del braccio trascinano corrente elettrica fino alla punta delle mie
unghie, come a richiamare la magia che il contatto delle nostre mani
porterebbe. Un mondo in cui siamo stati altri, non questo.
Certamente,
non il marito di Astoria Greengrass e la moglie di
Ron Weasley.
Mi divincolo di
nuovo dalla stretta di Draco, facendo qualche passo di lato e fingendo di
recuperare i documenti che la signora Hudson ha finito di registrare. Sento che
lui studia la mia manovra diversiva, ma non aggiunge niente.
“Vogliate ancora
scusarmi per l’errore…” ripete per l’ennesima volta l’albergatrice,
allungandoci la chiave della stanza “Sono stata davvero inopportuna, mio marito
me lo rimproverava sempre”.
La consapevolezza
dell’esagerazione della mia reazione si stempera in un sentimento di gentilezza
ritardata per questa povera donna, cosa che mi fa chiedere comprensiva: “Mi
dispiace, è vedova?”.
“Divorziata. Mio
marito ha pensato bene di scappare con una sua amica di liceo. Mi ha
letteralmente spezzato il cuore” aggiunge con una scrollata di spalle che
vorrebbe essere noncurante, ma che invece suona solo stridente con lo sguardo
tormentato.
“Mi scusi davvero,
non volevo essere io inopportuna adesso” sussurro colpevole, guardandomi la
punta delle scarpe a disagio.
Alla mia sinistra,
Draco sbuffa rumorosamente mormorando caustico: “Invece io gradirei essere inopportuno e salire in camera nostra,
tesoro”.
La signora Hudson
lo ignora bellamente e torna a guardare me, occhi negli occhi, come se mi
trapassasse da parte a parte: “Tranquilla, signora, sono passati tanti anni. Si
incontrarono per caso, i nostri figli andavano a scuola assieme, guardi un po’
il caso. E pensare che non si erano mai sopportati quando erano ragazzi,
esistevano ancora leggende sui loro scontri nei corridoi…”, mi stringo nelle
spalle, inconsciamente faccio un passo indietro, lo sguardo di Draco addosso “Ma
quando ci si avvicina ai quaranta, si inizia quella complicata età in cui si
guarda indietro e si cercano errori ed errori…”, annuisco debolmente,
asciugandomi il palmo delle mani sudato contro la stoffa del cappotto. Lei
soppesa la mia reazione, quasi sincerandomi che la stia ascoltando
attentamente, poi prosegue con la voce cantilenante, quasi ipnotica: “Sebastian…
mio marito… ad un certo punto si è convinto che tutta l’insoddisfazione che
sentiva, si sarebbe risolta cambiando la sua compagna di vita. E quella donna…
apparentemente sembrava capirlo meglio, sembrava che semplicemente per anni non
si fossero resi conto di cosa erano l’uno per l’altra…”, il mio tentativo
maldestro di raggiungere gli occhi di Draco, sincerarmi che siano ancora su di
me, cercarli dentro il mio sguardo come una complicità inconscia di cui
pentirsi subito dopo, si infrange non appena la signora Hudson continua
stentorea, a voce più alta e secca: “Assurdo,
un mare di scuse patetiche che ci sono costati anni di sotterfugi, lettere
nascoste nei barattoli vuoti dello zucchero, trasferte di lavoro che erano solo
weekend con la sua amante…”, non ci posso
credere, deglutisco il mattone di bile che mi si è formato in gola, nella
tasca del mio cappotto vergognosamente trovo ancora la carta del messaggio di
Draco di settimane fa e che porto ancora dietro alla stregua di un amuleto. Lo
accartoccio malamente per dare sfogo alle mie dita inquiete e nervose, mentre
la signora conclude con un lungo e sofferto sospiro: “Ma la cosa peggiore è il
male che ha fatto ai nostri figli, a quelli di quella donna. Si dovrebbe
pensare due, tre, cinque volte prima di incamminarsi in qualcosa che,
potenzialmente, può fare del male ai propri figli. Sebastian non ci ha pensato…
mai”.
Hugo
che cerca di nascondere la carne dentro la montagnola del purè di patate. Che
ancora non si allacciare bene le scarpe. Che mi abbraccia le ginocchia quando
ha paura.
Rose
che ha l’odore della carta di riso. Che mangia il dolce prima del secondo. Che
adesso forse dorme in una stanza rossoro dall’altra
parte di questo lago.
E
sogna da innamorata il figlio dell’uomo che stanotte dorme sotto lo stesso
tetto di sua madre.
“Come… come è
andata a finire?” chiedo, la bocca impastata, le parole un pigolio sfuocato.
La signora mi
guarda ancora con un sardonico sorriso che pare la rappresentazione grafica di
un “te l’avevo detto”, pronunciato chissà quando e chissà a chi. Al marito,
sicuramente. Ma non so perché sembra che
abbia solo me come destinatario da bruciare sul rogo.
“Sono stati assieme
qualche anno, il tempo di togliersi lo sfizio. Si erano trasferiti anche a
Glasgow per sfuggire alle chiacchiere di paese. Poi si sono lasciati. Sebastian
ha perso tutto, il suo lavoro, la sua famiglia… e pure quella donna…”, la sua
voce viene smorzata da un singhiozzo più forte delle sue parole, si cerca un
fazzoletto nelle tasche “Non… non lo sento da tre mesi. È completamente
sparito”.
“… come potete
vedere, però, non si può dire che la cosa interessi me e mia moglie…”, la voce
di Draco, tinta di una vena amara di una specie di rabbia repressa, spezza la
malia del racconto come uno specchio che va in pezzi. Torno a guardarlo, ha la
mascella serrata, i pugni chiusi contro i fianchi: “Mi dispiace per lei, ma
come le dicevo prima del suo racconto strappalacrime,
gradirei vedere la nostra stanza”. La donna lo guarda sbattendo le palpebre per
qualche secondo, con un fondo di irritazione sporca dentro lo sguardo di
acquamarina gelida. Serrando la mascella, gli porge di malavoglia la chiave
della nostra stanza con la punta delle dita, come se venisse direttamente dalle
fauci incandescenti della terra.
Draco la afferra
con decisione, prima di prendermi per il gomito con una punta di esitazione,
forse spaventato che il contatto inneschi qualche altra visione sgradita.
Evidentemente, però, l’incantesimo risparmia qualsiasi contatto diverso da
quello delle mani, quindi resto a farmi trascinare su per le scale
passivamente, priva di una forma qualunque di controllo sul mio corpo e sulla
mia volontà come se fossi un sacco inerme di sabbia. Le spalle mi si piegano
sotto il peso enorme di una colpa che sembra una pantera acquattata nel buio
dei miei pensieri e di cui, ora, sento il respiro nell’ansa del collo, pronta a
squartarmi la pelle tenera della carotide. Il calore delle dita di Draco sulla
stoffa del cappotto, il suo respiro ansante mentre mi trascina su per le scale,
le bestemmie che mastica a mezza bocca dentro emissioni brevi di fiato irato,
giungono filtrati alle mie orecchie come se fossi in apnea e tutto si
confondesse, galleggiasse umido attorno a me.
Ogni minuto di
questa vicinanza aggiunge gironi infernali alla mia condanna, destinandomi
sempre più vicina al fondo dell’inferno, alla fornace incandescente dei
traditori; ogni puntello che prima mi preservava almeno tra i penitenti, si
sgretola come sale bagnato all’odore di erba bagnata nel mese di settembre.
Guardo di sottecchi Draco sollevando di poco gli occhi bassi, fissi sugli
scalini consumati di legno tarato. Seguo i suoi tratti rigidi, i denti che
digrigna selvaggio come un animale catturato, impastando il movimento con parole
che non riesco a decifrare.
La sensazione si
acuisce quando, finalmente, arriviamo al pianerottolo della nostra stanza e,
con una fulminea fiammata di ragionamento tardivo, mi rendo conto che la chiave
che Draco inserisce nella toppa è una soltanto e che il fatto che abbiamo finto
di essere marito e moglie non può portare a trovare dall’altra parte due letti
singoli da compagni innocui di viaggio.
Se
mai lo siamo stati mai. Se mai lo siamo adesso.
Il tenore afoso e
rinnovato della colpa mi grava addosso ad ogni centimetro esposto di pelle,
pronto a marchiarmi, nelle orecchie e nelle iridi ogni fotogramma di innocente
fiducia sprecata di mio marito e dei miei figli. Faccio per liberarmi della
stretta di Draco che, però, prima che possa riuscirci, tira fuori dalla tasca
del suo cappotto la bacchetta e la punta con un rapido movimento flessuoso al
pomello arrugginito della porta.
“Locus
praelatus” sussurra
soffuso e leggero, come se parlasse dietro le orecchie di un’amante. Una lama
di luce rosata compare per un istante sotto la porta, illuminando languida la
punta delle mie scarpe, prima di sparire con un suono metallico che ci informa
dell’apertura della porta.
Con prudenza fulminea,
Draco la apre tirandomi all’interno, per poi chiuderla rapidamente verificando
che nessuno abbia scorto nulla.
Resto immobile nel
vano della porta poggiandomi allo stipite, il cuore che non mi lascia in pace
la testa, battendo ritmico come un martello pneumatico dentro i vasi sanguigni,
mentre Draco con scafata nonchalance entra nella stanza e prende possesso dello
spazio conosciuto attorno a sé. Il mio cervello anestetizzato riesce comunque a
riconoscere l’incanto provandone una sincera ammirazione: è un Incantesimo non
semplicissimo, anzi. Consente di richiamare in qualsiasi spazio chiuso un
altro, sempre chiuso, che può essere anche lontanissimo nello spazio da dove ci
si trova. La difficoltà dell’Incantesimo è che il luogo da richiamare deve
essere periodicamente irrorato di una particolare pozione, il cui ingrediente
principale è la polvere ricavata da un corallo particolarmente costoso. Quindi,
figuriamoci se una come me possa pure permettersi di pensarci.
Cosa che, naturalmente,
non è il caso di Draco Lucius Malfoy, milionario, pozionista ed esteta. E del resto, doveva sembrarmi
immediatamente strano che non muovesse alcuna obiezione a prendere una stanza
in una locanda diroccata e muffita dentro il cuore del nulla inglese.
Può evocare una
stanza del Manor anche se fosse perso sulle montagne tibetane, basta trovare un
luogo sufficientemente chiuso.
Mentre lui si
accovaccia vicino al caminetto per accenderne il fuoco, muovo qualche passo
incerto e traballante dentro la stanza, annegata dentro un profumo intenso e
struggente di acqua di rose che mi corrode fin nel midollo delle ossa. Un
salottino dalla forma vagamente circolare, con la tappezzeria rosso rubino che
si screzia delle ombre lunghe e nere delle fiamme del camino. Due divanetti con
l’intelaiatura di legno lucido e decorato, cuscini rosso scuri di velluto con
disegni a rilievo. Un tavolino basso con un vaso di rose gialle, da cui
proviene il profumo innaturalmente intenso e sicuramente amplificato con la
magia. Tappeti orientali su cui i passi sono morbidi, soffocati, eterei. Ad
entrambi i lati della stanza, si aprono due porte gemelle, adesso vagamente
socchiuse su due camere da letto separate dall’arredamento ugualmente sontuoso.
Draco ancora armeggia con le mani chiuse a coppa, soffiando sotto i rami la
cenere e la scintilla di fiamma, e io continuo in silenzio a guardarmi attorno,
una mano sulla valigia che, per tutto il tempo, ho stretto come se ne andasse
della mia vita.
La claustrofobia
aumenta esponenzialmente quando, come una sonnambula, guardo fuori dalla
finestra afferrando l’intelaiatura della tenda pesante di broccato con le dita
tremanti. All’esterno, non si vede né il Lago nero e il villaggio di Fort
Lachlan, ma nemmeno le montagne e i boschi attorno al Manor. C’è solamente
un’oscurità densa, stopposa, lanosa.
Nero, nero a
perdita di sguardo.
Chiudo gli occhi,
paradossalmente abbagliata facendo qualche passo indietro per metterci
distanza, come se il nero potesse spalancare le fauci in un bagliore e mangiarmi
tutta intera.
Mi rimpicciolisco
nelle spalle, Draco ancora ignaro dei miei gesti, preso com’è dal camino che
non si accende. Tengo gli occhi serrati annullandomi dal momento presente, da
questo luogo che non esiste da nessuna parte, da cui non so nemmeno se si può
uscire e tornare a casa sani e salvi, senza l’odore di rose che si appiccica da
ogni parte svelando ogni frammento di desiderio ingerito dentro le
giustificazioni e i dinieghi, le preghiere e i ricatti, i compromessi e i
sotterfugi.
Questo
è un luogo per dare l’illusione che ci si possa restare per sempre. Nutrendosi
di aria e vento, come le lenzuola raccontano da ammalianti sirene, frusciando
sui corpi nudi e sfrigolando di promesse di carta velina. Lasciando tutto
fuori, nell’illusione che il buio si sia mangiato tutto, che la fine del mondo
sia arrivata ed abbia lasciato solo te e lui come unici sopravvissuti ad amarsi
fino al termine del tempo tutto. O fino al termine di un orgasmo sudato contro
una spalla morsa a sangue. Perché dopo ci sono solo due camere da letto
separate, così da mettere subito in chiaro che non ci saranno carezze,
risatine, appuntamenti, occhi chiusi, dita tra i capelli e guance poggiate
sull’incavo di una spalla. Niente. Solo letti vuoti, coperte fredde, movimenti
rapidi nel rivestirsi, zigomi sporchi di mascara e colletti macchiati di
rossetto. Magari uno sguardo perso attraverso il nero della finestra, la
sensazione angosciante che improvvisamente sia entrato anche dentro, si sia
rimpicciolito a misura del torace, inghiottendo ogni speranza futura di luce.
Deglutisco il
groppone che minaccia di soffocarmi, forte, con ferocia, mentre gli occhi si
saturano di tutti i particolari dell’ambiente, tutti troppo studiati perché sia
la prima volta che Draco ci porti qualcuno. Ogni cuscino, ogni increspatura
delle tende, ogni crepa del pavimento raccontano la storia delle donne che sono
passate da qui, impregnando della loro presenza questo posto per il tempo di
una scopata veloce, per poi scivolare furtive come farfalle di seta,
dimenticate, inesistenti.
Del
resto, ho visto la sua mente,
penso con un singhiozzo trattenuto guardando i muscoli della schiena di Draco
contratti, il fiammifero che si spegne antipatico tra le sue dita, nessuna donna è mai rimasta indimenticabile,
erano tutte un calderone di colori brillanti fusi assieme, un punto di piacere
minuscolo dove nessuna si distingueva davvero.
Nessuna.
Ed un giorno, in mezzo a loro, ci sarò anche io. Una mera ombra sfilacciata,
con cui non ricorderà nemmeno se ci è stato a letto. Solo che è stata qui, e
quindi probabilmente se l’è fatta ma non è stato granché.
Tutti questi
pensieri si rovesciano nel mio cervello, mescolati alla risacca delle parole
della signora Hudson, non sono
appariscente, sono una che si dimentica, una che si
confonde con le altre, una che adesso è uguale a tutte le altre, una che adesso dovrebbe essere a casa con suo marito e suo
figlio invece che dormire in una dimensione parallela con un altro uomo.
Studio le linee
delle sue scapole, il collo rigido ancora di spalle a me.
Non
un altro uomo. Non uno qualsiasi, uno che non è appariscente, uno che si
dimentica, uno che si confonde con gli altri, uno che adesso è uguale a tutti
gli altri. No: uno che ha le mani calde che odorano di pioggia, uno che bisogna
guardare dal basso verso l’alto, uno che stringo a me in questa e in una vita
prima, uno che spegne tutte le voci nella mia testa, quella del marito, persino
quelle dei figli.
Consapevole del mio
sguardo, Draco alla fine si volta su sé stesso, ancora accovacciato per terra, sbuffando
e sfregando le mani contro uno straccio polveroso. Ha le labbra rosse, la
camicia che, per il sudore dello sforzo, aderisce meglio al torace. I capelli
rasati fanno risaltare gli occhi grigi come se fossero retroilluminati da un
bagliore nascosto, mentre inarca un sopracciglio e fa una smorfia infastidita
aggiungendo melenso: “Se mi dessi una mano, sarebbe una cosa gradita, tesoro…”.
Arrossisco
furiosamente da capo a piedi, colta in fallo, tutto che mi scoppia in faccia,
addosso, ovunque, in una vampata di calore così intensa che credo che si legga
in ogni parte del mio volto.
“Granger?” chiede
Draco con tono tra il sorpreso e il preoccupato, inclinando la testa di lato e
puntellandosi sulle palme per rimettersi in piedi.
Il cuore mi
sobbalza contro le costole, non è uno
qualunque. Non è uno dei tanti.
Non
lo è per me.
“S-scusami, sono
un’incapace con gli i-incantesimi i-i-incendianti…” balbetto, il labbro
inferiore che mi trema senza sosta. Distolgo lo sguardo da lui, lo punto contro
la porta della camera dove non gli ho visto lasciare la valigia: “S-sono
m-molto s-stanca. Domani d-d-dobbiamo alzarci presto per incontrare Radcenko. S-sarà meglio che v-vada a l-letto. Buonanotte”.
Senza attendere la
sua risposta, senza guardare la sua reazione, apro la porta della camera e mi
ci chiudo dentro, restando nella penombra dondolante di una candela accesa sul
comodino.
Scivolo contro la
porta, mille ronzii nelle orecchie, nascondendo il viso nelle palme delle mani.