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Autore: Bethesda    16/07/2020    1 recensioni
Grazie a Snehvide per l'idea/prompt
[...]
Non era più come prima di Mary, quando litigavamo ad ogni piè sospinto.
Era come se avessimo ricominciato da capo, quando con una semplice frase ero in grado di stupirlo e lui con un sussurro arguto mi strappava un sorriso o mi riportava alla realtà.
Mi sentii tornare a più di dieci anni prima, quando la gloria era ancora lontana ma non mi importava, perché mi bastavano gli occhi di Watson, ricchi di meraviglia e ammirazione, per capire che sì, stavo facendo un buon lavoro e che adoravo il fatto che fosse lui ad assistere.
Vi caddi nuovamente con tutte le scarpe.
Ero tornato con l’intenzione di portare sollievo ad un caro amico, scacciando un po’ di dolore e prendendo almeno parte del suo fardello sulle mie spalle, anche senza che se ne accorgesse, e quello che accadde fu invece che me ne rinnamorai di nuovo.
[...]
Holmes torna a Londra per trovare un Watson cambiato nello spirito quanto nel corpo.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAP II

 

Quella sera non chiesi altro.

Mi limitai a prenderlo sotto braccio e a portarlo a casa, dove lo costrinsi a sedersi su di uno sgabello in bagno, di modo da potergli dare una rinfrescata, dacché lui non sembrava essere in grado di farlo da sé.

Con un panno inumidito andai a pulirgli il volto e gli porsi un bicchiere d’acqua perché potesse sciacquarsi la bocca.

Lui mi ringraziò con un fil di voce e si scusò, allontanandosi verso le proprie stanze.

 

È inutile dire che non dormii.

Il buon Watson mi ha accusato, nei suoi racconti, di sfruttare unicamente la pipa in radica di ciliegio quando sono di malumore e polemico, ma così non è. Passai quella notte di fronte al caminetto, circondato da cuscini, pensando e rimuginando su ciò a cui avevo assistito e sulle impensabili conclusioni.

 

Eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.

E questo, purtroppo, era uno di quei casi.

 

Watson doveva aver contratto la sifilide ormai anni addietro, e il suo corpo martoriato ne era la prova.

Certamente non aveva avuto la sorte di molte di quelle persone che vedono letteralmente parti del proprio corpo scavarsi con le ulcere, come si vedono in strada tanti bambini e prostitute ormai divorati dalla malattia, ma certo vi era andato vicino.

 

Mi domandavo come fosse possibile.

 

Vi erano diverse possibilità sul come avesse potuto contrarla.

Tre, in particolare.

 

La prima era che Mary stessa fosse stata la vettrice del mal francese, ma lo ritenevo assolutamente improbabile e Watson ne avrebbe riconosciuto i sintomi con facilità vivendole accanto.

La seconda, che fossi stato io stesso, anni addietro, ma fu un’idea che scartai immediatamente.

 

La terza era la più semplice, la più probabile, ed era il fatto che Watson fosse semplicemente un uomo, e che avesse passato più di due anni in balia di se stesso e della propria disperazione. La sua reazione di fronte al bordello mi suggeriva la risposta, anzi, me la gridava addosso, e dovetti costringermi a bloccare per un istante il flusso di pensieri che riempivano la mia mente di domande e che stringevano il mio stomaco in una morsa ferrea.

 

Chi ero io per giudicare?

 

Ero l’uomo che lo aveva scacciato, abbandonato, gettato fra le braccia di una sconosciuta.

Se Watson aveva fatto ciò che aveva fatto, la colpa era mia e di nessun altro.

 

Mi erano già capitati casi di clienti affetti da Sifilide e come tale, ed essendo un uomo attento ai problemi della propria epoca – e, per quanto strano possa sembrare, una simile malattia ha molto più a che fare con la criminalità di quanto si voglia far credere -, avevo raccolto in passato informazioni e libercoli sulla questione, alcuni dei quali giacevano nella libreria medica del dottore.

Mi circondati di tomi e articoli scientifici, che lessi avidamente sino alle prime luci dell’alba, quando mi resi conto che il camino si era quasi completamente sopito e che io stesso non ero più solo in stanza da parecchio tempo.

 

Troppo preso dalle mie letture, non mi ero reso conto della presenza di Watson alle mie spalle, sul divano.

Era ancora vestito come la sera prima, senza tuttavia la giacca e con il panciotto sbottonato. Profonde occhiaie segnavano il suo volto e le guance riportavano tracce di barba sfatta.

 

Non mi alzai. Mi limitai a ruotare verso di lui per poterlo guardare.

 

«Quando lo hai capito?»

 

La voce di Watson mi giunse alle orecchie bassa ma decisa.

«I primi dubbi li ho avuti nel periodo in cui indossavi costantemente i guanti. Ma non ho voluto prestarci troppa attenzione volontariamente. Il secondo indizio è stato quando ho visto effettivamente cosa nascondi sotto la camicia».

 

Mi guardò con espressione corrucciata, sollevando un poco il capo, lasciando che la brace si riflettesse nelle sue iridi cerulee.

 

«La febbre di questo inverno. Mentre cercavo di rinfrescarti ho visto i segni lasciati dalle ulcere».

 

Le spalle del mio amico si abbassarono, sconfitte.

Cielo, avrei voluto alzarmi per andargli incontro, per baciarlo di nuovo e scacciare via un poco di quella tristezza, ma non lo avrebbe mai, mai accettato.

 

«E poche ore fa, quando sei scappato di fronte a quella prostituta—diciamo che non credo tu abbia vomitato per via dell’alcol, quanto per l’angoscia che ti ha preso dopo che hai passato la giornata circondato da memento sulla questione».

 

Un sospiro riempì l’aria dopo pochi istanti, e Watson si accasciò sullo schienale del divano, gettando la testa all’indietro.

Rimase così a lungo prima di parlare, e io ne approfittai per ruotare completamente nella sua direzione, mantenendomi sempre a debita distanza.

 

«La figlia del calzolaio, Molly, continua ad avere aborti spontanei a causa della malattia di lei. La ragazza è sifilitica, tutto grazie al marito, un porco che non si fa problemi a farsi vedere in un vicolo con donne di malaffare che accetterebbero anche un penny bucato pur di guadagnare qualcosa. E lei, in tutto questo, è la vittima e non riesce a capirlo. Pensa di essere lei quella sbagliata, di essere fatta male, e non si dà pace per il fatto di non riuscire ad avere figli. Ha già avuto i primi sintomi, ma al momento è in uno stato di quietanza apparente, ma viste le sue condizioni di vita non mi stupirei se fra poco cominciasse a manifestare i veri sintomi. E allora, mi domando, cosa le succederebbe? Quello che accade ad ogni singola persona affetta dal morbo in questa città, ovviamente. O, perlomeno, quello che succede a chi non può permettersi la terapia».

 

Sospirò profondamente, tornando in posizione eretta ma senza osare ancora guardami negli occhi.

 

«Conosco Molly da che era in culla e non posso far niente per curarla. Niente per la sua salute, niente per i bambini che non riesce ad avere, niente per quel disgraziato che ha avuto la sfortuna di ritrovarsi come marito».

 

Si bloccò giusto un istante.

 

«E la cosa che più mi fa infuriare è il fatto che io non sia diverso da lui».

 

Feci per alzarmi a quella frase, quasi feci uno scatto per trovarmi in piedi, ma Watson mi fermò semplicemente sollevando una mano.

 

Ormai ero in piedi, ma non mi mossi dalla mia posizione.

Watson non voleva pietà. Voleva spiegare.

 

«Ho peccato non una, ma quattro volte. Tutte dopo la morte di Mary, tutte dopo anni dalla tua scomparsa. Per due volte sono andato in quello stesso bordello che abbiamo incrociato ieri sera, e lì ho incontrato due donne diverse. Le restanti due sono state con un uomo. Non so chi di queste persone sia stato la causa del mio male e non mi sento di accusare nessuna di queste se non me stesso. Nonostante le precauzioni, mi son reso conto dopo diverse settimane che cominciavo ad avere qualcosa che non andava, ma i sintomi erano talmente tanto labili che li ho ignorati. Quando tu sei tornato, ho cominciato a vedere segni ben più pesanti. Continuavano a formarsi ulcere su ulcere e non avevo modo per fermarle. Poi febbre, dolore, piccoli segni che potevano indicare tutto ma che sapevo benissimo cosa mi stavano mostrando.

E adesso, devo dirlo, sto bene. Non ho niente, nessun sintomo, nessuna nuova ulcera. Ma so bene come vanno queste cose. Da un momento all’altro potrei avere una ricaduta e da quel momento non ci sarebbe più nulla da fare».

 

Il suo confessare di essere stato con delle prostitute non mi turbò minimamente. Sapevo quanto Watson fosse incline verso il gentil sesso, e sempre lo era stato, dunque non potei biasimarlo. Si trattava di bisogni, di fisiologia, della necessità di sentire calore umano. Ma il pensiero che un altro uomo lo avesse toccato, baciato, amato come avevo fatto io mi nauseò.

Non provavo odio nei suoi confronti, non potevo permettermelo né dovevo osare anche solo provarlo, ma che qualcuno che non fossi io avesse ottenuto l’intimità che agognavo da anni mi pugnalò più e più volte al petto.

Ma non lo dissi, non lo lasciai intendere.

 

Watson era un uomo libero da vincoli nei miei confronti, lo era ancora in quel momento, per quanto una parte di me si ostinasse a pensare che nessuno dovesse avere l’ardire di provare a strapparmelo dalle mani ancora una volta.

 

Mi avvicinai con calma, andandomi a sedere sul tavolino posto di fronte al divano.

 

«Stai facendo terapia?»

 

Watson sbuffò.

 

«Sai benissimo cosa fa il mercurio, Holmes. Certo, è un palliativo e in futuro potrebbe aiutarmi, ma a che prezzo?»

 

«Potrebbe prevenire l’insorgere dei nuovi sintomi».

 

«No. Non lo farà. In caso di nuovi sintomi valuterò se sarà il caso di assumere del calomelano, ma sino ad allora non ho intenzione di avvelenarmi».

 

«Watson, qui c’è in gioco la tua salute e la tua vita! Non puoi--»

 

Inaspettatamente, il dottore rise.

Brevemente, e con una certa tristezza, ma rise.

 

«Non vedo cosa ci sia di divertente», dissi piccato.

 

«Non trovi ironica questa situazione?»

 

Corrucciai la fronte, senza rispondere. Invero, nulla di tutta quella questione mi risultava divertente o ironica.

 

«Tu che dici a me che c’è in gioco la mia vita e la mia salute, quando per anni non ho fatto altro che tentare di dissuaderti dall’assumere la maledetta cocaina».

 

«Watson, non è una strana legge del contrappasso questa».

 

«Lo so bene. Ma credo che seguirò la tua strada di allora. Ho già deciso, Holmes. Sai bene cosa succede a chi si sottopone a terapie mercuriali, e non ho intenzione di perdere la testa da qui a poco».

 

«La sifilide farà di peggio».

 

«Sì, ma quando? Come ti ho già detto, non ho sintomi al momento. Compariranno, questo è certo, ma non so quando. Magari fra uno, due, dieci anni. Preferisco vivere nell’angoscia di non sapere piuttosto che nella certezza di impazzire a causa di una terapia che causa più danno che giovamento. E sai benissimo che tu stesso prenderesti la mia stessa decisione. Non sei l’unico che non può vivere se non ha piena presa sulla propria mente».

 

Mi sentii montare dentro una rabbia cieca.

Non era corretto da parte mia, era un capriccio, me ne rendo conto ancor più adesso che scrivo a distanza di anni, ma non sopportavo la testardaggine che Watson stava dimostrando in quel momento.

Come poteva pensare di rinunciare ancor prima di fare qualche tentativo.

Certo, il mercurio non era certo una cura che avrebbe eliminato quel malessere dal suo corpo, ma l'altra opzione erano dolori lancinanti, infezioni e peggio per il resto della sua vita, augurandoci che sarebbe stata lunga.

 

Stavo per dire qualcosa, ma lui mi bloccò prima.

 

«Non ho messo a rischio né Mary né te, se è questo che vuoi sapere. Non mi è mai passato neanche per un istante per la mente. Lei è mancata per ben altro e tu non rischi di esser stato contagiato, su questo puoi essere certo».

 

Lo disse con una risolutezza e un tono di pietà nella voce che la rabbia mi morì in gola prima ancora che potesse esprimersi.

 

«All'epoca ti sono stato profondamente fedele e mai avrei messo a rischio la tua vita per un qualcosa di simile».

 

Fu la stoccata finale.

 

Il mio Watson è sempre stato un buono; il mio Watson si è sempre addossato colpe non sue; il mio Watson non meritava nulla di tutto ciò e realizzai che se fossi stato sincero, se non avessi giocato con la morte, tutto ciò non sarebbe probabilmente accaduto.

Se avessi seguito i suoi consigli e avessi messo da parte la cocaina anni prima non ci saremmo spinti ad azzannarci alla gola ad ogni possibile occasione.

Se avessi ascoltato le sue preghiere non avrebbe abbandonato Baker Street.

Se a quei tempi non fossi stato così terribilmente me stesso, acciecato da un amore che non volevo meritare, di un uomo che mi guardava con pura ammirazione, non sarebbero successe tante, tante cose, e certamente non mi sarei ritrovato in ginocchio, in una fredda mattina di Marzo, sul pavimento del nostro salotto, a stringere con mani tremanti le gambe del mio Watson, mentre lui cercava di capire il perché di quella mia reazione e io affondavo il volto nel suo grembo, incapace di chiedere perdono.

 

Quasi non avvertì le sue mani su di me mentre mi accarezzava con timore, troppo timorose e delicate, ma quando capii che stava cercando di consolarmi dovetti fermarlo.

Ogni carezza era una stilettata.

 

Mi sollevai, cercando i suoi occhi e cercando le sue mani.

 

«Non ho mai pensato nulla del genere, neanche per un istante. Non è a me che stavo pensando ma a te e solo a te».

 

«Mi dispiace», sussurrò. «Ma perché non hai detto nulla se sapevi?»

 

«Perché speravo di essermi sbagliato».

 

«Peccato che il grande Sherlock Holmes non sbagli mai».

Lo disse con amarezza, ma senza cattiveria.

 

Mi sollevai a sedere e mi posi accanto a lui, e le sue mani non mollarono mai le mie né gli chiesi che lo facessero.

Avrei voluto fare ben altro per consolarlo, perché un tocco semplice come quello non mi bastava.

 

Restammo in silenzio, l'uno accanto all'altro, a lungo. Una notte priva di sonno e ricca di angoscia ci spinse a tacere perché improvvisamente non c'era più nulla da dire.

Ci addormentammo come fanno i bambini quando son spossati dal troppo pianto e spalla contro spalla ci risvegliammo solo quando la luce del mattino si fece più prepotente attraverso le tende e sentii i passi della signora Hudson lungo le scale, il suono del vassoio ricolmo di porcellane che annunciava la colazione in arrivo.

 

Scrollai Watson per farlo svegliare e abbandonai a malincuore la sua mano, per andare ad alzarmi e non destar sospetto alcuno.

 

Quando entrò, son certo che mai avrebbe detto quale spada di Damocle incombesse sul suo appartamento.

 

 


 

 

L'essere pienamente a conoscenza della condizione del mio amico mi permetteva adesso un nuovo punto di vista sulla sua salute.

Watson non si nascondeva di più a me quando si sentiva male, perché certo era che la prima fase della malattia gli aveva lasciato segni ben evidenti e che la sua salute fosse ben più cagionevole rispetto ad un tempo.

In particolare i mal di testa ricorrenti che lo attanagliavano divennero uno dei miei principali crucci, ai quali lui tuttavia non prestava attenzione eccessiva.

Quando avvenivano, si limitava a chiudersi in camera per tutta la giornata, il fuoco spento perché la benché minima fiammella gli provocava forti fitte alle tempie che lo lasciavano completamente senza forze.

 

A volte lo vedevo, fiaccato, cercare di seguirmi in qualche caso o di andare in ambulatorio a prestar cura ai propri pazienti.

Inutile dire che la nostra fu una guerra: io mi rifiutavo di lasciare che si sforzasse e lui mi accusava di trattarmi come un appestato, cosa che mi montava dentro una furia cieca perché tutto ciò che volevo era che fosse in forze e non certo l'ombra di se stesso.

Se c'è una cosa che la malattia di Watson non fece fu smussare le mie reazioni, perché a fronte di queste frasi mi ritrovavo a rispondere in modo forse poco delicato, ma che al mio collega sortiva l'effetto opposto.

Per qualche insana ragione, a differenza di in tempo, questi nostri battibecchi sembravano rinvigorirlo.

 

In estate, di comune accordo, dopo un inverno fruttuoso, decidemmo di andare in villeggiatura nel Sussex, zona che per anni aveva attratto le mie fantasie più bucoliche.

Watson inizialmente parve entusiasta, ma non appena arrivati ci scontrammo subito con una realtà con la quale non aveva ancora fatto i conti.

 

Certo, il mio amico era sempre prestante, ma restava tuttavia un problema non irrisorio, ovvero il fatto che fosse ricoperto dei segni della sua malattia e che un eventuale costume da bagno, per quanto coprente, non avrebbe mai nascosto del tutto le sue cicatrici.

 

«Non vedo di cosa tu debba preoccuparti. Nessuno qui ci conosce e per il poco che possono intravvedere potrebbe trattarsi di qualsiasi cicatrice di guerra».

 

«Nessuno assocerebbe mai questa pelle butterata a una cosa simile, Holmes».

 

«La gente è sciocca e cieca. Crede a quello che le si dice».

 

«Crede a quello che vede», disse guardandomi nel riflesso dello specchio della camera da letto del pensionato che condividevamo.

 

Indossava un costume che aveva fatto la sua epoca ma che ancora gli donava particolarmente, sebbene ancora portasse lo stemma della sua vecchia università.

Il fatto che gli donasse ancora così tanto e risaltasse il suo fisico ben tornito mi provocò un brivido di piacere che dissimulai con facilità, nonostante la mia mente ormai stesse vagando verso lidi ben precisi, in particolare quelli in cui vi era un giovane John Watson appena ventenne, ancora affaticato da una nuotata rinfrescante.

 

«E cosa dovrebbe vedere, di grazia?», tentai di distrarmi da solo, continuando a parlare.

 

«Un sifilitico».

 

«Watson, non ti priverai del piacere di fare un bagno e di qualche giornata di sole a causa delle maldicenze di qualche campagnolo».

 

«Non sono campagnoli, Holmes. Sai bene che è zona di villeggiatura e che buona parte degli ospiti sono londinesi come me e te».

 

«Invero, tu sei scozzese», mormorai, e la risposta fu un'occhiataccia che più che intimorirmi mi dilettò.

 

«Non posso permettere che mi vedano. Ne andrebbe della nostra reputazione».

 

Scrollai le spalle, irritato.

Non mi importava affatto di reputazione e nomea, ma solo che il mio amico potesse finalmente riposare.

Risoluto, lo abbandonai in stanza, lasciandolo indubbiamente di stucco, e quando finalmente mi raggiunse dabbasso mi trovò a parlare amabilmente con la padrona della pensione, alla quale riuscì ad estorcere il percorso da fare per raggiungere una delle spiagge più nascoste della zona.

 

Si trattava infatti di una caletta nascosta fra due colline d'erba che terminavano a precipizio sul mare, ma nel bel mezzo fra queste due vi era una lingua di sabbia morbida ed invitante, dove nessuno si era addentrato ancora in quella giornata.

Vi trascinai Watson quasi a forza, e quando finalmente vi giungemmo riuscii a fargli ammettere che sì, lì non avrebbe avuto alcun timore a denudarsi.

 

La verità era che io stesso necessitavo di quella pace e tranquillità che Londra in estate non era in grado di offrire a causa del caldo torrido che la vessava, e la serie di casi che avevamo trattato, benché brillanti, mi avevano portato all’orlo del collasso.

In parte per via della mia tendenza alla perfezione nel lavoro, in parte perché una parte della mia mente era sempre e comunque indirizzata verso Watson.

Il quale, quel pomeriggio, sembrò liberare ogni freno inibitore e anche di fronte al sottoscritto, verso il quale comunque aveva ancora una certa reticenza a mostrare il nuovo corpo. E dire che il costume copriva comunque buona parte del petto e della schiena, ma era possibile comunque notare tutte le macule e cicatrici ed escavazioni che la malattia ai primi stadi aveva provocato.

 

Ogni tanto dolevano, lo vedevo bene: il fatto che la pelle si fosse cicatrizzata in certi punti rendeva i suoi movimenti più dolorosi e difficoltosi e vi erano giornate in cui il prurito lo tormentava a tal punto che l’unica soluzione era rimanere a mollo per placare i sintomi.

 

Quella mattina decise invece di dedicarsi ad attività più sportive, e forse il fatto di essere di fronte all’oceano dopo tanto tempo lo rese più gioviale e sicuramente più sportivo.

Watson passò ore intere a nuotare, tornando ogni tanto a riva per gettarmisi accanto mentre dedicavo la mia mente a letture chete e a crogiolarmi al sole, attività che – se non eccessiva – non disdegnavo eccessivamente.

Quando mi si gettava accanto potevo vedere il suo corpo tonico guizzare nel luccichio di acqua e sale che lo ricopriva e mi ritrovavo a domandarmi come avrebbe reagito se avessi osato assaggiare la sua pelle senza dargli avviso alcuno.

 

Watson, quando era felice, aveva l’energia di un fanciullo e la stessa gioia negli occhi, e sebbene non lo dessi a vedere era rinvigorente averlo accanto. Sebbene ogni tanto si comportasse in modo molesto, come nei suoi vani tentativi di costringermi a gareggiare.

Cosa che avrei volentieri fatto, ma Watson era sempre stato un pessimo sportivo e l’eventuale sua disfatta avrebbe comportato il suo essere di malumore per l’intero pomeriggio o costanti richieste di rivalsa.

 

Verso mezzodì, quando il sole era ormai al suo zenit, ci costringemmo a fuggire per cercar ristoro nelle nostre stanze, e mi pentii di non averlo fatto prima.

Già ho accennato a quanto Watson fosse più incline ai mal di testa negli ultimi tempi, e il sole cocente e il suo sforzo costante durante la mattinata avevano innescato un nuovo attacco, che andò ad aumentare nel breve percorso che portava dalla spiaggia sino alla pensione.

Quando arrivammo dunque era prostrato e dovette gettarsi in stanza immediatamente, sfruttando l’acqua fresca del catino a sua disposizione per togliersi la salsedine di dosso e darsi un qual senso di refrigerio sulla testa cocente.

Ma a nulla valsero i suoi tentativi: l’emicrania lo prese violentemente e dovetti assicurarmi di chiudere tutte le imposte perché non un solo filo di luce penetrasse nella camera.

Watson si gettò sul letto sfilandosi i vestiti e rimanendo con indosso unicamente il costume già asciutto che aveva indossato sotto di questi invece dell’intimo, e così rimase, immobile.

 

Io sapevo bene ormai quale fosse il mio ruolo in situazioni simili.

 

Mi assicurai che avesse con sé il suo boccettino di laudano, che benché fosse il suo unico alleato contro tali algie veniva disdegnato dal buon dottore quanto più possibile.

Ben sapeva quanto potesse dare assuefazione e cercava sempre di evitarlo.

 

Una volta mi confessò che a seguito della prima ferita ricevuta in guerra quasi non riuscì a liberarsi dalla dipendenza che gli stava procurando e dovette farsi forza fisica per starne lontano.

Dunque ben capivo la sua reticenza ma non comprendevo come potesse resistere a tali sofferenze, e mi irritava saperlo così cocciuto sulla questione, tanto che più volte ne discutemmo.

 

 

Lo lasciai solo per qualche ora, il tempo che si riprendesse.

Solitamente, quando tali attacchi avvenivano, passava buona parte del tempo a cercare da sé di attenuare i sintomi con silenzio, buio e sonno, ma quando non vi riusciva assumeva poche gocce dell’oppioide e giaceva inerme, finalmente libero ma stordito, sino a che il dolore non lo abbandonava lentamente.

Quando tornai a controllarlo, aveva già preso la dose necessaria e me ne resi conto poiché aveva aperto una delle finestre, lasciando entrare la brezza fresca del pomeriggio inoltrato a rinfrescare l’aria stantia che si era formata nella stanza.

 

Andai a sedermi sul suo letto, affondando nel materasso e attirando così la sua attenzione.

Lui giaceva supino, il braccio destro sul volto a coprire gli occhi e l’altro allungato lungo il corpo, arrendevole.

 

«Mi dispiace», mormorò.

 

«Per cosa, amico mio?», sussurrai di rimando.

 

Con la mano libera fece un gesto diretto verso se stesso come per dire “Per tutto ciò” e in tutta risposta mi ritrovai a ridacchiare sommessamente, e andai a portare una mano sulla sua gamba più vicina, quella un tempo ferita, dove la cicatrice di guerra occhieggiava da sotto l’orlo della gamba del costume.

Sentivo sotto di me la pelle dura, glabra, così in contrasto con i pezzi di pelle sana che la circondavano, rosei per il sole preso durante la giornata e ricoperti da peluria bionda.

Per un istante lo carezzai col polpastrello del pollice, ma mi fermai subito, sperando non avesse compreso il gesto.

 

«Vuoi restare solo ancora?»

 

«No, sto meglio. Devo solo riprendermi. Il laudano mi annebbia sempre un po’ troppo».

 

«È ciò che lo rende interessante».

 

Sollevò il braccio con cui nascondeva lo sguardo solo per fulminarmi un istante.

 

«Hai già usato la pomata che ti ha consigliato il dottor Bell?»

 

Negò.

 

Il suo medico e amico, il dottor Bell, che lo seguiva durante il decorso della malattia, aveva trovato una pomata, ideata in Italia, con una percentuale tale di mercurio che gli effetti indesiderati erano quasi completamente nulli.

Mal di testa e nausea erano già all’ordine del giorno, dunque il suo utilizzo non poteva che essere benefico, e dopo interminabili liti lo avevo convinto a provare, tanto per provare a lenire i fastidi delle vecchie ulcere e provare a prevenire la futura comparsa di nuove.

 

«Potrebbe essere la giusta occasione per testarla».

 

«Saresti un medico ben più testardo di me, Holmes».

 

«Non l’ho mai messo in dubbio».

 

«Sono ancora ricoperto di sale».

 

«Nulla che un bagno non possa risolvere».

 

«Non hai pietà di un povero malato», gemette.

 

Come i migliori dottori, anche Watson odiava essere oggetto delle cure di qualcun altro, e questa ne era l’ennesima prova. Il che era snervante e mi faceva costantemente pensare a quante volte ci fossimo trovati a situazione invertita.

Volevo che testasse quella pomata, volevo che tentasse di star meglio e che non vivesse tutta la situazione come un costante calvario ma era un continuo lottare intestino, frustrante e doloroso per entrambi.

 

Gli concessi il tempo di riprendersi ancora un poco e di lavarsi, così che potesse applicarsi la crema che io stesso avevo infilato nelle valige – dacché Watson aveva fatto finta di dimenticarsene – e quando tornai in stanza circa mezz’ora dopo mi stupii nel trovarlo già vestito.

 

«Già fatto, Dottore?»

 

«Sì, Holmes, già fatto. E debbo dirti che mi sento già molto meglio, grazie. Anzi, comincio ad avere un certo languore. Potremmo avviarci verso il paese di modo da essere lì giusto per l’apertura del PUB».

 

Sorrisi lieto.

Se Watson aveva fame, allora tutto andava bene.

 

Feci per annuire entusiasta quando il mio occhio cadde sul barattolo di pomata sul comodino.

Non si era spostato di un millimetro rispetto a dove lo avevo posato.

 

Lanciai uno sguardo accusatorio verso il mio amico, che finse di non notalo.

 

«Cosa pensi dell’unguento?»

 

«Quello? Eccelso, davvero», mormorò, sguardo basso.

 

Attraversai la stanza in pochi passi, afferrando il contenitore e aprendolo, scoprendolo ovviamente intonso. Watson mi stava dando bellamente le spalle, ignorandomi.

 

«Togliti la camicia».

 

La frase – e il mio tono – parve scuoterlo.

 

«Come prego?»

 

«Non solo non sei in grado di mentire, non hai avuto neanche l’accortezza di eliminare parte delle prove. Adesso, Watson, togliti quella camicia e siediti sul letto».

 

Le mani impegnate con le asole e i bottoni, Watson si voltò verso di me con sguardo compunto.

 

«Holmes, sono affamato. Lo farò dopo».

 

«Non uscirai da questa stanza sino a che non avrai fatto ciò che devi».

 

«Pensi di potermi impedire di uscire?»

 

«Sai benissimo che la forza fisica non è un problema per il sottoscritto, e che non mi farei problemi a usarla per giusta causa anche su di te».

 

«Sei un barbaro», disse con sdegno, sebbene il suo tono denotasse un qual certo scherno.

 

«E tu un incosciente. Siediti qui».

 

Con uno sbuffo da infante e gli occhi al cielo, si avvicinò a me, sbottonando i pochi bottoni che era riuscito già a sistemare e si sedette di fronte a me, le gambe aperte, le braccia in appoggio sulle cosce e lo sguardo infastidito.

Prima che potesse dire alcunché ero già alle sue spalle, una buona dose di crema su indice e medio della mano destra, e con delicatezza le stavo già spargendo sulla schiena martoriata. Al tocco, Watson scattò in avanti, ruotando la testa per guardarmi negli occhi.

 

«Holmes, cosa fai!»

 

«Mi pare abbastanza ovvio», sbottai, concentrato sul mio obbiettivo.

 

«Non devi».

 

«A quanto pare sì, dacché qualcuno si comporta da sciocco e non vuole trattarsi. Ora stai fermo».

 

«Anche se in bassa frazione è comunque mercurio e non voglio che lo tocchi».

 

Non riuscii dall’esimermi a sollevare lo sguardo per cercare il suo, sollevando un sopracciglio.

 

«Anzitutto, Watson, devo ricordarti che lavoro con certi elementi da ben più anni di te e che sicuramente in gioventù ho avuto più a che fare con il mercurio più di qualsiasi sifilitico presente a Londra. Secondariamente, se ritieni che sia tanto pericoloso smetti di dibatterti e lasciami finire il prima possibile, di modo che possa lavarmi».

 

E detto ciò tornai a dedicarmi alla sua schiena, mentre lui rimaneva immobile, inebetito.

Non disse nulla per qualche istante, sino a che non tornò a guardare fisso di fronte a sé, e nonostante ciò che uscì dalle sue labbra fu solo un soffio sentii benissimo le parole che pronunciò.

 

«Non mi dovrei stupire allora del perché tu sia completamente folle».

 

Non risposi, ma fu l’ultima parola che gli sentii dire per parecchi minuti, anche quando passai sul torso.

Mi inginocchiai di fronte a lui e con delicatezza andai a spalmare quanto più possibile sino a che la pomata non fu quasi completamente assorbita, e una volta fatto ciò mi allontanai, cercando la bacinella di acqua fresca.

 

«Bene», constatai, mentre lui si rivestiva. «Ora possiamo andare a cenare, se lo desideri».

   
 
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